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Condorelli-fotoOrazio Condorelli

Università di Catania

 

Le radici storiche del dualismo cristiano nella tradizione dottrinale cattolica: alcuni aspetti ed esempi*

 

 

SOMMARIO: 1. I principî del Concilio Vaticano ii in materia di relazioni tra Chiesa, realtà temporali e società politica: riproposizione del tradizionale dualismo cristiano. Successive pronunce del magistero ecclesiastico. – 2. Il dualismo cristiano: radici scritturistiche e tradizione ecclesiastica. Le interferenze di occasionali deviazioni “ierocratiche”. La “ratio peccati” come fondamento della “potestas ecclesiae in temporalibus. – 3. Riflessi del dualismo nella civiltà giuridica europea. “Utrumque ius”. Concezione del potere quale “ministerium”. Connessione tra morale e diritto: l’obbligatorietà della legge giusta in coscienza.

 

 

1. – I principî del Concilio Vaticano ii in materia di relazioni tra Chiesa, realtà temporali e società politica: riproposizione del tradizionale dualismo cristiano. Successive pronunce del magistero ecclesiastico

 

È opportuno richiamare in modo schematico i principî del Concilio Vaticano ii relativi alle relazioni tra Chiesa, realtà temporali e società politica. Alcune importanti affermazioni sono significativamente raccolte nella costituzione dogmatica de Ecclesia, nel contesto relativo alla natura e alla missione dei laici e alla loro partecipazione al servizio regale. Appartiene alla vocazione dei laici la ricerca del regno di Dio attraverso le cose temporali e la ordinazione delle stesse secondo Dio[1]. È loro compito, attraverso opere propriamente secolari, fare in modo che il mondo possa essere pervaso dallo Spirito di Cristo e raggiungere «più efficacemente il suo fine nella giustizia, nella carità e nella pace»[2]. Ai fedeli, in quanto membri della Chiesa e in quanto membri della società umana, competono distinti diritti e doveri. È compito dei fedeli cercare di armonizzarli alla luce della coscienza cristiana, «poiché nessuna attività umana, neanche nelle cose temporali, può essere sottratta al dominio di Dio»: una fondamentale distinctio, dunque, è chiamata a risolversi in harmonia[3].

La concezione dualistica emergente dalla cost. Lumen Gentium è ribadita e resa esplicita nella cost. Gaudium et spes sulla Chiesa nel mondo contemporaneo. Qui si parla della «giusta autonomia delle realtà terrene»: tale autonomia è giusta, e perciò conforme alla volontà del Dio Creatore, in quanto si voglia dire «che le cose create e le stesse società hanno leggi e valori propri, che l’uomo gradatamente deve scoprire, usare e ordinare»; è rigettata come apertamente falsa un’idea di autonomia secondo la quale «le cose create non dipendono da Dio e (...) l’uomo può adoperarle senza riferirle al Creatore»[4]. Su queste premesse «il Concilio esorta i cristiani, cittadini dell’una e dell’altra città, di sforzarsi di compiere fedelmente i propri doveri terreni, facendosi guidare dallo spirito del Vangelo»[5]. Compete dunque alla coscienza adeguatamente formata dei cristiani «di inscrivere la legge divina nella vita della città terrena»; in questo quadro è compito peculiare dei laici quello di animare il mondo con lo spirito cristiano[6].

Nella sezione della Gaudium et spes dedicata alla vita della comunità politica, il Concilio afferma chiaramente che la comunità politica e l’autorità pubblica si fondano sulla natura umana e sull’ordine della creazione divina. Da un lato è messo in evidenza il carattere pluralistico della comunità politica, che comporta la legittimità delle diverse opzioni temporali; dall’altro è affermata l’esigenza che l’esercizio dell’autorità politica sia svolto nell’ambito dell’ordine morale[7].

