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ColaianniNicola Colaianni

Università di Bari

 

Religioni e ateismi: una complexio oppositorum alla base del neo-separatismo europeo*

 

 

Sommario: 1. Il dialogo dell’Unione europea con le organizzazioni confessionali e non. – 2. Il separatismo statunitense. – 3. Il neo-separatismo europeo. – 4. La complexio oppositorum nell’elaborazione cattolica… – 5 …e in quella secolare. – 6. Il separatismo pluralistico europeo (e americano). – Abstract.

 

 

1. – Il dialogo dell’Unione europea con le organizzazioni confessionali e non

 

In origine si trattava di una semplice dichiarazione (una fra le altre, l’undicesima) allegata al trattato di Amsterdam del 1997. Nessuno allora avrebbe scommesso che quella dichiarazione, di improbabile valore sul piano della vincolatività giuridica, dieci anni dopo avrebbe trovato a Lisbona la sua consacrazione normativa con l’inserimento nel nuovo trattato della Comunità europea (CE), ora Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE). E non nella normativa di dettaglio ma nelle disposizioni generali, laddove l’Unione elenca i suoi obiettivi primari: antidiscriminazione, difesa dell’ambiente, rispetto degli animali, garanzia di trasparenza, protezione dei dati personali e, appunto, rispetto dello status nazionale e dialogo con le chiese e le organizzazioni filosofiche e non confessionali[1].

Per la prima volta, probabilmente, in un documento giuridico di natura para-costituzionale, come quel Trattato, religioni e ateismi[2] ricevono un riconoscimento non solo come diritti del cittadino – quello era già contenuto nella carta di Nizza e nella convenzione europea dei diritti umani, cui l’Unione aderisce con il trattato di Lisbona – ma anche con riferimento alle organizzazioni cui possono dar luogo. L’Unione mette sullo stesso piano chiese e comunità o associazioni religiose, da un lato, e organizzazioni filosofiche e non confessionali, dall’altro. Ciò fa sotto un duplice profilo: self-restraint, con il divieto di pregiudizio dello status da esse goduto negli ordinamenti nazionali, e dialogo aperto, trasparente e regolare con le une e le altre.

Le radici dell’Europa non poggiano, dunque, su una sola opzione: religione (come tradizionalmente nella maggior parte dei paesi occidentali) o ateismo (come negli ex stati socialisti, il cui attuale «recupero dell’integrità della memoria»[3] cospira a sua volta verso la formazione di un diritto europeo delle religioni). Non sarebbe stato coerente perché l’Europa unita non è una nuova organizzazione internazionale, che ingloba e trascende i singoli popoli, e tanto meno i singoli individui; com’è scritto nel preambolo della carta di Nizza, ne riconosce la diversità e si impegna a rispettarla, unitamente all’identità nazionale degli stati membri.

Corollario (uno dei tanti) di questa posizione è appunto che l’Europa non ha religione. Ma non è contraria alle religioni. Non è atea ma è a-teista. Non è, cioè, contro i teismi: per il semplice fatto che non si pone il problema di Dio. Ma neppure è positivamente agnostica. È separata dal fenomeno sociale a finalità religiosa. Non, tuttavia, al punto di attingere la «indifferenza dello Stato per le varie dogmatiche religiose, ma altresì il suo disinteresse per le manifestazioni sociali delle singole confessioni»[4]. Con queste, infatti, dialoga. Da tutta la sua storia e dalle fonti del diritto europeo si ricava un, ancorché non espresso, principio di non identificazione in primo luogo con le religioni positive, in particolare quelle cristiane che ne hanno accompagnato la storia, ma contemporaneamente anche con gli ateismi e gli agnosticismi: probabilmente, con lo stesso secolarismo, inteso come posizione ideologica che tende non semplicemente a registrare il fenomeno della secolarizzazione, nei diversi modelli e risultati del suo processo storico[5], ma a favorirne programmaticamente lo svolgimento.

L’Europa unita, insomma, proprio perché rispetta le diversità culturali e religiose dei suoi popoli, non ha una sua religione ufficiale né privilegia una religione maggioritaria o tradizionale. Anzi neppure è garante, almeno direttamente, della coesistenza di fedi religiose tra di loro e con le convinzioni filosofiche. Ne è separata, come detto, e, tuttavia, non le ignora, tanto da mantenere con esse, come con le organizzazioni non confessionali, un dialogo regolare[6].

 

 

2. – Il separatismo statunitense

 

Alla ricerca di un precedente storico che presenti qualche analogia con questa posizione, bisogna uscire dall’Europa e attraversare l’oceano. L’attenzione, invero, si posa sulla establishment clause della Costituzione americana, naturalmente al netto della vulgata seguita alla famosa immagine di Thomas Jefferson del «wall of separation», che il primo emendamento avrebbe eretto tra stato e religioni. Un’immagine che ha gravato sull’interpretazione come una «dichiarazione ufficiale dello scopo e dell’effetto»[7] di quella clausola: ma in senso più metaforico che reale. Vero è che la Corte suprema ebbe modo di affermare che quel muro «dev’essere mantenuto alto e insuperabile»[8]. S’era allora nell’immediato dopoguerra, ma in tempi più vicini quella Corte, anche per la critica dottrinale ad una interpretazione considerata senza meno «superficiale e finalizzata»[9], riconobbe che il muro di Jefferson era solo «una barriera sfocata, indistinta e variabile a seconda di tutte le circostanze di un particolare rapporto»[10].

