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L’Imperatore Pontefice Massimo e il promagister (fino al V secolo)*

 

Renato del Ponte

Genova

 

Al tempo della repubblica, dalla sua sede nella regia, divenuta domus publica del collegio pontificale da lui presieduto (e che oltre ai pontefici, comprendeva i tre flamini maggiori, il Rex Sacrorum e le Vestali), il pontefice massimo, oltre a scegliere (capere) questi ultimi in caso di loro vacanza e al diritto di sorveglianza sulla loro condotta, aveva fra le sue numerose incombenze quella di convocare e presiedere i comitia calata, regolare il calendario, curare l’elenco degli indigitamenta, recitare i carmina per il compimento dei voti e stilare le formule delle dediche e delle consacrazioni, delle leges arae et templorum e dei piacula necessari per le espiazioni. In pratica, il suo compito sul piano liturgico consisteva nel partecipare alle cerimonie pubbliche (come nel caso delle ricorrenze degli anniversari dei templi) e, sul piano teologico, la stipula di quei decreta et responsa in supporto ai magistrati e al senato, che costituiranno nel tempo lo ius pontificium.

Alla morte di Quinto Cecilio Metello Pio (63 a.C.), Giulio Cesare assunse la carica di pontefice massimo. Ma non è soltanto l’autorità e il prestigio acquisito da questo alto sacerdozio durante la repubblica che può spiegare perché Cesare ne avesse rivestito il titolo: si sa che nell’ultimo anno della sua vita erano molto avanzati i progetti per fare di lui un divus con un proprio flamen (che sarebbe stato Marco Antonio)[1].

E forse la cospirazione contro di lui può essere considerata anche, o soprattutto, la risposta alla creazione di un nuovo status religioso. Uno status che, in effetti, si realizzerà poi con Ottaviano Augusto con la creazione del Genius Augusti e del suo culto, da lui associato a quello dei Lari Compitali: una festa restaurata nel 10 a.C. dopo solenni sacrifici. Con ciò si colmava una lacuna avvertita nell’orbe romano: quella dell’esistenza di una religio universale, capace di unire tutte le genti dell’Impero e in grado di parlare al sentimento dei diversi popoli che lo costituivano.

Ma prima, nel 12 a.C., con la morte di M. Emilio Lepido (che era succeduto a Cesare in quella carica e viveva in stato di quasi esilio in Africa) e nel giorno anniversario dell’assunzione al pontificato massimo del padre adottivo, Augusto accettò di rivestire il prestigioso incarico, al quale fu assunto regolarmente dopo elezione nei comitia calata.

E non fu un caso che proprio nello stesso anno a lui venisse dedicata da Druso a Lione un’ara affinché fosse sede di un suo culto. Ma solo dopo la sua morte gli fu riconosciuto dal senato l’appellativo di divus: i decreti del senato in onore di Augusto rappresenteranno il modello cui in seguito ci si atterrà per la consecratio degli imperatori, sino a Costanzo Cloro (ma anche per molti imperatori cristiani).

Oltre che sul piano civile e politico, Augusto si impose su quello religioso (ricoprendo, inoltre, in prima persona la stragrande maggioranza delle altre cariche sacerdotali, tranne il flaminato) allo scopo di avere il potere di formulare il diritto sacro, che durante la repubblica era restato in possesso di un ristretto gruppo di famiglie senatoriali, così da richiamarsi – in questo ritorno a strutture prerepubblicane di riunificazione dell’autorità politica con quella religiosa – più che alla tradizione dei re, a quella dei primi semileggendari fondatori e riformatori, cioè ad Enea, Romolo e Numa.

E questo, proprio perché quella di Augusto si configura come un’opera di riforma o restaurazione, in parte delineata “sulle tracce delle ricerche erudite di Granio Flacco e di Terenzio Varrone”[2].

Il ruolo di pontefice massimo rivestito da tutti gli imperatori da Augusto in avanti, tuttavia, in termini pratici, ebbe un rilievo forse minore di quel che potrebbe sembrare, dal momento che quello non fu il “sommo sacerdote” presente in altre tradizioni o un’autorità centrale e sin dall’inizio dell’Impero le sue funzioni sarebbero state assunte (come dev’essere già accaduto con Cesare negli anni ’50 e in parte dei ’40, oltre che con Lepido)[3] da un membro anziano del collegio e senz’altro dallo stesso Augusto quando gli fosse tornato conveniente. Su questo punto ritorneremo ampiamente in seguito.