Nel quadro di queste premesse si colloca e si spiega il celebre passo conciliare che definisce la reciproca la posizione della Chiesa e della comunità politica[8]. Tre principî sono condensati nello spazio di poche righe. Il primo consiste nella indipendenza ed autonomia della Chiesa e della comunità politica ciascuna nel proprio campo, cioè nell’ordine spirituale e in quello temporale. Il secondo è quello della centralità della persona umana: Chiesa e comunità politica, sia pure a diverso titolo, sono entrambe al servizio della “vocazione personale e sociale” degli uomini. Il terzo attiene alla reciproca “sana collaborazione” che è opportuno coltivare al fine di svolgere più efficacemente tale servizio. Le modalità di tale collaborazione sono comprensibilmente lasciate aperte in considerazione delle circostanze dei tempi e dei luoghi. Al riguardo si può dire che appare implicitamente ammesso che tale collaborazione possa assumere una forma “pattizia” o “concordataria”, che la storia mostra essere stata effettivamente adottata in diverse circostanze; ma non sembra possa escludersi che anche nei regimi di tipo “separatistico” la missione della Chiesa possa aver modo di esplicarsi conformemente alle esigenze dei tempi e dei luoghi. Ma, indipendentemente dal modo in cui lo Stato decida di rapportarsi con la Chiesa, questa ha il diritto originario di adempiere la propria missione, affidata da Cristo, con vera libertà. Tale missione esige che la Chiesa possa e debba «dare il proprio giudizio morale, anche su cose che riguardano l’ordine politico, quando ciò sia richiesto dai diritti fondamentali della persona e dalla salvezza delle anime». L’imitazione di Cristo e degli Apostoli è quanto il Concilio indica alla Chiesa: le modalità di esercizio di questo diritto e dovere della Chiesa devono conformarsi al Vangelo e indirizzarsi al bene di tutti. La libertà religiosa indubbiamente rappresenta una condizione essenziale per l’esercizio della missione della Chiesa: in questo senso essa rileva come libertas Ecclesiae. Nella dichiarazione Dignitatis humanae la libertà religiosa è anche rivendicata come un diritto fondato sulla stessa natura della persona umana, che come tale compete tanto ai singoli uomini come alle istituzioni (confessioni) in cui essi sono riuniti[9].

Dall’intreccio di questi principî discende che la posizione del fedele laico è qualificata dal diritto di libertà religiosa nel quadro della società civile, e dal diritto di libertà nelle materie temporali nel contesto della società ecclesiastica. Quest’ultimo, come è noto, è stato formalizzato nel can. 227 del Codex iuris canonici del 1983.

È sulla base di questi principî che il più recente magistero ecclesiastico inquadra il concetto di laicità per come essa è concepita dalla dottrina cattolica. Intesa come «autonomia della sfera civile e politica da quella religiosa ed ecclesiastica, ma non da quella morale», la laicità costituisce un «valore acquisito e riconosciuto dalla Chiesa» e appartenente «al patrimonio di civiltà che è stato raggiunto»[10]. Per riprendere parole recentemente adoperate da Benedetto xvi, si tratta di una «laicità sana»[11]. Tale locuzione lascerebbe intendere, per converso, che agli occhi del Pontefice esisterebbe anche una laicità “non sana”. Ma questo termine non è usato: piuttosto, mi sembra di capire che agli occhi di Benedetto xvi la laicità, in sé, per la sua rispondenza alle dottrine conciliari enunciate, sia sempre una cosa “sana”, diversamente da quella “degenerazione” della laicità che è il “laicismo”[12]. Secondo la denuncia di Benedetto xvi, infatti, «oggi la laicità viene comunemente intesa come esclusione della religione dai vari ambiti della società e come suo confino nell’ambito della coscienza individuale». La deprecata conseguenza di tale concezione è che «la laicità si esprimerebbe nella totale separazione tra lo Stato e la Chiesa, non avendo quest’ultima titolo alcuno ad intervenire su tematiche relative alla vita e al comportamento dei cittadini». Una «sana laicità», invece, «comporta che lo Stato non consideri la religione come un semplice sentimento individuale, che si potrebbe confinare al solo ambito privato», ed esige che su tale presupposto lo Stato garantisca alla Chiesa una «presenza comunitaria pubblica». In sostanza, la “sana laicità” implica che le autorità pubbliche pongano in essere le condizioni (prima fra tutte la libertà) affinché la Chiesa possa esplicare la sua missione, avendo essa «il dovere di proclamare con fermezza la verità sull’uomo e sul suo destino»[13].

Nel magistero di Benedetto xvi questi insegnamenti trovano peculiari sviluppi nell’enciclica Deus caritas est (2005), nel contesto in cui si tratta della «relazione tra il necessario impegno per la giustizia e il servizio della carità»[14]. Gli insegnamenti tradizionali sono riproposti in modo netto e incisivo: «Alla struttura fondamentale del cristianesimo appartiene la distinzione tra ciò che è di Cesare e ciò che è di Dio (cfr Mt 22.21), cioè la distinzione tra Stato e Chiesa o, come dice il Concilio Vaticano ii, l’autonomia delle realtà temporali». Non di meno, «le due sfere sono distinte, ma sempre in relazione reciproca». È vero che la realizzazione della giustizia nella società civile e nello Stato rimane «compito centrale della politica», ma è nell’espletamento di questo compito che fede e politica possono incontrarsi e cooperare per il fine di costruire «un giusto ordinamento sociale e statale, mediante il quale a ciascuno venga dato ciò che gli spetta». Il Pontefice vede nella fede una «forza purificatrice» della ragione quando questa sia accecata «dal prevalere dell’interesse e del potere». È alla convergenza tra fede e ragione che si colloca la dottrina sociale della Chiesa: «essa non vuole conferire alla Chiesa un potere sullo Stato. Neppure vuole imporre a coloro che non condividono la fede prospettive e modi di comportamento che appartengono a questa. Vuole semplicemente contribuire alla purificazione della ragione e recare il proprio aiuto per far sì che ciò che è giusto possa, qui ed ora, essere riconosciuto e poi anche realizzato». Sulla scia e nell’approfondimento del magistero conciliare, dunque, Benedetto xvi afferma che la dottrina sociale della Chiesa «vuole servire la formazione della coscienza nella politica e contribuire affinché cresca la percezione delle vere esigenze della giustizia e, insieme, la disponibilità ad agire in base ad esse».