In realtà, cioè nel diritto vivente, quell’emendamento, impedendo che una particolare religione potesse mai ottenere lo stamp of approval da parte della nascente Federazione, apriva anche la strada ad una sapiente accomodation delle obiezioni di coscienza praticate dalle confessioni minoritarie, a cominciare da quella dei quaccheri al servizio militare che George Washington s’impegnò a riconoscere già nel 1789 [11]. Una declinazione del separatismo in regime di pluralismo confessionale, evidentemente diversa dalla forma tranchant che esso aveva assunto in un regime di monismo confessionale quale quello realizzatosi in Europa per effetto del principio augustano-westfaliano cuius regio eius et religio. In tale contesto Locke poteva sostenere che «la Chiesa è distinta e separata dallo Stato e dalle faccende civili. I confini sono fissi e irrevocabili»[12]: tali, quindi, da rendere Stato e Chiesa due monadi senza punti di contatto, due parallele che non si incontrano mai.

Nel “nuovo mondo” il separatismo dovette calarsi in un contesto pluralistico tra gli Stati e all’interno di ciascuno di essi. La establishment clause nacque perciò come eccezione all’onnipotenza del legislatore federale: alla regola posta dall’Article I, sect. 8, secondo cui «Congress shall have Power (…) to make all Laws», infatti, l’Amendment I stabilisce che, tuttavia, «Congress shall make no law respecting an establishment of religion»[13] (come all’opposto previsto nella ex “madrepatria”, in cui il giuramento del monarca contemplava l’obbligo «to maintain (…) the Protestant reformed religion established by the law»).

No establishment, quindi, non significa wall of separation: tra l’uno e l’altro è agibile una zona di contatto con le confessioni in cui il pluralismo degli Stati può entrare legittimamente senza offendere quel divieto, utilizzando la “universal formula” del Lemon test: leggi con scopo secolare, con effetto principale né a beneficio né ad impedimento della religione e senza smodato coinvolgimento del governo con la religione[14].

 

 

3. – Il neo-separatismo europeo

 

Il separatismo statunitense, come si vede, è una declinazione assai diversa da quello classico teorizzato da Locke ma, comunque, è un prodotto dell’arte della separazione[15], propria del liberalismo. Nella misura in cui il modello emergente dal Trattato europeo, avvicinandosi a quello americano, si distacca anch’esso dal modello classico lockiano, formalmente (ma non sostanzialmente) praticato in alcuni stati membro come la Francia, si può parlare di neoseparatismo.

Certo, esso nacque appunto dalla necessità politica di far convivere le posizioni cristiane più variegate esistenti all’interno dei gruppi di coloni europei, mentre il “separatismo” dell’Unione Europea è un principio di portata generale, che, come detto, va oltre le religioni cristiane. Ma tanto quella ristrettezza quanto questa ampiezza sono figlie dei loro tempi, mentre il nucleo duro, lo hard core sembra la stesso: la presa d’atto del pluralismo in luogo dei monismi contrapposti costituiti dallo stato e dalla chiesa.

Il processo, ovviamente, non s’è sviluppato senza contrasti e anzi ha dovuto vincere la tendenza, inizialmente manifestatasi, a ufficializzare, sia pure nella forma soft compatibile con la laicità affermatasi nella maggior parte degli stati dell’Unione, la religione cristiana. Nel periodo di «adozione nell’Unione di un testo costituzionale», auspicata dal Consiglio europeo di Laeken nel dicembre 2001, fu, infatti, molto vivo – come si ricorderà – il dibattito sull’inserimento di un richiamo alle radici cristiane, o giudaico-cristiane, nel preambolo. I sostenitori della proposta, non solo cristiani, evidenziarono che la citazione espressa della cristianità dell’Europa, se priva di una connotazione esclusivista, non avrebbe offeso il principio di neutralità, perché – s’è osservato da parte dei sostenitori della proposta - il «pluralismo tollerante consiste nell’includere entrambe»[16] le sensibilità: laica e religiosa.

Sta di fatto che la formulazione proposta – un richiamo secco, nudo e crudo - non dava affatto questo significato di inclusione. Il dibattito continuò – continua - a tener desta l’opinione pubblica. Ma ad assumersi il compito di affondare la proposta fu la Francia, in nome della laicità espressa nella propria Costituzione. Ancorché il silenzio sulle radici potesse sembrar figlio dell’indifferenza per ciò che sono gli europei e da dove essi vengono[17], tuttavia, dato che il dibattito s’era incentrato sulle sole radici religiose (e non, per esempio, anche su quelle illuministiche, come pure era stato proposto), la desistenza fu saggia. E a noi italiani ricordò la saggezza di uno spirito superiore come Giorgio La Pira, che nel suo fervido costituzionalismo cristiano e universalistico, aveva proposto nella seduta plenaria antimeridiana del 22 dicembre 1947, il giorno dell’approvazione del testo definitivo, che la Costituzione fosse preceduta da questa brevissima formula di natura spirituale: «In nome di Dio il popolo italiano si dà la presente Costituzione».

Non era, quest’ultima, un’eresia. Basta pensare che uno spirito liberale e separatista come Alexis de Tocqueville un secolo prima aveva enfatizzato la forza di coesione che ad un popolo libero e ad una società democratica poteva derivare da un ancoraggio alle credenze religiose e, in particolare, a quelle cristiane[18]. Ma il dibattito che ne seguì alla Costituente, con gli interventi, fra gli altri, di Togliatti, Marchesi, Calamandrei e Nitti, persuasero La Pira che la proposta avrebbe inevitabilmente diviso l’Assemblea. Egli accettò le esortazioni e ritirò la proposta, dichiarando che l’aveva presentata per obbedire ad un dovere di coscienza ma, visto il dissenso, conveniva che «Dio non si mette ai voti»[19].

