Testatina-Contributi2013

 

 

Gazzolo-7 7LOCKE E IL CONCETTO DI LEGGE

 

TOMMASO GAZZOLO

Università di Sassari

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SOMMARIO: 1. Introduzione. – 2. Eternal Rule e “strana dottrina”. – 3. Gli «inconvenienti» dello stato di natura. – 4. La ragione come interprete. – 5. Dal dovere al diritto. – 6. Legge positiva ed appello al cielo. – 7. ConclusioniAbstract.

 

 

1. – Introduzione

 

Si possono individuare almeno due livelli di lettura dei testi politici di John Locke. Il primo è quello che attiene alla definizione della filosofia politica dell’autore: ricerca dell’ordine legittimo, determinazione dei limiti dell’obbligazione politica, teoria dei «diritti naturali», etc[1]. E’ su questo piano che il pensiero di Locke si articola all’interno di quel «tornante» del costituzionalismo moderno[2] di cui egli sarà uno dei più significativi rappresentanti.

Si tratta, però, di una scrittura attraversata da una serie di scarti, spaziature, spostamenti che determinano il passaggio ad un diverso livello di riflessione. Cambia il sistema di domande, si risponde a nuovi e diversi problemi. Dalla filosofia politica si passa alla filosofia del diritto, dalla conoscenza delle cose politiche alla creazione di concetti.

Locke ha bisogno di questa doppia scrittura, perché solo essa gli consente di definire un nuovo oggetto teorico, senza il quale la sua ideologia politica non potrebbe essere pensata e resa disponibile. Questo oggetto è la legge. La legge non è un fatto, né la semplice espressione di un comando, di una prescrizione. La legge, diversamente, è il prodotto, il risultato di un’arte particolare: quella di «formare, di inventare, di fabbricare concetti»[3].

Locke possiede quest’arte, e fabbrica un nuovo concetto di legge. In queste pagine, si tenterà di seguire e ricostruire i  differenti passaggi retorici, semantici, lessicali (spostamenti di senso, stratificazioni, interruzioni, riscritture, etc.) che consentiranno al filosofo inglese questa invenzione, questa creazione.

Nelle pagine che seguono, si tenterà pertanto di ripercorrere brevemente le differenti operazioni compiute da Locke nella definizione del concetto di legge, con particolare riferimento al Secondo Trattato sul Governo.

Si deve, tuttavia, quantomeno accennare ad alcuni caratteri generali – ma validi anche per Locke – relativi a questa attività di creazione dei concetti. Anzitutto, tra le due scritture, tra i due “livelli” – politico e giuridico – non c’è separazione, ma reciproca implicazione, un continuo gioco di rimandi. Ogni filosofia è, infatti, pratica: «anche quella più contemplativa» è sempre un’«arma sociale e politica»[4]. C’è sempre, in altri termini, una prassi che è implicata nel concetto, una lotta politica che si esprime attraverso quest’ultimo (ed ogni discorso giuridico è dunque in un certo rapporto con un contro-discorso interno di lotta).

In secondo luogo, occorre ricordare come ciascun autore sia costretto a riflettere i propri problemi ed a pensare i propri concetti entro un certo «campo ideologico fondamentale». Esiste, in ogni tempo, un sistema di riferimenti, un certo sistema di domande che governano determinate risposte, entro il quale ogni autore inizia a pensare. È quella che Althusser chiama la necessità della contingenza dell’inizio.

Ogni autore si trova allora obbligato a formulare la propria scoperta, a pensare i propri problemi, mediante i concetti teorici già esistenti in quel momento. Per questa ragione non si crea un concetto nuovo che utilizzando concetti o parti di concetti già esistenti, “muovendo” in un certo modo i significati già consolidati,  spingendoli al limite, verso un punto di rottura. Punto di rottura che rivela il carattere polemico di ogni filosofia, il fatto che essa sempre «si afferma contro (o a favore) della filosofia dominante»[5]. Vi sono, qui, tutta una serie di operazioni possibili, le quali tuttavia rispondono alla stessa logica, alla stessa arte («l’arte di dire ciò che si sta per scoprire usando proprio ciò che si dovrà dimenticare»[6]). 

Un filosofo crea un nuovo concetto quando riesce a scrivere al di là del linguaggio che è costretto ad usare, quando crea al suo interno un nuovo senso, quando impone una sorta di lingua straniera. La creazione dei concetti avviene così: spostandosi e «cambiando la lingua».  

Si deve ritornare, allora, a questa “strana arte”: imparare a dire dimenticando. Il che significa anche: imparare a dire tacendo. C’è tutta un’arte del silenzio, arte del tacere, che accompagna la filosofia, la creazione di concetti. Leo Strauss ha insistito, proprio con riferimento a Locke, su questo punto[7], sull’arte di tacere che si nasconde nei concetti: arte della dissimulazione, del non-detto. Arte che separa il testo dall’opera, arte che scrive sempre attraverso due registri distinti, che ci obbliga sempre a domandarci se «il libro che si è appena letto, è proprio l’opera che si deve leggere»[8]. Bisogna sempre lavorare sui silenzi propri di ogni filosofia, su ciò che l’autore «necessariamente sottintendeva» sul «non detto che pure è presente in ciò che dice»[9].

Un’ultima considerazione, infine. Ogni filosofo apre ad un non-pensato. Come scrive Heidegger, quanto più grande è l’opera di pensiero di un pensatore, tanto più ricco è ciò che in essa è impensato, vale a dire ciò che solo ed esclusivamente grazie a tale opera emerge come il non-ancora pensato[10]. Si potrebbe aggiungere: ogni filosofo, in un certo senso, «dice ciò che non sa»[11].

Questo non-pensato è ciò che ci permette di seguire il «divenire del concetto». I concetti, una volta prodotti, una volta “montati”, si intersecano, si oppongono, si “urtano” con altri concetti, formando storie, serie, unendo i rispettivi problemi da cui nascono[12].

L’arte di Locke, la sua scrittura della «legge comune» come eternal rule, costituisce in questo senso un passaggio obbligato all’interno della storia della cultura giuridica moderna e, in particolare, dello studio dei mutamenti interni a quell’«entità indefinibile»[13] che è la costituzione inglese.

 

 

2. – Eternal rule e “strana dottrina”

 

Nella definizione del concetto di legge, Locke insiste più volte sulla necessità di pensare legge naturale (law of Nature) e legge positiva come momenti di una stessa «norma eterna» (eternal rule), identificata con la volontà di Dio (o legge divina). «E’ lui che comanda ciò che la ragione comanda». Dio è l’autore della legge naturale[14], dei  «limiti» da essa imposti (within the bounds of the law of Nature), dei reciproci doveri da essa prescritti.

In apertura del Secondo Trattato, la ripresa del giusnaturalismo “classico” – attraverso il ricorso all’autorità di Hooker – consente a Locke di presentare la legge di natura come definita essenzialmente a partire dal dovere, dall’obbligo. Gli uomini sono uguali, infatti, in quanto servi di Dio (all the servants of one sovereign master): «tutti servitori di un solo supremo Signore, invitati nel mondo per suo ordine e per i suoi intenti, essi sono proprietà di colui di cui sono opera»[15].

La condizione di uguaglianza non è, come in Hobbes, fattuale (equality of ability), ma già normativa: è uguaglianza nei doveri, negli obblighi reciproci[16]. Così Locke: «il saggio Hooker considera questa eguaglianza naturale così evidente in se stessa e al di là di ogni dubbio, da porta a fondamento di quell’obbligo al reciproco amore fra gli uomini sul quale egli basa i doveri che abbiamo gli uni verso gli altri»[17].

The judicious Hooker: riferimento «sospetto», dettato da ragioni essenzialmente di «prudenza»[18]. Il giusnaturalismo di Locke, come si vedrà in seguito, si articola infatti a partire da almeno uno scarto essenziale rispetto alla concezione “classica”. Saranno infatti i diritti, e non i doveri, il fatto etico fondamentale e primario della dottrina moderna del diritto naturale[19]. Lo ius è anzitutto diritto, e non, come nel giusnaturalismo classico, dovere, officium.

Questo riferimento al dovere, alla legge di natura come vincolo, obbligo, risponde in realtà ad un problema preciso, particolare. La definizione della legge di natura come obbligazione («In Dio si risolve, infatti, in definitiva, ogni obbligazione»[20]) non pone, per Locke, la questione di individuare il contenuto della legge (se non attraverso il richiamo, retorico, all’obbligo «to mutual love amongst men»[21]).

Locke, diversamente, “sposta” i termini del problema. Ciò che interessa, infatti, è la distinzione tra libertà e obbligazione, tra ius e lex, stato di natura e stato civile, pensata da Hobbes. La legge, in Locke, è già da sempre presente come obbligazione (ed al contempo come libertà) in quanto eternal rule, norma e regola eterna di condotta.