 

 

2. – Il dualismo cristiano: radici scritturistiche e tradizione ecclesiastica. Le interferenze di occasionali deviazioni “ierocratiche”. La “ratio peccati” come fondamento della “potestas ecclesiae in temporalibus

 

Il Concilio Vaticano ii e il magistero ecclesiastico che lo prosegue hanno così riaffermato e riproposto una concezione dualistica che appartiene alla tradizione autentica della Chiesa cattolica. Le radici di questa concezione stanno nella parola di Cristo, che «riconobbe la potestà civile e i suoi diritti, comandando di versare il tributo a Cesare, ammonì però chiaramente di rispettare i superiori diritti di Dio: ‘Rendete a Cesare quello che è di Cesare, e a Dio quello che è di Dio’» (Mt 22.21)[15]. La stessa via – ricorda il Concilio – è stata seguita dagli Apostoli, e sulla loro scia dai vescovi, come pure da innumerevoli martiri e fedeli nel corso della storia e in tutta la terra[16]. Seguendo l’insegnamento del Maestro gli Apostoli hanno riconosciuto la legittimità dell’autorità politica, e comandato l’obbedienza al potere civile: le parole di San Paolo nella Lettera ai Romani sono note e inequivocabili (Rm 13.1-7). Ma nello stesso tempo gli Apostoli hanno avuto chiara consapevolezza che nel conflitto tra autorità umana e volontà di Dio la seconda deve prevalere (At 5.29).

Non a torto si è soliti definire tale concezione, che è propria della tradizione cattolica, come dualismo gelasiano, dal pensiero di papa Gelasio i condensato in una lettera indirizzata all’imperatore d’Oriente, Anastasio, nel 494. L’auctoritas sacra pontificum e la regalis potestas sono qui concepite come i due pilastri sui quali si regge in mondo terreno[17]. Nel de anathematis vinculo lo stesso Pontefice chiarisce che l’una è ordinata alla promozione del bene spirituale dei cives/fideles (pro aeterna vita), l’altra è diretta alla promozione del bene comune terreno degli stessi (pro temporalium cursu rerum). Gelasio precisa inoltre che all’origine delle dignitates distinctae e della distinzione (discretio) dei relativi officia sta la volontà del Salvatore: dopo la venuta di Cristo, vero rex e sacerdos, nessun imperatore si è attribuito anche la carica di pontifex, né alcun pontefice ha rivendicato per sé la dignità regale[18]. Non è data la possibilità, in questa sede, di approfondire il contesto storico in cui Gelasio I professò tali dottrine. Occorre piuttosto ricordare che l’epistola gelasiana, attraverso le collezioni canoniche altomedievali pervenne infine nel Decretum di Graziano, e da qui fu consegnata all’interpretazione della scienza giuridica medievale (D. 96 c. 10)[19]. Nel pensiero giuridico, come nella dottrina ecclesiologica che lo accompagna e lo sostiene, il principio delle dignitates e potestates distinctae si collega con l’idea di una societas christiana concepita come una realtà dotata di corpo e anima, alla quale presiedono rispettivamente il regnum e il sacerdotium.