L’omissione del richiamo non risparmiò, tuttavia, l’ondata di confessionismo legislativo e giurisprudenziale[20]: una superfetazione dal ben più consistente richiamo dei patti lateranensi, tanto che non è mancato chi di recente ha evidenziato come alla laicità dello Stato abbia provocato molto più danni il richiamo nell’art. 7 dei patti lateranensi che la nominatio Dei: l’«essersi piegati al potere temporale della Chiesa e aver rigettato un principio spirituale»[21]. Occorsero trent’anni perché il favor religionis (catholicae, in particolare) si diluisse: invero, il pluralismo inclusivo anche degli ateismi e degli agnosticismi sarebbe stato dichiarato con forza vincolante solo nel 1979 grazie ad una sentenza della Corte costituzionale[22].

In Europa, invece, questo pluralismo inclusivo, senza richiami incoerenti a radici esclusivamente religiose, s’è realizzato nel giro di pochi anni tra Amsterdam e Nizza. Non si tratta della laicità della République: a sua volta religiosa ed escludente[23]. Né della laicità comunitaristica, del Londonistan, in cui, almeno relativamente al diritto di religione e di famiglia, ogni comunità etnico-religiosa in regno suo est imperator e i diritti dei singoli vengono sacrificati sull’altare della cultura di appartenenza[24].

Si tratta, come detto, di un neoseparatismo: cioè di un separatismo pluralistico, molto simile a quella laicità pluralistica affermata pochi anni prima dalla nostra Corte costituzionale, quando dichiarò la laicità principio supremo del nostro ordinamento, un profilo fondamentale della nostra forma di stato (rientrante, quindi, tra i «fattori generali di legittimazione dello stesso processo di produzione giuridica»[25]), in regime di pluralismo religioso e culturale. Non può sfuggire il legame di questo termine con quello “filosofico” utilizzato nell’art. 17 TFUE. Nell’uno e nell’altro caso si dà uguale diritto di cittadinanza alle “narrazioni”, religiose e culturali, si sprigionano gli ateismi (per lungo tempo considerati una degenerazione della spiritualità umana) e si porta a compimento il lungo processo di distinzione del peccato dal reato e del dualismo dei fori[26].

Non era ovvio, come dimostrerà il successivo dibattito sulle radici cristiane d’Europa. Ma era, ed è, coerente con la natura stessa di un’Unione, che non è una nazione, ma è un’unitas multiplex di popoli e nazioni. Non bisogna dimenticare che l’ordine westfaliano poggiava sugli stati-nazione e che ogni stato-nazione aveva la sua religione ufficiale, quella del re: cuius regio eius et religio. Ma non è che il re fosse libero di abbracciare qualsivoglia religione: questa opzione era stata esercitata una volta per tutte dopo la Riforma e ne erano conseguite sanguinose guerre di religione. Ad Augusta prima e poi con il trattato di Westfalia la situazione viene stabilizzata e, da allora in poi, il re non fa che seguire la religione del suo de cuius, che coincide con quella del territorio. In questa situazione diversificata è nata l’Unione: la quale non poteva non rispettare quelle diversità, non identificandosi con alcuna di esse ma separandosene e, tuttavia, non confinandole nell’irrilevanza del mancato riconoscimento.

 

 

4. – La complexio oppositorum nell’elaborazione cattolica…

 

A differenza di quella americana l’implicita clausola europea è frutto di una legittima successione ereditaria in un principio radicato nei testi sacri del cristianesimo ed elaborato ed arricchito specie nella tradizione della chiesa cattolica: la complexio oppositorum.

Si possono collegare, riunire, combinare gli opposti? Farne una sola espressione, come usiamo fare nella complexio verborum, senza annullare la ricchezza di ogni singolo elemento? Complecti significa, invero, abbracciare. La complexio non è un melting pot, in cui i singoli ingredienti non sono più distinguibili; non è una potente sintesi, che annulla non solo i dualismi ma la stessa dualità.

Ebbene il cristianesimo non solo predica, ma contiene già in sé, nel suo atto fondativo, questa esperienza. Invero, il Nuovo testamento si aggiunge al vecchio ma non lo annulla, estende la vecchia alleanza tra Dio e il popolo ebreo fino a fare «discepoli tutti i popoli» (Matteo 28,19). Nel “discorso della montagna” Gesù argomenta e prescrive per opposizioni: «Avete inteso che fu detto agli antichi … Ma io vi dico…» (Matteo 5,20 ss.). Ma non elimina l’antico, non tocca neppure «un solo iota o un solo trattino della Legge». La reinterpreta, le attribuisce un contenuto più ampio, la completa: «non crediate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non sono venuto ad abolire ma a dare pieno compimento» (Matteo 5,17-18).

