Testatina-Contributi2013

 

 

Bussi-foto-2013-1ALLE RADICI STORICHE DEL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA ITALIANA*

 

LUISA BUSSI

Università di Sassari

 

SOMMARIO: 1. La componente sacrale del potere regio. – 2. Il pensiero rivoluzionario. – 3. La reazione. – 4. Statuto albertino e albori repubblicani.Abstract.

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1. – La componente sacrale del potere regio

 

La figura del Presidente della Repubblica prende forma in Italia a seguito del referendum istituzionale del 2 giugno 1946, con il quale il Paese scelse la forma repubblicana. Sino a quel momento, a capo dello Stato vi era un monarca, la cui successione era regolata dall’antica legge dei Franchi Sali[1], vale a dire dalla legge di famiglia dei Savoia che, dopo avere attinto la dignità regale con l’acquisizione del regno di Sardegna, era stata quella che aveva fatto propria la causa dell’unità politica della Penisola. I suoi poteri erano stati, un secolo prima, fissati dal cosiddetto Statuto Albertino. Era, questa, una carta octroyée, cioè concessa nel 1848 dal re Carlo Alberto di Savoia-Carignano[2], e compilata sul modello della costituzione orleanista del 1830, ma più intimamente influenzata da quella belga del 1831.

Alla successione temporale, tuttavia, non ne corrisponde sic et simpliciter una genetica. Basta, infatti, una riflessione un poco più approfondita per saggiare le profonde differenze che corrono fra le due figure, (quella del monarca e quella del presidente della repubblica) e intuire come l’una nasca da un pensiero politico i cui fondamenti sono profondamente diversi da quelli che sostenevano l’altra. Non a caso, in Assemblea Costituente (1946-48), vi fu chi voleva sopprimere, per il Presidente della Repubblica, la denominazione di Capo dello Stato, come non corrispondente alla natura democratica dello Stato italiano, di cui doveva essere considerato organo supremo il Parlamento.

Una notevole componente dell'istituto della sovranità, quale era stata delineata dal mondo medievale e moderno, era infatti costituita dall’elemento religioso, che fu una delle ragioni principali del comune e incontrastato riconoscimento della potenza deposta nelle mani dei principi, potenza che si estrinsecava nell'istituto della pienezza dei poteri[3]. La maiestas del sovrano era collegata infatti alle formalità dell’incoronazione, nel corso di una cerimonia religiosa, di cui può essere considerata esempio quella prevista per l’Imperatore del Sacro Romano Impero. Questa era posta in essere in Cattedrale, dopo che l’eletto – che aveva giurato le Capitolazioni elettorali - si era impegnato ad essere lo scudo della Chiesa, il garante della giustizia, il difensore delle vedove e degli orfani e il sostegno del Papa, e dopo che egli era stato unto con l’olio santo[4]. Che il potere supremo avesse una connotazione sacrale era peraltro concezione presente anche nel mondo romano – ove l’imperatore pagano era anche pontifex maximus – e in quello bizantino ove, almeno dal V secolo, veniva incoronato dal Patriarca[5]. Il modello di regalità medievale viene però, come è noto, dedotto piuttosto dalla regalità sacrale altotestamentaria. In Occidente, il rito della consacrazione regale (rimasto ancor oggi in uso in Inghilterra) si affaccia già nell’ultimo quarto del VII secolo con l’unzione di Wamba, re cattolico dei Visigoti di Spagna[6]. Nel quadro che ce ne fornisce il Liber de historia Galliae di san Giuliano, affiorano già i due elementi sostanziali del rito d’incoronazione: la consacrazione del sovrano e il suo giuramento, che si farà via via più complesso e comprenderà prima l’impegno a mantenersi fedele ai comandamenti cristiani, quindi anche quello di conservare le leggi del popolo.Anche i sovrani legittimi di Francia, per quasi mille anni e sino alle soglie dell’età contemporanea, furono unti re con il crisma di un’ampolla conservata a Reims, a cui un’antichissima tradizione, rimasta indiscussa sino all’Illuminismo, assegnava una provenienza celeste[7].

Ancora nel ‘700, questa tradizione conservava agli occhi dei contemporanei di Voltaire tutto il suo significato. La religio monarchica era fondata sulla stretta alleanza tra il trono e l’altare e sull’idea che ogni autorità non potesse che derivare da Dio, secondo il noto aforisma paolino omnis potestas a Deo. Nello Statuto albertino tale principio si traduceva nella formula «Carlo Alberto, per la grazia di Dio re di Sardegna etc.». Tale formula era destinata però a trasformarsi già nel 1861, su proposta di Cavour, in: «…per provvidenza divina, per voto della nazione re d’Italia», ove il secondo fondamento – cioè la legittimazione popolare – apparentemente rafforzava, in realtà negava il primo[8].

 

 

2. – Il pensiero rivoluzionario

 

Le radici di questa trasformazione sono molteplici. Il fondamento sacrale della regalità viene apparentemente rafforzato, in realtà indebolito dalla Riforma. Da un lato, infatti, questa spinge il sovrano sulla strada dell’assolutismo teocratico, attraverso lo svuotamento dei poteri intermedi[9]; dall’altro,  l’esaltazione, che essa fa, della coscienza individuale, sembra potersi applicare anche alla dottrina dello Stato, ammettendosi la discussione in teoria di ogni forma di governo e degli stessi confini della obbedienza civile[10].

In Inghilterra, a dire il vero, la storia costituzionale attua una transizione graduale e relativamente indolore dall’assetto medievale a quello moderno; e nei territori del Sacro Romano Impero, pur raggiungendo la cosiddetta Landeshoheit, i principi devono tuttavia sottostare, almeno teoricamente, all’Imperatore e alla sua alta sorveglianza, e sono costretti a cercare spazi più ampi non già nella funzione legislativa bensì in quella amministrativa. Ma in Francia e nei Paesi che sono più influenzati dalla sua cultura, nello Stato che avanza, da Bodin[11] in poi, pur fra non poche resistenze, viene portata avanti l’idea che il sovrano - exempt et solu de toutes lois (solutus a legibus) – dovesse avere toute puissance et autorité de commander et de faire ce qu’il veut. Sulle tesi groziane che collegano il patto sociale alla naturale tendenza umana al vivere in società[12], prevale la più pessimistica visione di Hobbes che quel patto fa discendere dall’anarchia violenta degli uomini che siano privi di uno Stato, e che arriva a sostenere che ante imperia iusta et iniusta non existere[13].