L’identità dei soggetti appartenenti all’una e all’altra dimensione (i cives sono anche fideles), si coniuga con l’unicità del Corpus Ecclesiae, come pure con l’idea della prevalenza dello spirito sulla carne. È evidente, dunque, che l’idea dualistica è e rimane un’idea profondamente problematica: la teorica distinzione dei campi d’azione di regnum e sacerdotium non esclude che nella vita degli uomini e nella storia possano crearsi plurime occasioni di conflitto. La possibilità del conflitto, da un lato, appare strutturale e coessenziale alla stessa concezione dualistica, basata su un principio di concorrenza di ordini e di potestà. Per altro verso le tensioni si presentano spesso come conflitti politici tra i titolari delle potestà ecclesiastica e civile (papi, imperatori, re e signori secolari). Tutto ciò finisce per alimentare tendenze dottrinali che postulano una superiorità della potestà spirituale su quella temporale, tale che la prima diventi arbitra della stessa legittimità della seconda. Quando tale idea si salda con quella della Chiesa come mediatrice della stesso potere politico tra Dio e l’uomo e titolare di una potestas directa in temporalibus (una potestà ordinariamente affidata all’exercitium delle autorità civili), siamo in presenza di quelle teorie che si suole definire come ierocratiche. Non si può negare che tali teorie circolassero nel secondo medioevo, salvo a constatare che la storiografia è controversa nel qualificare l’una o l’altra voce come dualistica o ierocratica. Lo stesso linguaggio usato nelle fonti alimenta una diffusa ambiguità: anima e corpo, fulgore dell’oro od opacità del piombo[20], gladio spirituale e gladio materiale o temporale, il giorno e la notte, il sole e la luna. Può essere significativo ricordare il modo con cui Innocenzo III scriveva ad Alessio iv Angelo, imperatore costantinopolitano, nel 1201, in una lettera rifluita nelle Decretali di Gregorio ix[21]. Dio ha istituito duo luminaria magna, il sole e la luna, per presiedere al giorno e alla notte. Nella universalis ecclesia (cioè nel corpus Ecclesiae) essi sono rappresentati dalla pontificalis auctoritas e dalla regalis potestas, la prima deputata a presiedere al giorno, cioè alle cose dello spirito, la seconda deputata a presiedere alla notte, cioè alle cose della carne. Ma, come lo spirito è superiore alla carne, altrettanto la pontificalis auctoritas è maior della regalis potestas. Porre l’accento sul concetto di maioritas o di superiorità del sacerdotium sul regnum (una superiorità, peraltro, che attiene alle cose spirituali), trascurando altri aspetti altrettanto significativi, non significherebbe fare un buon servizio agli uomini e alle idee, in definitiva alla storia. Per rimanere sulla metafora del sole e della luna, osserviamo che nella teologia politica di Innocenzo iii essa è più volte adoperata, accanto a quella dei duo gladii, per rappresentare il concetto della necessaria cooperazione tra il sacerdotium e il regnum in un ordine cosmico stabilito dalla deliberazione divina: «ad designandam unitatis concordiam et concordie unitatem que inter regnum et sacerdotium esse debet»[22]. Una concordia, dunque, può e deve stabilirsi tra realtà in sé diverse e distinte, ma chiamate a collaborare per il bene del populus christianus. L’amicizia” e la vicendevole coesione di sacerdotium e imperium sono garanzia di un ordine portatore di giustizia e di bene per le anime[23].

Nelle parole di Innocenzo iii risuonano temi ricorrenti nella cultura teologico-giuridica medievale. Da un lato è riproposta la dottrina dualistica che la tradizione ecclesiastica risalente a Gelasio aveva trasmesso lungo i secoli. Dall’altro, con un cambiamento terminologico non sostanziale, è ripresentata una teoria che l’imperatore Giustiniano aveva enunciato nella Novella vi, testo che i giuristi medievali leggevano all’interno del Corpus iuris civilis. La concordia unitatis di Innocenzo iii equivale alla consonantia (συμφωνία) quaedam bona tra sacerdotium e imperium di cui aveva parlato Giustiniano. Sorgenti ex uno eodemque principio, cioè da Dio stesso, il sacerdotium e l’imperium sono doni elargiti dalla divina clemenza, istituzioni chiamate a presiedere rispettivamente alle cose divine e a quelle umane. La loro consonantia è generatrice di tutto ciò che è utile al genere umano[24]. Per Innocenzo iii papa come per Giustiniano i imperatore, tali affermazioni rappresentano la constatazione di un dato della realtà creata e, a un tempo, la proclamazione di un ideale da perseguire nell’azione.

Quando i giuristi e i teologi si confrontano con questi temi e con le accennate metafore, ne scaturiscono dottrine problematiche e in certa misura ambigue. Altrettanto problematica è l’interpretazione di talune figure storiche, come quelle di Gregorio vii o di Bonifacio viii: non a caso due figure coinvolte in acerrimi conflitti con le autorità politiche dei rispettivi tempi, l’imperatore Enrico iv di Svevia e il re di Francia Filippo il Bello. Quando la pacifica cooperazione si tramuta in ostilità e conflitto politico, i toni divengono aspri. Dualisti o ierocratici, dunque? Non è questo il luogo per dare una risposta articolata a questo problema, sul quale, del resto, la storiografia tiene posizioni molto differenti. Personalmente credo che la dottrina più autentica sia rimasta saldamente legata al tronco della tradizione dualistica cristiana. Credo che sia possibile leggere in senso dualistico anche alcune affermazioni tradizionalmente interpretate come ierocratiche. Così, per esempio, l’interpretazione della bolla Unam Sanctam di Bonifacio viii[25], comunemente ritenuta l’apice del pensiero ierocratico medievale, può trarre luce da quanto eloquentemente lo stesso pontefice dichiarava in una allocuzione tenuta in un concistoro nel 1302. Il tradizionale tema dualistico è riproposto qui con tutta evidenza, e con la forza propria di una verità consolidata: «Quadraginta anni sunt quod nos sumus experti in iure, et scimus quod duae sunt potestates ordinatae a Deo. Quis ergo debet credere vel potest quod tanta fatuitas, tanta insipientia sit vel fuerit in capite nostro? Dicimus quod in nullo volumus usurpare iurisdictionem regis (...) Non potest negare rex seu quicunque alter fidelis, quin sit nobis subiectus ratione peccati»[26].

