Testatina-InMemoriam2013

 

 

FDemariniFranca De Marini Avonzo

Professore Emerito nell’Università di Genova

(1927-2012)

 

COESISTENZA E CONNESSIONE TRA «IUDICIUM PUBLICUM» E «IUDICIUM PRIVATUM»

Ricerche sul diritto tardo classico

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Articolo di FRANCA AVONZO, Assistente

nell’Università di Genova, pubblicato in

Bullettino dell’Istituto di Diritto Romano,

vol. LIX-LX (1954), 125-198.

 

Sommario: 1. Premessa. – 2. Significato e importanza del praeiudicium come decisione giudiziaria anteriore. – 3. Inesistenza di una regola edittale sulla precedenza del iudicium publicum capitale. – 4. Praeiudicium e rapporti tra azione penale privata e mezzo pubblico di repressione. – 5. Il iudicium publicum nella cognitio extra ordinem. – 6. Esame dei vari delitti perseguibili con mezzi di repressione pubblici e privati: I) rapina; II) spoglio violento del possesso; III) omicidio di uno schiavo; IV) plagio; V) ingiurie. – 7. Riflessi processuali del cumulo dei procedimenti pubblico e  privato. – 8. Connessione e pregiudizialità tra iudicium publicum e iudicium privatum. 9. Conclusioni.

 

 

1. Premessa

 

Il problema dei rapporti tra delictum e crimen e la concorrenza dei mezzi di repressione coi quali essi sono rispettivamente perseguibili, è tuttora uno dei punti più delicati del diritto penale e processuale romano. È noto che nell’ordinamento processuale dell’avanzata età repubblicana si sviluppò in Roma la fondamentale distinzione dei delitti in privati e pubblici, esistente in germe già nella primitiva legislazione decemvirale. I delitti privati o delicta, essendo considerati dal solo punto di vista del torto arrecato da un individuo ad un altro, erano puniti con una pena pecuniaria perseguibile nelle forme del processo privato: mentre i delitti pubblici o crimina, e cioè offese fatte non al solo individuò ma alla società intera, erano repressi dalla Città nella pubblica procedura delle quaestiones. Questa distinzione si attenuò in seguito, quando l’intervento degli imperatori e della loro cancelleria mutò variamente la configurazione dei singoli fatti illeciti, fino a riunirli tutti in un unico sistema di repressione penale a carattere statuale. Secondo i momenti di questa evoluzione variano i problemi sopra accennati, nascenti appunto dal fatto che la distinzione dei reati portava al concorso dell’azione penale privata con il mezzo pubblico di repressione ogniqualvolta un fatto illecito venisse preso in considerazione dall’ordinamento penale sia come delictum che come crimen.

Le maggiori difficoltà per lo studio di questo argomento sorgono dalla circostanza che i giuristi romani non sentirono la necessità di impostare il problema su basi sistematiche, distinguendo cioè la questione dei rapporti tra delitti pubblici e privati, da quella delle relazioni tra i rispettivi procedimenti: è infatti evidente che questo secondo problema, di carattere processuale, è strettamente connesso con il primo, che si pone nel campo del diritto penale sostanziale, ma non è identico. Nella dottrina romana non si incontra una tale distinzione; e ambedue le questioni si manifestano e vengono risolte, nelle trattazioni dedicate dagli ultimi giuristi classici ai singoli delitti, dal punto di vista dell’importanza pregiudiziale che uno dei processi concorrenti può assumere nei confronti dell’altro.

Si determina dunque un interesse a chiarire, in primo luogo, i diversi significati che i termini praeiudicium / praeiudicare assumono nel linguaggio giuridico romano[1].

Nella dottrina romanistica tradizionale, tale indagine è già stata fatta da due differenti punti di vista: l’argomento è stato studiato, da un lato, in tema di questioni pregiudiziali[2]; d’altro lato, nelle trattazioni di diritto penale, ove, nelle parti dedicate al concorso di più reati, o al concorso d’azioni, è esaminato anche, almeno parzialmente, il problema dei rapporti tra delitti pubblici e privati e tra i relativi mezzi di repressione[3]. Anche a prescindere dalla considerazione che l’epoca cui risalgono queste opere non consentiva l’impiego del metodo interpolazionistico quale, giunto ad un grado di perfetto affinamento, noi possiamo usare oggi, bisogna osservare che il loro carattere, imponendo una sistemazione generale di vari argomenti, non permetteva una esatta visione dei problemi in essi implicati. Per questa ragione, nella risalente dottrina non si tengono sufficientemente presenti le varie fasi che attraversa l’ordinamento processuale romano nel suo sviluppo storico, nelle quali va inquadrato il diritto penale sostanziale con le sue progressive modificazioni; e inoltre non si distingue tra concorrenza dei mezzi di repressione pubblici e privati, che si verifica quando uno stesso fatto viene preso in considerazione nei due sistemi penali, e connessione tra gli stessi mezzi, quando due processi siano collegati per una ragione di logica giuridica, pur essendo tra loro diversi e indipendenti.

