Testatina-DInnovazione2013

 

 

barroccu-piccolaLa prova scientifica nel processo penale *

 

GIOVANNI BARROCCU

Università di Sassari

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1. – Il contributo dell’evoluzione scientifica nel processo penale ha avuto un’intensità via via crescente negli anni. La ricerca di appigli sicuri che consentano una ricostruzione del fatto di reato in termini il più possibile certi ha condotto giuristi ed operatori del settore a cercare negli apporti tecnico-scientifici la soluzione alle obiettive difficoltà dell’accertamento processuale. Tuttavia, nell’analizzare gli strumenti per mezzo dei quali la prova scientifica penetra all’interno del tessuto processuale, pur riconoscendone i meriti e l’indubbia portata innovatrice, occorre adottare le dovute cautele: vale a dire seguire un approccio di “critica consapevolezza” nei confronti di qualsiasi mezzo di prova e, a fortiori, nei confronti di quegli strumenti che possono creare certezze illusorie in merito all’accertamento[1].

E’ necessario premettere che fra verità fattuale e verità processuale può esistere una profonda differenza. Certo i due concetti spesso coincidono bisogna però ricordare che il sistema delle invalidità processuali impone al giudice di porre alla base della propria decisione solo quegli elementi che, in un sistema garantistico, abbiano superato il vaglio normativo e, di contro, ancorché appaia evidente la portata decisiva di alcuni apporti probatori, che gli stessi non possano essere utilizzati in presenza di un divieto stabilito dalla legge.

Il fatto “positivo” non corrisponde necessariamente al fatto “processuale”, da intendersi come quella ricostruzione empirica che poggia le sue basi anche su regole di esclusione probatoria, talvolta contrarie ad un logico approccio euristico.

Occorre allora rivolgere uno sguardo a quali sono le regole processuali che disciplinano l’ingresso della prova tecnico-scientifica all’interno del processo penale e per identificare queste norme è indispensabile prendere le mosse dalla nozione stessa di prova scientifica, al fine di un corretto inquadramento normativo.

La prova in generale - come scrisse  Carnelutti – è «il processo di fissazione del fatto al fine di rimarcare la sua attinenza al procedimento di ricostruzione del fatto storico»[2].

Il concetto di prova genericamente inteso, pertanto, può essere così scomposto:

-                  ELEMENTO DI PROVA, da intendersi come  rappresentazione del dato sensibile oggetto di prova  e dunque suscettibile di essere utilizzato dal giudice nel suo procedimento logico-argomentativo.

-                  FONTE DI PROVA: con tale locuzione ci si riferisce al soggetto o oggetto da cui può derivare al procedimento un elemento probatorio.

-                  MEZZO DI PROVA, quale strumento/attività che consente l’assunzione-acquisizione del dato probatorio al processo.

-                  MEZZO DI RICERCA DELLA PROVA, consistente in tutte le attività tipiche e atipiche rivolte alla ricerca di elementi attinenti direttamente o indirettamente all’oggetto della prova in uno specifico procedimento.

-                  RISULTATO DI PROVA coincidente con il portato dell’attività valutativa del giudice all’esito dell’esperimento del mezzo probatorio

Orbene, se la prova scientifica è definita come l’analisi dei ragionamenti inferenziali sottesi alla relazione tra il fatto e l’elemento di prova o, per dirla con le parole del prof. Dominioni,  sono “operazioni probatorie per le quali, nei momenti dell’ammissione, dell’assunzione e della valutazione, si usano strumenti di conoscenza attinti alla scienza e alla tecnica, cioè a dire principi e metodologie scientifiche, tecnologiche e apparati tecnici il cui uso richiede competenze esperte”[3], si pone il problema di individuare quale sia la componente di prova cui attribuire la “patente” di scientificità o sulla quale si utilizzano princìpi e apparecchiature scientifiche.

Due sono le posizioni dottrinali sul punto:

-                  La prima, maggioritaria - che si condivide - riserva la scientificità al risultato di prova in ragione del primato che le leggi scientifiche assumono nel giudizio di inferenza probatoria su cui si basa la valutazione del giudice: sarebbe invero inappropriato parlare di scientificità con riguardo alle componenti tipiche dei mezzi di prova, posto che le leggi scientifiche, i metodi tecnologici e le apparecchiature tecniche sono componenti extragiuridiche della prova che possono incanalarsi, nel rispetto delle singole disposizioni codicistiche, nella categoria delle prove tipiche, quali la prova documentale, l’esperimento giudiziale e la perizia: peraltro, sulla caratteristica di mezzo di prova “neutro” di quest'ultima, espresso anche dalla Corte di cassazione, si dirà in seguito, bastando per ora ricordare come la sua neutralità, così come le peculiarità dell’accertamento tecnico, ben si accordano con la natura di “norme processuali penali in bianco” relativamente alle specifiche prescrizioni, proprio perché esse sono idonee ad integrarsi con princìpi scientifici e tecnologici aventi una natura extragiuridica e suscettibili di evolversi continuamente, sì da risultare difficili da costringere nelle maglie di una regolamentazione giuridica.

-                  La seconda impostazione, per contro, si basa sull’attribuzione della scientificità al mezzo di prova per il tramite del quale l’elemento probatorio entra nel processo penale, poiché al suo interno si svolge una procedura scientifica ai fini della ricostruzione del fatto, che trae pertanto la propria regolamentazione dal settore scientifico di appartenenza del principio o della tecnologia applicata: andrebbero quindi distinti i casi in cui il perito si avvalga della propria scienza privata da quelli in cui utilizza uno specifico procedimento tecnico.