Non c’è separazione tra obbligo e libertà bensì continuità e identità tra la «perfetta libertà di regolare le proprie azioni e di disporre dei propri beni e persone» ed i «limiti della legge di natura», in quanto limiti posti direttamente da Dio. Per questa ragione la legge positiva non crea nuovi obblighi, ma si limita a rafforzare (enforce) quelli della legge naturale:

 

Gli obblighi della legge di natura non vengono meno nella società, ma anzi in molti casi diventano più stretti, e le leggi umane vi associano sanzioni tanto note da rafforzarne il rispetto. Così la legge di natura costituisce una norma eterna per tutti gli uomini, per i legislatori come per gli altri. Le norme che essi dànno per le azioni degli altri uomini devono essere – come pure le loro proprie azioni e quelle altrui – conformi alla legge di natura, cioè alla volontà di Dio di cui quella è una manifestazione […][22];

 

Le leggi civili positive infatti non sono obbliganti di per sé, per forza propria, o in qualsiasi altro modo se non in virtù della legge di natura[23].

 

Questa definizione della legge come eternal rule consente due operazioni fondamentali. Anzitutto, Locke definisce la legge come se vi fosse un’identità fondamentale tra i differenti livelli in cui essa si articolerà nel corso del Secondo Trattato: legge di Dio / legge di natura / legge definita dal magistrato («potere comune di appello») / legge dell’assemblea («legge positiva»). Locke insisterà più volte su questo punto: è sempre la stessa legge, summa ratio, legge che è ciò che la ragione scopre. Lo ripeterà sino alla fine del suo ragionamento: la legge positiva deve coincidere con la legge naturale.

Eppure, proprio nella transizione da un livello all’altro, Locke “lavora” sul concetto di legge, spostandone il senso, cambiandone il significato. Il riferimento ad una «legge eterna», sempre identica a se stessa, consentirà a Locke di compiere una serie di spostamenti di senso – ossia di creare un concetto di legge radicalmente diverso da quello inizialmente presentato sulla scorta di Hooker – senza che sia messa mai in discussione la definizione della legge di natura come legge di Dio.

In secondo luogo, la definizione della legge naturale come già da sempre efficace, valida e vincolante permette a Locke di pensare lo «stato di natura», lo stato in cui «gli uomini si trovano naturalmente» (estate all men are naturally in), da un punto di vista differente da quello di Hobbes. Per quest’ultimo, infatti, lo stato di natura è definito essenzialmente dallo ius, dalla libertà, ossia dall’assenza della legge. Sarà allora il problema della definizione dell’autorità del legislatore che verrà principalmente discusso all’interno del discorso hobbesiano. 

In Locke, la prospettiva è spostata. Lo stato di natura si definisce, infatti, in riferimento al problema della costruzione dell’autorità del magistrato: «Quando gli uomini vivono insieme secondo ragione (Men living together according to reason) senza un superiore comune sulla terra (without a common superior on the earth), con l’autorità di giudicarsi tra loro (with authority to judge between them), si ha propriamente (properly) lo stato di natura»[24].

Ciò che separa la «legge di natura» dalla «legge positiva» non è, pertanto, l’obbligazione in sé considerata, quanto l’autorità di decidere le controversie (authority to decide controversies):

 

Coloro che sono riuniti in un sol corpo (into one body) e hanno una legge comune stabilita (a common established law) e una magistratura cui appellarsi (judicature to appeal), dotata dell’autorità di decidere le controversie tra loro insorte e di punire i trasgressori, si trovano gli uni con gli altri in società civile (civil society); ma coloro che non dispongono di questo comune appello (common appeal) – sulla terra, intendo – sono ancora nello stato di natura, ciascuno essendo – laddove non c’è alcun altro – di per sé stesso giudice ed esecutore […][25].

 

La mancanza di un common appeal, di un giudice comune, è ciò che separa lo stato di natura dalla società civile. Nello stato di natura, infatti, in cui tutti gli uomini sono uguali e la legge naturale stessa vieta ogni rapporto di subordinazione e dominio, l’esecuzione di quest’ultima non può che essere affidata nelle mani di ciascuno (§7). È quella che Locke definisce una «strana dottrina»[26], e che tenta pertanto di definire e giustificare.

Ogni uomo ha il dovere, per natura, di conservare se stesso e, correlativamente, preservare gli altri uomini, a meno che egli non sia chiamato a «far giustizia di un trasgressore» (to do justice on an offender).   Come ogni legge, infatti, anche la legge di natura sarebbe vana se non ci fosse qualcuno «che nello stato di natura ha il potere di renderla esecutiva (power to execute that law) e così proteggere gli innocenti e reprimere i trasgressori». Questo potere, in natura, appartiene necessariamente a ciascuno:

 

Infatti in quello stato di perfetta uguaglianza, dove per natura non ci è alcuna superiorità o giurisdizione (there is no superiority or jurisdiction) di uno su un altro, ciò che uno può fare per rendere esecutiva quella legge (do in prosecution of that Law) ognuno deve di necessità avere il diritto di farlo[27].

 

È solo con l’esecuzione della legge, scrive Locke, che si consegue un potere su un altro uomo, il quale, tuttavia, deve intendersi limitato alla retribuzione, ossia all’afflizione di un male proporzionale alla trasgressione della legge di natura posta in essere.

Questo diritto di «fare del male legalmente» (lawfully), si fonda sul fatto che chi trasgredisce la legge di natura si pone fuori dalla ragione e dalla comune giustizia, ossia fuori dalla servitù imposta da Dio sugli uomini e che è funzionale alla loro reciproca sicurezza:

 

Essendo questo un reato contro l’intera specie (a trespass against the whole species) e la sua pace e sicurezza cui presiede la legge di natura, ogni uomo, in base al diritto che ha di provvedere alla sopravvivenza dell’umanità in generale (by the right he hath to preserve manking in general), può reprimere – o se è necessario – distruggere ciò che è ad essa nocivo[28].

 

L’uomo, con la trasgressione della legge, dichiara guerra al genere umano (declared war against all mankind),  diventa una creatura nociva (a noxious creature): «degrada se stesso dal rango di uomo a quello di animale con l’usare la forza come norma del suo diritto».

Ciascuno ha il diritto di proteggere la propria specie, abbattendo il brutale assassino, uccidendolo come si fa con un leone, una tigre o «una di quelle bestie selvagge con cui gli uomini non possono mettersi in società né riceverne sicurezza».

«Siffatti uomini – aggiunge Locke – non sottomettendosi ai vincoli della comune legge di ragione (they are not under the ties of the common law of reason) e non avendo altra regola che quella della forza e della violenza (have no other rule but that of force and violence), possono essere trattati come bestie da preda (beast of prey), creature pericolose e nocive»[29].

 

 

3. – Gli «inconvenienti» dello stato di natura

 

L’esecuzione individuale della legge di natura si fonda sul giudizio che ciascuno può dare dell’avvenuta trasgressione della legge naturale e sulla conseguente esecuzione di quest’ultima. Si tratta di un giudizio che, in assenza di un comune potere di appello, di una giurisdizione, ognuno dà in coscienza: «Di ciò posso giudicare solo io stesso, nella mia propria coscienza (of that I my self can only be judge in my own conscience[30].

A questo punto della trattazione, Locke introduce una possibile obiezione. L’anticipazione di eventuali obiezioni da parte di un ipotetico lettore, costituisce una tecnica retorica. Locke, però, sposta immediatamente il problema: riconosce senza esitazioni che questa obiezione, in effetti, «confuta» quella “strana dottrina” che, fino a quel momento, egli aveva difeso[31].

L’obiezione è, apparentemente, semplice: nessuno può essere giudice in causa propria, così che ciascuno finirà per «esagerare nel punire gli altri». Locke, in realtà, riformula, anche se impercettibilmente, l’obiezione stessa, nel momento in cui dichiara di volerle concedere campo:

 

[…] concedo facilmente (I easily grant)  che il governo civile sia il rimedio adatto agli inconvenienti dello stato di natura, che debbono certamente essere gravi qualora gli uomini possono essere giudici nella propria causa, giacché è facile immaginare che chi sia stato così tanto ingiusto da recare offesa al proprio fratello, non sarà così giusto da condannarsi a causa di ciò[32].

 

Si veda, anzitutto, come Locke riformula l’eccezione: nemo iudex in causa sua significa, per Locke, che nessuno che commetta una trasgressione della legge sarà disposto, per questo solo fatto, a condannarsi.

È una riscrittura dell’obiezione, come Locke l’aveva presentata da principio: «non è cosa ragionevole che gli uomini giudichino della propria causa; si dirà che l’amor di sé li  renderebbe parziali verso se stessi e i propri amici, mentre la malvagità naturale, la passione e lo spirito vendicativo li porterebbe a esagerare nell'atto di punire gli altri»[33].

Locke ha spostato il senso del principio «nessun giudice in causa propria». Esso rischia di non essere rispettato non perché gli uomini sarebbero parziali nel giudicare gli altri, quanto piuttosto perché nessuno, violando la legge, sarebbe disposto a riconoscere la propria colpevolezza.