Siamo di fronte a uno dei corollari essenziali della concezione dualistica. In linea di principio, un teorico regolamento di confini impone – come afferma Accursio – che «nec papa in temporalibus, nec imperator in spiritualibus se debeant immiscere»[27]. E tuttavia si tratta di un equilibrio variabile e precario: in un intreccio che talvolta può apparire inestricabile, la materia temporale presenta risvolti spirituali o, da un’altra prospettiva, la dimensione spirituale è, in capo all’uomo, radicata nella dimensione temporale. Nell’interpretazione che si consolida a partire dal secolo xiii, ratione peccati la Chiesa ha titolo per esercitare una potestas indirecta in temporalibus. Verso la metà del Duecento il canonista Bernardo da Parma poteva dunque affermare che «indirecte, ratione peccati, omnes causae pertinent ad Ecclesiam»[28]. La norma che il glossatore allegava a sostegno di questo principio era la celebre decretale Novit ille di Innocenzo iii, riguardante una controversia in materia feudale intercorrente tra Giovanni senza Terra, re di Inghilterra, e Filippo ii Augusto, re di Francia. Sono notissime le parole con le quali Innocenzo iii giustificava il proprio intervento in una materia prettamente temporale. «Nessuno pensi – afferma il Pontefice – che noi intendiamo turbare o diminuire la giurisdizione dell’illustre re dei Francesi, dal momento che egli non vuole né deve impedire la nostra»: «non enim intendimus iudicare de feudo (...) sed decernere de peccato, cuius ad nos pertinet sine dubitatione censura, quam in quemlibet exercere possumus et debemus»[29]. La ratio peccati diviene dunque il cardine di una potestas indirecta in temporalibus, che la dottrina canonistica legata alla concezione dualistica non si stancherà di riproporre lungo i secoli. Alle soglie del concilio Vaticano II essa veniva prospettata come la più aderente al magistero autentico della Chiesa[30].

Nel magistero del Concilio Vaticano ii si nota un fecondo mutamento di prospettiva. La dottrina conciliare sui rapporti fra Chiesa e comunità politica non è elaborata sul filo della tensione fra poteri e della qualificazione giuridica delle modalità di intervento della Chiesa istituzione nella materia temporale: per quanto mi risulta, la locuzione potestas (iurisdictio) Ecclesiae in temporalibus non è usata dal Concilio. Piuttosto, il magisterio conciliare si muove sul piano delle condizioni di libertà religiosa che lo Stato non confessionale, pluralistico e democratico è tenuto a creare affinché la Chiesa (una fra le diverse confessioni religiose) possa efficacemente esplicare la sua missione, e affinché la persona/fedele possa animare il mondo con lo spirito cristiano, nel quadro della sua autonomia nelle materie temporali.

 

 

3. – Riflessi del dualismo nella civiltà giuridica europea. “Utrumque ius”. Concezione del potere quale “ministerium”. Connessione tra morale e diritto: l’obbligatorietà della legge giusta in coscienza

 

L’incidenza della concezione dualistica nella storia della civiltà occidentale si è svolta su molteplici campi. Desidero ricordare solo alcune implicazioni di tale modo di concepire i rapporti fra Chiesa e società politica.

 

3.1. Si è detto della ratio peccati. Essa fu il principale motore di una imponente produzione legislativa ecclesiastica in materia temporale, in parte incorporata all’interno del Corpus iuris canonici, in parte sparsa in una miriade di provvedimenti normativi prodotti dalla Sede Apostolica tra medioevo ed età moderna.

Nella lunga età di mezzo che corre tra il secolo xii e il xviii il diritto canonico si pone accanto al ius civile romano-giustinianeo come uno dei iura communia che compongono il complesso dell’utrumque ius. Alla base del felice incontro e della fusione sistematica di ius civile e ius canonicum sta una concezione realistica del diritto: la definizione di Celso riportata da Ulpiano – ius est ars boni et aequi[31] – si converte senza difficoltà nell’idea del diritto come ipsa res iusta, cioè come obiectum iustitiae, nella dottrina di Tommaso d’Aquino[32]. Nella rilettura cristiana del patrimonio giuridico romano-giustinianeo si assiste a una spontanea convergenza dei tria iuris praecepta honeste vivere, alterum non laedere, suum cuique tribuere[33] – con il precetto della carità, che Graziano richiama nell’esordio del suo Decretum[34].

La concorrenza dei due diritti tra loro e con i diritti degli ordinamenti locali e particolari ha connotato l’“età del diritto comune”, cioè il periodo storico che corre tra il rinascimento giuridico medievale e l’età delle codificazioni. Siamo di fronte a un fenomeno storico di portata grandiosa, che in vario modo ha contribuito alla formazione di un patrimonio giuridico comune al mondo occidentale, nel quale affondano le radici del nostro presente.