Questo concetto di sovranità, di assoluto dominio sui sudditi, verrà fatto proprio dallo Stato in quanto tale, e il primo ad esserne schiacciato sarà lo stesso re[14].

Infatti, se la piena autorità del monarca in quanto istituzione, nel primo periodo dell'assolutismo, era giustificata in quanto egli si dichiarava al servizio della giustizia, ed effettivamente si assumeva la difesa del debole contro i privilegiati, successivamente, quando da legislatore si arroga il diritto di modificare le leggi del regno, egli non appare più come lo scudo della giustizia ed il difensore naturale dell'oppresso, ma al contrario come il detentore di un potere arbitrario, come il capo dei privilegiati. La figura del re si allontana dal popolo e diventa il simbolo di tutti i soprusi dei quali il popolo stesso soffre[15]. Di qui lo sviluppo di una cultura individualistica che porterà dal giusnaturalismo secentesco alle dichiarazioni rivoluzionarie dei diritti di fine Settecento.

E qui ha ragione Fioravanti, quando rileva come sia fondamentale la differenza fra la rivoluzione americana e quella francese. La prima, infatti, la rivoluzione americana, si muove sul piano della rivendicazione, anche per i coloni americani, del diritto riconosciuto ai sudditi inglesi, per i quali la materia delle libertà – da Coke e Locke in poi – è sostanzialmente indisponibile da parte del potere politico[16]. Ne viene che essa si svolge tutta su un piano storicistico e garantistico: gli elementi costitutivi della nuova compagine politica vengono sottoposti ad un sistema delicato di condizioni e limiti. In tale sistema, la figura del capo dello Stato diviene l’organo centrale di direzione politica e il titolare di tutti i cosiddetti implied powers, e la sua figura, la figura cioè del presidente degli Stati Uniti d’America, si consolida nel tempo come capo popolare, capo dello Stato, capo dell’esecutivo (l’administration) e capo di partito[17].

In Francia, invece, se, in una prima fase della rivoluzione, aveva prevalso tra gli intellettuali l'idea che la monarchia avesse abbandonato – in tempi più o meno recenti – le regole che avevano garantito il suo secolare equilibrio, e che bastasse riesumare o finalmente codificare queste regole per uscire dall'illegalità[18], è proprio contro di esse che si muovono in un secondo momento le forze riformatrici, che ora affermano il primato della volontà politica costituente.

Sostenuta dal pensiero dei philosophes, la Rivoluzione compie in Francia, per il diritto interno, quel distacco dell’ordinamento dalle sue radici religiose, che per il diritto internazionale aveva compiuto il Congresso di pace di Westfalia. Essa vuole consapevolmente rompere la continuità con il passato, e lo manifesta con la decapitazione di Luigi XVI, un atto di alto valore simbolico, che doveva sancire, con  l’affermazione della piena e assoluta sovranità del popolo, la decisa laicizzazione e statualizzazione del potere e del diritto. Questi promanano ora, nei principi ispiratori e nella loro traduzione legislativa, soltanto dalla volontà sovrana del popolo, senza più alcun collegamento, nel bene e nel male, con un corpo sovraordinato di valori. Di fatto è ammessa una società di individui originaria (popolo o nazione), cui è affidato il potere costituente: il concetto viene sviluppato per la prima volta da Sieyès, proprio con l’intento di opporre al potere del re – fondato sulla tradizione e sul diritto, l’originario potere politico del popolo, cui vengono trasferiti – come pouvoir constituent – contenuti a suo tempo riconosciuti quali attributi di Dio: potestas  constituens, norma normans, creatio ex nihilo. Al popolo deve essere riconosciuto il pieno potere di disporre della configurazione dell’ordinamento politico-sociale. Non è più un ordinamento divino e naturale a determinarne la base[19]. I diritti di tutti esistono ormai solo nel momento e nella misura in cui essi vengono definiti per legge.

L’idea che il popolo fosse il vero titolare della sovranità non era del tutto nuova. Nel ricercare il fondamento ultimo del concetto di sovranità, lo Ullmann – verso la metà del secolo scorso - rintracciava le fila di due concezioni distinte e in qualche modo speculari:  una riassunta in una sorta di "iter ascendente"; l'altra in un "iter discendente" del potere. Secondo la prima concezione, il potere sarebbe appannaggio del popolo, il quale ne affida l'esercizio a determinati organi per un determinato tempo, senza perderne la titolarità. In tale ottica, «...l'autorità governativa e la legge ascendono dalla base in forma di piramide e qualsiasi potere esista negli organi di governo esso in ultima analisi è riconducibile al popolo»[20]. La seconda concezione, all'opposto, immagina che l'autorità governativa e la competenza legislativa discendano da un solo organo supremo. Anche qui «il potere si configura a forma di piramide ma in maniera tale che qualsiasi potere si trovi in basso non è potere originario bensì derivato dall'alto». L'organo supremo deriva poi la sua legittimazione direttamente da Dio, che si ammette abbia destinato quell'organo, quale Suo vicario, a reggere il governo delle cose terrene[21].

Secondo lo Ullmann, queste due concezioni si sarebbero alternate  storicamente senza che il prevalere dell'una cancellasse completamente la presenza dell'altra. La Roma repubblicana sarebbe stata caratterizzata dalla concezione ascendente: i magistrati ricevevano il loro potere dalla cittadinanza. Tale concezione avrebbe ceduto il posto, con il dominato, a quella opposta, discendente, rafforzata dall'idea – destinata a prevalere durante l’età di mezzo – che il potere era nelle mani di Dio e si otteneva quindi "per grazia di Dio"[22].

Per rendersi conto di quanto sia stata profonda la permanenza della prima concezione, basterà ricordare come i Glossatori interpretavano la lex regia de imperio con cui a suo tempo il popolo romano aveva trasferito al princeps ogni potere. La tesi di Piacentino era che il popolo

 

certe non transtulit sic ut non remaneret apud eum, sed constituit eum quasi procuratorem ad hoc[23],

 

e Azzone soggiunge:

 

dicitur potestas traslata id est concessa quod non populus omnino se abicaverit eam[24].