L'effetto diretto di una tale ricostruzione consiste nell’inquadramento normativo della prova scientifica nel novero delle c.d. prove atipiche, disciplinate dall’art. 189 c.p.p., poiché lo statuto epistemologico della conoscenza scientifica, cioè la regolamentazione delle modalità attraverso le quali si perviene a tale conoscenza, dovrebbe essere ricavabile dal sistema extralegale di riferimento, così come l’esperto dovrebbe avere il solo ruolo di conduttore delle operazioni – seguendo il metodo scientifico adottato – e di controllo della sua correttezza[4].

La conseguenza sarebbe il potere dovere del giudice, e prima ancora degli investigatori, di verificare di volta in volta l’idoneità del singolo mezzo di prova ad assicurare l’accertamento dei fatti e il non pregiudizio per la libertà morale della persona, operazione effettuata ex ante dal legislatore per quanto attiene ai mezzi di prova tipici, per i quali il giudice deve limitarsi in sede di richieste di prova al rispetto di quanto indicato nell’art. 190 c.p.p.; sussisterebbe però sempre il rischio strisciante che la clausola di apertura dell’art. 189 c.p.p. venga in realtà utilizzata per aggirare le regole dello strumento probatorio tipico, con ingresso nel processo di prove viziate o, comunque, irrituali.

A tal proposito giova ricordare che il fenomeno dell’atipicità deve essere confinato a quegli strumenti probatori identificabili nell’area residuale del praeter legem, quindi in ambiti, invero piuttosto rari, nei quali non esiste ancora una disciplina quali, ad esempio, il pedinamento satellitare per il quale tuttavia la mancata previsione di una specifica normativa di riferimento può essere rilevata esclusivamente con riguardo al suo inquadramento fra i mezzi di ricerca della prova tipici, poiché l’elemento probatorio verrà sempre acquisito al dibattimento come prova documentale ovvero, qualora questo necessiti di una valutazione critica, con il mezzo della perizia.

La critica a questa tesi non deriva esclusivamente dal risultato deteriore cui si perverrebbe dandovi applicazione. L’interpretazione più corretta può essere ricavata ponendo in luce come il giudice sia chiamato ed effettuare la medesima operazione logico-inferenziale (là dove inferenza è il processo con il quale da una proposizione accolta come vera, si passa ad una seconda proposizione la cui verità è derivata dal contenuto della prima) in relazione all’esistenza del nesso causale del reato, in cui la relazione tra condotta ed evento viene fondata su una legge scientifica di copertura. In particolare, è necessaria un’operazione di etero-integrazione in cui il rinvio ad una regola tratta dalla scienza rende imprescindibile il contributo dell’esperto, all’interno della disciplina di mezzi di prova tipici come la perizia e la consulenza tecnica, i quali conservano la loro “neutralità epistemologica” pure se offrono al giudice le conoscenze tecniche necessarie per la ricostruzione del fatto o alla valutazione di un fatto già acquisito nel processo.

 

1.1. – Questo l'inquadramento generale che rende però necessaria una classificazione della prova scientifica in relazione alla tipologia del nesso logico-inferenziale che lega il fatto noto al fatto da provare attraverso l’applicazione di una legge scientifica. Questa operazione ermeneutica risulta fondamentale per comprendere le norme, di cui all’art. 192 c.p.p., applicabili alla fase valutativa del giudice.

A tal proposito è stato sostenuto che la prova scientifica coincide completamente con la struttura logica della prova critica o indizio, per cui, con una tale classificazione, l’assimilazione della prova a struttura critica alla prova indiziaria implica sempre l’applicazione del canone di cui all’art. 192, comma 2, c.p.p. (secondo il quale gli indizi possono fondare la decisione solo se plurimi – come dire che una condanna non può mai fondarsi su un solo indizio –, gravi, precisi e fra loro concordanti)[5].

In realtà, è possibile identificare alcune differenze che impediscono un’assimilazione completa della prova critica alla prova indiziaria, fondate sulla struttura della sequenza probatoria, cioè sulle operazioni mentali del giudice, e non sull’oggetto dell’inferenza probatoria:

-                  L’impostazione tradizionale seguita in dottrina e giurisprudenza distingue tra «prove dirette e prove indirette, a seconda che le stesse si riferiscano, o non si riferiscano, immediatamente al thema probandum principale […]. Sono prove dirette quelle aventi ad oggetto il fatto da provare – nelle sue diverse articolazioni – mentre sono prove indirette quelle che non hanno direttamente ad oggetto il fatto da provare, bensì un altro fatto, dal quale il giudice potrà risalire al primo solo attraverso una operazione mentale di tipo induttivo, fondata sulle regole della logica o su massime di esperienza. Sicché da una simile angolazione, esse si caratterizzano […] quali prove critiche»[6].

-                  Inoltre, l'elemento che aggiunge qualcosa alla prova critica rispetto alla mera circostanza indiziaria risiede nella derivazione della conclusione inferenziale da una legge logica o scientifica di carattere generale  - non probabilistica – che conferisce al ragionamento il carattere di scientificità e legittima la necessità della conclusione. Di contro, laddove l’inferenza poggia le proprie basi su leggi di matrice probabilistica o anche su massime di esperienza, tale conclusione appare solo possibile.