L’argomento ha poi avuto una revisione critica nella più recente dottrina; dapprima De Sarlo, studiando in particolare il concorso tra azione penale privata e iudicium publicum legis Corneliae testamentariae, dedica anche una indagine approfondita ai problemi generali[4]. Non mi sembra però che il lavoro, che parte da una esatta impostazione critica e sistematica, sia giunto a risultati accettabili perché, prescindendo dalla determinazione dell’epoca il problema del concorso, applica a questo regole sorte in età diverse e quindi in diverso ambiente e con altro significato. Nemmeno mi sembra possibile accogliere l’opinione espressa da Siber[5], in una ricerca sotto alcuni aspetti efficace: essa, tutta volta a risolvere le contrastanti formulazioni dei giureconsulti classici, giunge ad una sistemazione perfettamente logica della materia; tuttavia non è dimostrata né dal punto di vista dell’evoluzione storica degli istituti, né attraverso l’esegesi testuale.

Non credo quindi inutile riesaminare il problema: a tale scopo, ritengo anzitutto necessario indagare sulla reale esistenza di: una dsposizione normativa astrattamente intesa a regolare in maniera generale ogni possibile ipotesi di concorso. È stato infatti affermato che una norma introdotta dal pretore nel suo editto avrebbe riconosciuto la maggior importanza del iudicium publicum, fissandone la precedenza in ogni caso di interferenze tra procedimenti pubblici e privati. Io penso tuttavia che una norma siffatta, che si suole chiamare regola pregiudiziale, non abbia mai fatto parte dell’ordinamento processuale romano: esisteva nel diritto dell’epoca classica il riconoscimento dell’importanza pregiudiziale che una decisione giudiziaria anteriore può esplicare su un giudizio successivo; essa però non si sostanziò mai in un comando giuridico inteso a stabilire un ordine cronologico nei processi concorrenti.

Dopo accertata l’inesistenza della regola pregiudiziale, solo un esame senza preconcetti della casistica offerta dalle fonti potrà rivelare quale soluzione il diritto romano adottasse nei singoli casi.

All’esame delle varie ipotesi di concorso tra azione penale privata e mezzo pubblico di repressione è però opportuno premettere un breve cenno sui risultati dell’ultima critica intorno alla, correlazione tra crimen e iudicium publicum, e sul mutevole significato di questo termine in relazione al prevalere della procedura straordinaria nella giurisdizione criminale. La precisazione sarà importante al fine di poter determinare la prassi e le tendenze del sistema processuale nel momento storico in cui si pone ai giureconsulti romani il problema del concorso. Sarà quindi possibile accertare quale fosse l’indirizzo concretamente seguito per regolare la concorrenza tra i procedimenti pubblico e .privato e, conseguentemente, i rapporti tra i giudicati.

Infine, esaminerò il regime della connessione tra iudicium publicum e iudicium privatum: esso è stato solo incidentalmente studiato in rapporto agli stessi problemi ora accennati. Una certa esteriore somiglianza unisce infatti i due argomenti, in quanto sia l’una che l’altra relazione tra i procedimenti pubblici e privati apre il problema dei rapporti tra giudicato civile e criminale; tuttavia essi sono essenzialmente diversi nei presupposti e diversamente regolati anche nel processo romano.

 

 

2. – Significato e importanza del praeiudicium come decisione giudiziaria anteriore

 

In un primo significato, le espressioni praeiudicium   praeiudicare si trovano usate nel linguaggio romano ad indicare ogni circostanza che apparentemente e probabilmente influenzerà il giudice nella valutazione dei fatti sui quali è chiamato a rendere la sentenza. Un gran numero di passi tratti dalle opere di Cicerone[6], ci rivela l’importanza che egli attribuiva al praeiudicium di qualunque genere: d’ordine politico o processuale, tratto da giudizi resi su controversie altrui come su proprie, da decisioni giudiziarie come anche da semplici atti e dichiarazioni di volontà o dalla personalità morale di una persona. In molte sue orazioni Cicerone si sforza in modo particolare di ovviare all’influenza sfavorevole (praeiudicium) che precedenti giudiziari o semplici fatti, d’altronde affatto indipendenti dal processo attualmente discusso, possono esercitare sul giudice, mettendo in dubbio l’onorabilità del suo cliente e rendendone più facile la condanna[7] Praeiudicium è ogni fatto capace d’influire su un futuro giudizio; tra questi, naturalmente, la decisione giudiziaria anteriore[8] occupa un posto particolare. Cicerone stesso la pone tra i mezzi di prova che elenca in

 

De Orat. II.27.116. tabulae, testimonia, quaestiones, pacta conventa, leges, senatus consulta, res iudicatae, decreta, responsa[9],

 

cose diverse tra loro per natura giuridica, riunite solo per il valore di convincimento logico che possono assumere per il giudice nella libera valutazione che gli è concessa in fatto e in diritto.

