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Paolo Siniscalco

Professore emerito

Università di Roma “La Sapienza”

 

Le radici della laicità (I-V secolo d.C.)

 

 

Sommario: 1. Qualche osservazione terminologica. – 2. Cenni sulla nozione di 'laicità' e sulla sua storia. – 3. "Rendete a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio". – 4. La desacralizzazione delle politica. – 5. Il significato originario del termine ‘'laico’ e alcune testimonianze di scritti cristiani antichi. – 6. Lo spirito e la prassi della laicità messe alla prova. – 7. La nascita del 'laicismo'.

 

 

1. – Qualche osservazione terminologica

 

Una prima notazione di carattere linguistico: si sa che il termine ‘laico’, almeno nella lingua italiana, ha un alto grado di polisemia[1]. La variabilità dei suoi significati non solo per i contesti in cui si trova, ma anche per l’atteggiamento mentale e intellettuale di chi lo usa genera parecchie difficoltà e non stupisce dunque che qualcuno abbia proposto di non usarlo più. Un proposito impossibile tuttavia da realizzare. ‘Laico’, che può essere sostantivo o aggettivo, designa nel linguaggio ecclesiastico colui che non appartiene al clero né a un ordine o ad una congregazione religiosa; è un semplice battezzato, che vive nel mondo o che, è pur essendo all’interno di un ordine o di una congregazione, svolge mansioni umili, subalterno (è il ‘frate laico’, il ‘frate converso’). In secoli passati[2] forse perché l’istruzione era nella maggioranza dei casi prerogativa degli ecclesiastici, esso si associava all’idea di ‘illetterato’, di ‘ignorante’, di ‘rozzo’. In campo civile o secolare, ‘laico’ è chi non appartiene alla categoria professionale degli uomini di legge, più specificamente dell’ordine giudiziario e, per estensione, chi non ha il monopolio di un determinato sapere o attività specialistica, non ha insomma titoli sufficienti per entrare in una cerchia ristretta di competenti. E ancora ‘laico’ assume nel linguaggio attuale, anche se con minore frequenza, il senso più generico e privo di connotazioni polemiche, a ciò che nella società civile – che sia un’autorità, un’istituzione, una realtà secolare – si distingue in tutto e per tutto dal mondo ecclesiastico. ‘Laico’ è parola adoperata al giorno d’oggi molto frequentemente per indicare chi si ispira agli ideali e ai principi del laicismo, ossia a quel complesso di concezioni alle quali seguono atteggiamenti propri caratterizzati le une e gli altri dalla rivendicazione della piena e assoluta autonomia dei valori profani rispetto a quelli religiosi, in particolare quanto sono proposti da religioni positive. Ne deriva da una parte l’affermazione del pieno ed esclusivo esercizio della ragione come mezzo privilegiato e superiore, se non come unica fonte di conoscenza; d’altra parte il rifiuto di ogni intervento, giudicato alla stregua di illecita ingerenza delle autorità religiose nella vita politica, sociale etica, ecc. Ma il vocabolo ‘laico’ copre pure un’altra area per designare chi, consapevole dell’intrinseca dignità dei valori temporali, quali che siano: politici, civili, culturali – è specialmente impegnato a sostenerli e promuoverli, senza distinzione di campo ideologico o confessionale e pure senza prese di posizioni pregiudiziali. Dal termine ‘laico’ derivano, nella lingua italiana le parole ‘laicità’, ‘laicismo’, ‘laicato’, ‘laicalità’, quattro parole che hanno significati profondamente differenti. Noto che il termine ‘laicità’ è stato scelto quale titolo del nostro Colloquio[3]: e la cosa ha certamente un senso preciso. Quanto detto mostra la complessità del tema e la necessità di denunciare in modo chiaro il limite e l’area entro cui parlare di esso

 

 

2. – Cenni sulla nozione di 'laicità' e sulla sua storia

 