Aderendo a questo orientamento, si deduce che le prove scientifiche – dotate di un grado di affidabilità molto elevato - possono ricondursi al genus delle prove in senso stretto  (e, all’interno di questa ampia categoria, alle prove critiche); qualora invece la conclusione probatoria si fondi su leggi probabilistiche o “a bassa frequenza” si rientra nel novero delle prove indiziarie il che rende obbligatoria l’applicazione dell’art. 192 comma 2 c.p.p.

Questa ricostruzione pare avallata da un’interpretazione “estrema” della Corte di Cassazione secondo cui «gli esiti dell’indagine genetica condotta sul dna, atteso l’elevatissimo numero delle ricorrenze statistiche confermative, tale da rendere infinitesimale la possibilità di errore, presentano natura di prova e non di elemento indiziario ex art. 192 comma 2 c.p.p.»[7].

Questa ricostruzione giurisprudenziale poggia su un equivoco di fondo: la prova genetica, ancorché dotata di un elevato grado di persuasività, è comunque un indizio, nel senso  che è idonea a provare esclusivamente, per esempio, la presenza di una determinata persona in un luogo (scena del crimine) da cui si può ricavare, tramite l’inferenza e l’applicazione di leggi probabilistiche, il fatto da provare (in tal senso non bisogna dimenticare che può sempre sussistere una massima di esperienza uguale e contraria: da un lato si può dire che in genere se si trova il dna di un soggetto a casa della vittima solitamente questi è l’assassino, dall’altro si può sostenere che è una massima di esperienza che in una casa si trova sempre il dna del fidanzato della vittima che era solito frequentare quell’abitazione).

Inoltre, appare errato ritenere che la valutazione della prova scientifica si arresti al grado di affidabilità e validità  della legge scientifica di riferimento, difatti il suo valore deve essere tratto da un più complesso schema valutativo che afferisce non solo alla misura del convincimento del giudice, ma anche alla idoneità probatoria del mezzo di prova, alla sua resistenza a ricostruzioni alternative, ai protocolli usati dall’operatore tecnico-scientifico, nonché ai rischi di errore umano sia nelle varie fasi della repertazione e conservazione del materiale biologico sia con riguardo alla fase di tipizzazione.

Peraltro, ancorché non pienamente condivisibili, le diverse elaborazioni dottrinali e giurisprudenziali dello schema valutativo della prova scientifica hanno avuto il pregio di spostare, anche nel nostro ordinamento, la discussione sulla fallibilità della scienza da verificare nell’ottica del canone valutativo di cui all’art. 533 c.p.p. in riferimento ad ogni ipotesi ricostruttiva sia essa avallata da una legge scientifica o probabilistica, a prescindere dal suo coefficiente di attendibilità. Sotto questo profilo si è assistito negli anni ad un radicale mutamento con passaggio da una visione arcaica secondo cui la prova narrativa, prima fra tutte la confessione e poi la testimonianza, hanno idealmente dominato le ricostruzioni fattuali interne al processo, ad una evoluzione, in linea con il progresso tecnologico, che ha legittimato spinte verso la netta predilezione dello strumento tecnico-scientifico-tecnologico, in particolare per la ricostruzione dei più gravi fatti di sangue.

Tralasciando il dilagante “brunovespismo”, su cui si fondano deplorevoli ipotesi ricostruttive mediatiche, non si deve dimenticare come nessuna prova nel nostro ordinamento debba ergersi a prova (o presunzione) legale, ma la stessa deve essere, invece ricondotta nei canoni del fondamentale principio del libero convincimento del giudice, i cui limiti, casomai, possono essere esclusivamente posti in negativo. A tal proposito, l’orientamento della Corte europea dei diritti dell’Uomo è nel senso di lasciare aperta la possibilità alla previsione di presunzioni purché “entro limiti ragionevoli” in quanto confutabili con la produzione di prove contrarie[8].

Peraltro, nonostante sia mancata una corrispondente elaborazione giurisprudenziale interna, la Corte di cassazione ha dimostrato in più occasioni di attribuire validità scientifica ai criteri dettati in materia di valutazione della prova scientifica da parte della Suprema corte statunitense.

Due sono storicamente i leading case decisi dalla Suprema corte federale su cui si fonda l’elaborazione giurisprudenziale USA:

- Frye vs United States, 293 F. 1013 (D.C. Cir. 1923).

- Daubert vs Merrel Dow Pharmaceuticals, Inc, 509 U.S. 579 (1993).

A ciò si aggiungano le rules 702 e 703 delle Federal rules of evidence del 1975 dedicate alla “testimonianza degli esperti” (testimony by experts).

In particolare la sentenza Frye aveva indicato quale unico parametro di valutazione dell’attendibilità della prova scientifica, quello del consenso della comunità scientifica di riferimento (General acceptance test), nello specifico caso con riguardo al controverso uso della macchina della verità. Questa indicazione si espone alla ovvia critica per cui anche le più disparate pseudo scienze, come la chiromanzia o qualsiasi altra forma di credenza divinatoria, non classificabili neppure come bad or soft science, potrebbero ricevere l’approvazione della propria comunità “scientifica” di riferimento. Pertanto, essa, da sola, non può legittimare l’attitudine di una tecnica di indagine a dimostrare i fatti oggetto di accertamento.

E’ con la sentenza Daubert che vengono per la prima volta elaborati una serie di criteri fondamentali per valutare quale scienza - sia essa tradizionale o nuova – possa essere considerata good or junk science ed avere ingresso nel processo come patrimonio conoscitivo del giudice. L’elaborazione ha assunto un’importanza tale da essere oggi conosciuta come il “daubert-test”. Cinque sono i suoi punti fondanti:

1. La falsificabilità (nel senso popperiano del termine di confutabilità e smentibilità) e la verificabilità della teoria o tecnica posta a fondamento della prova. La moderna epistemologia sostiene che il metodo privilegiato per l’accertamento della validità di una legge scientifica, più che attenere all’esistenza di conferme della validità, consiste nella individuazione degli elementi che possano smentirla.