 

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Esaminando la questione degli Imperatori Pontefici Massimi da un punto di vista metodologico, dovremo anzitutto precisare che molto spesso è difficile distinguere, nella prassi attinente il campo religioso, la loro funzione in quanto capi della res publica o in quanto pontefici massimi. Ad esempio, per quanto concerne la dedicazione dei templi, la loro funzione corrispondeva a quella dei consoli della repubblica (i quali erano assistiti nella recita della formula da un pontefice)? Io sarei propenso a pensare di sì. È interessante peraltro notare come la dedicazione del tempio di Giove Ottimo Massimo sul Campidoglio, nel primo anno della repubblica (13 settembre 509 a.C.), fosse operata dal console Marco Orazio Pulvillo, che era, secondo Seneca[4], anche pontefice. Ma 579 anni dopo, nel corso delle cerimonie di riconsacrazione del medesimo tempio, andato distrutto nel rovinoso incendio seguito ai fatti del 69 d.C., non c’è traccia dell’imperatore Vespasiano: in sua vece opera il pretore Elvidio Prisco, preceduto nel rito dal pontefice Plauzio Eliano (praeeunte, riporta Tacito)[5].

Allo stesso modo, nelle cerimonie di apertura dei Ludi Secolari, da Augusto sino a Filippo l’Arabo, gli imperatori rivestirono certamente la funzione di supremi reggitori della res publica e, nel caso di Augusto, anche di magister del collegio dei Quindecemviri Sacris Faciundis. E così pure può dirsi per la decisione dell’ampliamento del pomerio che (dopo quello voluto dal dittatore Silla) si verificò con sicurezza solo con gli imperatori Claudio e Vespasiano (con Tito), ma in cui comunque intervennero competenze augurali e non pontificali. In ogni caso si consideri che, anche durante la repubblica, il pontefice massimo «nell’ambito sacrale impersona lo Stato»[6].

 

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Bisogna poi distinguere l’attività giurisprudenziale quale era stata praticata di norma dal pontefice massimo all’interno del collegio durante la repubblica, dalla prassi sacrale, cioè quella attinente le cerimonie e le operazioni di carattere religioso. Durante l’Impero la prima è ben difficilmente documentabile dopo Claudio, mentre per la seconda si dovranno considerare alcuni casi.

Catone il Censore riporta nelle sue Origini come non fosse sufficiente conoscere a perfezione lo ius pontificium per essere, con ciò, ammesso a far parte del collegio[7]. Nel caso degli imperatori si potrebbe forse affermare il contrario: la loro presidenza del collegio pontificale, spesso puramente formale, non comportò di massima necessariamente la conoscenza del suo diritto. Ma ciò non avvenne probabilmente per la maggior parte dei componenti la dinastia Giulio-Claudia. Non certo nel caso di Augusto, che fu cooptato nel collegio nel 48 a.C. all’età di quindici anni da Cesare ed ebbe ben modo di apprendere dottrine, pratiche e, in seguito, di darne operativa applicazione. Per quanto riguarda Tiberio, è interessante riportare il testo di un decretum del collegio pontificale, presieduto dallo stesso principe, su una disputa di carattere religioso promossa nel 22 d.C. dal Flamine Diale Servio Maluginense, il quale pretendeva per sé il governo della provincia d’Asia:

 

… frustra vulgatum dictitans non licere Dialibus egredi Italia neque aliud ius suum quam Martialium Quirinaliumque flaminum: porro, si hi duxissent provincias, cur Dialibus id vetitum? … Saepe pontifices Dialia sacra fecisse si flamen valetudine aut munere publico impediretur. Quinque et septuaginta annis post Cornelii Merulae caedem neminem suffectum neque tamen cessavisse religiones[8].

 

[«Non rispondeva a verità la voce diffusa”, andava egli dicendo in giro, “che non fosse consentito ai Flamini Diali uscire dall’Italia, cosa che del resto era permessa ai Flamini Marziali e Quirinali. Se era permesso loro amministrare delle province, perché sarebbe vietato al Flamine Diale?... I pontefici avevano spesso eseguito i suoi compiti sacrali in caso d’impedimento per malattia o incombenza pubblica. Per 75 anni dopo l’eccidio di Cornelio Merula la carica era stata vacante e tuttavia non erano venuti meno i riti di sua pertinenza»]

 

Corrispondeva al vero che non si era provveduto alla successione del Flamine Diale per ben 75 anni, ma proprio l’imperatore Augusto, dopo essere divenuto pontefice massimo, aveva potuto reintegrare la carica nella pienezza delle sue funzioni ed ora Tiberio, succedutogli come principe e come magister dei pontefici, dopo essersi riservato di consultare il collegio, lesse infine in pubblico un decretum pontificio avverso al postulante. Vi si richiamava, fra l’altro, un provvedimento del suo predecessore vietante espressamente l’amministrazione delle province da parte dei Flamini di Giove. Ciò, infatti, avrebbe consentito la sua assenza da Roma per un anno, mentre soltanto:

 

… pontificis maximi arbitrio plus quam binoctium abesset, dum ne diebus publici sacrificii neu saepius quam bis eundem in annum[9].

 

[«su arbitrio del pontefice massimo egli avrebbe potuto allontanarsene per non più di due notti, purché non nei giorni di sacrificio pubblico, e in ogni caso per non più di due volte nel medesimo anno»]

 

Il decreto ricordava anche il precedente del pontefice massimo Lucio Metello, che aveva trattenuto a Roma il Flamine Aulo Postumio. Dunque, la provincia d’Asia fu assegnata ad altro candidato avente diritto.