Questa modifica dell’argomentazione obbliga ad una riflessione. Locke aveva, nei Saggi sulla legge di natura, sostenuto a più riprese una tesi opposta. In essi si legge che l’esistenza della legge naturale sarebbe dimostrata proprio dal fatto che «giudicandosi da solo nessuno si assolve per il male che commette (no one who commits a wicked action is acquitted in his own judgement). Il giudizio, infatti, che ognuno dà di se stesso fornisce una testimonianza dell’esistenza della legge naturale»[34]. Lo stesso concetto viene ripreso e così riformulato più avanti:

 

Ogni obbligazione infatti sottomette la coscienza e impone un vincolo alla mente stessa, in maniera che non è il timore della pena, bensì la consapevolezza di ciò che è giusto ad obbligarsi, e la coscienza ci fornisce un giudizio sul comportamento morale, sicché ci giudichiamo noi stessi, a ragione, degni di pena, nel caso in cui abbiamo commesso un reato. È vero infatti quel verso del potere, «giudicandosi da solo nessuno si assolve per il male commesso»: ma sarebbe senza alcun dubbio diverso se soltanto il timore della pena producesse l’obbligazione[35].

 

Se, pertanto, il giudizio, pur in causa propria, è dato secondo coscienza, esso non dovrebbe mai risolversi in una violazione della legge naturale. Non si può evitare, allora, di notare la contraddizione tra le due affermazioni di Locke:

 

Chi sia stato così tanto ingiusto da recare offesa al proprio fratello, non sarà così giusto da condannarsi a causa di ciò / Nessuno, che ha commesso il male, nel giudicarsi si assolve (Iudex nemo nocens absolvitur).

 

Forse, allora, l’«obiezione» che Locke formula ne nasconde un’altra. Nasconde un’altra esigenza. Cosa può sostenere la necessità del principio «nessun giudice in causa propria»? O, più propriamente: quale è la condizione affinché le due tesi che Locke presenta non entrino in contraddizione tra loro?

L’«inconveniente» alla dottrina dell’esecuzione individuale della legge naturale non può venire alla luce se non attraverso la domanda fondamentale che Locke articola in ordine allo stato di natura. Domanda politica, che riguarda l’autorità del magistrato, l’istituzione del potere del Giudice (del “comune appello”).

Occorre, sul punto, una precisazione: Locke ricorre al termine «magistrato» sia per riferirsi al «potere legislativo supremo»[36] sia per indicare il potere di risolvere le controversie tra i privati. Sarebbe, tuttavia, improprio tentare di definire il magistrato, in Locke, a partire dalla distinzione tra potere legislativo e potere giudiziario. Questa separazione di funzioni o di organi (power) è secondaria[37], e resa disponibile da una differenza più profonda, che è quella cui si riferisce Locke.

Ciò che è in questione è la legittimazione, il tipo di giustificazione dell’autorità politica in relazione al concetto di legge elaborato da Locke. La legge comune, l’eternal rule, viene pensata da Locke attraverso un certo tipo di rapporto con la temporalità: eternal, infatti, indica che la legge non è più pensata a partire dal passato, dal potere paterno, ma è determinata come eterna (fuori dal tempo: «i vincoli di questa legge sono eterni e coevi al genere umano, nati con lui e destinati a finire con lui»[38]).

Questo spostamento riguarda il potere politico. Locke – soprattutto attraverso il Primo Trattato sul Governo – critica ogni legittimazione ad un’autorità politica di tipo paterno come autorità del passato, in cui è il passato che genera l’autorità (rapporto di causa – effetto)[39]. È questo tipo di autorità che, con Locke, cessa di essere possibile[40]. Occorrerà «offrire un altro principio al governo, un’altra origine al potere politico»[41].

Questo altro principio passa certamente, in Locke, attraverso il contratto sociale, la rappresentanza, ossia attraverso la costituzione del potere parlamentare. Potere che, tuttavia, non coincide con ciò che comunemente s’intende con potere legislativo. Esso, piuttosto, implica una concezione dell’autorità che si avvicina maggiormente a quella del giudice (del magistrato).

Se si segue la distinzione di Kojève, l’autorità del giudice si fonda sull’opposizione ad ogni «autorità del tempo» (presente, passato, avvenire). L’autorità del magistrato è «refrattaria ad ogni temporalizzazione», fuori dal tempo: essa, infatti, deve esistere da sempre, ed il Giudice ha autorità proprio in quanto il suo potere è espressione di un’idea di diritto eterna, ossia la giustizia (o una certa concezione della giustizia intesa come idea eterna).

La «legge comune», la common law, in Locke, non può essere pensata come autorità del passato storico, tradizione, se non attraverso il suo essere eternal, se non nel suo rimandare ad una «autorità dell’Eternità». È, del resto, la critica alla trasmissione dell’autorità da Dio ad Adamo, e da Adamo al Re, che rende possibile il “magistrato”, in Locke[42].

L’eternal rule separa il potere parlamentare da quello che sarà soltanto una sua successiva trasformazione storica, ossia la sua identificazione con un tipo di autorità (quella del legislatore) definita a partire dal primato dell’avvenire. L’autorità del Legislatore è legittima nella misura in cui crea diritto a partire dal primato dell’avvenire; è autorità che incarna il domani, ciò che si ha davanti a sé. Il diritto è sempre, qui, pensato a partire da un progetto, ossia dalla necessità di superare il diritto che è ora per un diritto da crearsi, futuro. L’autorità dell’avvenire «appartiene ai “progetti” che oltrepassano essenzialmente il dato»[43].

Locke è estraneo a questa concezione, che sarà invece propria del pensiero politico della Rivoluzione francese[44]. C’è un principio che Locke non mette mai in discussione: the law of nature stands as an eternal rule to all men. La legittimazione del potere parlamentare, allora, non si articola attraverso la definizione di un’«autorità del legislatore» (primato dell’avvenire), bensì attraverso un concetto di legge fondato sul magistrato – sia esso “legislatore” o “giudice” – come interprete di una legge eterna.

«Potere parlamentare» e «potere legislativo» costituiscono, in Locke, la risposta a due problemi differenti. Il primo definisce la nuova forma di legittimazione politica dell’autorità: contratto e rappresentanza. Il secondo, invece, costituisce l’articolazione del concetto di legge sul piano delle funzioni che le differenti autorità esercitano all’interno di un governo (commonwealth).

Ed è per questa ragione che il «potere di fare le leggi» (power to make law) implica, in realtà, un riferimento continuo al potere di interpretazione della legge. La scrittura della legge, per come pensata da Locke, rinvia sempre ad un gioco di rimandi tra autore (Dio – autore assente – Parlamento/Re) e interprete (magistrato – giudice – legislatore) della legge (così nel linguaggio di Locke: make, enforce, interpret non sempre si possono separare e definire).

 

 

4. – La ragione come interprete

 

Il concetto di Dio non ha una funzione teologica, ma filosofica, in Locke. Esso, in altri termini, serve a dare espressione ad una serie di problemi concreti, di natura politica[45]. Se Locke insiste nel definire Dio autore della legge naturale, ciò dev’essere letto a partire dalla separazione tra creazione ed interpretazione della legge.

Dio ha la «dignità del legislatore supremo»: promulga la legge, mediante una «dichiarazione di volontà», imponendo «ciò che deve o non deve essere fatto»[46]. Cosa significa? Significa la definizione di un ulteriore aspetto, nella creazione del concetto di legge: il problema fondamentale, per Locke, non è relativo alla legittimazione del potere come autore della legge, bensì come suo interprete. Il riferimento a Dio come «autore», rende possibile identificare la questione reale discussa da Locke: come è stato osservato, infatti, «il potere di Dio, in fondo, è il potere di chi è in grado di conoscere Dio»[47].

La legge di natura, secondo Locke, è ricevuta, e non creata dalla ragione: «La ragione, più che istituire e prescrivere questa legge di natura, la ricerca e la ritrova, sancita da un potere superiore, insista nell’animo nostro, senza esserne dunque autore, bensì interprete»[48].

La ragione non dà leggi, ma procede sempre da una verità posta: «La ragione, infatti, quella potente facoltà di argomentare, non procede mai, se non dopo aver stabilito e concesso un punto di partenza […]. Non getta le fondamenta della conoscenza»[49].

Questa assenza di fondamento implica la distinzione tra differenti livelli o modi di conoscenza della legge naturale: iscrizione, tradizione, senso, rivelazione. La legge naturale non è innata, «iscritta nei nostri cuori». Le leggi di natura non sono infatti connaturali all’anima, non sono «ad essa intime»:

 

Non vorrei qui essere frainteso, come se, per il fatto che nego una legge innata, io pensassi che non esistano leggi se non positive. Vi è una ben grande differenza tra una legge innata ed una legge di natura; tra qualcosa di impresso originariamente nelle nostre menti e qualcosa di cui siamo ignoranti, ma che possiamo conoscere mediante l’uso e la debita applicazione delle nostre facoltà naturali[50].

 

La conclusione conduce ad una nuova separazione tra natura e ragione (che sembrava invece elusa dal superamento della contrapposizione hobbesiana tra ius e lex). Non tutti gli uomini forniti di ragione, infatti, conoscono la legge naturale: «la legge naturale risulta conoscibile per mezzo della ragione; dal che non segue però necessariamente che essa debba essere nota ad ognuno, chiunque esso sia»[51]. La legge non è iscritta nei nostri cuori, ma nascosta «nella natura segreta delle cose stesse», come le più ricche vene d’oro e d’argento sono nascoste nelle viscere della terra[52].