Il cristianesimo abbandona il codice di obblighi e divieti senza alternative, tipico dell’ebraismo (e poi ripreso dall’Islam) con la sua minuta precettistica di 630 prescrizioni positive (una per ogni giorno dell’anno) e negative (una per ciascuna delle membra del corpo umano). La sua “logica” non è quella dell’aut…aut, ma dell’et…et. Ai primi cristiani ciò appare del tutto chiaro nel campo delle relazioni sociali e politiche: essi, come scrive l’anonimo autore della lettera a Diogneto, continuano a vivere in “città greche o barbare”, si adeguano ai “costumi del luogo nel vestito, nel cibo e nel resto”, “obbediscono alle leggi stabilite e con la loro vita superano le leggi”[27]. È in questa temperie spirituale che sul finire del V secolo, proprio quando la Chiesa di Roma poteva dire di avere imposto il suo primato sulle rovine dell’impero d’Occidente, il papa Gelasio I non dà il colpo di grazia alla regalis potestas, affermando integralisticamente come unica la auctoritas sacrata pontificum, bensì riconosce nell’una e nell’altra due dignitates distinctae, poste dal disegno divino “ut et cristiani imperatores pro aeterna vita pontificibus indigerent et pontifices pro temporalium cursu rerum imperialibus dispositionibus uterentur[28].

Bisogna tenere gli estremi, non sceglierne uno e abbandonare l’altro. Si cura così la “modestia utriusque ordinis”, riconosciuta con grandezza di spirito da papa Gelasio (e la cui percezione sarà progressivamente sostituita nei secoli successivi da quella della propria perfezione come societas iuridica con conseguente potestas, almeno indirecta, in temporalibus: quantum mutatus ab illo! vien fatto di osservare). La tradizione cattolica applicherà metodicamente e fino alle estreme conseguenze l’insegnamento dell’et...et: non la Scrittura senza la Tradizione, non la sola Tradizione senza la Scrittura; non la fede senza la ragione, non la ragione senza la fede, ma fides et ratio; non la gerarchia senza il popolo di Dio, né questo senza quella.

Ma, come dimostra la prassi dei concordati, applicherà quel principio anche sul piano delle relazioni politiche, suscitando l’ammirazione di Carl Schmitt. Il quale su questa complexio oppositorum (per esempio del papa padre e della Chiesa madre, «meravigliosa combinazione dell’elemento patriarcale e di quello patriarcale») fondò la distinzione, fonte di autoritarismo, tra “rappresentazione”, propria della Chiesa la quale rappresenta “dall’alto”, e “rappresentanza”, propria dello Stato che si esaurisce in una rappresentazione del popolo, nel “principio rappresentativo”[29] su cui si fonda lo stato democratico. E ne dedusse la superiorità della prima sulla seconda:

 

«perché rappresenta qualcosa di diverso e di maggiore rispetto alla giurisprudenza laica, e cioè non solo l’idea della giustizia, ma anche la persona di Cristo. Così il cattolicesimo arriva a pretendere di avere un proprio potere e una propria dignità: può trattare con lo Stato come controparte parimenti legittima»[30].

 

 

5. – …e in quella secolare

 

Il principio democratico costituisce in effetti una specie di sfinge imperscrutabile e ingiustificabile nell’ordine di idee schmittiano, secondo cui «tutti i concetti più pregnanti della moderna dottrina dello Stato sono concetti teologici secolarizzati»[31]. Non a caso egli cerca di annientarlo nella superiorità del “principio assoluto” della “decisione ultima”, della quale ha il monopolio il sovrano, «il cui comando e il cui ordine è legge», senza che rilevi se il sovrano che decide sia «competente alla decisione in base ad un ordinamento già esistente»: invero, il «decisionismo puro presuppone un disordine che viene tramutato in ordine solo per il fatto che viene presa una decisione (non rileva come tale decisione si formi)»[32]. In disparte l’irresponsabilità di questa tesi giustificazionista del colpo di stato o dello stato di eccezione, che Schmitt ripropose anche dopo l’avvento al potere di Hitler e del partito nazista (al quale coerentemente si iscrisse nel 1933), rimane che, non tutti certamente, ma molti concetti politici sono il frutto di una secolarizzazione di concetti teologici.

Può sembrare strano che proprio un principio religioso come la complexio oppositorum, estesamente applicato nel disciplinamento della maggiore denominazione cristiana fino a giustificare tutto e il contrario di tutto[33], sia all’origine anche dell’accoglienza eguale di religioni e ateismi nel diritto dell’Unione europea.

Ma il senso di sorpresa, che spesso sfocia in un atteggiamento di ripulsa, è figlio di stanche convenzioni accademiche, gelose dei confini che tradizionalmente si sono attribuiti a ciascuna disciplina e che impediscono lo studio delle analogie, per non parlare di una ricostruzione olistica del diritto. Un diritto diviso da barriere innanzitutto storiografiche, ma ovviamente anche giuridiche, che negli ultimi decenni hanno cominciato ad essere erose, lasciando intravedere il ruolo svolto dalle tradizioni religiose nella formazione del diritto secolare. Questo solco è stato autorevolmente seguito da importanti ricerche che hanno fatto venire alla luce l’origine religiosa, teologica, di alcune acquisizioni della moderna giurisdizione penale[34] o della libertà di coscienza e delle sue legittime obiezioni alla legge dello Stato[35].

In particolare, la complexio oppositorum ha rappresentato il punto di equilibrio del nuovo ordine internazionale dopo Westfalia. Come conciliare l’obbedienza alla verità, e quindi alla gerarchia che si dichiara in possesso del charisma veritatis certum, con l’obbedienza alla propria coscienza, il cattolicesimo con il protestantesimo? E come garantire una coesistenza pacifica di queste posizioni all’interno di ciascuno stato? Era mai possibile sradicare in un paese cattolico una minoranza protestante, e viceversa, o comunque obbligare quelle minoranze ad emigrare in uno stato loro religiosamente consentaneo – in questo si risolveva il diritto riconosciuto prima ad Augusta e poi a Münster e Osnabrück - se volevano continuare a professare liberamente il proprio culto? Una libertà religiosa assicurata “dai piedi” (come quella economica e sociale secondo i neo-federalisti americani) e cioè dalla possibilità di cambiare Stato: come se la possibilità di spostare la propria residenza a seconda delle proprie opzioni religiose fosse una possibilità data a tutti i cittadini, anche quelli appartenenti alle fasce più deboli, e non si risolvesse invece in una limitazione sostanziale delle libertà. 