Appartengono quasi certamente a provvedimenti di natura pontificale tre decreti dell’imperatore Claudio.

Il primo attiene ad una cerimonia di espiazione secondo un antico rituale attribuito a Servio Tullio, un sovrano sul quale, come è noto, Claudio aveva compiuto attente ricerche e nei cui confronti nutriva ammirazione[10]: si trattava di rimediare al supposto incestum compiuto da Lucio Silano (già fidanzato di Ottavia, figlia di Claudio) con la sorella Calvina. Ancora Claudio riaffermò il valore rituale dei piacula occorrenti per rimediare ai terremoti e ai cattivi auspici[11]. Infine, ricollegandosi all’antica potestà pontificale di regolare il calendario, aggiunse un quinto giorno alle feste dei Saturnali: quello significativo dei Divalia del 21 dicembre in onore della diva Angerona[12].

Di una sessione del collegio pontificale presieduto da Domiziano come pontefice massimo, peraltro non nella sede istituzionale del collegio (che dai tempi di Augusto non era più nella Regia del Foro, ma nel palazzo del principe), ma in una sua villa nei pressi di Alba, si parla a proposito della vestale Cornelia, supposta rea di incestum con l’aeques Celere, l’una e l’altro condannati a morte secondo le arcaiche norme risalenti al re Tarquinio Prisco[13]. Ad altre due vestali della famiglia degli Ocellati e ad una Veronilla, parimenti accusate dello stesso delitto, Domiziano – riferisce Svetonio[14] - avrebbe lascito la libertà di scegliersi il genere di morte. Ma anche altri provvedimenti di Domiziano fanno  pensare ad una sua attività organizzatrice in qualità di pontefice massimo, come la modifica della manus nel rapporto tra Flamen e Flaminica Dialis e la introduzione del rito (a mio parere, inusitato) della diffarreatio[15].

Ma è l’imperatore Nerva ad emanare una vera e propria lex curiata, con cui, convocati i Comitia Curiata in Campidoglio, in qualità di pontefice massimo invocati dei e uomini come testimoni, proclamava proprio figlio Traiano dinanzi al pulvinar di Giove Ottimo Massimo[16]. Ai piacula di Claudio sembrano rimandare invece alcune decisioni prese da Marco Aurelio durante un momento di crisi, al tempo della guerra coi Marcomanni: la convocazione di sacerdoti da ogni parte dell’Impero, la purificazione dell’Urbe con vari tipi di sacrifici espiatori e un solenne lettisternio secondo l’antico rituale[17].

 

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All’apice dell’Impero, e non dunque al suo declino, pare risalga l’istituzione, all’interno del collegio pontificale, della figura del promagister pontificum, allo scopo di presiedere e indirizzare lo stesso collegio. All’inizio doveva trattarsi di una figura vicaria che sostituisse il pontefice massimo, che era anche Imperatore, durante le sue assenze da Roma, le quali, a partire da Adriano, furono sempre più frequenti: un primus inter pares che, col tempo, parve acquisire le incombenze vere e proprie di capo del collegio (o pontefice massimo), soprattutto allorché ricopersero formalmente la carica sovrani inadeguati, come Eliogabalo o Filippo l’Arabo, oppure, per altri motivi e in seguito, i primi imperatori cristiani[18]. Vedremo che questa figura, con quanto rimaneva del collegio, nonostante le estreme difficoltà, dovute al mutamento della temperie spirituale al declinare dell’Impero, dovette mantenersi fino alla prima decade del V secolo d.C. E dunque, senza dubbio il collegio dei pontefici, per svolgere la sua funzione per così lungo tempo, dovette necessariamente aver mantenuto straordinarie capacità organizzative, grazie alla qualificazione dei suoi componenti ed alla capace azione organizzativa dei promagistri.

Secondo il Bouché-Leclercq[19] la carica di promagister (in collegio) pontificum (questa è la dizione esatta) sarebbe stata istituita da Adriano (117-138). Tuttavia ben scarse sono le notizie su tale istituzione e gli uomini che la rappresentarono. Probabilmente si trattava di un incarico che, perlomeno all’inizio, non fu vitalizio (uno di loro lo rivestì infatti due volte, come si vedrà), ma a rotazione sulla base dell’anzianità, così come si verificava anche in altri collegi (si pensi ai Fratelli Arvali). Dopo la scomparsa dell’imperatore Giuliano, sulle cui competenze pontificali non possono sussistere dubbi, è da supporre che la carica fosse assunta nella sua completezza formale.

Il primo promagister noto è P. Iuventius Celsus, console nel 164 e promagister il 3 novembre 155, sotto l’impero di Antonino Pio. Fu grande giurista e autore di Comentarii, Epistulae e Quaestiones. Di lui resta un responso (in C.I.L. VI 2120, vedi Appendice I), richiesto da un componente del collegio, il pontefice Velio Fido.