 

Nei fatti, queste non erano rimaste concezioni astratte, ma si erano tradotte, dal punto di vista normativo, nel valore della consuetudine, e dal punto di vista istituzionale nel peso che in tutta Europa avevano le istituzioni cetuali, che affiancavano il monarca nell’esercizio della sovranità.

D’altro canto, sembra persino banale avvertire come sia inutile voler ricercare se nel medioevo esistesse una sovranità popolare così come noi la concepiamo, dal momento che durante tutto questo periodo è ancora sconosciuto il sentimento di nazionalità, e il popolo viene personificato nelle corporazioni, nei collegi dei meliores et maiores terrae che si battono per difendere i propri ordinamenti, ed è a tale scopo che vogliono partecipare alla vita dello Stato[25].

Ma per la Rivoluzione il popolo non deve tornare al ruolo che era stato sterilizzato dall’ascesa del potere assoluto del re, bensì diventare la sola sorgente della giustizia e dell'onore, il punto di riferimento ultimo del potere, la solenne incarnazione dell'autorità[26]. Ora, nella dottrina dello Stato costituzionale, la titolarità stessa del potere sovrano fa capo al popolo, il quale possiede in sè stesso la ragione del potere e la fonte illimitata dei diritti[27].

Tuttavia, la Rivoluzione si dibatte presto  fra il rifiuto della dimensione tradizionale della rappresentanza[28], e l’impossibilità della democrazia diretta. Così, se la costituzione del 1793 recitava «la sovranità è l'esercizio della volontà generale: risiede essenzialmente nel popolo»[29], dopo le esperienze postrivoluzionarie ed in particolare il "terrore", il concetto di sovranità viene già espresso in termini diversi e più restrittivi[30]. La costituzione francese del 1795, all'art. 17, infatti sancisce «la sovranità risiede essenzialmente nella universalità dei cittadini»[31]. La rivoluzione finisce così per dare inizio a un processo di serrata competizione volta all'attribuzione della sovranità fra il popolo e i suoi rappresentanti, fra assemblee primarie di base e assemblee legislative elette.

In questo quadro, la rappresentazione costituzionale del capo dello Stato viene evidentemente modificata nel profondo. Come suggerisce Montesquieu, il potere puro, già appartenuto al sovrano, deve essere ora distinto nei suoi tre aspetti: il legislativo, il giudiziario, l'amministrativo.

L'istituzione alla quale dalla rivoluzione francese venne affidato il potere esecutivo, e cioè quel potere che, rispondendo alla definizione letterale, doveva eseguire (e fare eseguire) le leggi, prende forma nel primo periodo rivoluzionario, quando ancora viene visto nelle mani del re quale «chef de l'administration du royaume» e quindi non più sovrano assoluto bensì primo tra i funzionari pubblici dello Stato, un funzionario che si serve dei ministri i quali, come nell'ancien régime, si configuravano come collaboratori diretti del re stesso e da esso dovevano essere scelti e revocati[32]. Ma le costituzioni francesi rifiutano sin dall’inizio di impostare la propria opera come riforma della monarchia in senso costituzionale all'inglese (King in Parliament). Si spiega così il rifiuto di attribuire al monarca il diritto di veto rispetto agli atti dell'Assemblea, a favore di un veto esterno che riduce il re, già indebolito nella costituzione del ‘91, a un capo del potere esecutivo, quasi del tutto privo di poteri normativi.

Successivamente, dopo la caduta della monarchia nel 1792, il potere esecutivo viene delegato ad un Consiglio esecutivo provvisorio formato dai ministri (che sono scelti dall'Assemblea) e sotto la presidenza di uno degli stessi. Comincia così a profilarsi la figura del Direttorio, figura che viene successivamente sancita prima dalla costituzione del 1793 e poi da quella del 1795.

Quest’ultima costituzione sarà quella destinata ad avere maggiore influenza sulle vicende costituzionali italiane; e non solo nell’immediato, vale a dire su quelle che nella storiografia italiana vengono indicate come “costituzioni giacobine”, ma anche più recentemente, cioè sui compilatori della Costituzione della Repubblica italiana[33]. Non a caso – e questo non è se non uno degli aspetti di quell’influenza, che si estende sino all’oggi – negli anni successivi alla seconda guerra mondiale, nell’ansia di rinnovamento politico legata alla fondazione della Repubblica, all’approvazione della nuova costituzione, e al ripensamento delle strutture dello Stato repubblicano, la storiografia italiana si è orientata verso una nuova interpretazione del giacobinismo, contro la precedente storiografia, che vedeva nel triennio rivoluzionario un momento di arresto fra il secolo delle riforme e il processo risorgimentale[34].

Certo, si trattava per il nostro Paese – così a cavallo fra Settecento e Ottocento, come a metà del Novecento – di un modello marcato a sua volta da notevoli contraddizioni, perché in qualche caso imposto a un sentimento popolare che si moveva controcorrente[35].

In conformità della prassi codificata dai francesi[36], tutte le costituzioni giacobine italiane a partire dalla prima, quella di Bologna, approvata il 4 dicembre del 1796, fino all'ultima, la napoletana[37], si aprono con una "Dichiarazione dei diritti e dei doveri dell'uomo e del cittadino"[38], che nella sua stessa formulazione rifiuta la tradizionale concezione del potere. Si tratta di diritti che non si collocano in una dimensione storico-naturale, in funzione di garanzia, come nella rivoluzione americana, bensì in una dimensione statualista e legicentrica, di impronta teorico-filosofica, ove si presentano come progetto e promessa, per il futuro, di una società più giusta.

Il potere legislativo, nel quale Bodin aveva visto il contrassegno della sovranità, resta in primo piano ma appartiene generalmente a due assemblee, elette con un sistema di secondo grado[39].

Il potere giudiziario, nel quale Montesquieu vedeva la maggiore garanzia di indipendenza, è affidato a giudici elettivi.