La legge di natura non è conosciuta, pertanto, «a partire dal consenso degli uomini», come aveva, invece, affermato il “saggio” Hooker (per il quale the general and perpetual voice of men is the sentence of God himself). Il patto positivo tra gli uomini non prova la legge di natura: nulla di più falso del «proverbio di cattivo augurio» Vox populi, vox Dei, della scellerata idea di una legge che dipende dal consenso di una «moltitudine impazzita»[53].

C’è una tassonomia precisa che è resa possibile dalla ridefinizione del problema della conoscibilità della legge naturale: uomini buoni e onesti / uomini corrotti[54]; laboriosi / pigri; ciechi / illuminati[55], etc.  Opposizioni, queste, che sottendono lo stretto legame, presente in Locke, tra sapere politico e «formazione del gentleman»[56].

Occorre un lungo esercizio, una «attenta meditazione, riflessione ed attenzione da parte dell’intelletto» per poter apprendere la legge naturale. Secondo Locke, i più non possono comprendere la legge di natura, la quale necessita di una dimostrazione difficile e complicata:

 

La maggior parte dell’umanità manca del tempo libero e delle capacità per una dimostrazione del genere, e si può sperare con altrettanto fondamento di trasformare in perfetti matematici tutti i lavoratori a giornata ed i commercianti, insieme a tutti i filatori e a tutte le lattaie, che rendere tutti costoro perfetti in etica con questo sistema[57].

 

Il popolo non è in grado di “scoprire” la legge di natura, in quanto essa ha bisogno di una dimostrazione.

È possibile, a questo punto, riarticolare l’“obiezione” e l’“inconveniente” relativo all’esecuzione individuale della legge di natura. L’affermazione del principio nessun giudice in causa propria, in Locke, non risponde ad un problema di coscienza, quanto piuttosto di conoscenza della legge naturale.

È la possibilità di conoscere la legge, di interpretarne i dettami, ad essere in causa. Ed è questo aspetto che consente la definizione dell’autorità del magistrato come elemento essenziale del concetto di legge: «il carattere obbligante e vincolante della norma deriva, sì, formalmente, dalla legittimità del potere, ma effettivamente deriva dalla sua conoscibilità»[58].

L’«attenta meditazione» necessaria per «penetrare nella natura segreta delle cose stesse»[59] e scoprire così la legge naturale implica, infatti, un’ulteriore elaborazione concettuale della separazione tra «ragione naturale» e «ragione artificiale» introdotta da Coke nella definizione della common law[60].

La common law (l’eternal rule di Locke) viene così definita come quell’insieme leggi, istituti e consuetudini, derivate da immutabili principi di ragione, la cui interpretazione è sottratta al potere del Re. La sola ragione legale, artificiale è summa ratio e facoltà discorsiva di decifrare il sistema di limiti al potere definitosi lungo un succedersi di epoche e ad opera di individui «dotti e gravi», secondo le parole di Coke.

La distinzione tra ragione naturale e ragione artificiale aveva consentito al Parlamento di legittimare il diritto di giudicare, quale Alta Corte di Giustizia, il Re per tradimento della legge comune. Hobbes aveva, da parte sua, avvertito le implicazioni politiche della separazione posta da Coke, evidenziando che «il termine ragione legale non è chiaro»:

 

[…] secondo me, l’autore vuol dire che quella summa ratio, ed il diritto vero e proprio, non altro è che la ragione del giudice, o di tutti quanti i giudici insieme indipendentemente dal re: la quale cosa io nego, perché solamente può fare le leggi colui il quale è fornito di potere legislativo[61].

 

La riscrittura, da parte di Locke, della distinzione, è in realtà funzionale ad un’operazione politica diversa[62]. Non si tratta più di fondare un’opposizione tra Re e Parlamento, quanto piuttosto di giustificare l’esito della Gloriosa Rivoluzione: “validare il titolo” di Guglielmo d’Orange (to make good the title in the consent of the people; which being our one of all lawful governments) significa, per Locke, imporre una continuità tra la fine della rivoluzione e la conservazione delle antiche istituzioni inglesi:

 

Questa lentezza e avversione del popolo ad abbandonare le sue antiche costituzioni ci ha indotto, nelle molte rivoluzioni che si sono viste in questo regno, in questa età e nelle precedenti, a conservare il nostro vecchio legislativo costituito dal re, dalla camera dei Lords e dei Comuni, o comunque, dopo qualche intervallo dovuto a tentativi infruttuosi, a tornare ad esso[63].

 

Il concetto di legge dovrà, allora, essere pensato a partire da questa continuità e dalla tensione che essa implica: giustificare la guerra civile e la rivoluzione (con una teoria rivoluzionaria che sarà l’«appello al cielo») e, al contempo, fondare una teoria del potere, dell’autorità politica definita attraverso la restaurazione compiuta dal nuovo sovrano. Locke ha bisogno di risolvere la rivoluzione nella restaurazione, ma anche, reciprocamente, di risolvere la conservazione delle antiche leggi nella definizione di una nuova forma di legittimità politica.

La distinzione ragione naturale / ragione artificiale subisce, con Locke, uno spostamento di senso: essa appare, infatti, funzionale a definire la continuità tra legge di natura e legge positiva (potere legislativo), in quanto l’interpretazione della eternal rule viene sottratta alla volontà o al consenso del popolo (che fonda, invece, il potere parlamentare, attraverso il contratto sociale). Autorità del legislatore ed autorità del magistrato, in Locke, sono implicate all’interno dello stesso concetto di legge, giustificate mediante lo stesso meccanismo: quello dell’istituzione e della legittimazione del «potere comune d’appello».

 

 

5. – Dal dovere al diritto

 

C’è un ulteriore passaggio, fondamentale, nella “fabbricazione” del concetto di legge da parte di Locke. Nei primi quattro capitoli del Secondo Trattato sul Governo, Locke insiste nel pensare la legge naturale anzitutto come obbligazione: è a partire dal dovere, da ciò che la norma prescrive, che è possibile definire il diritto naturale.

Con l’introduzione del tema della formazione della proprietà, si assiste, tuttavia, ad un processo di rovesciamento del senso del diritto naturale: la legge di natura, alla fine del capitolo V, non implicherà più alcun obbligo o dovere, ma sarà soltanto l’espressione di diritti (property come intera sfera dei diritti[64]).

Non è questa la sede per ripercorrere la trattazione del diritto di proprietà in Locke. Interessa, piuttosto, identificare i diversi passaggi che consentono la ridefinizione della legge naturale a partire dal diritto, anziché dal dovere. Sono due i rapporti fondamentali che devono essere, qui, considerati: quello tra proprietà e valore, e quello tra proprietà e utilità.

Non sono, in se stesse, l’occupazione e la recinzione della terra a creare il diritto di proprietà, quanto piuttosto la produzione di valore. La terra, di per sé, è senza valore: la natura, nella sua immediatezza, è materia che «a mala pena giungerebbe a valere qualcosa». È solo il lavoro che pone «in ogni cosa la differenza di valore» (for it is labour indeed that puts the difference of value on everything)[65]. I nove decimi dell’utilità della res, scrive Locke, sono «effetti del lavoro» (effects of labour), e per comprenderlo basta considerare:

 

[…] quale differenza vi sia tra un acro di terra piantato a tabacco o zucchero, seminato a frumento o orzo, e un acro della stessa terra lasciato in comune senza che nessuno lo coltivi, e si troverà che le migliorie apportate dal lavoro costituiscono di gran lunga la parte più grande del valore[66].

 

La produzione di valore, tuttavia, viene pensata da Locke, inizialmente, entro la seconda relazione fondamentale, quella tra appropriazione e deterioramento. La maggior parte delle cose, scrive Locke, se non vengono consumate immediatamente, «si perdono, si rovinano da sé» (if they are not consumed by use, will decay and perish of themselves), in quanto sono di breve durata[67]. Di conseguenza:

 

[…] tutto ciò che uno coltivava e mieteva, conservava e usava, prima che si danneggiasse, gli spettava per particolare diritto; tutto ciò che uno recingeva e di cui il suo bestiame poteva nutrirsi e farne uso, anche questo era suo. Ma se l’erba del suo recinto marciva a terra, o i frutti della sua coltura andavano a male senza essere raccolti e conservati, questa parte della terra, nonostante la recinzione, doveva continuare ad essere considerata incolta (this part of the earth, notwithstanding his enclosure, was still to be looked on as waste) e poteva diventare possesso di chicchessia[68].

 

L’estensione della terra non ha alcun valore senza il corrispondente lavoro. L’unico limite alla proprietà è, dunque, dato dal principio di deterioramento: «recintare un campo, ma lasciarlo incolto, non lo rende proprietà». Sarebbe, infatti, «cosa insensata quanto disonesta far provvista di più di quanto non potesse usare. […] Costituisce eccesso rispetto ai limiti della proprietà giusta non l’ampiezza del possesso, ma il deteriorarsi di ciò che rimane inutilizzato al suo interno»[69].