Tralasciando personaggi di cui è rimasta traccia epigrafica come promagistri, ma non bene inquadrabili storicamente e cronologicamente (come quel L. Fulvius di C.I.L. VI, 1422 o quel sacerdos Herculis di C.I.L. X, 1125), un Pomponius Bassus (console nel 258 e nel 271) fu promagister nel 270, mentre rivestì la medesima carica nell’ultimo periodo dell’impero costantiniano, fra il 324 e il 337, C. Iulius Rufinianus Ablabius Tatianus (in C.I.L. X, 1125, vedi Appendice II).

Il 9 giugno 364, all’inizio dell’impero di Valentiniano I (cristiano e, formalmente, anche pontefice massimo), risulta promagister Macrinius Sossianus. Egli dedica una statua ad una Vergine Vestale Massima, il cui nome risulta abraso (in C.I.L. VI, 32422: vedi Appendice III).

Se la sigla V.C.P.M. è da interpretarsi, come pare, come viro clarissimo pontifice maximo (e non pontifice maiore – non usuale – come pur qualcuno ha pensato), siamo di fronte all’inizio di quella riappropriazione del titolo a cui si accennava prima[20].

È da notarsi che il collegio, quell’anno, era formato da Volcacio Rufino,  Clodio Ottaviano, Memmio Vitrasio Orfito, Lucio Aurelio Avianio Simmaco, P. Vettio Agorio Pretestato, Virio Nicomaco Flaviano, Quinto Aurelio Simmaco, Petronio Apollodoro. Sono quasi tutti personaggi ben noti e su cui in parte tornerò: Memmio Vitrasio Orfito e L. Aurelio Avianio Simmaco sono, rispettivamente, il suocero e il padre del famoso Q. Aurelio Simmaco e quest’ultimo, suo cugino Virio Nicomaco Flaviano e Vettio Agorio Pretestato sono i noti commensali dei Saturnalia di Macrobio.

Gli imperatori cristiani dapprima mantennero senza particolari difficoltà, pur con non poche contraddizioni, il titolo di pontefice massimo. In questa qualità Costantino, oltre a nominare tra i membri del senato i componenti dei collegi sacerdotali, pur vietando con un’ordinanza del 15 maggio 319 (Cod. Theod. IX, 16, 1-2) il ricorso agli haruspices per uso privato, riaffermava l’anno seguente la funzione degli stessi haruspices per l’osservazione fulguratoria sul Palatium imperiale e sugli altri edifici pubblici (Cod. Theod. XVI, 10, 1: 17 dic. 320).

Da una parte, egli nominerà il 20 agosto 315 praefectus Urbi Vettio Rufino, dopo che quegli s’era distinto come alto funzionario sotto Diocleziano e come membro dei più importanti collegi sacerdotali (pontifex, augur e Salius Palatinus: l’ultimo a noi noto da documenti), e si farà accompagnare dal suo, allora giovane, figlio Vettio Agorio Pretestato (in qualità, appunto, di pontifex) nei riti di consecratio e dedicatio della “seconda Roma” Constantinopolis, avvenuti rispettivamente il 26 novembre 328 e l’11 maggio 330 [21]. Dall’altra, nello stesso 315 a Roma, al momento di festeggiare i suoi vota decennalia, rifiuterà di eseguire le tradizionali cerimonie previste sul Campidoglio, con grande scandalo di esercito e senato.

Ma si potrebbe dire che il culmine dell’azione “pontificale” di Costantino (“parodistica”, l’avrebbero definita i pagani: e difatti novator et turbator priscarum legum lo definisce Ammiano Marcellino, 31, 10,8) consistette nello stravolgimento del Kalendarium, con l’introduzione del Dies Solis, ossia la domenica cristiana non lavorativa, con una legge del 3 marzo 321 indirizzata al vicarius Urbis Romae Elpidio (in C.I. III, 12, 2: vedi Appendice V). Tutto questo provocherà il graduale scardinamento dell’antico sistema calendariale , sino a che, col provvedimento teodosiano del 389 (Cod. Theod. II, 8, 19) ogni festività tradizionale venne dichiarata lavorativa: rimase il Natale di Roma, il genetliaco dell’imperatore e la data del suo accesso.

Il figlio di Costantino Costanzo II nella sua visita a Roma del 357, essendo praefectus Urbi Memmio Vitrasio Orfito, futuro suocero di Simmaco, diede ordine di rimuovere dalla Curia l’ara della Vittoria, ma – ci riporta lo stesso Simmaco nella sua famosa Relatio III, 7 – in qualità di pontefice massimo confermò cariche e privilegi alle Vestali ed ai componenti dei collegi appartenenti all’ordine senatorio, visitando i templi, «leggendo i nomi degli dèi sui loro frontoni e chiedendo informazioni sulla loro origine».

In quanto a Valentiniano I, è nota la sua tolleranza nei confronti di tutte le religioni ed il rispetto anche dei Misteri Eleusini, mantenuti in vigore nonostante una legge del 364 sul divieto dei sacrifici notturni, e questo su consiglio di Vettio Agorio Pretestato, allora governatore della Grecia e iniziato agli stessi Misteri[22].