Al vertice dello Stato, ma apparentemente in secondo piano, il potere esecutivo, come in Francia, era affidato a un organo collegiale. A fondamento di questa scelta, stava evidentemente l’idea che suddividere il potere tra più persone fosse il «migliore baluardo contro la tirannia di uno solo»[40]. Variamente denominato (Consolato nella repubblica bolognese, come poi in quella romana del 1848 [41], Arcontato nella napoletana, ma per lo più, come in Francia, Direttorio), il numero dei suoi membri varia fra i tre del piano di costituzione per la repubblica cispadana del 1797 [42], i cinque della cisalpina, i nove della repubblica bolognese[43]. Protetti da un’immunità che cedeva solo a una denuncia scritta, vagliata da entrambe le Camere legislative (dalle quali, attraverso un sistema relativamente complicato, derivava la loro nomina), i membri del Direttorio dovevano essere scelti fra chi avesse compiuto almeno i trentacinque anni (40 nella costituzione della cispadana, allora un’età ragguardevole) e fosse stato membro del Corpo legislativo o ministro[44], ma dopo  almeno un anno dall’aver cessato tali funzioni[45] , e non erano rieleggibili alla stessa carica se non dopo che fosse trascorso un certo numero di anni (nella costituzione ligure, ad esempio, era necessario che ne trascorressero cinque[46]), così come solo dopo tre anni dalla sua cessazione in carica era eleggibile l’ascendente, il discendente, il fratello, lo zio, il cugino o il congiunto di chi fosse stato direttore. Era anche previsto che i membri del Direttorio si rinnovassero per un terzo ogni anno[47] e si alternassero di tre mesi in tre mesi nella carica di presidente (per l’uso e la custodia del sigillo)[48].

I poteri dei Direttori erano comunque parecchio circoscritti. Anzitutto, essi duravano in carica un periodo di tempo limitato, variabile fra i  due anni della napoletana, i tre della cispadana, e i cinque delle altre Repubbliche (termine temporale, quest’ultimo che viene nuovamente proposto nella discussione relativa ai lineamenti della Costituzione della Repubblica italiana)[49]. Essi non hanno più il potere legislativo e il giudiziario, fanno suggellare e pubblicare le leggi che sono state deliberate dal Corpo legislativo, ma ogni loro delibera deve essere controfirmata da un ministro; dispongono della forza armata, ma non la comandano; nominano i ministri, ma nel numero e con le incombenze determinati dal corpo legislativo.

 

 

3. – La reazione

 

Com’è noto, a partire da Burke, la critica alla Rivoluzione si muove contro l’idea che la società possa essere indirizzata e programmata a partire da alcuni principi astratti.

Al di là della vittoria della coalizione anti-napoleonica, i principi di diritto pubblico che si affacciano nelle teoriche di Talleyrand e Metternich e vengono formulati nel preambolo della costituzione di Luigi XVIII, mostrano la tendenza a rafforzare e rilegittimare i poteri costituiti di fronte al continuo impulso rivoluzionario[50]. Tale opera di stabilizzazione e consolidamento viene condotta affrontando il problema in radice, e cioè negando che le istituzioni politiche derivino la loro autorità e la loro legittimazione, dal potere costituente dei consociati. Viene così a cadere il diritto di ogni generazione di darsi una costituzione, proclamato nelle dichiarazioni dei diritti del 1793. Si riafferma, al contrario, il principio della riserva dinastica alla guida della vita pubblica: la borghesia si rende conto di non poter prescindere dall’idea di un potere fondato sulla legittimità e la tradizione storica da cui soltanto si ritiene ora possano prendere vita istituzioni stabili[51]. Lo stesso termine di nazione, sin qui equipollente a quello di popolo, acquista a tal fine un nuovo significato, estraneo al pensiero rivoluzionario[52]. Anzi, questa idea, in polemica con il volontarismo giacobino, e la mutevolezza di una costituzione-indirizzo, segna tutto l’800 (il pensiero va ad esempio alla scuola storica di Savigny), nella ripresa del modello storicistico di una costituzione–garanzia: la libertà viene nuovamente intesa come sicurezza dei propri beni e della propria persona, e dunque come limitazione del potere, a fini di garanzia.

La majestas personalis è accolta come principio efficiente nell’atto addizionale di Vienna. Ma un ordinamento secolarizzato non poteva più compiere con successo l’operazione di riportare indietro le lancette dell’orologio[53]. Non era possibile, ormai, difendere in modo plausibile la posizione del monarca se non assecondando i concetti giuridici fondamentali sviluppati a partire dalla sovranità popolare. Così la tendenza a inserire il re in un regime parlamentare – come in Gran Bretagna – si rende manifesta già nel 1814, rafforzandosi successivamente, così che presto, nelle costituzioni ottocentesche, al principio dell’octroi gracieux del sovrano, si sostituisce quello del patto giurato fra sovrano e popolo.

Il potere del principe è quindi divenuto un potere normato, che poggia su un accordo–costituzione, del quale ogni contraente può presentarsi come custode per la parte che concerne i suoi diritti.

Presto il sovrano non è più tale per diritto proprio: con il movimento liberale degli anni ’30, la monarchia si trasforma da istituto di diritto divino a monarchia parlamentare, mentre, nella nuova concezione giuridica dello Stato, sbiadiscono i residui dell’antico giusnaturalismo. La figura del re si giustifica ora con la necessità che un organo raffiguri in concreto l’unità dello Stato, ne promuova l’attività, ne assicuri la continuità. Gli si attribuisce una sfera d’azione direttiva, una partecipazione costante alle maggiori manifestazioni dell’attività statuale.

La teoria del potere mediatore del Capo dello Stato si colloca in questa dimensione. Nella lotta contro la restaurazione monarchica, che caratterizza il quadro costituzionale del XIX secolo, si manifesta – con Benjamin Constant[54] – la dottrina del pouvoir neutre, intermédiaire e régulateur, dottrina che secondo Schmitt corrisponde alla visione moderatamente liberale di una monarchia che si basa sulla divisione dei poteri[55] e sulla rinata distinzione fra auctoritas e potestas[56]. La dottrina formula l’idea che il re sia il più alto custode della costituzione[57] e rappresenti l’unità e permanenza della compagine statale[58].

 

 

4. – Statuto albertino e albori repubblicani

 

A questa visione si richiama il repertorio di prerogative e poteri del Capo dello Stato tipico di tutte le costituzioni del XIX secolo. Nello Statuto albertino, dopo l’art. 1, che proclama essere quella cattolica religione di Stato[59], gli articoli che vanno dal secondo al decimo riconoscono al re l’inviolabilità, il potere di redigere e promulgare le leggi, il comando delle forze armate, la rappresentanza internazionale dello Stato e la competenza a concludere trattati, il diritto di concedere la grazia e di commutare le pene, la nomina dei componenti del governo, dei senatori, dei funzionari dello Stato e dei magistrati, il diritto di sciogliere le camere.