Non sorprende, quindi, che proprio nella Germania dei tanti stati ognuno con la propria religione, ma con cittadini della stessa lingua e della stessa storia e cultura, un grande pensatore e scienziato come Wilhelm Gottfried von Leibniz teorizzasse une certaine nouvelle logique per un’interpretazione evolutiva di Westfalia: l’unità come frutto della molteplicità, l’intreccio delle differenze, bona opera e sola gratia, non gerarchia di un ordinamento, dotato di norme coerenti, ma “eterarchia” di norme apparentemente incompatibili[36].

Nelle odierne società pluralistiche, tanto più per effetto della globalizzazione culturale, proprio la logica dell’et…et, piuttosto che dell’aut…aut, favorisce l’aspirazione alla necessaria convivenza dei principi[37], che nella loro apparente inconciliabilità sono positivizzati nelle stesse Costituzioni, superando la concezione arcaica ed autoritaria della sovranità che legittima la prevalenza di uno ad esclusione degli altri.

D’altro canto, come di recente s’è pure evidenziato, la progressiva separazione degli ordini secolare e religioso e delle rispettive giurisdizioni o fori è avvenuta non per contrasto ma di conserva tra l’uno e l’altro, dando luogo non ad una dicotomia rigida ma ad una cross fertilization, per cui, ad esempio «il foro interno, malgrado la sua aura di immunità o di esenzione, non si costruisce affatto contro ma insieme allo spazio pubblico del giudizio; così come, al contrario, quest’ultimo non si dispiega in opposizione ma con il foro interno»[38].

 

 

6. – Il separatismo pluralistico europeo (ed americano)

 

Analogamente, lo spazio pubblico europeo, nella misura in cui non stabilizza ufficialmente e tuttavia non esclude di dialogare – e per tal via di arricchirsi, com’è proprio del dialogo - di religioni e ateismi insieme, si va realizzando non in opposizione ma utilizzando quel principio consolidatosi nei secoli della storia e del diritto ecclesiastico. Non ha richiamato espressamente le radici cristiane nei suoi atti fondativi, ma ben ha fatto tesoro della lezione delle chiese, specie di quella cattolica. Non è nata a tutela dei diritti fondamentali, ma è pervenuta ad inglobare la carta di Nizza e ad aderire alla CEDU, ovviamente nell’interpretazione datane dai giudici di Strasburgo. Si disinteressa, perché fuori della propria competenza, dello status delle chiese e perciò non lo pregiudica, ma in egual misura neppure pregiudica quello delle organizzazioni filosofiche e non confessionali: e con le une e le altre instaura un dialogo aperto, trasparente e regolare.

Una complexio oppositorum inedita per il nuovo soggetto europeo. In primo luogo perché, nonostante il contesto individualistico, volto a favorire il mercato interno, si guarda alla dimensione sociale del fenomeno religioso, in senso positivo, negativo o agnostico. C’erano tutte le condizioni, pur nell’apertura alla tutela dei diritti fondamentali, per lasciare le cose come stavano nella Convenzione europea dei diritti umani, nella scia di una tradizione liberale individualista per cui, come sostenne agli Etats générales del 1789 il deputato della nobiltà parigina Stanislas de Clermont-Tonnèrre, «Il faut tout refuser aux Juifs comme nation et tout accorder aux Juifs comme individus». E invece l’Unione prende atto del fenomeno organizzativo in cui i cittadini si strutturano e incentrano, o non, l’interesse religioso, lo riconosce e dialoga con quelle organizzazioni su argomenti non predeterminati ma indefiniti.

Affermare il dialogo come principio e come metodo significa riconoscere, dare spazio alla eterogeneità dei soggetti dell’Unione, ascoltarli anche su temi non di stretta competenza ma trasversali a quelli di competenza, consente agli organi dell’Unione di «combinare le informazioni e allargare l’ambito dei temi», così migliorandone la «capacità di ragionare»[39]. Grazie all’eterogeneità «gli individui che deliberano vengono posti di fronte ad un’ampia quantità di argomenti»[40] e si realizza così, come già sosteneva il federalista Hamilton, un temperamento dello strapotere della maggioranza anche se al costo di una minore rapidità delle decisioni: ma «promptitude of decision is oftener an evil than a benefit»[41].

La complexio oppositorum rende ineludibile il dialogo e grazie a questa nouvelle logique – tuttavia, così antica - la storia dell’Occidente, dell’Europa e del Nord-America, si ricompone. Invero, Augusta e Westfalia erano regole europee che ai coloni europei del nuovo mondo non dicevano quasi nulla. Non che siano mancati i tentativi di mettere al bando e mandare all’esilio chi non la pensava come le autorità in materia religiosa: il Rhode Island fu fondato appunto come rifugio religioso da Roger Williams, che aveva definito la Chiesa nel New England come una “State Church” e aveva all’opposto teorizzato «Church and Civil Society» come «the two kingdoms», per cui come «Civil Societies do not need the Church to flourish» così «Civil Magistrates, like husbands, should respect the conscience of their “Spouse”»[42]. Ma già nel 1644, cioè negli stessi anni del trattato di Westfalia, il Rhode Island otteneva una patente ufficiale che sanciva la separazione fra stato e chiesa e riconosceva l’assoluta libertà di coscienza[43]. E questo principio sarà poi trasfuso un secolo e mezzo dopo nel primo emendamento, nella establishment clause e nella religious freedom.