Anche suo figlio Graziano, salito al trono nel 375 (dopo esserne stato associato nel 367) proclamò dapprima la libertà religiosa e compare anche in alcune iscrizioni (una a Roma del 370) col titolo di pontefice massimo, ma, dopo il rifiuto di assumere i paramenti dell’alta carica religiosa (e quindi il titolo stesso) recatigli dal promagister in una data non ben precisata (che gli studiosi considerano oscillante fra il 376 e il 383), in un famoso episodio narrato da Zosimo (IV, 36), tutto è ben presto destinato a cambiare.

Come è ben noto, infatti, coi provvedimenti del 382 Graziano, oltre a rimuovere la statua e l’ara della Vittoria dalla Curia, non riconobbe più valore giuridico ai culti tradizionali rendendoli oggetto di diritto privato: era la fine della Pax Deorum[23].

Le fonti non precisano il nome del promagister che ottenne il rifiuto di Graziano: il Mazzarino propende per L. Aurelio Avianio Simmaco (se l’episodio avvenne nel 376, poiché egli, console designato, morì l’anno dopo), mentre la Gracco Ruggini pensa invece ancora a Vettio Agorio Pretestato[24]. Sia l’una che l’altra figura sono naturalmente plausibili.

Certo è che sino a quella data tutto si era mantenuto come per il passato. Ne sono una testimonianza le prime lettere dell’epistolario simmachiano, in cui si fa riferimento alle decisioni e decreti del collegio pontificale, degli ostenta espiati con sacrifici, delle festività della Gran Madre dei dèi[25]. Anzi, proprio in quegli anni risulta intensificata la cura, da parte del collegio, per una scrupolosa osservanza del rituale, dell’aruspicina, dei sacrifici propiziatori pubblici, della disciplina dei sacerdozi ufficiali. In una lettera di Simmaco a Pretestato nel 378[26] si parla di un rito di procuratio prodigiorum in cui rientrava la lustratio Urbis.

Fra il 382 ed il 391 (di fatto sino al 394) si vivrà a Roma una situazione veramente insolita. Non esiste più culto di Stato, ma i collegi sacerdotali continuano a sussistere e ad officiare i loro riti: le spese sono sopperite dall’ingente patrimonio delle famiglie più ragguardevoli dell’aristocrazia senatoria. Ancora nel 390 L. Ragonio Venusto non esita a definirsi in un’epigrafe rinvenuta al Phrygianum (oggi sotto le fondamenta di San Pietro) augur publicus populi Romani Quiritium.

Certamente Vettio Agorio Pretestato e Quinto Aurelio Simmaco furono promagistri (e il primo, come vedremo, forse qualcosa di più), ma non ne esiste attestazione epigrafica.

L’ultima a noi nota ci parla di un Plotius Acilius e di un Lucillus Vitrasius Pretextatus[27], entrambi promagistri, che, a nome del collegio, restaurano pecunia sua le dimore dei Salii Palatini (in C.I.L. VI, 2158: vedi Appendice VI).

A mio giudizio essa risale ad epoca successiva alle misure di Graziano del 382, allorché di questo tipo di restauro si fecero carico le ricche famiglie senatorie che rivestivano le ultime cariche religiose.

Oltre ai più volte citati Pretestato e Simmaco, si sa che i pontefici in carica fra il 380 e il 390 furono Virio Nicomaco Flaviano, Publio Ceionio Cecina Albino, Alfenio Ceionio Giuliano Camenio e Clodio Flaviano (probabilmente anche Ceionio Rufio Albino, L. Ragonio Venusto e Petronio Apollodoro).

La posizione di Simmaco all’interno del collegio è di grande autorevolezza. Per quanto più giovane e all’epoca certamente meno prestigioso di lui, non si perita di rimproverare amichevolmente il collega Pretestato addirittura di una certa tepidezza nei confronti delle incombenze necessarie all’attività del collegio[28].

Allo stesso modo fanno pensare i suoi numerosi interventi in materia di vestali – sia quando si rivolge ad una di loro per chiederle di confermare o smentire le voci circa la sua intenzione di abbandonare il sacerdozio prima del termine stabilito[29] – sia quando chiede al praefectus Urbi e poi al vicario di Roma di applicare, more maiorum, per la vestale di Alba Primigenia, rea di incestum, e il suo complice, il supplizio capitale[30]: e si noti che non si conoscono altri casi del genere dopo le condanne volute da Domiziano, a cui si è accennato.

Morto Pretestato nel dicembre 384, le Vestali, su iniziativa della Virgo Vestalis Maxima Celia Concordia, decisero di erigergli una statua nel vestibulum dell’aedes Vestae per esprimere la loro gratitudine. Non conosciamo gli esatti motivi di questa gratitudine, ma di sicuro concernevano la sua carica sacerdotale. Siamo nel 385, cioè tre anni dopo i provvedimenti di Graziano.