 

3.2. Da un diversa prospettiva, occorre soffermarsi brevemente sul modo in cui l’idea dualistica abbia inciso sulla concezione del potere politico, e chiedersi quale servizio essa abbia reso allo stesso potere politico. Il punto di partenza è costituito dalla dottrina paolina contenuta nella Lettera ai Romani, là dove l’Apostolo comanda il dovere di obbedienza ai governanti secolari: poiché non vi è potere che non provenga da Dio, chi governa gli uomini agisce come ministro di Dio (Rm 13.1-7). Questa idea finirà per permeare la concezione medievale della regalità, e costituire una delle convinzioni più a lungo persistenti nella storia del pensiero giuridico e politico europeo. Le fonti altomedievali presentano il potere regale come un ministerium: poiché esso si esercita all’interno di una societas che è il Corpus Ecclesiae, si tratta di un servizio propriamente reso alla Chiesa. Sin dagli albori del medioevo gli autori non cessano di ripetere che tale funzione deve essere svolta nel rispetto dell’ordine morale, che è ordine di giustizia. Isidoro da Siviglia, figura intellettuale che ebbe una straordinaria incidenza e autorevolezza nella tradizione del pensiero medievale, così si esprimeva: «reges a recte agendo vocati sunt, ideoque recte faciendo regis nomen tenetur, peccando amittitur»[35]. Questo tema rileva, come è facile intuire, tanto per la storia delle dottrine ecclesiologiche, quanto per la storia del diritto e dei concreti rapporti tra Chiesa e istituzioni secolari. Da questo punto di vista occorre sottolineare che siffatta concezione del ministerium regale si traduce inevitabilmente nell’esercizio di una potestas in Ecclesiam da parte del potere politico: un potere che la storia mostra non essersi limitato a regolare le materie lato sensu materiali della vita della Chiesa, ma anche quelle spirituali e propriamente dogmatiche.

Agli inizi del secondo millennio tali convinzioni sono ampiamente consolidate e pronte a tradursi in concreti assetti nel quadro dei nuovi contesti sociali e istituzionali.

È evidente che la tutela della Chiesa e delle istituzioni ecclesiastiche, che il sovrano assume sulla base di un ministerium ricevuto per grazia divina, si traduce in una penetrante attività di controllo e di disciplina sulla vita della Chiesa stessa. La pervasività e la potenziale espansività dell’intervento ecclesiastico ratione peccati – è nota l’affermazione di Cino da Pistoia: «Ecclesia sibi usurpavit ratione peccati totam iurisdictionem»[36] – generano una reazione difensiva degli ordinamenti secolari che culmina in età moderna. Per limitare lo sguardo agli Stati cattolici, sulla regalità di diritto divino si fonda un sistema di rapporti nel quale la funzione di proteggere la Chiesa di Stato si coniuga con la ricerca degli strumenti idonei ad arginare la giurisdizione ecclesiastica a tutela della sovranità statale. Si definiscono così le prerogative politiche in materia ecclesiastica – iura maiestatica circa sacra – che costituiscono il fulcro dei sistemi giurisdizionalistici o regalistici nel contesto dello stato confessionale moderno.

 

3.3. Ritorno, per concludere, al menzionato passo della costituzione Gaudium et Spes in cui si afferma che la comunità politica e l’autorità pubblica hanno un fondamento nella natura umana e nell’ordine della creazione[37]. In questo contesto il Concilio sottolinea che l’esercizio di tale autorità deve sempre svolgersi nel rispetto dell’ordine morale e che, quando così avviene, «i cittadini sono obbligati in coscienza ad obbedire». Il riferimento conciliare è a un notissimo passo paolino della Lettera ai Romani (13.5): «Necesse est subditos esse, non solum propter iram sed et propter conscientiam». Si tratta di una conseguenza di quanto San Paolo aveva poco prima affermato: poiché non vi è potestà che non provenga da Dio, i governanti sono ministri di Dio stesso. Intorno al passo paolino ruota la complessa problematica, teologica e giuridica, riguardante l’obbligatorietà della legge positiva umana in coscienza. L’attenzione della dottrina su questo tema si fece intensa almeno a partire dal secolo xiii. La questione trovò una impostazione classica e una soluzione autorevole nel pensiero di San Tommaso. L’Aquinate si chiede «utrum lex humana imponat homini necessitatem in foro conscientiae», e attraverso un articolato ragionamento dà una risposta affermativa[38]. La legge umana, che sia giusta, obbliga in coscienza.

La questione continuò a essere trattata nel corso dei secoli dalla scienza giuridica e soprattutto dalla teologia morale; le soluzioni rimasero saldamente ancorate al tronco dell’insegnamento di San Tommaso. Ai nostri giorni il dovere dei governanti di esercitare l’autorità pubblica nel rispetto dell’ordine morale, da un lato, e il dovere dei cittadini di seguire le prescrizioni giuste dell’autorità civile dall’altro, sono insegnamenti riproposti con nettezza all’attenzione del popolo dei fedeli anche attraverso il Catechismo della Chiesa Cattolica di Giovanni Paolo II (no 2234-2346). In modo netto e asciutto, e perciò probabilmente più efficace di tante altre dichiarazioni, questo testo presenta una testimonianza autentica di che cosa significhi la “laicità” secondo l’attuale magistero della Chiesa.