Recentemente, pur a riguardo di una questione emotivamente coinvolgente quale il progetto di costruire una moschea nelle vicinanze di Ground zero,  il presidente Obama ha ribadito la forza e l’efficacia di questo principio, per cui «noi siamo una nazione di cristiani e di musulmani, ebrei e induisti – e non-credenti»: un patchwork che si è rivelato una forza, non una debolezza, perché – ha aggiunto –

 

«nel corso della nostra storia la religione è fiorita all’interno dei nostri confini proprio perché gli americani hanno avuto il diritto di professare il culto che scelgono, compreso il diritto di non credere in alcuna religione»[44].

 

Dunque, lungi dal favorire l’indifferentismo o il nichilismo o il relativismo, il binomio religioni-ateismi ha consentito la fioritura e non il rinsecchimento dello spirito religioso.

Quale migliore testimonianza dell’efficacia del metodo di tener insieme gli opposti, di collegarli e di abbracciarli, anche per la costruzione dell’Europa unita? La separazione degli ordini è espressione della dualità del potere ma non esclude il dialogo. L’Europa rifugge dalla proclamazione di principi astratti, enuncia piuttosto i procedimenti. Non parla di laicità, di neutralità, di dualità. Neppure potrebbe perché guarda agli individui e ne tutela la libertà di circolazione, senza discriminazione. Ma prende atto dell’esistenza delle chiese e non vuole ridurle nell’irrilevante. Ma neppure vuol trattare in modo diverso le organizzazioni non confessionali e filosofiche, agnostiche o ateistiche. Dialoga con esse. Ma sul presupposto della separatezza.

Non vetero-separatismo ma neo-separatismo, in versione pluralistica e rispettosa delle diversità esistenti in un’Unione, nella quale – si potrebbe dire con le parole della nostra Corte costituzionale, che riecheggiano quelle della Corte suprema americana: many races many creeds [45] – «hanno da convivere fedi, culture e tradizioni diverse»[46].

E, visto che la norma sul rispetto e sul dialogo è contenuta in un trattato sul funzionamento dell’Unione europea, occorre che i giuristi, pur operanti in contesti culturali storicamente diversi al riguardo del fatto religioso e delle sue implicazioni, come i francesi e gli italiani, sintonizzino i loro abiti mentali sulla lunghezza d’onda di un’Unione che funziona, tra l’altro, con il neo-separatismo dialogante basato sulla complexio oppositorum di religioni e ateismi.

 

 

Abstract

Religions and Atheisms: a Complexio Oppositorum at hearth of the European New-Separatism

 

The European Union is not interested in religious phenomenon. It’s a form of separatism between State and Church. Yet the last Treaty about the Union functioning stated an “open, transparent and regular dialogue” between the Union and the Churches and the philosophical or non-confessional organizations alike. So religions and atheisms, the exact opposites, are not only recognized but also linked as complexio oppositorum. That originates a pluralistic separatism. By means of constitutional law research this paper demonstrates that this new-separatism is new for the Europe but usual for the U.S. and therefore it contributes a long way towards a rapprochement between Europe and America from the constitutional point of wiew.

 

 



 

[I contributi della sezione “Memorie” sono stati oggetto di valutazione da parte dei promotori e del Comitato scientifico del Colloquio internazionale, d’intesa con la direzione di Diritto @ Storia].

 

* Testo della relazione svolta al Colloquio internazionale La laicità nella costruzione dell’Europa. Dualità del potere e neutralità religiosa, svoltosi in Bari il 4-5 novembre 2010 per iniziativa della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Bari “Aldo Moro”, del Centre d’études internationales sur la romanité Université de La Rochelle e dell’Unità di ricerca “Giorgio La Pira” CNR – Università di Roma “La Sapienza”. Lo scritto, che sarà pubblicato negli atti del Colloquio, è destinato agli Studi in onore di Rinaldo Bertolino.

 

[1] Art. 17 TFUE: «1. L'Unione rispetta e non pregiudica lo status di cui le chiese e le associazioni o comunità religiose godono negli Stati membri in virtù del diritto nazionale. 2. L'Unione rispetta ugualmente lo status di cui godono, in virtù del diritto nazionale, le organizzazioni filosofiche e non confessionali. 3. Riconoscendone l'identità e il contributo specifico, l'Unione mantiene un dialogo aperto, trasparente e regolare con tali chiese e organizzazioni».

 

[2] La categoria “ateismi” viene qui intesa in senso ampio, come comprensiva non solo delle posizioni razionalistiche o metodiche ma anche di quelle agnostiche o indifferenti, che ad essa in ultima analisi vengono ricondotte in recenti ricerche: così R. SCHRÖDER, Liquidazione della religione? Il fanatismo scientifico e le sue conseguenze, Queriniana, Brescia, 2011.

 

[3] Così G. CIMBALO, Problemi e modelli di libertà religiosa individuale e collettiva nell’Est Europa: contributo a un nuovo diritto ecclesiastico per l’Unione europea, in Scritti in onore di Giovanni Barberini, a cura di A. TALAMANCA e M. VENTURA, Giappichelli, Torino, 2009, 159.