Simmaco, seguito da un piccolo gruppo di pontefici, si oppone al progetto perché lo ritiene contrario al protocollo del collegio, dal momento, che scrive al cugino Flaviano, «mai a nessun pontefice massimo del passato ciò è stato riconosciuto»[31]. La questione si risolse con la sua sconfitta, ma l’espressione usata da Simmaco fa chiaramente comprendere come Pretestato fosse stato unanimemente considerato come il «logico e legale erede del titolo»[32].

Del resto egli nei Saturnalia di Macrobio è paragonato ed eguagliato a Virgilio, il quale nella medesima opera è definito noster pontifex maximus[33].

 

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Scavi archeologici all’interno della Regia, sede del collegio pontificale e dimora del pontifex maximus durante la repubblica e, molto probabilmente, di chi ne prese ritualmente il posto dopo Graziano, hanno dimostrato che fu restaurata nel IV e V secolo e modificata come domus privata fino al VII-VIII secolo[34]. Un particolare che induce a riflettere sulla possibile continuità di un collegio pontificale sino ad epoca tarda. Ma chi furono gli ultimi che, legittimamente, poterono fregiarsi di quel titolo?

Ho citato prima i fratelli P. Ceionio Cecina Albino e Ceionio Rufio Albino, appartenenti all’illustre famiglia degli Albini, che diedero alla res publica importanti magistrati nel IV e nel V secolo inoltrato, nonché numerosi iniziati a riti misterici e pure, paradossalmente, anche due sante cristiane[35]. Ma i due fratelli Albini, anch’essi commensali dei Saturnalia di Macrobio, furono solo pontifices (con certezza solo Cecina Albino).

Il pontifex P. Ceionio Cecina Albino, che fu governatore di Numidia nel 365, dove restaurò un tempio di Giove (C.I.L., VIII 2388 e 2242), ricordato da san Girolamo (nell’anno 400) con sulle ginocchia la nipotina Paola[36], era ancora vivo nel 403 (e forse nel 405), mentre suo fratello primogenito Ceionio Rufio Albino viveva ancora, ultraottantenne, nel 417, dal momento che è ricordato da Rutilio Namaziano nel suo De Reditu come padre del caro amico Rufio Antonio Agripnio Volusiano[37], già proconsole d’Africa ed entrato in carica come praefectus Urbi nel novembre di quell’anno, proprio mentre Rutilio sbarcava a Populonia[38].

L’esistenza in vita di questi due personaggi (che furono amici intimi di Pretestato e Simmaco) nel primo decennio del V secolo può forse spiegare quanto avvenne nell’Urbe nel 410, alla vigilia del sacco di Roma. Mentre il legittimo sovrano Onorio era asserragliato in Ravenna, era stato innalzato al trono, su suggerimento di Alarico, il preafectus Urbi Prisco Attalo, che risulta fra i corrispondenti di Simmaco ed era di fede pagana[39].

Attalo nominò console per quell’anno un certo Tertullo, che tenne un discorso in senato in questi termini:

 

loquar vobis, patres conscripti, consul et pontifex quorum alterum teneo, alterum spero[40].

 

L’episodio, come quello più noto, di poco precedente, del 409, della celebrazione in Campidoglio di sacrifici espiatori da parte di alcuni senatori allo scopo di stornare l’assedio dei barbari (avvenuta, pare, col permesso del praefectus Urbi Gabinio Barbaro Pompeiano e addirittura dello stesso papa Innocenzo I)[41], è indicativo della particolare situazione di quel momento storico e della perlomeno ufficiosa sussistenza di un collegio pontificale che, in qualche modo, continuava ad operare dietro le quinte.

 

 

APPENDICE DOCUMENTARIA

 

I. (P. Iuventius Celsus)

 

Velius Fidus Iubentio Celso col/legae suo salutem desideri(um) fra/ter Arri Alphii Arriae Fadillae domi/ni n(ostri) Imp(eratoris) Antonini Aug(usti) matris liberti / libellum tibi misi cogniti mihi / ex longo tempore iubentutis(!) / etiam miratus cum ab aedibus es/sem quot eo lo(co) se contulisset a quo / didici causa se requi(e)tionis set et re/ligionis magnope(re) a domino n(ostro) Imp(eratore) / impetrasse ita ne qua mora videa/tur ei per nos fieri libellum subscrip/tum per eu(n)dem publicum sine mora / mihi remittas opto te salvo<n=M> et fe<l=B>(i)cem es(se) / exe(m)plu(m) libelli dati / cum ante hos dies coniugem et filium ami/serim et ressu necessitate corpora eorum / fictili sarcofago commendaverim doni/que is locus quem emeram aedificaretur vi/a Flamina inter miliar(ia) II et III euntibus a/b urbe parte leava costodia monumenti / Fla(viae) Thumeles maesolaeo(!) M(arci) S[i]li Orcili / rogo domin(e) permittas mihi in eodem lo/co in marmoreo sarcofago quem mihi mo/do comparavi ea corpora cilligere ut <q=C>uan/done ego esse desider(o) pariter cum eis ponar / <d=F>ecretum fieri placet Iubentius Celsus / promagister subscripsi III Nonas No(v)emb(res) / Antio Pol(l)ione et Opimiano ko(n)s(ulibus!) ordina<r=L>i(i)s / <S=C>evero et Sabiniano co(n)s(ulibus) [CIL VI, n. 2120]