Proprio intorno alla nozione di ‘laicità’, vorrei sviluppare le mie osservazioni, non prima però di avere sgombrato il campo da tre difficoltà che potrebbero essere mosse al mio discorso. La prima. Sono ben consapevole che l’analisi terminologica (come quella ora appena abbozzata in relazione al termine) ‘laico’ è utile, ma certo non è sufficiente per cogliere fenomeni complessi e nozioni di ampio respiro come quelli qui affrontati. Occorrono altri strumenti e altre prospettive per comprenderli nella loro ricchezza e nella varietà delle loro espressioni quali si configurano oggi. La seconda. Senza alcun dubbio il termine ‘laico’, proprio perché ha subito una considerevole evoluzione semantica, non può essere avvicinato troppo rapidamente ai sostantivi ‘laicità’ e ‘laicismo’; ma è pur vero che essi derivano – già lo dicevo – dai sostantivi e dagli aggettivi conosciuti e usati nell’antichità classica e cristiana: e qualche ragione ci deve pure essere.

A prima vista un mutamento così radicale, storico e linguistico, tra l’uso cristiano antico e l’uso quale ormai da tempo è corrente (‘laico’ nel senso di ‘laicista’) sembra impossibile a certuni[4]. Per cercare di comprendere una tale metamorfosi sarebbe utile seguire le vicende del termine attraverso i secoli. Cosa che non è concessa nella presente circostanza. Ma pure qualche contributo al riguardo si può qui recare. La terza difficoltà che si prospetta risiede nel fatto che le parole ‘laicità’ e ‘laicismo’ (come del resto le parole ‘laicato’ o ‘laicalità’) sono d’epoca moderna. Altra volta ho avuto modo di riflettere sulla questione da un punto di vista storico[5]; altra volta ho studiato la semantica dei termini “laico e “laicità”[6].

In questa sede a me interessa mettere in luce i fondamenti di quella che definisco ‘laicità’, i quali, a mio giudizio si rintracciano già nei primi secoli della nostra èra.

Le discussioni alle quali oggi dà luogo il tema della ’laicità’ - ‘laicismo’ sono molto vive, e non di rado accese, e uno dei punti su cui vertono riguarda il fatto che non solo il termine, ma anche l’idea di laicità, e quanto consegue, non ha luogo nei primi secoli cristiani; essa è figlia dell’epoca moderna ed ha cominciato a manifestarsi con l’Illuminismo. Ma è poi vero che la modernità, compresa la laicità, nasce dai lumi del secolo XVII, come molti sostengono, oppure è vero che essa è frutto di una storia più lunga nella quale il cristianesimo ha avuto una parte importante sul piano del pensiero e delle istituzioni?

 

 

3. – "Rendete a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio"

 

È ben nota la domanda insidiosa posta dai discepoli dei farisei con gli erodiani a Gesù circa la liceità di pagare il tributo e la risposta di Gesù: «Rendete a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio». L’osservazione finale dell’evangelista Matteo non è meno significativa: «A queste parole» coloro che avevano interrogato Gesù «rimasero meravigliati, lo lasciarono e se ne andarono» (Mt 15-22). È questo il presupposto da cui ha origine quel nuovo dualismo che vede due comunità reciprocamente correlate, ma non identiche, di cui nessuna ha il carattere della totalità. La moderna idea di libertà è un legittimo prodotto dello spazio vitale cristiano. Non è solo questione di una frase evangelica. «È questione che in Occidente questa distinzione tra Cesare e Dio è stata istituzionalizzata in due realtà giuridiche e politiche. La distinzione tra sacro e profano, tra religione e politica c’è anche nell’Islam: quello che vi manca è una Chiesa e uno stato, cioè l’istituzionalizzazione di questa distinzione di due entità giuridiche e politiche»[7].