2. Conseguenza diretta della falsificabilità e verificabilità è l’individuazione del margine di errore conosciuto o conoscibile. In questo senso si potrebbe dire che esiste una massima di esperienza per cui va dichiarato inattendibile un esperto che sostenga l’assenza totale del rischio di errore di un determinato metodo ricostruttivo.

3. La cosiddetta peer review ovvero la possibilità che la teoria o la tecnica abbiano formato oggetto di controllo da parte di altri esperti, anche grazie alla pubblicazione in riviste scientifiche di settore o con altri mezzi.

4. L’esistenza e il mantenimento di elevati standards di verifica e controllo delle operazioni de quibus, anche in relazione alla continua evoluzione della scienza.

5. The degree to which the theory and technique is generally accepted by a relevant scientific community. Ovvero l’accettazione e il consenso generale da parte della comunità scientifica di riferimento.

Naturalmente il Daubert-test offre dei criteri minimi e non esaustivi per evitare l’ingresso nel processo penale della cosiddetta scienza spazzatura; a questi l’elaborazione critica nord americana ha aggiunto elementi quali la qualificazione scientifica del consulente, il precedente impiego della tecnica in ambito forense e la sua classificazione come scienza forense, il margine di soggettività nell’interpretazione dei risultati o l’esistenza di conferme esterne all’accertamento, che indubbiamente possono essere utilizzati in chiave valutativa.

 

 

2. – Spostiamo ora l’attenzione su gli strumenti di acquisizione del sapere scientifico nel processo penale.

Numerosi sono i canali di ingresso della scienza - rectius delle scienze -  nel processo penale, senza nessuna pretesa di completezza si possono citare le investigazioni difensive o le indagini di polizia giudiziaria effettuate con l'ausilio di soggetti in possesso di specifiche competenze tecniche, disciplinati rispettivamente dagli artt. 327-bis comma 3 e 384 c.p.p., gli accertamenti tecnici ripetibili e non ripetibili disposti sia dal pubblico ministero che dal difensore, ex artt. 359, 360 e 391 decies c.p.p.; le operazioni effettuate dall'esperto in sede di esperimento giudiziale (art. 219, comma 1, c.p.p.); i pareri, le relazioni, le memorie, gli esami dibattimentali dei consulenti tecnici di parte e dei periti; l'assistenza dello psicologo all'esame testimoniale del minore (art. 498 comma 4 c.p.p.). E' bene notare sin da ora come il legislatore abbia configurato un reticolo di norme che, all'interno del più generale "principio dispositivo temperato" della prova, costituisce un vero e proprio diritto delle parti a difendersi mediante il contributo tecnico-scientifico degli esperti.

Fra i vari canali tipici di ingresso della prova nel processo, seguendo il filo logico della precedente ricostruzione ermeneutica, indubbiamente assume un'importanza fondamentale la perizia.

Lungi dal poter effettuare una disamina completa dell'istituto in questa sede, appaiono tuttavia possibili alcune puntualizzazioni. Si è detto come le norme che disciplinano la perizia e gli accertamenti tecnici possano essere definite "norme processuali in bianco" – si pensi alle clausole generali quali le "specifiche competenze tecniche, scientifiche o artistiche" – adatte ad essere completate dalle norme che regolano il metodo, sia dalle leggi scientifiche di riferimento  suscettibili di continua evoluzione ma inidonee, per tale ragione, ad essere oggetto di tipizzazione normativa.

Con la perizia, scrisse Carnelutti, «il giudice sa ciò che con la chiamata del perito ha confessato di non sapere»[9] e la prova mediante esperto si configura come «un antidoto contro l'arroganza dell'enciclopedismo» del giudice stesso[10], per tale ragione la perizia deve essere intesa, seguendo l'indicazione di deciso favor del legislatore, come un potere-dovere per il giudice penale, confermato anche dalla disposizione che consente la consulenza tecnica fuori dei casi di perizia (art. 233 c.p.p.). Il parametro delle specifiche competenze tecniche, scientifiche o artistiche assolve alla duplice funzione di delimitare l'oggetto dello strumento peritale e di ancorare a criteri predeterminati il potere-dovere del giudice di disporre la perizia pur in assenza di una richiesta di parte. Un potere, quello del giudice, che può essere pertanto definito di "discrezionalità vincolata" poiché rivolto ad impedire il ricorso alla scienza privata del giudice.

Ciò premesso, la prima problematica attiene ai criteri di selezione degli esperti poiché la scelta del perito è riservata esclusivamente al giudice senza l'instaurazione di un previo contraddittorio: non pare dirimente, né sufficiente, la circostanza per cui il perito deve essere scelto negli appositi albi di categoria, peraltro ferma restando la possibilità di individuare soggetti non inseriti negli albi purché altamente qualificati ovvero di avvalersi di una perizia collegiale, nel caso in cui l'accertamento involga plurimi settori di competenza, o di ausiliari tecnici per lo svolgimento di un’attività comunque non valutativa. Escluso il catalogo tassativo delle cause di ricusazione del perito ricavate dall'art. 36 c.p.p., la mancanza della possibilità di una verifica ex ante della competenza dello stesso perito comporta un grave vulnus al diritto di difesa, ancorché la stessa possa partecipare alla fase della formulazione dei quesiti – fondamentale nella formazione dell’elemento probatorio, poiché niente condiziona una risposta quanto la domanda – e, mediante il proprio consulente tecnico, allo svolgimento dei lavori peritali.