Nell’immediato, la monarchia venne in Italia immedesimata con la grandezza dei fini raggiunti dal grande e glorioso Piemonte, così come più tardi la stessa immedesimazione le addebiterà la catastrofe del 1945.

In effetti, fu proprio lo Statuto (carta flessibile), non distinguendo fra leggi ordinarie e leggi costituzionali, a rendere possibile la profonda trasformazione delle istituzioni e, in ultima analisi, il loro sbocco nella dittatura. Ma soprattutto avvenne che, nel 1943, l’idea che il Capo dello Stato rappresentasse la continuità e la permanenza dello Stato unitario convinse il re della necessità di abbandonare Roma, ma di fatto in tal modo egli fece venir meno proprio la considerazione morale di cui ancora godeva l’istituzione regia e la fiducia in un suo pouvoir préservateur.

La tragedia attraversata e il peso acquistato dalle sinistre, spinsero i Costituenti italiani – in un rinnovato giacobinismo di cui non si vede ancora la fine[60] – a darsi un Presidente della Repubblica e un Presidente del Consiglio deboli[61]. Anche la funzione di custode della Costituzione indicata come propria del Presidente della Repubblica, è stata – in effetti – sostituita dalle Corti Costituzionali: non a caso si dice piuttosto, oggi, che egli può esercitare una moral suasion, vale a dire una azione rilevante più dal punto di vista politico-sostanziale che non da quello giuridico-formale. E d’altro canto, da quella stessa Costituzione – mai attuata in tutti i suoi articoli e di cui emergono con sempre maggior forza diversi aspetti bisognosi di riforma – è scomparso ogni concreto riferimento a un fondamento etico stabile, in ultima analisi indisponibile, in cui il diritto abbia il suo fondamento. Ove sussistano condizioni politiche favorevoli, ogni articolo della Costituzione può essere modificato o diversamente interpretato. Anche il rimando, sempre più invocato, a valori fondamentali, non sostituisce la concezione riconosciuta di un ordine divino del mondo. E se questa ha cessato di essere generale e vincolante ed è stata sostituita da una molteplicità di concezioni diverse, nessuna di esse può pretendere di avere un carattere incondizionatamente cogente. Infatti, il relativismo dei tipi sociali riaffermato da Durkheim, impedisce di minimizzare le differenze tra le leggi morali storiche, nella ricerca di un’unica serie di tali valori[62]. Del resto, i “valori” possono definire – in maniera molto astratta – un consenso presente o postulato, non lo possono tuttavia fondare a partire da loro stessi[63].

In una tale situazione – si può concordare con il Böckenförde[64] – diviene quindi decisiva l’eredità spirituale e culturale che la nazione porta in sé. Ma questa perde efficacia nel più o meno rapido modificarsi della composizione sociale dello Stato, ove è diventato labile anche il limite dell’ordine pubblico.

In tempi di crisi si avverte, quindi, più che mai la carenza di un potere più forte al vertice delle istituzioni, e talvolta è stato solo il carisma personale che ha consentito al Presidente della Repubblica di superare il momento inerziale decisivo perché il Paese tornasse a sollevarsi (si pensi ad esempio alla presidenza Pertini). Talvolta, invece, l’impasse politica ha spinto la costituzione vivente a riconoscere al Presidente un ruolo ben più incisivo di quello attribuitogli da quella formale (si pensi alle due presidenze Napolitano).

Certo, nessuna legge costituzionale può garantire che la persona scelta per assolvere questo compito possieda le capacità, le qualità morali o l’autorevolezza che sarebbero necessari; né può prevedere fino a che punto, proprio nell’assolverlo, sia l’interesse dello Stato e non quello personale o di partito a portare un capo di Stato a piegare, sin quasi a violarle, le norme costituzionali che disegnano, limitandole, le sue funzioni. Così, mentre la medesima evoluzione storica ha portato altri Paesi a indirizzarsi verso l’attribuzione al Presidente della Repubblica di poteri più incisivi, ovvero questi poteri ha attribuito a un Capo del Governo capace di risolvere con rapidità ed efficienza i problemi del Paese, nel nostro le pregiudiziali ideologiche e di partito – gli idola di baconiana memoria – hanno prevalso e continuano a prevalere sulla individuazione della convenienza personale e collettiva, e sulle scelte più adatte a conseguirla.

 

 

                    Abstract

 

The author assumes that one of the essential defining elements that still in the modern Era characterised the figure of the head of the State was its sacred nature, wherein was based its centrality in the state’s structure. On the contrary, specially in Italy, the development of the figure of the President of the Republic, with its weak powers, is a product of the secularization and religious unconcern of contemporary state and of its legal system that, beginning with the Reform, had its start with the XVIII century’s thinking, and the particular feature of the French Revolution.

But just the loss of a common ethics that is typical of Italian governments of our time, may advice a more powerful governing body

 

 

 



 

[Per la pubblicazione degli articoli della sezione “Contributi” si è applicato, in maniera rigorosa, il procedimento di peer review. Ogni articolo è stato valutato positivamente da due referees, che hanno operato con il sistema del double-blind].

 

* Il testo qui riportato è quello della relazione che la prof. Luisa Bussi ha tenuto all’incontro di studi su “Il Presidente della Repubblica in Italia ed in Polonia”, svoltosi a Varsavia nei giorni 20 e 21 maggio 2013, sotto l’alto patronato del Presidente della Repubblica Italiana Giorgio Napolitano e della Repubblica Polacca Bronisław Komorowski. Si è potuto realizzare grazie al supporto dell’Accademia Kozminski ed alla collaborazione dell’Associazione italo-polacca dei costituzionalisti. Gli atti relativi sono in corso di pubblicazione a cura di queste istituzioni.

 

[1] Statuto Albertino, art. 2: «Lo Stato è retto da un Governo Monarchico Rappresentativo. Il Trono è ereditario secondo la legge salica».

 

[2] Figlio di Carlo Emanuele di Savoia- Carignano, nonché marito di Maria Teresa d’Asburgo-Lorena, proprio in grazia alla legge salica succede a Vittorio Emanuele I, nonostante la successione gli venga contesa dalla figlia maggiore di Vittorio Emanuele I, Maria Beatrice (1793-1840). Questa aveva sposato il duca di Modena Francesco IV il quale, figlio dell’arciduca austriaco Ferdinando, era succeduto nel ducato modenese per via della madre Maria Beatrice, duchessa di Massa, figlia di Ercole III d’Este.