Ma consideriamo meglio la cosa. Le parole di Gesù manifestano un atteggiamento neutro, se non positivo verso l’autorità civile, su chi vi è sottoposto e quindi nei confronti dei diritti che essa esercita. D’altra parte pone con chiarezza la necessità di distinguere il “politico” dal “religioso”, senza con ciò supporre vi possa essere alcun contrasto tra l’uno e l’altro. Non vi è dubbio che l’indicazione costituisce una svolta nella storia del rapporto non solo tra le due sfere, ma nell’organizzarsi della società in funzione del rispetto dei diritti individuali. Essa mette in discussione i modelli politici che l’antichità aveva conosciuto, desacralizzando il potere dei sovrani terreni e depoliticizzando l’idea della “monarchia divina”. L’una operazione va di pari passo con l’altra, nella misura in cui l’idea dell’unico principio diventa modello assoluto dell’unico detentore di questo potere sulla terra. E’ famosa la citazione dell’Iliade[8] che Aristotele riprende a chiusa del XII libro della Metafisica[9] secondo cui «l’esistente non vuole essere mal governato: non è bene vi siano più signori; uno solo sia il signore»[10]. Per parte sua, la desacralizzazione dei poteri politici porta la conseguenza di relativizzarli ed apre la strada all’affermarsi di una novità mai fino a quel momento concepita. Si tratta in fondo della relazione che intercorre tra “anima” e “corpo”, tra “legge” e “spirito” «In un mondo da sempre permeato di commistione i cristiani chiedono la distinzione: affermano l’esigenza di un dominio riservato all’ingerenza di Cesare. È in tale dominio riservato che si radica la libertà religiosa, initium libertatis, dell’uomo moderno[11]». Ne consegue l’affermazione della coscienza individuale impegnata a discernere l’ambito che è a servizio della comunità, nel quale è necessaria l’obbedienza all’autorità costituita e, l’ambito che rappresenta la ‘faccia’ idolatrica e violenta del potere, cui bisogna resistere. Un esito che esige la distinzione, non la separazione e tanto meno l’identificazione tra le due sfere. Questa visione è riproposta costantemente durante i primi secoli della nostra èra, a prescindere dalle circostanze esterne, anche se si presentano sfavorevoli ai cristiani.

 

 

4. – La desacralizzazione delle politica

 

La desacralizzazione della politica è frutto dell’Occidente ed ha le proprie radici nel dualismo. Da ciò si tocca con mano la necessità di considerare la storia nel lungo periodo, anche per quanto riguarda le sorgenti della modernità di cui si è detto; di non ritenere l’Illuminismo come padre esclusivo di essa (del resto più propriamente sarebbe bene parlare di “età dei Lumi” - o di Illuminismi), nella consapevolezza che il XVIII è stato un punto certamente significativo, anche per la radicalità e la nettezza con cui ha proposto alcuni problemi, tra i quali quello dei diritti umani; punto culminante, da inserire non di meno in un cammino complesso e anche contraddittorio della nostra civiltà, cammino in cui il cristianesimo ha avuto un ruolo importante sul piano delle istituzioni e delle idee[12]. Là dove non si è sperimentata l’esperienza dualistica e dove, ieri come oggi, ha prevalso il monismo, l’individuo ha avuto grandi difficoltà ad affermare i propri diritti, la propria autonomia. Nell’esperienza dualistica le funzioni si sono distinte, se non separate, e ciò ha impedito ai sovrani terreni di collegare regalità e sacerdozio in una sola persona, di fondere cioè il massimo potere politico e civile con la massima potenza morale e religiosa. Non vi è dubbio, a parere mio, che questa è da considerare una innovazione epocale per il mondo antico e tardo-antico ed un elemento importante nella storia della cultura della società occidentale e che molto ha giovato per superare ogni teocrazia e ogni fondamentalismo[13]. In tal senso – e la testimonianza dei martiri antichi lo ha provato in modo chiaro – è stato posto in luce il principio dell’autonomia, della coscienza di fronte al potere imperante e di fronte alla cultura e alle tradizioni dominanti.