Il principio di deterioramento non è soltanto un limite alla proprietà, ma anche l’espressione dei vincoli e degli obblighi propri della legge naturale. Sono proprio questi obblighi, tuttavia, che vengono, per così dire, neutralizzati. Ed è qui che si definisce una «nuova forma della legge di natura» che sostituisce l’originaria formulazione[70].

Secondo Locke, infatti, occorre introdurre una misura stabile che assicuri la disciplina dell’occupazione delle terre: «la messa a frutto delle terre e il giusto impiego di esse costituisca la grande arte del governo (the increase of lands and the right employing of them is the great art of government)». Questa stabilizzazione dell’appropriazione non avviene, tuttavia, con l’istituzione dello Stato, ma ancora in natura e con un altro meccanismo, che è dato dall’invenzione della moneta:

 

E così si giunse all’uso della moneta[71], qualcosa di durevole che gli uomini potevano conservare senza che si deteriorasse e che per mutuo consenso poteva essere preso in cambio di beni di sussistenza veramente utili ma deteriorabili[72].

 

La moneta rovescia non soltanto le «condizioni originarie» economiche, ma, soprattutto, la definizione della legge naturale. Essa consente di fingere che nulla in natura sia deteriorabile, facendo venire meno, in tal modo, la relazione tra proprietà e utilità (right and conveniency went together: «avendo diritto su tutto ciò su cui poteva impiegare il suo lavoro, un uomo non era mai tentato di lavorare più di quanto potesse usare»). Con la moneta, scrive Locke, «è stato escogitato un modo con cui uno può legittimamente possedere più terra di quella di cui può usare il prodotto»[73].

Questo artificio non ha una funzione soltanto economica, ma anche più propriamente giuridica. Esso consente lo “scarto” cui si è ripetutamente accennato: da un concetto di legge di natura definito attraverso l’idea di vincolo e di obbligo (mediante il richiamo ad Hooker), si passa ad una definizione della legge naturale come insieme di diritti (di diritti di proprietà).

È vero, pertanto, che «ciò che Locke riuscì sorprendentemente a fare, fu ricondurre il diritto di proprietà al fondamento del diritto e della legge naturale, e poi rimuovere i limiti della legge di natura dal diritto di proprietà»[74]. Eppure questa rimozione non ha soltanto il senso di legittimare una certa dottrina economica (l’«appropriazione illimitata»), ma anche quello di permettere a Locke un’inversione concettuale fondamentale. 

Con la fine del capitolo V, la legge di natura viene identificata essenzialmente come fondamento di diritti, e non come insieme di doveri. Questo «spostamento d’accento, dai doveri naturali ai diritti naturali»[75] è ciò che separa Locke dalla tradizione del giusnaturalismo “classico”, ossia dalla concezione della legge naturale a partire dal dovere (officium). Spostamento che, tuttavia, si realizza soltanto nel corso della scrittura del Secondo Trattato, in modo implicito ed in continuità con l’idea di una corrispondenza tra legge di Dio, legge di natura, legge positiva. 

 

 

6. – Legge positiva ed appello al cielo

 

L’ultimo scarto compiuto da Locke nell’elaborazione del concetto di legge avviene con l’istituzione del potere legislativo. La funzione della legge positiva, anzitutto, cambia: da mezzo per consentire «a tutti di conoscere anticipatamente il loro dovere e di sapere la pena per una loro trasgressione»[76], essa infatti diviene garanzia dei diritti naturali dei sudditi.

La necessità di leggi stabilite e fisse (by established standing laws), promulgate e rese note al popolo (promulgated and known to the people), deve essere pensata a partire dal senso politico dell’istituzione del potere legislativo. Il potere di dare le leggi a tutti, il potere di governare attraverso una «legge comune stabilita» (a common established law), è reso disponibile soltanto se si individua il great end di quel potere, il suo fine ultimo. In Locke, in altri termini, non sono i diritti a dover essere limiti del potere, ma il potere ad essere costituito per essere garanzia di quei diritti.

Tutto ciò implica, tuttavia, una ridefinizione del diritto di resistenza, dell’appello al cielo, per come era stato pensato nel capitolo III del Secondo Trattato:

 

Anzi, laddove è possibile un appello alla legge e ai giudici costituiti, ma il rimedio è negato da un manifesto pervertimento della giustizia e da una sfacciata distorsione della legge intese a proteggere o incoraggiare la violenza o le offese di alcuni uomini o partiti, qui è difficile immaginare altra cosa da uno stato di guerra (there it is hard to imagine any thing but a state of war). Poiché ogniqualvolta si usi violenza o si arrechi offesa (for wherever violence is used, and injury done), anche se viene dalle mani di chi è designato ad amministrare la giustizia (though by hands appointed to administer justice), è sempre violenza o offesa (it is still violence and injury), per quanto dissimulata sotto il nome, le vesti o le forme della legge il cui fine è proteggere e rendere giustizia all’innocente mediante un’imparziale applicazione a tutti coloro che a quella legge sono soggetti[77].

 

Ai «sofferenti», scrive Locke, rimane sempre l’appello al cielo (appeal to heaven). Dove non vi sia una comune autorità chiamata a giudicare le controversie, l’appello al cielo si pone quale l’unico rimedio possibile a fronte di ogni minima e più piccola divergenza tra gli uomini: evitare questo stato di guerra, «è l’unico grande motivo per cui gli uomini si costituiscono in società e abbandonano lo stato di natura». Il problema, però, è che anche nello stato civile può ripresentarsi lo «stato di guerra», in tutti quei casi in cui saranno le stesse autorità politiche a trasgredire la legge di natura. 

In realtà, si tratta di due situazioni differenti. Con il passaggio dallo stato di natura allo stato civile, si assiste infatti ad una neutralizzazione dell’appello al cielo. La «rivoluzione», scrive Locke, non avverrà, entro lo stato civile, «per ogni minimo errore nell’amministrazione della cosa pubblica». Non solo: anche «grandi errori da parte dei governanti, molte leggi sbagliate e inopportune (many wrong and inconvenient laws) e tutti i cedimenti dovuti alla debolezza umana saranno sopportati dal popolo senza sedizioni o lagnanze»[78]. Il popolo è «più disposto a sopportare che a ristabilire il suo diritto di resistenza»: «tende a non infiammarsi» (are not apt to stir).

Il problema della violazione della legge naturale da parte del potere diviene, ora, un semplice «inconveniente»[79]. È soltanto quando avrà una universale convinzione, «fondata sull’evidenza manifesta» (if they have a persuasion ground upon manifest evidence) che il popolo si ribellerà.

C’è una possibilità fondamentale, da parte del potere politico, di trasgredire la legge senza rendere tale violazione visibile, senza mostrare la trama dell’ingiustizia perpetrata. Possibilità che è consentita dalla ridefinizione della legge di natura da parte di Locke, dalla separazione tra il lume naturale e la ragione artificiale, dall’articolazione del problema della conoscenza e dell’interpretazione della legge di natura. Il popolo non è in grado di comprendere l’avvenuta violazione della legge di natura sino a che essa non gli venga resa espressamente nota.

Si “sposta”, così, il senso dell’appello al cielo: da giustificazione teorica della guerra civile contro Carlo I, ad inconveniente da evitare entro il nuovo assetto di potere cristallizzato dalla “restaurazione” di Guglielmo d’Orange. Questo cambiamento di prospettiva interno al discorso di Locke è reso possibile proprio da quella serie di operazioni che Locke ha svolto sul concetto di legge. Operazioni che, dietro un’apparente continuità e corrispondenza, consentono a Locke di separare radicalmente la definizione della legge naturale definita nei capitoli iniziali del Secondo Trattato, rispetto a quella della legge positiva, della legge comune stabilita all’interno dello stato politico.

 

 

7. – Conclusioni

 

I differenti “passaggi” qui presentati non chiariscono compiutamente il pensiero politico di Locke. Non era, tuttavia, direttamente esso ad interessarci. Diversamente, è il modo di lavorare, la tecnica particolare di Locke che ci consente di portare alla luce tutta una serie di operazioni sottese alla definizione del concetto di legge presente nell’opera del filosofo inglese.

Locke definisce la legge come se vi fosse un’identità fondamentale tra i differenti livelli in cui essa si articola nel corso del Secondo Trattato: legge di Dio / legge di natura / legge definita dal magistrato («potere comune di appello») / legge dell’assemblea («legge positiva»). È sempre la stessa legge, summa ratio, legge che è ciò che la ragione scopre, ripete Locke, una eternal rule. 

Al contempo, tuttavia, nel procedere da un livello all’altro, vengono effettuate alcune riscritture. Il concetto di legge viene, così, articolato secondo una serie di stratificazioni, di spostamenti interni:

 

Eternal rule: identità tra legge divina – legge naturale – legge positiva.

1. Primo passaggio: da insieme di obblighi («nessuno deve recar danno ad altri nella vita, nella salute, nella libertà o negli averi») ad espressione di diritti (property).

2. Secondo passaggio: esecuzione individuale della legge di natura (ciascuno conosce ed esegue la legge) – obiezione ed “inconvenienti” – ragione “artificiale” e scoperta della legge naturale.