Alla radice di questi insegnamenti sta l’idea che diritto e morale sono dimensioni distinte ma necessariamente connesse; la medesima connessione che esiste, in capo alla persona umana, tra le qualità di civis e quella di fidelis. In modo particolarmente efficace questa consapevolezza è stata espressa dal grande teologo spagnolo Domingo de Soto, proprio nel quadro di una trattazione diretta a difendere il principio che ogni legge umana giusta obbliga in coscienza: «respublica civilis familia quoque Dei est»[39]. Sul piano della storia tale corrispondenza, ai due estremi, può presentarsi nella forma della Respublica christiana, oppure essere radicalmente negata. Nel mezzo si trovano molteplici forme storiche di convivenza tra Chiesa e comunità politica nelle quali si dà la possibilità che ordine temporale e ordine spirituale, sia pure distinti, possano trovare dei canali di comunicazione e di collaborazione nel rispetto delle esigenze della persona e delle istituzioni civili e religiose. Sul piano ecclesiologico la corrispondenza enunciata da Domingo de Soto si traduce e si invera nella perenne tensione escatologica che scaturisce dalla universalità della vocazione del Popolo di Dio e della missione della Chiesa. È quella tensione perenne che chiama la familia humana a divenire la familia (filiorum) Dei, che ripetutamente il Concilio Vaticano ii ha richiamato nella costituzione Gaudium et spes nel sottolineare quale sia la missione affidata alla Chiesa dal suo Fondatore[40].

 

 



 

[I contributi della sezione “Memorie” sono stati oggetto di valutazione da parte dei promotori e del Comitato scientifico del Colloquio internazionale, d’intesa con la direzione di Diritto @ Storia].

 

* [Colloquio internazionale La laicità nella costruzione dell’Europa. Dualità del potere e neutralità religiosa, svoltosi in Bari il 4-5 novembre 2010 per iniziativa della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Bari “Aldo Moro”, del Centre d’études internationales sur la romanité Université de La Rochelle e dell’Unità di ricerca “Giorgio La Pira” CNR – Università di Roma “La Sapienza”]

Una versione più ampia del testo, corredata degli opportuni orientamenti bibliografici, è stata pubblicata in Diritto e Religioni 12, anno VI n. 2 (2011), pp. 450-486.

 

[1] Cost. Lumen gentium, n. 31.

 

[2] Cost. Lumen gentium, n. 36.

 

[3] Cost. Lumen gentium, n. 36.

 

[4] Cost. Gaudium et spes, n. 36.

 

[5] Cost. Gaudium et spes, n. 43.

 

[6] Cost. Gaudium et spes, n. 43. Sull’argomento si veda anche la più recente Nota dottrinale circa alcune questioni riguardanti l’impegno e il comportamento dei cattolici nella vita politica, pubblicata dalla Congregazione per la Dottrina della Fede il 24 novembre 2002 (sul sito www.vatican.va): come esordisce nella sezione iniziale, essa intende richiamare alcuni principî che fanno parte di un «insegnamento costante». La nota, firmata dall’allora Prefetto Card. Ratzinger e dal Segretario Arciv. Bertone, fu approvata da Giovanni Paolo ii.

 

[7] Cost. Gaudium et spes, n. 74-75.

 

[8] Cost. Gaudium et spes, n. 76.

 

[9] Dich. Dignitatis humanae, n. 2.

 

[10] Così nella citata Nota dottrinale del 2002, n. 6: il corsivo è nella fonte.

 

[11] Benedetto xvi, Discorso ai partecipanti al LVI  Convegno Nazionale promosso dall’Unione Giuristi Cattolici Italiani sul tema «La laicità e le laicità» (9 dicembre 2006): si può leggere sul sito www.vatican.va. Ma già Pio xii aveva parlato di «legittima sana laicità dello Stato» nel Discorso Alla vostra filiale (indirizzato «Oriundis e Picena Provincia, Romae degentibus»), 23 marzo 1958: AAS 50 (1958) 220.

 

[12] Così Benedetto xvi nel citato Discorso.

 

[13] Benedetto xvi, ibidem.

 

[14] Lettera enciclica Deus caritas est del Sommo Pontefice Benedetto xvi ai vescovi ai presbiteri e ai diaconi alle persone consacrate e a tutti i fedeli laici sull’amore cristiano (25 dicembre 2005), n. 28. Tutte le citazioni nel testo sono tratte da questo numero: ho utilizzato la versione disponibile sul sito www.vatican.va.

 

[15] Dich. Dignitatis humanae, n. 11.

 

[16] Dich. Dignitatis humanae, n. 11.