Facendo questo discorso non si vuole certamente rivendicare un diritto di primogenitura dell’una o dell’altra posizione ideale, si tratti della libertà religiosa o dei diritti umani. L’intento è ben diverso, ed è quello di cercare di scorgere, di fronte ai molti problemi che ancora oggi si parano dinnanzi a noi, punti di incontro, valutando errori e pregi del passato e di trovare insieme elaborazioni nuove per fare fronte a questioni che si propongono nuove e urgenti. Penso per esempio, alla laicità dello stato, dei modi con cui va rafforzata in società multietniche, multiculturali e multireligiose; penso alle questioni concernenti le religioni quali elementi che promuovono una identità etnica e culturale forte ed ai processi di contrapposizione che possono suscitare.

 

 

5. – Il significato originario del termine 'laico e alcune testimonianze di scritti cristiani antichi

 

Ma a questo punto è indispensabile dire da parte mia che cosa intendo per ‘laicità’, entro il quadro che ho delineato, (pur sapendo che la definizione che sto per dare non raccoglie il consenso di molti). Metodologicamente, mi pare corretto farlo esaminando il significato originario del termine ‘laico’ – quale aggettivo o sostantivo poco importa – così come era compreso nell’epoca cristiana più antica. Di primo acchito lo si è visto: con il termine ‘laico’ ci si riferiva a chi viveva nel mondo, al semplice battezzato, a chi insomma non rientrava nell’ordine sacerdotale. Ma se si volesse caratterizzare la sua condizione, in primo luogo si potrebbe dire che egli doveva impegnarsi appieno nelle opere del mondo, quindi le realtà di quella che è stata definita «la prima creazione nell’autonomia e nella consistenza che è loro propria, senza per questo trascurare l’opera di Dio, la quale anzi deve compiersi nella e tramite l’opera del mondo; egli era uomo per il quale le cose esistono». È chiaro che l’ispirazione che doveva guidare la sua vita dalla Rivelazione portata a compimento da Cristo, ma non meno dalla rivelazione di Dio che si manifesta incessantemente nella creazione.

Il tipo del laico cristiano è ben descritto in un’opera che risale, con ogni probabilità al II secolo d.C. o all’inizio del III. Mi riferisco all’Ad Diognetum. Diogneto aveva chiesto di sapere qualcosa sulla religione, sulla pietà, sulla theosébeia dei fedeli a Cristo. L’anonimo autore si induce a parlare del “mistero” cristiano descrivendo la situazione di fatto, paradossale e antinomica, dei cristiani nel mondo, la quale riflette appunto le opposte esigenze dell’incarnazione, dell’immanenza con quelle della trascendenza. Richiamo qui in breve un passo ben noto dell’Ad Diognetum[14], secondo cui i cristiani in nulla si distinguono dagli altri uomini né per le regioni in cui abitano, né per il linguaggio che usano, né per l’abito che portano. Abitando città greche o barbare, come a ciascuno di loro è capitato, seguono in tutto gli usi della società nel cibo e nel tenore consueto dell’esistenza, si sposano, generano figli, ubbidiscono alle leggi stabilite, eppure nella loro esistenza manifestano la condizione mirabile e affatto paradossale della loro politeía, ossia di una loro propria maniera di vivere. Essi infatti abitano nella patria che a ciascuno è toccata, ma da forestieri, prendono parte a tutto come cittadini, ma come stranieri, si sposano, ma non espongono i loro nati, partecipano di una stessa mensa, ma non dello stesso letto, adempiono i loro doveri di cittadini, osservando le leggi, pagano i tributi, ma con il loro modo di vivere sono oltre le leggi, amano tutti, ma da tutti sono perseguitati, sono poveri e arricchiscono molti, sono insultati e benedicono, vengono vilipesi, e onorano, operano il bene e vengono castigati come malfattori, castigati gioiscono come chi riceve la vita. I cristiani dunque sono nel mondo, non si isolano in un ghetto entro la società, partecipano alla sua vita, vi sono inseriti, pur operando un preciso discernimento che è loro dettato dal culto che rendono a Dio, dalle esigenze che la relazione stabilita tra Dio e loro comporta: essi seguono nella loro esistenza una tavola di valori che non è quella del saeculum, luogo di altri e abitudini e costumi. Per loro la sostanza delle cose, per dire così la loro verità interna esiste, non è un punto di partenza per una affermazione della sovranità di un Principio. Nelle parole dell’Ad Diognetum si scorge con tutta chiarezza, nella descrizione del loro comportamento nella società in cui sono inseriti una valenza nuova rispetto a quella corrente, la quale reca alla società stessa elementi comunemente e universalmente ritenuti positivi. È evidente che il discorso dell’Ad Diognetum prende a soggetto i cristiani comuni, coloro che oggi definiamo i ‘laici’, i christifideles e non certamente il clero (ma bisogna aggiungere che il termine ‘laico’ non appare nel testo citato).