 

II. (C. Iulius Rufinianus Ablabius Tatianus)

 

/ C(aio) Iulio Rufiniano / Ablabio Tatiano c(larissimo) v(iro) Rufi/niani oratoris filio fisci pa/trono rationum summarum / adlecto inter consulares iudi/cio divi Constantini legato pro/vinc(iae) Asiae correctori Tusciae / et Umbriae consulari Ae/miliae et Liguriae pontifici / Vestae matris et in colle/gio pontificum proma/gistro sacerdoti Her/culis consulari Cam/paniae huic ordo splen/didissimus et populus Abellinatium ob insignem / erga se benevolentiam et / religionem et integrit(atem) eius / statuam conlocandam censuit [CIL 10, 01125 = D 02942]

 

III. (... Macrinius Sossianus)

 

Ob meritum castitatis / pudicitiae adq(ue) in sacris / religionibusque / doctrinae mirabilis / C[[3]]e v(irgini) V(estali) max(imae) / pontifices vv(iri) cc(larissimi) / promag(istro) Macrinio / Sossiano v(iro) c(larissimo) p(ontifice) m(aiore?) // Dedicata V Idus Iunias / divo Ioviano et Varroniano / conss(ulibus) [CIL 06, 32422 (p 3826) = D 04938 = AE 2006, +00118]

 

IV. (M. Aurelius Consius Quartus Iunior)

 

Singularis integritatis / et bonitatis exsimiae / M(arco) Aur(elio) Consio Quarto / Iuniori c(larissimo) v(iro) correctori / Flaminiae et Piceni / pontifici maiori / promagistro iterum / duodecimviro / Anconitani et / Fanestres clientes / patrono [CIL 06, 01700 (p 3813, 4738) = D 01249]

 

V. (Editto di Costantino – 3 marzo 321)

 

Omnes iudices urbanaeque plebes et artium officia cunctarum venerabili die solis quiescant. Ruri tamen positi agrorum culturae libere licenterque inserviant, quoniam frequenter evenit, ut non alio aptius die frumenta sulcis aut vineae scrobibus commendentur, ne occasione momenti pereat commoditas caelesti provisione concessa * CONST. A. HELPIDIO. *<A 321 PP. V NON. MART. CRISPO II ET CONSTANTINO II CONSS.> (CI 3.12.2)

 

VI. (Plotius Acilius e Lucillus Vitrasius Praetextatus)

 

Mansiones saliorum palatino/rum a veteribus ob armorum magnalium / custodiam constitutas longa nimis / aetate neglectas pecunia sua / reparaverunt pontifices Vestae / vv(iri) cc(larissimi) pro magisterio Plotii Acilii / Lucilli Vitrasii Praetextati vv(iri) cc(larissimi) [CIL 06, 02158 (p 3295, 3826) = D 04944]

 

 



 

* Comunicazione presentata nel Comunicazione presentata nel «XXXI Seminario Internazionale di Studi Storici “Da Roma alla Terza Roma”: Libertà religiosa da Roma a Costantinopoli a Mosca» (Campidoglio, 20-21 aprile 2011), organizzato per iniziativa dei professori Pierangelo Catalano e Paolo Siniscalchi, in occasione del MMDCCLXIV Natale di Roma (in base alla Deliberazione unanime del Consiglio Comunale del 22 settembre 1983), con l’intervento del Consiglio Nazionale delle Ricerche, dell’Accademia delle Scienze di Russia e dell’Università di Roma ‘La Sapienza’.

 

[1] Cfr. J. NORTH, La religione repubblicana, in AA.VV., Storia di Roma, II (L’impero mediterraneo), 1 (La repubblica imperiale), Torino 1990, 585.

 

[2] A. PASTORINO, La religione romana, Milano 1973, 63.

 

[3] Si tenga conto che in origine il pontefice massimo non avrebbe potuto varcare i confini dell’Italia (l’espressione tecnica è Terra Italia): cfr. P. CATALANO, Aspetti spaziali del sistema giuridico-religioso romano. Mundus, templum, urbs, ager, Latium, Italia, in “A.N.R.W.”, 1978, 528-529, con i rinvii alle fonti.

 

[4] Cfr. SEN., Dial. 6.13.1.

 

[5] TAC., Hist. IV, 53.

 

[6] F. GUIZZI, Il sacerdozio di Vesta, Napoli 1968, 105.

 

[7] CATO, fr. 2 Jordan (p. 27); fr. 197 Malcovati (p. 79): in GELL., I.12.17: M. Cato de Lusitanis, cum Servium Galbam accusavit: "Tamen dicunt deficere voluisse. Ego me nunc volo ius pontificium optime scire; iamne ea causa pontifex capiar? si volo augurium optime tenere, ecquis me ob eam rem augurem capiat?"