 

[3] E. CORTESE, Il problema della sovranità nel pensiero giuridico medievale, Roma 1966, 91.

 

[4] L’Imperatore veniva accompagnato presso l’altare ove si trovava il consecrator e quivi prestava il giuramento che gli veniva letto in lingua latina: «Vis sanctam fidem Catholicam et Apostolicam tenere et operibus iustis servare? Vis sanctis ecclesiis ecclesiarumque ministris fidelis esse tutor sc defensor? Vis regnum a Deo tibi concessum secundum justitiam praedecessorum tuorum regere et efficaciter defendere? Vis jura regni et Imperii bona eiusdem iniuste dispersa recuperare et confirmare et fideliter in usus regni et imperii dispensare? Vis pauperum et divitum, viduarum et orphanorum aequus esse judex et pius defensor? Vis sanctissimo in Christo patri et domino Romani pontifici et sanctae Romanae ecclesiae subiectionem debitam et fidem reverenter exhibere?». Ad ogni domanda l’Imperatore rispondeva volo, quindi aggiungeva la formula del giuramento: «Omnia praemissa in quantum divino fultus fuero adiutorio, fideliter adimpleo si me Deus adiuvet et Sancta dei Evangelia». Seguiva quindi l’unzione con l’olio benedetto in sette punti: al vertice del capo con un segno di croce; sul petto; sulla nuca; sulla spalla; sul braccio; sulla giuntura del braccio; sul palmo della mano. Su ciò E. BUSSI, Il diritto pubblico del Sacro Romano Impero alla fine del XVIII secolo, Milano 1970, 136-137.

 

[5] F. CABROL - H. LECLERCQ, Dictionnaire d’Archéologie Chrétienne et Liturgie, voce: Sacre Impérial et Royal, Paris 1950, t. XV, I, col. 305.

 

[6] E’ probabile che l’Unzione di Wamba (672-680) del 672 non fosse la prima, bensì fosse già frutto di consuetudine. L’esordio potrebbe rimontare a Recaredo (586-601), cioè al primo sovrano cattolico dei Visigoti spagnoli. Su ciò vedi M. BLOCH, Les rois thaumaturges, Paris 1983, 461.

 

[7] IACOPO DA VARAGINE, Leggenda Aurea, trad. C. Lisi, Firenze, vol. I, 100.

 

[8] Legge 21 febbraio 1861.

 

[9] Con la Riforma si afferma l’idea che la vita sociale vada lasciata al dominio del potere secolare, cui Dio avrebbe affidato la missione di reprimere i disordini introdotti nel mondo dal peccato. A questo scopo, la potenza statale deve avere a sua disposizione tutti i mezzi per fare in questo mondo quanto ritiene meglio per la salute dei sudditi, e così non solo dare norma al culto esterno, ma anche cambiare autoritativamente la religione del Paese. Al principe, quindi, verrà riconosciuto uno ius reformandi, consistente appunto nel diritto di stabilire la confessione religiosa del territorio da lui governato, cui si accompagnerà uno ius emigrandi  dei sudditi, secondo il principio cuius regio et eius religio. Nei territori riformati sarà dunque ora il principe a doversi fare carico di quelle funzioni sin qui espletate dalla Chiesa, come ad esempio l’istruzione e l’assistenza, e tale necessità lo sospingerà a circondarsi di uno stuolo di collaboratori di nuova specie, che solo da lui ricevono le proprie istruzioni, e che nel loro progressivo organizzarsi getteranno le basi della moderna pubblica amministrazione. Su ciò, E. BUSSI, Evoluzione storica dei tipi di Stato, Milano 2002, 207.

 

[10] Il carattere decisivo delle grandi lotte politiche e religiose del XVI secolo è affermato con molta chiarezza da H.J. BERMAN, Diritto e rivoluzione, II, L’impatto delle riforme protestanti sulla tradizione giuridica occidentale (ed. italiana a cura di D. Quaglioni), Bologna 2010, 24-40.

 

[11] V. PIANO MORTARI, Cinquecento giuridico francese, Napoli 1990, 334.

 

[12] Per Grozio, l’uomo, a somiglianza di tutto il regno animale, avrebbe una naturale disposizione a vivere in società. «Questa sociabilità ... ovvero questa cura di mantenere la società di una natura conforme ai lumi dell’intelletto umano, è l’origine del diritto propriamente detto», H. Grozio, Il diritto della guerra e della pace, (trad. A. Porpora, Napoli MDCCLXXVII) rist. an. con intr. di F. Russo e premessa di S. Mastellone, Firenze 2002, Introduzione, VIII.

 

[13] E. BUSSI, Evoluzione, cit., 214; J. ELLUL, Storia delle istituzioni. L'età moderna e contemporanea dal XVI al XIX sec., tr. it., vol. III, Milano 1976, 141; A. PADOA SCHIOPPA, Storia del diritto in Europa, Bologna 2007, 335.

 

[14] Sul punto vedi D. QUAGLIONI, La sovranità, Roma-Bari 2004, 80-120; G. TARELLO, Storia della cultura giuridica moderna, I, Assolutismo e codificazione del diritto, Bologna 1976.

 

[15] E. BUSSI, Evoluzione, cit., 242. Si tratta di un modo di pensare non lontano dal sentimento che serpeggia oggi in Italia – e non soltanto - nei confronti della sua classe politica.

 

[16] M. FIORAVANTI, Appunti di storia delle costituzioni moderne, Torino 1991, 79.

 

[17] Ibidem, 95.

 

[18] P. VIOLA, Il trono vuoto, Torino 1989, IX.

 

[19] E.W. BÖCKENFÖRDE, Stato costituzione democrazia, Studi di teoria della costituzione e di diritto costituzionale, a cura di M. Nicoletti e O. Brino, Milano 2006, 120; M. FIORAVANTI, op. cit., 43.

 

[20] W. ULLMANN, Principi di governo e politica nel Medioevo, tr. it., Bologna 1966, 15.

 

[21] Ibidem, 22 .

 

[22] W. ULLMANN, op. cit., 20.