 

 

6. – Lo spirito e la prassi della laicità messe alla prova

 

Per tornare al tema che è oggetto della mia attenzione, scelgo, per rispondere alla domanda in quali forme la “laicità” di cui vado parlando si sia manifestata, uno scritto dei primissimi secoli della nostra èra, Ad Diognetum che, con ogni probabilità, risale alla fine del II secolo d.C. Si tratta di un breve trattato rivolto a un personaggio eminente dell’etablishment greco, di cui, nonostante le molte ipotesi, non si è potuto individuare il nome; così come neppure si è potuto stabilire lo scrittore cristiano che lo ha composto.

Lo sconosciuto scrittore che si rivolge a Diogneto, può così affermare che i cristiani sono nel mondo ciò che l’anima è nel corpo, l’anima è sparsa in tutte le membra del corpo come loro lo sono in tutte le città del mondo; come l’anima abita nel corpo, ma non è del corpo, così loro abitano nel mondo, ma non sono del mondo: donde il paradosso della loro situazione[15], della loro “duplice cittadinanza”, che non comporta alcuna ambiguità, come talvolta si pensa[16]. Il che significa che il loro comportamento deve essere esemplare, ma non confessionale, in quanto uomini e cittadini, non protesi a clericalizzare il mondo, ma a salvarlo dal male[17]. Ha scritto H.-I. Marrou[18] nel suo commento all’Ad Diognetum: «Il radicale distacco del cristiano dalla sua patria terrena non è, come quello del cinico, fatto di indifferenza: anche se in ogni patria si considerano ospiti di passaggio, i cristiani tuttavia adempiono in essa i loro doveri di cittadini, assumendone tutti gli oneri». La parola decisiva (...) è: “Ubbidiscono alle leggi stabilite, ma con il loro modo di vivere sono oltre le leggi”[19]. Di questa superiorità morale l’autore [antico] cita vari casi concreti: “rendono bene per male”[20], “amano quelli che li odiano”[21]; si oppongono con il loro esempio alla corruzione generale[22]. I cristiani insomma, al di là della sfera soprannaturale, hanno apportato alla civiltà e alla città in cui si sono trovati inseriti un contributo nel vivere sociale[23]. Questo vuole significare l’aforisma del nostro testo, ove si legge: «Ciò che è l’anima nel corpo, questo sono i cristiani nel mondo». Questa la laicità a cui mi riferisco, che perciò ritengo essere stata concepita, vissuta e, prima ancora, resa possibile dal dualismo tra i poteri, introdotto fin dall’alba della nostra èra.