3. Terzo passaggio: dio autore/legislatore – magistrato interprete (“potere comune d’appello”).

4. Quarto passaggio: legge di natura – legge positiva (modifica del senso politico dell’“appello al cielo” – cfr. §20-§209, 225, 230 del Secondo Trattato).

[5. Quinto passaggio: la legge borghese][80].

[6. Sesto passaggio: obbligazione materiale – obbligazione formale][81].

 

I passaggi sopra riassunti mostrano quanto la creazione di un concetto, quale quello di legge, possa costituire un’operazione complessa, articolata. Si tratta, in Locke, di una scrittura che ha un particolare ritmo – fatto di vuoti, spaziature, non-detti –, e che si produce nel corso del testo.        La definizione della legge è altra rispetto al suo concetto. Il concetto è qualcosa che Locke tende a far passare inosservato, ed a nascondere entro un sistema di definizioni fondato sulla corrispondenza eternal rule – legge comune.

In un filosofo come Locke, il concetto di legge non ha alcun senso finché non si ricostruisce la grammatica che consente di passare da un livello all’altro. È soltanto in questi passaggi che Locke – articolando determinate domande e risposte politiche – sposta i termini, compie scelte, produce il concetto di cui ha bisogno.

La legge, per Locke, è un concetto teorico, legato all’esigenza, nuova, di assicurare una giustificazione del potere parlamentare (nell’assetto cristallizzatosi all’esito della Gloriosa Rivoluzione)[82]. Locke deve pensare nuovi problemi (un nuovo tipo di legittimità del potere, anzitutto), e lo farà ricorrendo ad un linguaggio già lavorato e significato, al linguaggio del suo tempo (sia esso, di volta in volta, quello “tradizionale” di Hooker o quello della rivoluzione inglese[83], quello del Tew Circle e dei latitudinari[84] o ancora quello dei “classici”[85]). Ed è a partire da questa necessità – dall’essere costretto a formulare la propria scoperta, a pensare i propri problemi, mediante i concetti già esistenti in quel momento – che si deve seguire la riflessione teorica di Locke sulla legge.

C’è dunque un’arte, del tutto particolare, di passare attraverso i concetti, di modificare il senso dei termini, di spostare i significati, che Locke pone in essere. Soltanto essa consente a Locke una certa scrittura della legge, attraverso la quale articolare una problematica politica moderna, esito dei processi rivoluzionari del XVII secolo inglese.

Questa scrittura tende a perdersi nel passaggio a quella che è propriamente la filosofia politica di Locke (e con la relativa definizione del suo lessico: «liberalismo», «giusnaturalismo», «tolleranza», etc.). Essa merita, tuttavia, di essere ritrovata – lungo il suo divenire, il suo «impensato» –. E questo è un compito che non spetta alla filosofia o scienza politica né, tantomeno, alla storiografia, bensì alla filosofia del diritto.

 

 

Abstract

 

L'article est une réflection sur le signifié du concept de loi dans la philosophie juridique et politique de John Locke.

Dans la première partie, nous analysons le problème de l'interprétation et l'application de la loi naturelle dans l'état de nature, avec une référence particulière a les questions soulevées par la «strange doctrine» de l'exécution individuelle de la loi de la nature.

Ensuite est abordé la relaction entre la loi de nature, identifié comme «summa ratio» et « eternal rule», et les tâches connexès, selon Locke, au pouvoir judiciaire. Enfin, le document analyse les transformations internes à la notion de droit qui ont lieu dans la transition de la loi naturelle à la «civil law».

 

 



 

[Per la pubblicazione degli articoli della sezione “Contributi” si è applicato, in maniera rigorosa, il procedimento di peer review. Ogni articolo è stato valutato positivamente da due referees, che hanno operato con il sistema del double-blind].

 

[1] Cfr. L. Strauss, What is Political Philosophy, Glencoe, Free Press, 1959; trad. it. a cura di P.F. Taboni, Che cos’è la filosofia politica? Scritti su Hobbes e altri saggi, Urbino, Argalia, 1977, 36; J. Rawls, Lectures on the History of Political Philosophy, 2007; trad. it. di V. Ottonelli, Lezioni di storia della filosofia politica, Milano, Feltrinelli, 2009, 111 ss.

 

[2] C.H. McIlwain, Constitutionalism: Ancient and Modern, New York, Cornell University Press, 1947; trad. it. a cura di N. Matteucci, Costituzionalismo antico e moderno, Bologna, Il Mulino, 1990, 174.

 

[3] Cfr. G. Deleuze - F. Guattari, Qu'est-ce que la philosophie?, Paris, Les éditions de Minuit, 1991; trad. it. di A. De Lorenzis, a cura di C. Arcuri, Che cos’è la filosofia, Torino, Einaudi, 2012, X.

 

[4] J.P. Sartre, Questioni di metodo, in Id., Critica della ragione dialettica - I. Teoria degli insiemi pratici, I, trad. it. di P. Caruso, Milano, Il Saggiatore, 1963, 18.

 

[5] L. Althusser, Il materialismo aleatorio (1986), in Id., Sul materialismo aleatorio, trad. it. a cura di V. Morfino e L. Pinzolo, Milano, Mimesis, 2006, 121.

 

[6] Cfr. L. Althusser, Sul giovane Marx (questioni di teoria) (1960); trad. it. a cura di M. Turchetto, in L. Althusser, Per Marx, Milano, Mimesis, 2008, 80. Cfr. anche L. Althusser, Freud e Lacan (1974), in Id., Freud e Lacan, trad. it. a cura di C. Mancina, Roma, Editori Riuniti, 1977, 3-8.

 

[7] Cfr. L. Strauss, Persecution and the Art of Writing, New York, The Free Press, 1952; trad. it. di G. Ferrara e F. Profili, Scrittura e persecuzione, Venezia, Marsilio, 1990. Su Locke, si veda in particolare M.P. Thompson, Significant Silences in Locke’s Two Treatises of Government: constitutional History, Contract and Law, in «The Historical Journal», 31, 2, 1987, 275-294.

 

[8] M. Blanchot, Faux pas, Paris, Gallimard, 1943; trad. it. di E. Klersky Imberciadori, Passi falsi, Milano, Garzanti, 1976, 88.

 

[9] G. Deleuze, Sulla filosofia, in Id., Pourparler, trad. it. di S. Verdicchio, Macerata, Quodlibet, 2000, 181.

 

[10] Cfr. M. Heidegger, Der Satz vom Grund , Pfullingen, Günther Neske, 1957; trad. it. a cura di G. Volpi, Il principio di ragione, Milano, Adelphi, 1991, 125.

 

[11] K. Marx, Il Capitale, Libro primo, I, trad. it. a cura di A. Macchioro e B.Maffi, Torino, Utet, 1974, 125.

 

[12] Il divenire del concetto non è la storia del concetto. I concetti, propriamente parlando, non hanno storia (R. Koselleck): è la storia, piuttosto, ad essere un concetto. Un concetto non ha una storia, ma inizia, prosegue o termina una storia. Il concetto ha però un «divenire»: un concetto si “lancia”, si “getta”, e questo lancio è una serie di urti, di incontri, di reazioni, di strategie.  

 

[13] L. Strachey, Queen Victoria (1921); trad. it. di S. Caramella, La Regina Vittoria, Milano, Mondadori, 1994, 200.

 

[14] Così, diffusamente, in J. Locke, Essays on the Law of Nature (1660-1664); trad. it. a cura di M. Cristiani, Saggi sulla legge naturale, Roma-Bari, Laterza, 2007, 61-68. Sulla legge divina in Locke, cfr., per un’introduzione, F. Oakley – E.W. Urdang, Locke, Natural Law and God, in «Natural Law Forum», 2, 1966, 92-109; J. Waldron, God, Locke, and Equality. Christian Foundations in Locke’s Political Thought, Cambridge, Cambridge University Press, 2002; A.J. Simmons, The Lockean Theory of Rights, Princeton, Princeton University Press, 1992, 26-36.

 

[15] J. Locke, An Essay Concerning the True Original, Extent, and End of Civil Government, trad. it. di A. Gialluca, Il Secondo Trattato sul Governo, 2a ed., Milano, Rizzoli, 2007, II, 6, 67.

 

[16] Cfr., ex multis, W. Von Leyden, Hobbes and Locke, The Politics of Freedom and Obligation, London, Macmillan, 1982; P. Coby, The Law of Nature in Locke's Second Treatise: Is Locke a Hobbesian?, in «The Review of Politics», 49, 1, 1987, 3-28; T. Sorell, Hobbes, Locke and the State of Nature, in S. Hutton – P. Schuurman (a cura di), Studies on Locke: sources, contemporaries, and legacy. In Honour of G.A.J. Rogers, Dordrecht, Springer, 2008, 27-44.

 

[17] J. Locke, Il Secondo Trattato sul Governo, cit., II, 5, 65.