 

[4] La citazione vale anche come memoria di uno studioso impegnato nella promozione dei diritti civili, che da poco ci ha lasciato, C.L. OTTINO, Separatismo, voce del Dizionario di politica, diretto da N. BOBBIO, N. MATTEUCCI E G. PASQUINO, Utet, Torino, 1983, 1030.

 

[5] La diversità dei modelli, e quindi delle accezioni, della secolarizzazione dipende dallo sviluppo in luoghi ed epoche diversi dei quattro eventi che ne sono alla base: la riforma protestante, l’ascesa dello stato moderno, lo sviluppo del capitalismo e la nascita della scienza moderna (così riassume le interpretazioni dominanti J. CASANOVA, Oltre la secolarizzazione. La religione alla riconquista della sfera pubblica, il Mulino, Bologna, 2000, 46 ss.).

 

[6] Sui caratteri di questo dialogo cfr. N. COLAIANNI, Eguaglianza e diversità culturali e religiose. Un percorso costituzionale, il Mulino, Bologna, 66 ss. (e, in generale, 223 ss.).

 

[7] «An authoritative declaration of the scope and effect»: così la Corte suprema in Reynolds v. United States, 98 US, 145, 164 (1879) (il caso riguardava la poligamia dei mormoni, che, danneggiando il pubblico interesse, non ricadeva sotto la protezione del primo emendamento).

 

[8] «Must be kept high and impregnable»: Everson v. Board of Education, 330 US 1, 18 (1947): nel caso però la forte affermazione del principio non ostacolò la ritenuta legittimità del rimborso statale delle spese sostenute dai genitori per il trasporto dei bambini, inclusi quelli che frequentavano scuole parrocchiali.

 

[9] «Superficial and purposive interpretations»: così M. DE WOLFE HOWE, The garden and the Wilderness: Religion and Government in American Constitutional History, Chicago, Chicago University Press, 1965,  4, cit. in T.L. HALL, Separating Church and State. Roger Williams and Religious Liberty, University of Illinois Press, Chicago, 1998, 12.

 

[10] Lemon v. Kurtzman, 403 U.S. 602, 614 (1971): è la sentenza del poi divenuto celebre Lemon test, che introdusse il criterio del «excessive and enduring entanglement between state and church» per giudicare sulla violazione del primo emendamento. La Corte argomentò che la metafora di Jefferson, «far from being a wall», è «a blurred, indistinct, and variable barrier depending on all the circumstances of a particular relationship». Sulle conseguenze giurisprudenziali di questo pivotal case v. F. ONIDA, Il fenomeno religioso nei sistemi giuridici extra-europei, in F. MARGIOTTA BROGLIO, C. MIRABELLI, F. ONIDA, Religioni e sistemi giuridici. Introduzione al diritto ecclesiastico comparato, il Mulino, Bologna, 2004, 278 ss.

 

[11] Il passo fondamentale della Letter to the Quakers di G. WASHINGTON può leggersi in M.C. NUSSBAUM, Liberty of Conscience. In Defense of America’s Tradition of Religious Equality, Basic Books, New York, 2008, in esergo al capitolo su the struggle over accomodation, 115.

 

[12] J. LOCKE, Lettera sulla tolleranza (1689), Laterza, Roma-Bari, 1994, 19.

 

[13] Sulla storia del Amendment I v. A.R. AMAR, America’s Constitution. A biography, Random House Trade Paperback, New York, 2005, 319 ss., 177 ss.

 

[14] «1. Each program must have a "secular legislative purpose." 2. Its principal effect “neither advances nor inhibits religion.” 3. It must non foster “excessive government entanglement” with religion»: così J. HITCHCOCK, The Supreme Court and Religion in American Life, Princeton University Press, Princeton, 2004, 124 ss.

 

[15] M. WALZER, Il liberalismo e l’arte della separazione, in Id., Pensare politicamente. Saggi teorici, Laterza, Roma-Bari, 2009, 38.

 

[16] J.H.H. WEILER, Un’Europa cristiana. Un saggio esplorativo, Rizzoli, Milano, 2003, 67 ss.

 

[17] Cfr. i dubbi espressi da C. PINELLI, Il preambolo, i valori, gli obiettivi, in La Costituzione europea. Un primo commento, a cura di F. BASSANINI e G. TIBERI, il Mulino, Bologna, 2004, 37 s.

 

[18] Cfr. il discorso al Parlamento del 18 gennaio 1844, che qui si cita dall’antologia di A. DE TOCQUEVILLE, Un ateo liberale. Religione, politica, società, a cura di P. ERCOLANI, Dedalo, Bari, 2008, 195 ss. V. pure la lettera a Gobineau del 22 ottobre 1843, ibid., 117 ss.

 

[19] Cfr. per questi dibattiti G. SALE, Il Vaticano e la Costituzione, prefazione di F.P. Casavola, Jaka book, Milano, 2008, passim.

 

[20] V. ora la lucida sintesi di S. LARICCIA, Battaglie di libertà, Democrazia e diritti civili in Italia (1943-2011), Carocci, Roma, 2011, 92 ss.

 

[21] M. VIROLI, Teo-dem di ieri: quando La Pira voleva Dio nella Costituzione, in La stampa, 3 gennaio 2008.

 

[22] Corte cost. 2 ottobre 1979, n. 117.

 

[23] Una “religione” a sua volta, scrive giustamente P. ROSSI, Laicità in crisi?, in A. RONCAGLIA, P. ROSSI, M.L. SALVADORI, Libertà, giustizia, laicità. In ricordo di Paolo Sylos Labini, Laterza, Roma-Bari, 2008, 66 ss.