Se si vuole portare il discorso dal piano civile e quello più strettamente “politico” si può invocare – tra le molte – un’altra testimonianza, quella di Tertulliano. Nel suo Apologeticum, scritto alla fine del II secolo d.C., a proposito del culto da rendere all’imperatore, si legge: «Negli imperatori noi (cristiani) rispettiamo il giudizio di Dio che li messia a capo delle genti. Sappiamo che essi rappresentano l’autorità che Dio ha voluto e perciò vogliamo che sia salvato ciò che Dio ha voluto (…). Non chiamerò Dio l’imperatore sia perché non so mentire, sia perché non oso deriderlo, sia perché neppure lui vuole essere chiamato dio. Se è un uomo, è suo interesse sottomettersi a Dio; gli basti essere chiamato imperatore. Già questo nome è grande, essendo concesso da Dio. Chi lo chiama Dio nega che egli sia imperatore, perché se non fosse uomo, non sarebbe imperatore (…). Il mio signore è uno solo, Dio onnipotente, eterno, lo stesso che è anche per lui»[24]. Non stupisce quindi che l’autore antico riconosca il dovere di pregare per l’autorità, di rivolgersi a Dio per l’imperatore, perché gli conceda una vita lunga, un regno tranquillo, un palazzo sicuro, un senato fedele, un popolo leale. Ma nello stesso tempo afferma di non volere e di non potere considerare il sovrano come fosse un Dio, per il motivo che è un uomo, il cui potere gli deriva dall’alto[25]. È questo un altro esempio che dimostra l’attenzione con cui i cristiani non si sottraggono dai doveri di tutti i cittadini verso l’autorità, ma li interpretino secondo la loro credenza, tiene a distinguere la sfera del divino da quella dell’umano, o, se si vuole, l’ambito religioso da quello politico.

Sia l’Ad Diognetum che Tertulliano dimostrano quale sia uno spirito ‘laico’ e quindi – pur sapendo che il termine nasca molti secoli dopo – quale sia la ‘laicità cristiana’. ‘Laicità’ che è secolarità, responsabilità verso il mondo e le realtà terrestri, che propone quale debba essere l’apporto dei cristiani alla vita civile, a cui partecipano come tutti, oppure, quale debba essere il rapporto tra il dominio politico e il dominio religioso capace di respingere ogni idolatria mondana e, in pari tempo, ogni irruzione delle credenze religiose che pretendano, senza le debite mediazioni, di dettare legge nel campo politico.

 

 

7. – La nascita del 'laicismo'

 

Senza dubbio occorre porre in luce che cammino storico della laicità cristiana ha conosciuto frequenti e durature “ricadute”, fin dal IV secolo d.C. Con la libertà concessa ai fedeli di Gesù e con la conversione al cristianesimo, gli imperatori si sono sentiti come in obbligo di costringere, anche con leggi, a seguire la nuova religione: la conseguenza è stata che l’esperienza dualistica è stata vanificata: o non è stata compresa o è stata tradita. Qui il discorso sarebbe lungo ed impegnativo e darebbe adito a discussione. Non lo si vuole aprire.

Dunque lo spirito e la prassi di laicità, di cui si è detto, alla prova della storia, hanno fallito molto presto.

Basti pensare – se ne è fatto un breve cenno in precedenza – al corso che nel IV secolo e poi nei successivi, hanno avuto i rapporti tra l’Impero romano e la Chiesa. Qui, in una visione storica che ritengo necessaria e corretta non voglio né accusare né giustificare l’accaduto, ma cercare di comprenderne gli svolgimenti. Del resto bisogna distinguere il piano delle vicende storiche dal piano dei principi, la dottrina dalla prassi. Inoltre occorre sapere individuare il soggetto storico, costituito dai cristiani, in primo luogo i clerici e poi i “laici” ai quali si possono addebitare gli errori o le mancanze del passato (e del presente ) sull’esercizio concreto della laicità dalle ispirazioni della “Grande Chiesa”. Dal cosiddetto Editto di Milano del 313 con cui Costantino e Licinio concedono ai cristiani, come a tutti, la libertà di seguire la religione che ciascuno sceglie – dichiarazione di straordinaria importanza per ieri e per oggi – all’Editto di Teodosio del 380, che ingiunge di professare la religione di Pietro apostolo e di Damaso papa, si assiste a un mutamento radicale di situazione; ci si trova dinnanzi a due eventi di opposta natura. Nell’uno e nell’altro certamente sembrano stati preponderanti i motivi politici che li hanno ispirati. Il primo rompe con la tradizione religiosa romana, il secondo, pur in una cornice in parte almeno cristiana, paradossalmente riconferma quella medesima tradizione, ma a parti invertite. La distinzione tra imperium e sacerdotium rimane salda, mentre si apre una strada irta di ostacoli per un’armonica convivenza tra i due poteri. Le due entità hanno compiti differenti, che tuttavia dovrebbero confluire nel promuovere il bene dell’uomo. Insomma, fin dal IV secolo «si delineano due tentazioni reciproche: da parte dell’Impero servirsi della Chiesa come instrumentum regni; da parte di uomini di Chiesa servirsi dell’Impero come intrumentum salvationis (e quindi potentiae). La dialettica tra i due poteri è ormai iscritta nella logica e delle cose»[26]. Troppe volte lungo i secoli passati, il principio e la pratica della laicità sono stati magari invocati, ma effettivamente non realizzate nel concreto della vita civile sia da parte del potere politico che da parte del potere ecclesiastico. Tuttavia il rapporto tra lo spirituale e il temporale e il principio del dualismo, talvolta scopertamente e talvolta dalla nascostamente, quali vene carsiche a causa di situazioni storiche sempre cangianti, hanno attraversato la storia dell’Occidente e se oggi le problematiche cui danno luogo sono di tanta attualità e suscitano differenti analisi e interpretazioni è perché esso ha avuto radici lontane e ben salde.