 

[18] Cfr. L. Strauss, Natural Right and History, Chicago, University of Chicago Press, 1953; trad. it. di N. Perri, Diritto naturale e storia, Genova, Il melangolo, 1990, 171. Per la lettura di Hooker da parte di Locke, cfr. G. Bull, What Did Locke Borrow from Hooker?, in «Thought», 7, 1932, 122–35; E. de Jonghe, Locke and Hooker on finding the law, in «Review of metaphysics», 42, 1988, 301-325; A.S. Rosenthal, Crown under law : Richard Hooker, John Locke, and the ascent of modern constitutionalism, Alexander–Lanham, Lexington Books, 2008; L.W. Gibbs, The ‘judicious’ Mr. Hooker and the ‘devious’ Mr. Locke: John Locke’s use of Richard Hooker in his Second treatise of government, in J.K. Stafford (a cura di), Lutheran and Anglican: essays in honour of Egil Grislis, Winnipeg, St. John’s College Press, 2009.

 

[19] Cfr. L. Strauss, Diritto naturale e storia, cit., 184.

 

[20] J. Locke, Saggi sulla legge naturale, cit., 63.

 

[21] Per un elenco dei “contenuti” della legge naturale in Locke, cfr. J.W. Yolton, Locke on the Law of Nature, in «Philosophycal Review», 67, 1958, 487-488.

 

[22] J. Locke, Il Secondo Trattato sul Governo, cit., XI, 135, 245.

 

[23] J. Locke, Saggi sulla legge naturale, cit., 12.

 

[24] J. Locke, Il Secondo Trattato sul Governo, cit., III, 19, 83.

 

[25] J. Locke, Il Secondo Trattato sul Governo, cit., VII, 87, 175.

 

[26] Cfr., per una introduzione, W. von Leyden, Locke’s strange doctrine of punishment, in R. Brandt (a cura di), John Locke: Symposium Wolfenbüttel 1979, Berlin - New York, W. de Gruyter, 1981, 113-127. Si veda anche, da ultimo, I. Belloni, Una dottrina «assai strana». Locke e la fondazione teologico-deontologica dei diritti, Torino, Giappichelli, 2011.

 

[27] J. Locke, Il Secondo Trattato sul Governo, cit., II, 7, 69.

 

[28] J. Locke, Il Secondo Trattato sul Governo, cit., II, 8, 71.

 

[29] J. Locke, Il Secondo Trattato sul Governo, cit., III, 17, 85. Cfr., sul punto, A. Tuckness, Retribution and restitution in Locke’s theory of punishment, in «Journal of politics», 72, 2010, 720-732; A. Dilts, To kill a thief: punishment, proportionality, and criminal subjectivity in Locke’s Second treatise, in «Political Theory», 40, 2012, 58-83.

 

[30] J. Locke, Il Secondo Trattato sul Governo, cit., III, 21, 89.

 

[31] Per una critica, differente da quella qui proposta, della “strana dottrina”, cfr. J.G. Murphy, A Paradox in Locke’s Theory of Rights, in «Dialogue», 8, 1969, 256-271.

 

[32] J. Locke, Il Secondo Trattato sul Governo, cit., II, 13, 77.

 

[33] Ibidem.

 

[34] J. Locke, Saggi sulla legge naturale, cit., 10. La citazione di Locke è tratta da Giovenale, Satire XIII.2-3.

 

[35] J. Locke, Saggi sulla legge naturale, cit., 64.

 

[36] Cfr., ad esempio, J. Locke, Saggio sulla tolleranza; trad. it. in Scritti sulla tolleranza, a cura di D. Marconi, Torino, Utet, 2005, 89.

 

[37] Cfr., sul punto, A. Tuckness, Locke and the Legislative Point of View. Toleration, contested Principles, and the Law, Princeton, Princeton University Press, 2002, 127-136; K. Shimokawa, Locke’s Concept of Justice, in P.R. Anstey (a cura di), The Philosophy of John Locke: New Perspectives, London, Rouledge, 2003, 61-85; J. Varela Suanzes-Carpegna, Governo e partiti nel pensiero britannico (1690-1832), Milano, Giuffré, 2007, 1-18.

 

[38] J. Locke, Saggi sulla legge naturale, cit., 71.

 

[39] A. Kojève, La notion de l’autorité (1942), Paris, Gallimard, 2004; trad. it. a cura di M. Filoni, La nozione di Autorità, Milano, Adelphi, 2011, 62-71.

 

[40] In particolare, la fine di una legittimazione del potere fondata sull’autorità del padre implica due “scarti” essenziali: a) la ridefinizione della legittimazione dell’autorità del Re – e della monarchia ereditaria – attraverso la teoria del potere esecutivo, soprattutto con riferimento al concetto di prerogativa (J. Locke, Il Secondo Trattato sul Governo, cit., XII, XIII, XIV); b) il passaggio dal potere paterno (paternal power) al potere parentale (parental power). Passaggio che non si fonda sul riconoscimento della parità dei genitori nel «governo» dei figli (la soggezione del minore, infatti, places in the father a temporary government), ma sull’assenza in natura di un titolo, clear appointment, «diritto incontestabile» che sia in grado di fondare una relazione di obbedienza tra un uomo e l’altro.

 

[41] J. Locke, Il Secondo Trattato sul Governo, cit., I, 1, 63.

 

[42] A. Kojève, La nozione di Autorità, cit., 65: «il Giudice ha vera Autorità solo nella misura in cui si oppone (all’occorrenza) alle altre tre Autorità. (Se i Padri, Capi e Signori fossero “giusti” per definizione o per “essenza”, non vi sarebbe Autorità distinta del Giudice; e se il Giudice non potesse opporre la sua “giustizia” alla volontà dei Padri, Capi e Signori, non avrebbe alcuna “autorità”)».

 

[43] A. Kojève, La nozione di Autorità, cit., 81.

 

[44] Cfr. J.N. Billaud-Varenne, Le peintre politique, ou tarif des operations actuelles, 1789, 37: «La première vertu de tout Législateur est la prévoyance. Il commetra de grand erreurs s’il part du présent pour juger l’avenir». Cfr. M. Richir, Billaud-Varenne conventionnel législateur: la vertu égalitaire et l’équilibre symbolique des simulacres, in «Le Cahier (Collège international de philosophie)», 7, 1989, 93-110; G. Lafrance, La figure du Législateur et l’idéal politique jacobin, in «Études françaises», 25, 2-3, 1989, 89-99.

 

[45] Varrebbe la pena, allora, seguire le ulteriori serie di “spostamenti” e scarti che Locke sottende nel passaggio dalla presentazione del rapporto tra legge divina/legge naturale negli scritti a carattere religioso (come La ragionevolezza del cristianesimo) alla discussione di quel rapporto negli scritti politici. Cfr., per un’introduzione, P.C. Myers, Locke on reasonable Christianity and reasonable Politics, in D. Kries (a cura di), Piety and Humanity: Essays on Religion and Early Modern Philosophy, Oxford, Rowman&Littlefield, 1997, 145-180.

 

[46] J. Locke, Saggi sulla legge naturale, cit., 6. Cfr. anche p. 5: «Questa legge di natura può dunque essere descritta come disposizione della volontà divina, conoscibile per mezzo del lume naturale dell’intelletto, indicante ciò che è conforme o difforme dalla natura razionale, e per ciò stesso espressa con la formulazione di un ordine o di un divieto».

 

[47] G. Zarone, John Locke. Scienza e forma della politica, Bari, De Donato, 1975, 62. Varrebbe la pena, in questo senso, mostrare come il concetto di Dio sia funzionale ad un’operazione essenziale: quella di cancellare la domanda sull’identificazione e la legittimazione del potere autore della legge. Affermare che Dio è l’autore della legge, significa per Locke abolire ogni domanda sull’autorità e la funzione del legislatore. 

 

[48] J. Locke, Saggi sulla legge naturale, cit., 5.

 

[49] J. Locke, Saggi sulla legge naturale, cit., 17.

 

[50] J. Locke, An Essay concerning Human Undestanding (1690); trad. it. Saggio sull'intelligenza umana, a cura di C. Pellizzi, Roma-Bari, Laterza, 1972, 2a ed., I, II, 13. Sulla mente come “tabula rasa”, cfr., da ultimo, R. Duschinsky, Tabula rasa and human nature, in «Philosophy», 87, 2012, 509-529.

 

[51] J. Locke, Saggi sulla legge naturale, cit., 8.

 

[52] J. Locke, Saggi sulla legge naturale, cit., 25.

 

[53] J. Locke, Saggi sulla legge naturale, cit., 45.

 

[54] J. Locke, Saggi sulla legge naturale, cit., 26.

 

[55] J. Locke, Saggi sulla legge naturale, cit., 24.

 

[56] Cfr., sul punto, F. Fagiani, Nel crepuscolo della probabilità. Ragione ed esperienza nella filosofia sociale di John Locke, Napoli, Bibliopolis, 1983, 29-47.

 

[57] J. Locke, La ragionevolezza del Cristianesimo (1695); trad. it. a cura di M. Sina, in J. Locke, Scritti etico-religiosi, Torino, Utet, 2000, 414.

 

[58] G. Zarone, John Locke. Scienza e forma della politica, cit., 61. Cfr. anche 62: «Un potere che non sia conoscibile non esiste come potere, perché non è in grado di creare obblighi, ed è la conoscenza che obbliga nella misura in cui rende effettivo quel potere».

 

[59] J. Locke, Saggi sulla legge naturale, cit., 25.