In secondo luogo, vi è un costante indirizzo giurisprudenziale che esclude la possibilità di utilizzare la perizia quale prova contraria decisiva, negando di conseguenza che la sua mancata assunzione possa costituire motivo di ricorso per cassazione ex art. 606 comma 1 lett. d. c.p.p.

Questa indubbia limitazione del diritto di difesa sarebbe conseguenza della natura di mezzo di prova "neutro" della perizia derivante dalla posizione di terzietà ed equidistanza assunta dall'esperto. Ciononostante, la possibilità che l'accertamento scientifico, tecnico o tecnologico, sia rivolto alla ricerca di un elemento fondante la ricostruzione dell'accusa, o idoneo a procurare un elemento probatorio decisivo nella strategia della difesa, non è contraddetta dalla natura neutrale intrinseca della perizia.

E' certamente vero che il difensore potrà optare per una consulenza tecnica di parte, anche fuori dei casi di perizia, pur con le innegabili complicazioni derivanti dalla necessità che a volte le indagini vengano delegate a laboratori tecnici (senza dimenticare che il consulente tecnico, sotto il profilo giuridico, non può essere autorizzato a delegare le operazioni tecniche ad ausiliari di sua fiducia). La consulenza tecnica in cui il rischio di un minor grado di persuasività è comunque presente, ha come sua caratteristica tipica l’utilizzo del mezzo scientifico per ricercare un determinato risultato probatorio richiesto dalla parte, ovvero per indebolire l'ipotesi ricostruttiva effettuata dal perito, con l'indubbio vantaggio di lasciare libero il difensore di scegliere, in base al risultato ottenuto, se introdurre il risultato probatorio nel procedimento.

Ancora, la disposizione di cui all'art. 230 c.p.p. legittima i consulenti a partecipare alle operazioni peritali, proponendo al perito specifiche indagini e formulando osservazioni e riserve, delle quali dovrebbe essere fatta menzione nella relazione peritale. Tuttavia la mancanza di un obbligo in capo al perito di rispondere alle richieste, così come l’assenza di una qualsiasi sanzione processuale per la mancanza nella relazione di una spiegazione o almeno di una menzione delle riserve di parte, ha indotto la Suprema corte a sostenere che l'inosservanza, da parte del perito designato dal giudice, delle osservazioni e delle richieste del consulente non è censurabile ex art. 606, lett. d, c.p.p., poiché le consulenze non sono autonomi mezzi di prova ma strumenti che concorrono alla formazione della perizia.

In altri termini, manca un contraddittorio preventivo sulla scelta del perito o sul protocollo scientifico da utilizzare, e il contraddittorio nel corso dell'esecuzione è espressamente previsto ma sfornito di una sanzione; pertanto, ancora una volta, il centro fondamentale di formazione della prova deve essere considerato l'esame incrociato dibattimentale in cui il perito sarà sottoposto alle domande del pubblico ministero, delle parti private e, in via residuale, del giudice. Non a caso la Suprema corte americana, trovandosi di fronte ad una pronuncia in cui era stato negato all'imputato il diritto di confrontarsi con il tecnico che aveva eseguito le operazioni peritali in quanto avrebbe riferito esclusivamente su circostanze tecniche obiettive, ha annullato la sentenza per violazione di un diritto fondamentale della difesa (Melendez-Diaz vs Massachussets, 129 S Ct 2527, 2009).

Ai fini di una più efficacie instaurazione del contraddittorio, si potrebbe inoltre prospettare la conduzione dell'escussione dibattimentale del perito ad opera dei consulenti di parte. A tal proposito, a parte l'obiezione difficilmente superabile per cui la legge attribuisce inequivocabilmente tale ruolo al p.m. e al difensore (art. 498 comma 1 c.p.p.), certamente il consulente sarebbe maggiormente qualificato a porre le domande di natura tecnico-scientifica, ma la disposizione è precipuamente rivolta a garantire le specifiche competenze tecnico-giuridiche dei soggetti che conducono l'esame incrociato. Peraltro rimane sempre possibile, ed idoneo all’accertamento, il confronto fra il perito e il consulente tecnico che divergano su alcuni punti della verifica scientifica.

 

2.1. – Passando ora ad alcuni rapidi cenni sugli strumenti scientifici utilizzabili per la ricostruzione di un fatto reato, si può osservare come siano sempre più numerosi gli approdi della scienza forense che possono avere ingresso nel processo penale per il tramite dei mezzi di prova tipici, si pensi alle tecniche di accertamento quali la spettrografia, la stilometria, il luminol, lo stub, il test del dna, la boodstain pattern analysis e la computer forensic. Vediamo brevemente qualche aspetto critico di alcuni di essi.

 

- La bloodstain pattern anlysis (BPA)

E' quel metodo della scienza forense che consiste nell'analisi della morfologia degli schizzi e delle chiazze e macchie di sangue di una scena del crimine, anche in relazione al brandeggio dell'arma,  al fine di risalire alle caratteristiche di esecuzione del delitto. Si tratta, in sostanza, di un processo logico che dall'analisi del fatto noto - le varie tracce di sangue - permette di risalire, per il tramite di un ragionamento inferenziale basato sull'applicazione di un mix di leggi scientifiche (matematica, fisica, biologia e chimica), alle modalità di svolgimento del delitto.