 

[24] Cfr. N. COLAIANNI, I nuovi confini del diritto matrimoniale tra istanze religiose e secolarizzazione: la giurisdizione, in Rivista di diritto privato, 2009, n. 4, 10 ss.

 

[25] G. SILVESTRI, Dal potere ai principi. Libertà ed eguaglianza nel costituzionalismo contemporaneo, Laterza, Roma - Bari, 2009, 37. Sulla funzione “propellente e delimitante” dei principi fondamentali della Costituzione v. N. BOBBIO, Principi generali di diritto, voce del Novissimo Digesto italiano, XIII, Utet, Torino, 1976, 896.

 

[26] P. PRODI, Una storia della giustizia. Dal pluralismo dei fori al moderno dualismo tra coscienza e diritto, il Mulino, Bologna, 2000.

 

[27] Lettera a Diogneto, V,4,10, a cura di G. CARRARO / E. D’AGOSTINO, Servitium, Fontanella di Sotto il Monte, 2007.

 

[28] Epistolae Romanorum pontificum genuinae, a cura di A. THIEL, I, epist. XII, Georg Olms Verlag, Hildesheim-New York, 1974.

 

[29] C. SCHMITT, Cattolicesimo romano e forma politica, il Mulino, Bologna, 2010,  51 ss., 17 ss. e passim.

 

[30] Ibid., 59 s.

 

[31] C. SCHMITT, Teologia politica, in Saggi di teoria politica a cura di G. Miglio e P. Schiera, il Mulino, Bologna1990, 61.

 

[32] C. SCHMITT, I tre tipi di pensiero giuridico, in   Id., op. ult. cit., 264. 

 

[33] Per esempio: «la chiesa cattolica è ad un tempo moderna e antimoderna. (…) Mai che la modernità metta in discussione il dogma» (così R. MOROZZO DELLA ROCCA, Un presente eterno tra passato e futuro, in L’osservatore romano, 3 ottobre 2009).

 

[34] A. PROSPERI, Tribunali della coscienza. Inquisitori, confessori, missionari, Einaudi, Torino, 1996.

 

[35] D’uopo ricordare qui le ricerche dello Studioso, al quale questo scritto è dedicato: R. BERTOLINO, L’obiezione di coscienza moderna. Per una fondazione costituzionale del diritto di obiezione, Giappichelli, Torino, 1994.

 

[36] Così sviluppa il pensiero leibnitziano G. TEUBNER, La cultura del diritto nell’epoca della globalizzazione. L’emergere delle costituzioni civili, Armando, Roma, 2005, 103 s.

 

[37] Cfr. G. ZAGREBELSKY, Il diritto mite. Legge diritti giustizia, Einaudi, Torino, 1992, pp. 13 ss., e, sulle conseguenze interpretative in termini di “composizioni e bilanciamenti” ID., La legge e la sua giustizia. Tre capitoli di giustizia costituzionale, il Mulino, Bologna, 2008, 281 ss.

 

[38] J. CHIFFOLEAU, La Chiesa, il segreto e l’obbedienza. La costruzione del soggetto politico nel medioevo, il Mulino, Bologna, 2010, 11.

 

[39] J. RAWLS, Una teoria della giustizia, Feltrinelli, Milano, 1991, 299.

 

[40] C.R. SUNSTEIN, A cosa servono le Costituzioni. Dissenso politico e democrazia deliberativa, il Mulino, Bologna, 2009, 65.

 

[41] H. HAMILTON, The federalist no. 70, in A. HAMILTON, J. MADISON and J. JAY, The Federalist Papers (1787-1788), Bantam Dell, New York, 2003, 430, secondo cui «The differences of opinion (…) often promote deliberation and circumspection; and serve to check excesses in the majority».

 

[42] Le citazioni sono tratte dall’antologia On Religious Liberty, Selections from the Works of Roger Williams, edited and with an Introduction by J.C. DAVIS, The Bleknap press of Harvard University press, Cambridge, Massachusetts, 2008, 210, 128 ss. Nell’ultima citazione Williams fa ricorso ad un passo biblico (I Cor. 7), paragonando il magistrato e la società civile ad un marito e ad una moglie, rispettivamente «believing Christian» e «unbelieving Antichristian». La vita di questo strenuo campione della libertà di coscienza si presta ad essere romanzata, come ha fatto M. LEE SETTLE, I, Roger Williams. A fragment of Autobiography, W.W. Norton & Company, New York, 2001.

 

[43] Cfr. M.A. JONES, Storia degli Stati Uniti d’America. Dalle prime colonie inglesi ai giorni nostri, Bompiani, Milano, 2009, 13 ss.

 

[44] «Our patchwork heritage is a strenght, non a weakness. We are a nation of Christians and Muslims, Jews and Hindus – and non-believers (…) Indeed, over the course of our history, religion has flourished within our borders precisely because Americans have had the right to worship as they choose – including the right to believe in no religion at all»: il testo integrale del discorso pronunciato il 13 agosto 2010 da B. OBAMA può leggersi in http://voices.washingtonpost.com/44/2010/08/obama-remarks-about-ground-ze.html.

 

[45] Cantwell v. Connecticut, 310 U.S. 296 (1940): garantire lo sviluppo indisturbato e senza ostacoli di diversi stili di vita, caratteri, convinzioni e fedi in una società composta di molte etnie e molti credi («many types of life, character, opinion and belief can develop unmolested and unobstructed (…) for a people composed of many races and of many creeds»).

 

[46] Corte cost. 18 ottobre 1995, n. 440.