Il significato di praeiudicium come mezzo di prova va inteso secondo l’insegnamento di Quintiliano V.1.7, dove classifica i praeiudicia tra le probationes artificiales (rumores, tormenta, tabulae, jusjurandum, testes), in opposizione alle probationes inartificiales (signa, argomenta, exempla); e in V.2, dedicato ai praeiudicia in particolare:

 

Jam praeiudiciorum vis tribus in generibus versatur; rebus, quae aliquando ex paribus causis sunt iudicatae, quae exempla rectius dicuntur, ut de rescissis patrum testamentis, vel contra filios confirmatis; iudiciis ad ipsam causam pertinentibus: unde etiam nomen ductum est; qualia in Oppianicum facta dicuntur et a Senatu adversus Milonem; aut cum de eadem causa pronuntiatum est, ut in reis deportatis et adsertione secunda, et in partibus centumviralibus, quae in duas hastas divisae sunt.

 

Prescindiamo dal primo gruppo: exemplum, che possiamo tradurre con giurisprudenza[10], e dall’ultimo, comprendente ipotesi non perfettamente chiarite[11], e inoltre di carattere eccezionale; il significato di praeiudicium come abbiamo visto essere inteso da Cicerone è qui spiegato nel secondo gruppo, dal quale Quintiliano dice esser stato tratto il nome. Gli esempi sono presi dal Pro Cluentio e dal Pro Milone: nel primo Cicerone inferisce, dal fatto che prima di Oppianico fossero stati condannati per veneficium Scamandro e Fabrizio, che anche Oppianico sia stato condannato giustamente; nel secondo l’oratore si sforza di dimostrare che il Senatus consultum de republica defendenda, che giudicava delitto contro la repubblica l’uccisione della via Appia, non deve influenzare i giudici dell’attuale processo contro Milone. Questi esempi, il primo dei quali si riferisce ad un giudizio anteriore che non è direttamente connesso con l’attuale processo contro Cluenzio, ma è portato come prova della poca moralità di questi, dimostrano che il praeiudicium è inteso come mezzo tecnico di prova, valutabile dal giudice alla stessa stregua della prova documentale o testimoniale ecc., Quintiliano continua:

 

V.2.2. Confirmantur praecipue duobus: auctoritate eorum qui pronuntiaverunt, et similitudine rerum de quibus quaeritur; refelluntur autem raro per contumeliam iudicum, nisi forte manifesta in iis culpa erit; vult enim cognoscentium quisque firmam esse alterius sententiam, et ipse pronuntiaturus, nec libenter exemplum quod in se fortasse reccidat facit.

 

Secondo Quintiliano le decisioni anteriori sono generalmente confermate nel secondo processo per non recar offesa al primo giudice: ove pertanto questi non abbia manifestamente sbagliato nel suo giudizio, esso sarà seguito poiché nessun giudice vorrà, rendendo una sentenza difforme, costituire un precedente che possa da altri essere imitato contro la sua stessa sentenza, Quintiliano poi continia, dal suo punto di vista di retore, insegnando ai suoi allievi come possano evitare che il giudice si basi su precedenti decisioni giudiziarie nel formare il proprio convincimento, avendo nello stesso tempo cura di non offenderne la suscettibilità: a questo scopo consiglia di non formulare alcuna critica alla condotta del precedente processo, o di farla cadere sulla incapacità e trascuratezza delle parti e dei loro rappresentanti, o sulla attendibilità dei testimoni; di far invece notare le differenze tra la fattispecie anteriore e l’attuale; e infine, eventualmente, di ricordare alcuni famosi esempi di errori giudiziali, pregando il giudice di volersi formare un’opinione personale piuttosto che seguire quella altrui[12].