 

[23] G.F. HAENEL, Dissensiones dominorum, Lipsiae 1834, 585.

 

[24] E. CORTESE, Il problema della sovranità, cit., 102. In modo simile argomenteranno i teorici del costituzionalismo giacobino, affermando che l’alienazione della sovranità fatta dal popolo a favore del re era limitata e revocabile, e poi dichiarandone la illiceità. Su ciò D. CANTIMORI - R. DE FELICE, Giacobini italiani, Bari 1964, 430.

 

[25] E. BUSSI, Evoluzione, cit., 137-138.

 

[26] P. VIOLA, op. cit., 40.

 

[27] J. ELLUL, op. cit., 256.

 

[28] Il monarca era stato colui grazie al quale era esistito il regno come sintesi unitaria trascendente le singole articolazioni territoriali e corporative: questa funzione è ora dell’assemblea rappresentativa, che cerca in ogni modo di evitare che si formi, attraverso la figura di un legislatore più o meno democraticamente eletto, un nuovo sovrano. Su ciò, M. FIORAVANTI, op. cit., 67.

 

[29] A. SAITTA, Costituenti e costituzioni della Francia moderna, Torino 1952, 146.

 

[30] M. DA PASSANO, Il processo di costituzionalizzazione nella repubblica ligure (1797-1799), in Materiali per una storia della cultura giuridica, III.1, 1973, 98.

 

[31] A. SAITTA, op. cit., 153.

 

[32] G. SAUTEL, Histoire des institution publiques depuis la révolution française, Paris 1982, 5a ed., 43 ss.

 

[33] Come sistema istituzionale in cui un collegio composto da più persone funge da capo dello Stato e del governo, si tratta di una forma di governo attualmente adottata soltanto dalla Svizzera, tanto a livello federale quanto per i singoli Cantoni membri della Confederazione. Solo a livello cantonale però l’esecutivo è eletto direttamente dal popolo. Nel passato, tale sistema costituzionale fu adottato anche in Uruguay (1917 e 1951), e in Jugoslavia (dalla morte del maresciallo Tito allo scioglimento della federazione). In ambo i casi non rimase in vigore che per un breve lasso di tempo.

 

[34] A partire dal Cuoco, che tacciava di astrattezza il pensiero dei giacobini e la loro azione di governo. V.E. GIUNTELLA, La rivoluzione francese e l’impero napoleonico, in Bibliografia dell’età del Risorgimento in onore di A.M. Ghisalberti, vol. I, 80.

 

[35] Il Maturi rilevava come in qualche caso il sentimento popolare si mosse a difesa della tradizione: il 21 gennaio 1797, durante il secondo congresso cispadano di Modena, circa 400 uomini scesero a Modena dal contado e tumultuarono contro l'assemblea che stava elaborando la costituzione cispadana, chiedendo a gran voce che nel primo articolo della costituzione la religione della Chiesa Cattolica Apostolica Romana fosse proclamata quale religione della repubblica. Vedi W. MATURI, Interpretazioni del Risorgimento. Lezioni di storia della storiografia, Torino 1962, 611.

 

[36] Nella stampa italiana dell’epoca si nota un concreto interesse a conoscere le basi dei progressi della società francese e del suo diritto. Ad esempio, “L’Italiano imparziale”, un quotidiano pubblicato a Parigi, veniva diffuso nei territori della penisola occupati dai Francesi, e introdotto clandestinamente negli altri, con l’intento dichiarato di far sì «che gli Italiani giudichino sanamente della sodezza delle basi della costituzione dell’anno III e che da un racconto fedele di ciò che accade giornalmente in Francia veggano i progressi dell’ordine che ogni dì vi si stabilisce». Vedi I giornali giacobini italiani, a cura di R. De Felice, Milano 1962, 22-23. Tuttavia, dall'esame delle singole norme e dei vari istituti – ad esempio quelli della costituzione napoletana il cui progetto fu elaborato da Mario Pagano – si possono notare «idee e concetti giuridici che mostrano un certo accostamento ad esigenze giuspubblicistiche di carattere generale e non del tutto estranee al patrimonio culturale dell'Italia illuministica e che quindi non si possono fare derivare esclusivamente dalla imitazione della esperienza d'Oltralpe e dalla aderenza al modello francese». Così C. GHISALBERTI, Le costituzioni giacobine (1796/1799), Milano 1957, 209.

 

[37] Il cui progetto non fu mai approvato e promulgato, in quanto la Repubblica cadde prima di tale approvazione nel giugno del 1799.

 

[38] Il modello era la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino contenuta nella costituzione francese del 22 agosto 1795. Su ciò A. SAITTA, op. cit., 152 ss.

 

[39] Solo la costituzione bolognese e la cispadana si basavano su un sistema elettorale più macchinoso e cioè su un triplice ordine di comizi (primari, decurionali ed elettorali). Vedi artt. 27-32 della costituzione bolognese e artt. 48-58 della cost. cispadana in A. ACQUARONE - M. D’ADDIO - G. NEGRI, Le costituzioni italiane, Milano 1958, 15 e 47.

 

[40] C. GHISALBERTI, op. cit., 12.

 

[41] Art. 33. Si può convenire con Ghisalberti che il nome di Console era perfettamente coerente con l’aspirazione degli organi direttivi della repubblica romana del 1798 di riallacciarsi alla tradizione della repubblica romana classica, mentre a Napoli ci si volle rifare alla terminologia della polis greca, donde il nome di Arconti ai Direttori. C. GHISALBERTI, op. cit., 239.

 

[42] Vedi l’art. 155 della costituzione cispadana. Pare che Bonaparte diffidasse di organi collegiali troppo numerosi, ma si addusse a motivo del numero ridotto la scarsa estensione del territorio dello Stato. Vedi G. DE VERGOTTINI, La costituzione della repubblica cispadana, Firenze 1946, 130; C. GHISALBERTI, op. cit., 238.