 

[60] Cfr. E. Coke, XII Report, citato in traduzione italiana in N. Matteucci (a cura di), Antologia dei costituzionalisti inglesi, Bologna, Il Mulino, 1962, 56: «Allora il Re [Giacomo I Stuart] disse che pensava che la legge fosse fondata sulla ragione, e che anche lui ed altri possedevano la ragione al pari dei giudici. Al che fu da me risposto, che era vero che Dio aveva dotato Sua Maestà di preclara scienza e di grandi doni naturali, ma che Sua Maestà non era erudito nelle leggi del suo regno; e che le cause riguardanti la vita o il patrimonio o i beni e le fortune dei suoi sudditi non eran cose da decidersi in base alla ragione «naturale» ma in base alla ragione «artificiale» e al giudizio della legge […]. Del che il Re si sentì gravemente offeso, e disse che allora egli era sottoposto alla legge, e che era tradimento affermare una tal cosa». Sulla “ragione artificiale” in Coke, cfr. J. Beauté, Un grand juriste anglais, Sir Edward Coke (1552-1634): ses idées politiques et constitutionnelles, Paris, PUF, 1975; A.D. Boyer, Sir Edward Coke and the Elizabethan Age, Stanford, Stanford University Press, 2003, 83-107.

 

[61] T. Hobbes, Dialogo fra un filosofo ed uno studioso del diritto comune d’Inghilterra; trad. it. in Opere politiche di Thomas Hobbes, a cura di N. Bobbio, I, Torino, Utet, 1959, 2a ed., 397.

 

[62] Diversa sarà, invece, la storia della recezione – e delle reinterpretazioni – di Coke e Locke nella cultura degli Stati Uniti d’America, su cui si veda, in particolare, J. Dunn, The Politics of Locke in England and America in the eighteenth Century, in J.W. Yolton (a cura di), John Locke: Problems and Perspectives, Cambridge, Cambridge University Press, 1969, 45-80; G.L. McDowell, The Language of Law and the Foundations of American Constitutionalism, Cambridge University Press, 2010, 43-50, 82-168.

 

[63] J. Locke, Il Secondo Trattato sul Governo, cit., XIX, 223, 367. Sulla “restaurazione” di Guglielmo d’Orange ed il pensiero politico di Locke, cfr., in particolare, R. Ashcraft – M.M. Goldsmith, Locke, revolution Principles, and the Formation of Whig Ideology, in «The Historical Journal», 26, 1983, pp. 773-800; C.D. Tarlton, “The Rulers now on Earth”: Locke's Two Treatises and the Revolution of 1688, in «The Historical Journal», XXVIII, 1985, 279-298; L.G. Schwoerer, Locke, Lockean Ideas, and the Glorious Revolution, in «Journal of the History of Ideas», LI, 1990, 531-548; J.G.A. Pocock, The Significance of 1688: Some Reflections on Whig History, in R. Beddard (a cura di), The Revolutions of 1688: the Andrew Browning Lectures, 1988, Oxford, Clarendon Press, 1991, 271-292.

 

[64] Cfr., sul punto, K. Olivecrona, Appropriation in the State of Nature. Locke on the Origin of Property, in «Journal of the History of Ideas», XXXV, 1974, 663-670; J. Tully, A Discourse on Property, John Locke and his Adversaries, Cambridge, Cambridge University Press, 1980; D.C. Snyder, Locke on Natural Law and Property Rights, in «Canadian Journal of Philosophy», 16, 4, 1986, 723-750.

 

[65] J. Locke, Il Secondo Trattato sul Governo, cit., V, 43, 119.

 

[66] J. Locke, Il Secondo Trattato sul Governo, cit., V, 40, 115. Cfr., sul punto, C.B. Machpherson, Locke on Capitalist Appropriation, in «The Western Political Quarterly», 4, 4, 1951, 550-566; K.I. Vaughn, John Locke and the Labor Theory of Value, in «Journal of Libertarian Studies», 2, 4, 1978, 311-326; W. Dolfsma, The social Construction of Value: Value Theories and John Locke’s Framework of Qualities, in «European Journal of the History of Economic Thought», 4, 1997, 400-416.

 

[67] J. Locke, Il Secondo Trattato sul Governo, cit., V, 46, 123.

 

[68] J. Locke, Il Secondo Trattato sul Governo, cit., V, 38, 113.

 

[69] J. Locke, Il Secondo Trattato sul Governo, cit., V, 46, 123.

 

[70] Cfr. L. Strauss, Diritto naturale e storia, cit., 233.

 

[71] Il carattere ideologico – ossia «onnistorico», privo di storia – dell’introduzione della moneta è implicito nell’idea di Locke secondo cui il lavoro produce valore (value). La moneta, in altri termini, non sopraggiunge – come Locke vuole fare intendere – in una determinata fase dello stato di natura, in quanto la stessa nozione di value (valore di scambio) la presuppone. Non c’è, propriamente, una «storia naturale della proprietà», in quanto lo stato di natura non ha storia, perché l’ideologia non ha storia.

 

[72] J. Locke, Il Secondo Trattato sul Governo, cit., V, 47, 123.

 

[73] J. Locke, Il Secondo Trattato sul Governo, cit., V, 50, 126.

 

[74] C.B. Macpherson, The Political Theory of Possessive Individualism: from Hobbes to Locke, London, Duckworth, 1962; trad. it. Libertà e proprietà alle origini del pensiero borghese. La teoria dell'individualismo possessivo da Hobbes a Locke, Milano, Isedi, 1973, 231.

 

[75] L. Strauss, Diritto naturale e storia, cit., 185.

 

[76] J. Locke, Il Secondo Trattato sul Governo, cit., VI, 94, 187.

 

[77] J. Locke, Il Secondo Trattato sul Governo, cit., III, 20, 87-89.

 

[78] J. Locke, Il Secondo Trattato sul Governo, cit., XIX, 225, 369.

 

[79] J. Locke, Il Secondo Trattato sul Governo, cit., XVIII, 209, 293.

 

[80] Di questo “quinto passaggio”, di questo ulteriore scarto, non si è in tale sede trattato, in quanto non è presente nel Secondo Trattato sul Governo, ma soltanto accennato nel Saggio sull'intelligenza umana, II, XVIII, 7, cit., 391 ss., ove Locke distingue tra legge divina (peccati – doveri), legge civile (delitti) e legge dell’opinione pubblica o reputazione (e, nella prima edizione, legge filosofica). Su tale distinzione ha insistito soprattutto R. Koselleck, Kritik und Krise. Ein Beitrag zur Pathogenese der bürgerlichen Welt, Freiburg-München, Karl Alber, 1959; trad. it. Critica illuminista e crisi della società borghese, Bologna, Il Mulino, 1972, 70-77.

 

[81] Anche questo aspetto non è presente nel Secondo Trattato sul Governo, ed esula, pertanto dalla presente analisi. La distinzione, del resto, attiene – più che alla definizione del concetto di legge – al rapporto tra coscienza individuale ed autorità della legge. Cfr., sul punto, S. Goyard Fabre, John Locke et la raison raisonnable, Paris, Vrin, 1986, 66-74; M. Merlo, La legge e la coscienza. Il problema della libertà nella filosofia politica di John Locke, Milano, Polimetrica, 2006.

 

[82] È la fine della guerra civile che, in questo senso, implica la necessità, per Locke, di ricostituire un discorso giuridico parlamentare, ri-codificando sul piano della teoria del diritto il contro-discorso storico di opposizione alla Corona (ancora presente in Coke). Cfr., sul punto, M. Foucault, Il faut défendre la société, Paris, Seuil-Gallimard, 1997; trad. it. a cura di M. Bertani e A. Fontana, “Bisogna difendere la società”, Milano, Feltrinelli, 2010, 2a ed., 78-98.

 

[83] Cfr. R. Ashcraft, Revolutionary Politics and Locke’s Two Treatises of Government, Princeton, Princeton University Press, 1986; H.J. Berman, Law and Revolution, II: The Impact of the Protestant Reformations on the Western Legal Tradition, Harvard University Press, 2006, 2a ed., 231-269.

 

[84] Cfr., sul punto, H.R. Trevor-Roper, The Great Tew Circle, in Id., Catholics, Anglicans and Puritans. Seventeenth Century Essays, London, 1987, 166-230; J. Marshall, John Locke and Latitudinarianism, in R. Kroll – R. Ashcraft – P. Zagorin (a cura di), Philosophy, Science and Religion in England, 1640-1700, Cambridge, Cambridge University Press, 1992, 253-282; W. Polinska, John Locke, Christian doctrine and Latitudinarianism, in «Zeitschrift für neuere Theologiegeschichte», 6, 1999, 173-194; M. Micheletti, John Locke, i platonici di Cambridge e i latitudinari: la critica alla superstizione e al fanatismo e il problema della tolleranza religiosa, in F. Rossi (a cura di), Cristianesimo, teologia, filosofia. Studi in onore di Alberto Siclari, Milano, Franco Angeli, 2010, 265-284.

 

[85] Cfr., sul punto, R. Russo, Virtù difficili: John Locke e gli antichi maestri, Napoli, Guida, 2003.