 

[17] Epistola viii, ad Anastasium imperatorem: Patrologia latina (d’ora in poi PL), 59, col. 42.

 

[18] Gelasii Tomus de anathematis vinculo: PL 59, col. 109.

 

[19] È bene precisare che dell’epistola gelasiana i canonisti medievali leggono un frammento riportato all’interno di un canone grazianeo (D. 96 c. 10) tratto dalla lettera di Gregorio VII a Ermanno di Metz del 15 marzo 1081 (Reg. viii.21).

 

[20] La metafora del fulgore dell’oro paragonato con l’opacità del piombo è attribuita ad Ambrogio da Gregorio vii nella parte della lettera a Ermanno di Metz rifluita infine nel citato canone grazianeo (D. 96 c. 10).

 

[21] x.1.33.6, de maioritate et obedientia, c. Solitae.

 

[22] Innocenzo iii, Registrum super negotio Romani Imperii, n. 141 (1207): PL 216, col. 1140; anche in Friedrich Kempf (ed.), Regestum Innocentii papae super negotio Romani imperii (Miscellanea Historiae Pontificiae xii.21), Roma, Pontificia Università Gregoriana, 1947, 333.

 

[23] Ibidem: «que (cioè pontificalis auctoritas et regalis potestas), si concordi fuerint amicitia et amica concordia counite, profecto sol et luna in ordine suo stabunt».

 

[24] Nov. vi, Quomodo oporteat episcopos et reliquos clericos ad ordinationem deduci, et de expensis ecclesiarum (anno 535), praefatio.

 

[25] Corpus iuris canonici, Extravagantes Communes 1.8.1, de maioritate et obedientia, c. Unam sanctam (1302).

 

[26] Edizione in Pierre Dupuy, Histoire du différend d’entre le pape Boniface viii et Philippes le Bel Roy de France, Paris, S. et G. Cramoisy, 1655, Preuves, 77 s.

 

[27] Accursio, Apparatus in Auth. Coll. i tit. vi (= Novella vi), pr., v. conferens generi.

 

[28] Bernardo da Parma, Apparatus in X.2.2.11, de foro competenti, c. Ex tenore, v. in iustitia: «indirecte, ratione peccati, omnes causae pertinent ad Ecclesiam, ut supra titulo proximo Novit (X.2.1.13)».

 

[29] X.2.1.13, de iudiciis, c. Novit ille (1204). Tali affermazioni vanno lette in parallelo a quelle della decretale Per venerabilem dello stesso Innocenzo III [X.4.17.13, qui filii sint legitimi (1202)], nella quale rimane fermo il principio della distinzione delle competenze delle autorità temporali e spirituali, tuttavia si afferma che in casi eccezionali il papa esercita anche una giurisdizione nell’ambito temporale.

 

[30] Così, fra i tanti, Alaphridus Ottaviani, Institutiones iuris publici ecclesiastici, editio quarta emendata et aucta adiuvante prof. Iosepho Damizia, i-ii, Typis Polyglottis Vaticanis, 1958-1960, vol. ii, 137-139.

 

[31] D.1.1.1 pr., Ulpiano.

 

[32] Summa theologiae, iiª-iiae q. 57, art. 1, utrum ius sit obiectum iustitiae.

 

[33] D.1.1.10.1, Ulpiano.

 

[34] Dictum ante D. 1 c. 1.

 

[35] Sententiae iii.48.7 (PL 83, col. 719).

 

[36] Cino da Pistoia († 1336), Lectura Codicis, ad C. 1.3(6), de episcopis et clericis, Auth. “Clericus”: In Codicem... doctissima commentaria, Francoforti ad Moenum, impensis Sigismundi Feyerabendt, 1578; rist. anast. Roma, Il Cigno Galileo Galilei, 1998, fol. 18vb.

 

[37] Cost. Gaudium et spes, n. 74.

 

[38] Summa theologiae, ia-iiae q. 96, de potestate legis humanae, art. 4, utrum lex humana imponat homini necessitatem in foro conscientiae.

 

[39] De iustitia et iure, Lib. i, q. vi, art. iv, utrum lex humana imponat subditis necessitatem in foro conscientie [Fratris Dominici Soto Segobiensis, Theologi, ordinis Praedicatorum, Caesareae Maiestati a sacris confessionibus, Salmantini Professoris, De Iustitia et iure Libri decem, Salmanticae, excudebat Andreas a Portonariis, 1556; ristampa anastatica, con introduzione storica e teologico-giuridica di Venancio Diego Carro, O.P., versione spagnola di Marcelino González Ordóñez, O.P. (Instituto de Estudios Politicos, Sección de Teólogos Juristas, 1), Madrid 1967, 52a].

 

[40] Cost. Gaudium et spes, n. 31: Cristo «Apostolos (...) iussit praedicare omnibus gentibus nuntium evangelicum ut genus humanum familia Dei fieret, in qua plenitudo legis esset dilectio».