Un’osservazione, prima di concludere, vorrei sottoporre all’attenzione di chi mi ascolta. Occorre dire che il “regime di cristianità”, che ha avuto in Occidente lunga vita, dal venire meno dell’Impero romano fino all’avvento del mondo moderno, è stato caratterizzato da un’organizzazione di ogni aspetto della vita temporale sotto le regole sovrane della Chiesa; il che ha implicato una messa in tutela di tutte le realtà relative, in opposizione allo stesso principio di ‘laicità’ di cui si è detto. Il “regime di cristianità”, che ha trovato il proprio centro nell’organizzazione di ogni aspetto della vita temporale nel quadro della Chiesa e che ha implicato un “controllo” di tutte le realtà terrene, ha fatto sì che queste ultime non fossero sufficientemente considerate e sviluppate per se stesse. E proprio contro la confisca della verità interna delle cose si è ribellata gradualmente quella che usiamo definire la modernità; essa ha generato il laicismo, il quale ha voluto essere, in fondo, una ripresa dei diritti delle cause seconde, per giungere poi, nelle sue forme più radicali, a negare la Causa prima. Il ‘laicismo’ - ed è questa la convinzione che qui avanzo - nel suo nucleo primitivo si è riallacciato alle prime forme di ‘laicità’ avanti lettera, all’alba della nostra èra. Laicità intesa che, senza escludere la trascendenza si accontenta di volere che l’assoluto non assorba il relativo, fino a volatilizzarlo; essa domanda di credere alle cose, di rispettare la loro natura, le loro leggi, le loro esigenze[27]. Se l’opinione ora espressa è plausibile, si comprenderebbe il motivo per cui ‘laicità’ (un termine che indubbiamente nasce ed ha corso solo dall’epoca moderna) e ‘laicismo’ abbiano nel nostro linguaggio la medesima origine e non ci si deve più stupire che da un punto di vista storico, linguistico e semantico abbia potuto verificarsi una trasformazione del rispettivo significato tanto radicale da sembrare impossibile.

 

 

 



 

[I contributi della sezione “Memorie” sono stati oggetto di valutazione da parte dei promotori e del Comitato scientifico del Colloquio internazionale, d’intesa con la direzione di Diritto @ Storia].

 

[Testo della relazione svolta al Colloquio internazionale La laicità nella costruzione dell’Europa. Dualità del potere e neutralità religiosa, svoltosi in Bari il 4-5 novembre 2010 per iniziativa della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Bari “Aldo Moro”, del Centre d’études internationales sur la romanité Université de La Rochelle e dell’Unità di ricerca “Giorgio La Pira” CNR – Università di Roma “La Sapienza”]

 

[1] Cf. P. SINISCALCO, “Laikos-laicus : semantica dei termini”, in Lessico della laicità, a cura di G. Dalla Torre, Roma, Edizioni Studium, 2007, 13-22.