 

[8] TAC., Ann. III, 58.

 

[9] TAC., Ann. III, 71.

 

[10] TAC., XII, 8. Si rammenterà il famoso discorso di Claudio in Senato riportato dalla Tavola Claudiana di Lione, in cui si discute di Servio/Mastarna e di Celio Vibenna. Si ricordi anche che la Lega Sacrale Etrusca, restaurata da Augusto, innalzerà un monumento (ora al Museo Lateranense) proprio in onore di Claudio.

 

[11] SVET., Claud. 22.

 

[12] DIO, LX, 25, 8. Peraltro, già Caligola aggiunse un quarto giorno ai Saturnali (i Sigillaria) e, prima di lui, Augusto aveva aggiunto un secondo e terzo giorno (Opalia).

 

[13] Vedi SVET., Dom. 8 (e PLIN., Epist. IV, 11).

 

[14] SVET., Dom. 8: Nam cum Ocellatis sororibus, item Veronillae liberun mortis permisset arbitrium.

 

[15] Vedi PAUL., 65 L. Cfr. R. DEL PONTE, La Religione dei Romani, Milano 1992, 191.

 

[16] Cfr. G. COSTA, Religione e politica nell’Impero Romano, Torino 1923, 37.

 

[17] Nell’Historia Augusta, vedi la Vita Marci Aurelii, di Giulio Capitolino, XIII.

 

[18] Per la parte che concerne la figura del promagister pontificum, sono in buona parte debitore delle ricerche dell’amico Giovanni V. Sannazzari, che qui ringrazio sentitamente.

 

[19] Cfr. A. BOUCHÉ-LECLERQ, Les pontifes de l’ancienne Rome, Paris 1871, 363-365.

 

[20] La reiterazione della carica di promagister è dimostrata dall’iscrizione, in data imprecisata, di C.I.L. VI, 1700, in cui M. Aurelius Consius Quartus Iunior risulta promagistro iterum (vedi Appendice IV).

 

[21] Per le date e l’identificazione, seguo le indicazioni di L. CRACCO RUGGINI, Vettio Agorio Pretestato e la fondazione di Costantinopoli, in EAD., Il paganesimo romano tra religione e politica (384-394 d.C.): per una reinterpretazione del “Carmen contra paganos”, Roma 1979, 131-141. Ma si veda anche S. MAZZARINO, Antico, tardo antico ed éra costantiniana, Città di Castello 1974 e il mio saggio: “Altera Roma”. I riti di fondazione di Costantinopoli secondo il diritto sacro romano, in La città degli dèi, Genova 2003, 141-157.

 

[22] Cfr. ZOSIMO IV, 3.

 

[23] Vedine l’analisi nella mia Religione dei Romani, cit., 261 ss.

 

[24] L. CRACCO RUGGINI, op. cit., 75-116.

 

[25] Vedi, ad es., le lettere a Pretestato del 380 e del 383 (SYMM., Ep. I, 46, 2; I, 47 e I, 51).

 

[26] SYMM., Ep. I, 49

 

[27] Potrebbe essere parente del già citato Memmio Vitrasio Orfito (F. CHAUSSON, Stemmata aurea: Constantin, Justine, Théodose: revendications généalogiques et idéologie impériale au IVe siècle ap. J.C., Roma 2007, 143) oppure di Vettio Agorio Pretestato, il cui padre (si ricorderà) era Salius Palatinus.

 

[28] Cfr. SYMM., Ep. I, 47; I, 51.

 

[29] Ibidem, IX, 108.

 

[30] Ibidem, IX., 147 e 148.

 

[31] Ibidem, II, 36.

 

[32] J.J. O’DONNEL, The Demise of Paganism, in “Traditio” 35, 1979, 76-77.

 

[33] MACR., Sat. I, 24,16.

 

[34] Cfr. C.L. LA BRANCHE, Roma Nobilis. The public Architecture of Rome 330-476, unpubl. diss. Northwestern Univ. 1968, 54-55 e 219 n. 130.

 

[35] Santa Melania Iuniore (383-439) fu nipote di Ceionio Rufio Albino per parte di madre (la cristiana Albina) e così santa Paola, nipote di Publio Ceionio Cecina Albino sempre per parte di madre (la cristiana Laeta).

 

[36] Cfr. HIERON., Ep. 107, 1.

 

[37] Cfr. RUT. NAM., De Reditu I, 168 e ss.

 

[38] Ibidem. I, 415-428.

 

[39] Ma un pagano “tiepido”, se si lasciò battezzare da un vescovo ariano per compiacere il suo protettore.

 

[40] OROS. VII, 42, 8. Vedi anche PAUL., Hist. Rom., XII, 1 e ZOSIMO VI, 7, 4.

 

[41] Cfr. ZOSIMO V, 41 e SOZOMENO, Historia Ecclesiastica IX, 6, pp. 397-398 Bidez, Hansen. Per tutto l’episodio vedi anche L. CRACCO RUGGINI, op. cit., 120-123.