 

[43] Art. 18 della Costituzione di Bologna. Qui probabilmente il titolo di "Magistrato dei consoli”, e il numero elevato di membri denunciano il desiderio di riallacciarsi al glorioso anzianato del comune popolare cioè dell'antica democrazia bolognese. Su ciò G. DE VERGOTTINI, op. cit., 70. Ancor più elevato (15 membri) è il numero previsto a Genova dal progetto originario, mentre secondo la convenzione di Montebello avrebbe dovuto essere creato un Senato di dodici membri presieduto da un Doge. Nella stesura definitiva del testo costituzionale ligure, però, a seguito delle pressioni dirette di Bonaparte, il governo fu ridotto a cinque membri e denominato Direttorio, benché molti caldeggiassero un collegio più numeroso, in quanto vi vedevano una utile misura antioligarchica. Vedi l’art. 144 della costituzione ligure. Cfr. Osservazioni sulla costituzione ligure di A. Ranza, in M. DA PASSANO, op. cit., 166-167.

 

[44] Assemblee della repubblica romana (1798/1799), vol. I, per cura e con introduzione di V.E. Giuntella, Bologna 1954,  62. Per l’eleggibilità dei Direttori si richiedeva generalmente cittadinanza e domicilio nel territorio della repubblica per un periodo minimo di dieci anni. Nella costituzione bolognese (all'art. 82), si voleva che il console fosse «capace di ogni uffizio laicale», disposizione che implicava l’ineleggibilità del clero così alla carica di console come ai corpi legislativi. Il De Vergottini ritiene che tale norma si spieghi con le precedenti esperienze politiche dei bolognesi. Il governo pontificio aveva lasciato pessimo ricordo in tutta la città, sia per le sue scarse capacità amministrative, sia per i suoi attentati ai privilegi della città. Perciò tutta la classe dirigente della repubblica era concorde nel volere l'esclusione del clero dalla nuova vita costituzionale. Vedi G. DE VERGOTTINI, op. cit., 71.

 

[45] Art. 136 costituzione cisalpina del 1797 e art. 139 della costituzione cisalpina del 1798. Inoltre, la costituzione ligure, all'art. 46, sanciva che i cittadini che «sono stati membri dei consigli dell'antico governo non possono essere eletti membri del Direttorio nè del ministero». Questa disposizione, come è stato notato, si inseriva naturalmente nel quadro di un totale distacco dal precedente sistema politico e dai suoi rappresentanti. Così M. DA PASSANO, op. cit., 127.

 

[46] Art. 148 della costituzione ligure.

 

[47] Benché la cosa avesse suscitato le critiche di alcuni giacobini italiani ai quali «spiaceva che venisse stabilita l'esclusione di un membro del Direttorio che avesse ben meritato dalla nazione soltanto per timore della troppo lunga permanenza nella carica». S. PIVANO, Albori costituzionali d’Italia: 1796, Torino 1913, 388 ss. Il Direttore che doveva decadere dalla carica veniva scelto mediante estrazione a sorte. Vedi ad es. l’art. 137 della costituzione cisalpina del 1797.

 

[48] Secondo la costituzione cisalpina (art. 137), veniva scelto mediante estrazione a sorte il membro del Direttorio che doveva decadere dalla carica. Secondo la seconda costituzione cisalpina, approvata nel 1798 tale estrazione sarebbe dovuta avvenire in seduta pubblica (art. 140).

 

[49] Lineamenti della Costituzione della Rep. Ital., avviamento alla discussione, in La Costituente, 30 nov. 1945.

 

[50] M. FIORAVANTI, op. cit., 109.

 

[51] Nella carta francese del 1814 Luigi XVIII divide il potere legislativo con le due camere, ma riserva a sé il potere esecutivo e il controllo della giustizia che emana da lui. Egli è arbitro della convocazione e della proroga delle camere, per la scelta delle quali indice le elezioni politiche da svolgersi a suffragio censitario e ristretto. Con l’esclusiva iniziativa delle leggi, il re era partecipe del potere esecutivo statale. Il parlamento poteva discutere il testo e avanzare suppliche.

 

[52] V. CRISAFULLI-D. NOCILLA, voce Nazione, in Enciclopedia del diritto, XXVII, 1977, 792.

 

[53] E. W. BÖCKENFÖRDE, op. cit., 121.

 

[54] B. CONSTANT, Réflexions sur les constitutions et les garanties, in Collection complète des ouvrages de Benjamin Constant, Paris 1818, 14 .

 

[55] C. SCHMITT, Il custode della costituzione, tr. it., Milano 1981, 203-204.

 

[56] Già ai tempi della Repubblica a Roma, l’auctoritas si distingue dalla potestas in quanto a questa spetterebbe il compito dell’esecuzione, mentre alla prima, ammantata di honestas e di gravitas, quello della decisione. La distinzione viene riproposta nel primo Medioevo già dal papa Gelasio I per distinguere il potere spirituale da quello temporale. In tema vedi, da posizioni diverse, E. CORTESE, La norma giuridica. Spunti teorici nel diritto comune classico, Milano 1962, II, 207 ss.; nello stesso senso W. ENNSLIN, Auctoritas und Potestas. Zur Zweigewaltenlehre des Papstes Gelasius I, in Hist. Jahrbuch, 1955, 665 ss.; con ottica diversa W. ULLMANN, Medieval Papalism. The Political Theories of the Medieval Canonists, London 1949; Idem, The Growth of Papal Government in the Middle Ages, London 1955. 

 

[57] Così nella costituzione brasiliana del 25 marzo 1824 (art. 98), l’imperatore è indicato come la chiave di tutta l’organizzazione politica e gli si attribuisce il compito di vigilare sul mantenimento della indipendenza, dell’equilibrio e dell’armonia di tutti gli altri poteri politici. La stessa idea sarà espressa in quella portoghese a proposito del re (art. 71). Vedi K. SCHMITT, Il custode, cit., 22.

 

[58] Ivi, 209.

 

[59] Statuto Albertino, art. 1: «La Religione Cattolica, Apostolica e Romana è la sola Religione dello Stato. Gli altri culti ora esistenti sono tolleraticonformemente alle leggi».

 

[60] Vedi le considerazioni di S. FOIS, Liberalismo e democrazia: quattro interrogativi, ora in La crisi della legalità. Raccolta di scritti, Milano 2010, 645 ss.

 

[61] In Assemblea Costituente si manifestò un netto rifiuto di qualunque tipo di repubblica presidenziale. Vedi L. PALADIN, voce Presidente della Repubblica, in Enciclopedia del diritto, XXXV, 1986, 166.

 

[62] Così T. PARSONS, La struttura dell’azione sociale, tr. it., Bologna 1962, 462.

 

[63] Su ciò E.W. BÖCKENFÖRDE, op. cit., 142.