 

[2] A complicare la cosa, si è pure messo di mezzo il termine antico ‘loico’ che proviene da ‘logica’ e che quale sostantivo o aggettivo si riferisce ad un argomentazione dialettica, ad un ragionamento sofistico.

 

[3] Ho desunto i vari significati del termine “laico” dal Grande Dizionario della Lingua Italiana, curato da S. Battaglia e, dopo la sua scomparsa, dalla Redazionale lessicografica della Casa Editrice, sotto la direzione di G. Barbéri Squarotti, Torino, UTET, VIII, 698-699 e per “laicismo”, ibid., 697.

 

[4] Cf., per esempio, I. de la Potterie S.J., “Le concept de ‘laic’ dans les sources grecques et latines”, in Laicità tra diritto e religione da Roma a Costantinopoli a Mosca, a cura di P. Catalano e P. Siniscalco, “L’Erma” di Bretschneider, Roma 2009, 15-27 (17).

 

[5] Cf. P. SINISCALCO, Laici e laicità. Un profilo storico, Ave, Roma 1986.

 

[6] Cf. P. SINISCALCO, “Laikos”-“laicus”: semantica dei termini, in Lessico della laicità, a cura di G. Dalla Torre, Roma, Edizioni Studium, 2007, 13-22.

 

[7] V. Ferrari, “L’Illuminismo inconcepibile fuori della storia dell’Europa cristiana”, in Chiesa Cattolica e modernità. Atti del convegno della Fondazione Michele Pellegrino, a cura di F. Bolgiani, V. Ferrone, F. Margiotta Broglio, Università di Torino, 6 febbraio 2004, Bologna, Società Editrice il Mulino, 2004, 159-161 (159).

 

[8] Iliade II, 204 s.

 

[9] Aristotele, Metafisica L 10, 1076a, 3 ss.

 

[10] Con queste parole inizia il saggio di E. Peterson, Der Monotheismus als politisches Problem, München, Kösel Verlag, 1935.

 

[11] G. Lombardi, Persecuzioni, laicità, libertà religiosa. Dall’Editto di Milano alla “Dignitatis humanae”, Roma, Edizioni Studium, 1991, 13.

 

[12] Cf. P. Prodi, “Chiesa Cattolica e modernità: un problema ben anteriore all’Illuminismo”, in Chiesa Cattolica e modernità, cit., 135-147 (136 e 147).

 

[13] Cf. G. Miccoli, “Sulla inutilità della rivendicazione di certe primogeniture”, in Chiesa Cattolica e modernità, cit., 168-173 (169).

 

[14] Cf. Ad Diognetum 5,1 ss. Mi valgo per questa opera dell’edizione curata da H.-I. Marrou, per le Sources Chrétiennees 33 bis, Paris, Éditions du Cerf, 2005.

 

[15] Cf. ibid. 6,1-2, 64 dell’edizione italiana citata.

 

[16] Cf., tra l’altro, C. Vasale, “Laicità e politica”, in Lessico della laicità, cit., 81-99 (85).

 

[17] Cf. P. Vanzan, “I tre quesiti di una ricerca. Le tematiche biblico-teologiche e storico-evolutive del laicato”, in Il laicato nella Bibbia e nella  storia, a cura di P. Vanzan, Roma, Editrice Ave, 1987, 22 s.

 

[18] P.140 dell’edizione italiana, cit. 

 

[19] Ad Diognetum  5,10.

 

[20] Cf. ibidem 5,15

 

[21] Cf. ibidem 6,6.

 

[22] Cf. ibidem 6,5.

 

[23] Cf. H.-I. Marrou, ibidem, 173.

 

[24] Tertulliano, Apologeticum 32,1-3; 34,1.

 

[25] Cf. P. Siniscalco, Il cammino di Cristo nell’Impero romano, 3a ed., Roma-Bari, Laterza, 2009, 107.

 

[26] G. LOMBARDI,  op.cit., 136 s.

 

[27] Yves M.-J. Congar, Jalons pour une théologie du laïcat, Paris, les Éditions du Cerf, 1953, 43.