L'inquadramento giuridico di questa particolare ed efficace tecnica di accertamento del fatto richiede una precisa differenziazione fra l'attività svolta dalla polizia giudiziaria e quella riservata all'esperto. Invero, è necessario subito precisare che il discrimine fra le due attività deve essere indicato nello svolgimento di una attività a carattere tecnico-valutativo, precluso alla polizia giudiziaria.

In materia di attività ad iniziativa della polizia giudiziaria, pur in presenza di un contrasto giurisprudenziale, è assolutamente preferibile quella ricostruzione, comunque maggioritaria presso la Suprema corte, che riserva l'operatività dell'art. 354, comma 2, c.p.p. alle sole attività materiali preparatorie all'accertamento tecnico-scientifico. E' appena il caso di ricordare come l'art. 354 c.p.p., rubricato “accertamenti urgenti sui luoghi, sulle cose e sulle persone”, al comma 2 prescriva un potere ex abrupto della polizia giudiziaria di compiere accertamenti e rilievi nell'ambito della sua attività “ad iniziativa”, per l'eventualità in cui vi sia pericolo che le cose, le tracce e lo stato dei luoghi si alterino o si disperdano o comunque si modifichino e il pubblico ministero non possa intervenire o non abbia ancora assunto la direzione delle indagini. Le divergenze interpretative derivano dall'indistinto riferimento dell'art. 354 c.p.p. agli accertamenti e rilievi, il quale, ad una prima lettura, consentirebbe alla polizia giudiziaria di svolgere attività a carattere valutativo, se non che, considerata la genericità della prescrizione normativa, si è resa necessaria un'operazione ermeneutica volta a distinguere la nozione di "rilievo" – da intendersi come una mera operazione tecnica e preparatoria della consulenza – e di accertamento tecnico – che presuppone un'attività di analisi e valutazione critica dei dati raccolti – precisando che l'art. 354 c.p.p. utilizza, secondo questa ricostruzione, la definizione di accertamento in senso del tutto atecnico.

Premesso che le operazioni aventi natura discrezionale devono essere precluse alla polizia giudiziaria e devono essere svolte da un esperto, si può concludere che l’attività investigativa è riconducibile nell'ambito dell'accertamento tecnico, generalmente non differibile al dibattimento, la cui acquisizione probatoria deve avvenire per il tramite di un accertamento tecnico irripetibile ex. art. 360 c.p.p. ovvero di una perizia disposta in incidente probatorio.

Questa importante metodologia ricostruttiva è stata utilizzata in recenti e mediaticamente celebri casi quali "Cogne" e “Stasi”. Proprio in occasione di quest'ultimo i giudici hanno precisato che la BPA, ancorché di nuova utilizzazione in Italia, è stata da tempo considerata negli ordinamenti di common law come una good science, data la sua sottoposizione a numerosi tentativi di falsificazione e verificazione, pur ricordando come spetti comunque al giudice vagliare l'attendibilità in concreto dei risultati caso per caso ottenuti con questa tecnica di indagine. Nella circostanza, in particolare, l'analisi si è incentrata sullo studio delle tracce ematiche rinvenute - o non rinvenute - sulle scarpe dell'accusato e sulla compatibilità delle stesse con il calpestio presente sulla scena del crimine, confrontate poi con l'ipotesi ricostruttiva emergente dall'interrogatorio dell'imputato.

Prescindendo dalle conclusioni cui sono giunti i giudici, questo è un chiaro esempio di come l'utilizzo delle leggi scientifiche sia rivolto ad offrire al giudice un ulteriore elemento, utile ma non determinante, per la propria decisione che, nel caso di specie, si è fondata sul più completo apporto probatorio emerso dalla dialettica processuale nel suo complesso.

 

- L'esame del DNA

L'indagine genetica costituisce indubbiamente l'apporto scientifico che più di ogni altro ha modificato le modalità di svolgimento delle indagini e gli esiti dei processi negli ultimi anni. Per intendere compiutamente l'impatto di questa scienza ai fini processuali, anche e soprattutto in termini di garanzie difensive, è sufficiente rivolgere uno sguardo al lavoro svolto dall'associazione americana Innocentproject.org (ed anche dall'associazione italiana vittime errori giudiziari, www.art643.org) che si è occupata dei processi di revisione per i condannati nel "braccio della morte", spesso accusati in base a prove dichiarative e confessioni più o meno legittime e poi prosciolti in seguito alle nuove frontiere investigative offerte proprio dal test del DNA.

Tralasciando in questa sede, per esigenze di tempo, le problematiche relative alla potenziale frizione dell'indagine biometrica con principi di rilevanza costituzionale, come il diritto di difesa, specificato nel privilegio contro l'autoincriminazione, che consiste nel rifiuto dell'indagato-imputato di partecipare, anche se indirettamente, alla ricostruzione del fatto di reato, è opportuno soffermarsi sulle norme processual-penalistiche che regolano la disciplina nel nostro ordinamento.

L'accertamento può essere scomposto in due specifiche fasi. La prima, avente natura descrittiva, concerne la raccolta del materiale biologico da persone o da tracce, mentre la seconda, a carattere critico-valutativo attiene alla vera e propria analisi del DNA.

L'attività di reperimento e conservazione del materiale biologico rinvenuto sulla scena del crimine - prelevato dal corpo del soggetto sottoposto ad indagine o ancora da terze persone -, riveste comunque un'importanza fondamentale ai fini della genuinità della prova e deve essere opportunamente verbalizzata, anche dando conto delle tecniche di conservazione impiegate per evitare rischi di deterioramento del campione. Sotto il profilo normativo, questa attività di raccolta nel corso del sopralluogo sulla scena del crimine rientra nelle attività urgenti della polizia giudiziaria, previste dall'art. 354 c.p.p.

Inoltre, qualora serva acquisire il DNA dall'accusato o da terze persone non indagate occorre fare un'importante distinzione a seconda del fine cui tale esame è preordinato. Vediamoli brevemente. L'art. 349, comma 2-bis, c.p.p. prevede la possibilità di raccolta del materiale biologico da parte della polizia giudiziaria, di propria iniziativa, ai soli fini identificativi e previa autorizzazione del pubblico ministero, scritta oppure resa oralmente e confermata per iscritto.

Di contro, nell'ipotesi di prelievo a fini investigativi, il legislatore ha preferito approntare un sistema maggiormente garantito prevedendo un intervento dell'organo di garanzia giurisdizionale. In particolare, salvo che il soggetto scelga spontaneamente di collaborare con la polizia giudiziaria, in fase di indagini preliminari e in caso di incidente probatorio, ai sensi dell'art. 359-bis c.p.p., il potere di iniziativa spetta al pubblico ministero con autorizzazione del giudice delle indagini preliminari, ad eccezione delle ipotesi di convalida successiva nelle situazioni di urgenza, nella fase dibattimentale ai fini dell'esecuzione della perizia e quando si procede per un delitto non colposo per il quale è prevista la pena dell’ergastolo o della reclusione non inferiore nel massimo a 3 anni, l'autorizzazione dovrà ovviamente essere richiesta al giudice dibattimentale.

Già si è chiarito quale sia l'operazione inferenziale necessaria e come spesso questa conduca alla prova di un fatto collaterale al fatto di reato vero e proprio, occorre ora segnalare come l'indagine genetica costituisca un caso speciale in cui l'incidente probatorio ai sensi dell'art. 392 comma 2 c.p.p., è svincolato dai presupposti di ammissibilità propri dell'istituto. Mentre la classificazione dell'accertamento come ripetibile o irripetibile dipende evidentemente dal quantitativo di materiale biologico a disposizione e dal metodo di analisi utilizzato. 

 

- La computer forensic 

Quest'espressione si riferisce alla disciplina che si occupa dell'applicazione dei metodi e degli strumenti della tecnologia informatica ai fini della ricostruzione di un fatto di reato.

Come si può facilmente immaginare l'importanza e le possibilità offerte dall'evoluzione della tecnica informatica costituiscono ad oggi un apporto fondamentale per il processo penale.

Peraltro, anche in questo settore bisogna superare la tentazione di identificare il mezzo probatorio come atipico, in quanto il suo ingresso nel processo avviene comunque, in genere, attraverso canali tipizzati dal legislatore. All'interno dell’ampia categoria della prova informatica si possono identificare due sottocategoria molto diverse fra loro:

I. La c.d. computer generated evidence, la quale come si può evincere già dalla traduzione letterale, è costituita da quegli strumenti che consentono di effettuare la rappresentazione virtuale delle modalità di svolgimento di un fatto. 

Quest'attività può essere di supporto ad altri mezzi di prova, come nel caso di una animazione grafica utile in funzione dimostrativa della relazione peritale, ma la si può anche utilizzare per rappresentare l'evento a scopo dimostrativo delle reali circostanze di svolgimento del fatto (c.d. ricostruzione), nonché per simulare una ipotesi ricostruttiva dello stesso, alternativa alle circostanze che  - secondo l’ipotesi accusatoria prevista nell’imputazione – si ritiene si siano realizzate (la c.d. simulazione, utilizzata nel processo per la morte di Ayrton Senna nei confronti della squadra automobilistica Williams, in cui, richiamando implicitamente i princìpi del Daubert-test, la Corte d'appello di Bologna ha ritenuto la prova non ammissibile per il carattere sperimentale del metodo e per la mancanza di protocolli d'uso che consentissero di testarne l'affidabilità). In caso di "ricostruzione" e "simulazione"  si rientra all'interno della disciplina dell'esperimento giudiziale ex art. 216 c.p.p. in quanto si tratta di modalità tecnico-scientifiche particolari di svolgimento delle operazioni e che sono ovviamente da eseguirsi per il tramite di un perito informatico designato dal giudice.

II. Le c.d. computer derived evidence, ossia l'ipotesi in cui l'elemento probatorio sia comunque contenuto in un supporto digitale. In dottrina si è ripetutamente sottolineata la differenza con la prova c.d. fisica, stante la sua immaterialità e la naturale facilità nella sua alterazione. Come tale essa, in genere, entrerà nel processo penale con la forma della prova documentale, e il suo trattamento ai fini investigativi sarà affidato ad esperti nell'ambito di un accertamento tecnico o di una perizia.

Pure con riguardo all'acquisizione del dato informatico, è opportuno precisare che i limiti all'operato della p.g. ex art. 354 c.p.p. concernono la sola attività di conservazione e quella rivolta ad impedirne l'alterazione, anche tramite immediata duplicazione, pur considerando come ogni operazione di duplicazione e di trattamento comporti un rischio intrinseco di alterazione del dato, che fa propendere per l'utilizzo dell'accertamento tecnico non ripetibile tutte le volte in cui l'indagine non possa svolgersi sul dato conforme  duplicato.

 

 

3. – Numerose sono le problematiche emergenti in relazione alla prova scientifica che qui, per esigenze di tempo, non è possibile trattare (si pensi, ad esempio, al concetto di prova nuova o sopravvenuta in materia di revisione, derivante dal superamento ed evoluzione della scienza utilizzata all’epoca del procedimento che ha portato ad una sentenza irrevocabile); in conclusione, mi siano permesse solo alcune ultime considerazioni:

Circoscrivere l’apporto scientifico all’interno del processo penale per evitare di alimentare false credenze in termini di certezza assoluta, non corrisponde alla volontà di sminuire l’apporto tecnico scientifico di ausilio alla decisione del giudice. Anzi, assai più grave è l’utilizzo del legittimo principio del judex peritus peritorum – che si legittima unicamente nell’ottica del rispetto del principio del libero convincimento del giudice – al fine di consentirgli il ricorso alla propria scienza privata, e ciò sia per l'oggettiva impossibilità di conoscere l’intero scibile umano, sia in quanto attinente al suo foro interno e, pertanto, a differenza dell’apporto degli esperti, non suscettibile di controllo e verifica esterna.

Nondimeno e sebbene sia indubitabile che le prove scientifiche costituiscono preziosi strumenti di ricostruzione del fatto e offrono elevate garanzie di attendibilità, non va tuttavia dimenticato che proprio a causa della loro assorbente forza probatoria, possono rivelarsi insidiose in quanto lasciano esigui spazi di difesa là dove, in realtà, certezza non v’è.

Scrisse Ludwig Wittgenstein che al di là di ogni ragionevole dubbio deve significare che la vanga del dubbio, che deve sempre armare il giudice, ha incontrato lo strato duro della roccia, rappresentato dalle prove, e si è piegata, risultando implausibile ogni spiegazione diversa della colpevolezza[11]. E’ vero che la clausola ha in sé una contraddizione in termini, in quanto ritenere provato un fatto in presenza di un dubbio che appaia ragionevole risulta illogico; tuttavia il beyond a resonable doubt deve costituire un canone interpretativo secondo cui la colpevolezza deve sempre essere suffragata da un solido e coerente quadro probatorio e, al contempo, l’onesto riconoscimento della fallibilità degli accertamenti non deve impedire la condanna[12].

Occorre allora sempre ricordare che il cruciale passaggio dalla prova al fatto da provare deve avvenire mantenendo sempre aperto il confronto dialettico fra le parti, così da evitare automatismi probatori seppur in presenza di leggi scientifiche o di dati all’apparenza inoppugnabili: vale a dire che «la scienza, almeno nel processo, va sempre filtrata attraverso la retorica, nel senso nobile di arte argomentativa»[13].

 

 

 



 

* Testo della relazione presentata nel IV Seminario di Polizia Giudiziaria “La Polizia Giudiziaria tra Tradizione e Innovazione - Scienze e tecniche di Indagine(La Maddalena, 16 giugno 2013).

 

[1] Si pensi che nel rapporto informativo del 2009 - curato dal Comitee on identifying the Needs of Forensic Science Community e dal National Research Council avviato su mandato del Congresso degli Stati Uniti - in cui si è verificata l’attendibilità delle scienze forensi tradizionali nell’individuazione di cose e persone, è emerso che nelle forensic science prese in considerazione  - tranne l’analisi del DNA – ciò che spesso è assente è proprio il carattere di scientificità poiché i risultati sono affidati per lo più al giudizio soggettivo del tecnico.

 

[2] F. Carnelutti, Il concetto giuridico della prova, Roma, 1915, 13.

 

[3] O. Dominioni, La prova penale scientifica. Gli strumenti scientifico-tecnici nuovi o controversi e di elevata specializzazione, Milano, 2005, 12.

 

[4] G. Ricci, Le prove atipiche, Milano, 1999, 645.

 

[5] P. Tonini, La prova scientifica: considerazioni introduttive, in Dir. pen. proc., 2006, n. 6, 8; M. Nobili, sub art. 192 c.p.p., in Commento al nuovo codice di procedura penale, M. Chiavario (coord. da), vol. II, Torino, 1990, 414.

 

[6] V. Grevi, Prove, (agg. da G. Illuminati), in Compendio di procedura penale, G. Conso, V. Grevi e M. Bargis (coord. da), 311.

 

[7] Cass., sez. II, 30 giugno 2004, in C.E.D. Cass., n. 231182.

 

[8] Corte eur. Dir. uomo, Salabiaku v Francia, 7 ottobre 1988, in www.coe.int.

 

[9] F. Carnelutti, Principi del processo penale, Napoli, 1960, 213.

 

[10] E. Amodio, Perizia artistica ed indagini demoscopiche nell’accertamento dell’osceno cinematografico, in Riv. dir. proc., 1974, 669.

 

[11] L. Wittgenstein, Della certezza. L’analisi filosofica del senso comune, Torino, 1999, 73.

 

[12] Cfr. P. Ferrua, Epistemologia scientifica ed epistemologia giudiziaria: differenze analogie e interrelazioni, in La prova scientifica nel processo penale, L. De Cataldo Neuburger (a cura di), Padova, 2007, 16.

 

[13] Le parole sono di P. Ferrua, Le regole di formazione e di valutazione della prova tra Costituzione e giurisprudenza della Corte di Strasburgo, in Scienza e processo penale: linee guida per l’acquisizione della prova scientifica, L. De Cataldo Neuburger (a cura di), Padova, 2010.