Da questi insegnamenti di Quintiliano[13] ai suoi discepoli, possiamo trarre la conclusione che il giudice può liberamente servirsi del praeiudicium come mezzo di prova, mentre spetta all’avvocato il cercare di scartarlo quando esso sia sfavorevole al suo cliente. Ciò corrisponde pienamente a quanto sappiamo sul regolamento dell’istruzione probatoria nel processo romano dell’ordo judiciorum: è noto infatti che mentre la valutazione delle prove è totalmente lasciata all’arbitrio del giudice, questi non ha invece nessuna possibilità di iniziativa nell’assunzione di esse, dovendo accontentarsi di quelle che le parti gli presentano[14]. La considerazione d’ordine psicologico con la quale Quintiliano spiega la frequenza dell’impiego di sentenze anteriori come mezzo per formare il proprio convincimento da parte di un secondo giudice non dovette troppo impressionare i Romani: il rispetto per la suscettibilità della classe giudicante, sul quale Quintiliano mette l’accento, doveva infatti essere equilibrato, da un lato, dal più importante e obbiettivo rispetto per l’interesse generale, e, d’altro lato, dall’osservazione dei vantaggi che indiscutibilmente ha una costante e concorde giurisprudenza[15].

 

 

3. – Inesistenza di una regola edittale sulla precedenza del iudicium publicum capitale

 

Una diversa importanza il praeiudicium assume nel processo romano quando il pretore, per mezzo della condizione quod praeiudicium non fiat, stabilisce la successione di processi connessi. A questo scopo fu introdotto l’editto quilus causis praeiudicium fieri non oportet[16], nel quale il pretore, in vista dell’importanza che una decisione anteriore può avere sulla successiva, ordina che la causa ritenuta principale abbia la precedenza sull’altra. La proibizione di pregiudicare era stabilita a favore della petizione d’eredità nei confronti della rei vindicatio delle singole cose ereditarie, e della rivendicazione immobiliare in relazione all’actio confessoria servitutis. La precedenza dei processi privilegiati è assicurata con la concessione della

 

exceptio quod praeiudicium hereditati non fiat[17] nel primo caso;

 

exceptio quod praeiudicium fundo partive non fiat[18] nel secondo.

 

A queste ipotesi in cui l’editto prevede la precedenza obbligatoria di un processo su un altro si suole aggiungerne una terza: essa sarebbe stabilita a favore del iudicium publicum nei confronti del iudicium privatum. Ho già accennato che non mi sembra provata l’esistenza di una regola pregiudiziale che, introdotta dal pretore nel suo editto già nell’età repubblicana, accorderebbe al processo criminale questo privilegio.

Prima di esaminare i testi che dovrebbero dimostrarla, è bene chiarire che la pretesa regola edittale è affermata limitatamente al processo criminale capitale. Lenel[19] infatti collega a questa regola

 

D. 48.1.2 PAULUS 15 ad edictum, Publicorum iudiciorum quaedam capitalia sunt, quaedam non capitalia. capitalia sunt, ex quibus poena mors aut exilium est ... non capitalia sunt, ex quibus pecuniaria [aut in corpus aliqua coercitio] poena est[20].

 

La distinzione dei iudicia publica in capitalia / non capitalia sarebbe stata introdotta al fine di sapere se un processo civile dovesse o no essere sospeso fino alla sentenza su un processo criminale: e tutte le decisioni riportate dalle fonti in questa materia confermerebbero che esclusivamente le cause capitali godevano di tale prerogativa.

In realtà, non solo non tutti i processi privilegiati addotti ad esempio sono effettivamente capitali, ma non abbiamo nemmeno alcun indizio per ritenere che la loro precedenza fosse attuata in base ad una regola pregiudiziale stabilita nell’editto. Io ritengo che nel diritto repubblicano esistesse da un lato il riconoscimento della possibile influenza della sentenza anteriore su un successivo giudizio connesso con il primo; e d’altro lato un generico rispetto per la maggior importanza del iudicium publicum[21]. Queste due considerazioni però non giunsero a determinare l’emanazione di un comando giuridico inteso a stabilire in ogni caso la precedenza del processo capitale.

Esaminiamo ora i due passi di Cicerone e il fr. delle Pauli Sententiae, con i quali si suole dimostrare l’esistenza della cosidetta regola pregiudiziale. Poi vedremo i testi classici in cui è affermata la precedenza di un iudicium publicum capitale, per indagare se essa sia effettivamente attuata per obbedire ad un comando pretorio o non abbia piuttosto, come io ritengo, una più precisa ragione giuridica, essendo in questi casi il processo privilegiato pregiudiziale al processo privato.

 

Cic. In Verrem 2.3.152. Postulavit ab L. Metello ut ex edicto suo iudicium daret in Apronium QUOD PER VIM ET METUM ABSTULISSET … Non impetrat, cum hoc diceret ei Metellum, praeiudicium se de capite C. Verris per hoc iudicium nolle fieri.

 

La decisione di Metello di non accordare l’azione contro Apronio è evidentemente arbitraria, poiché non è possibile credere all’esistenza di una regola pregiudiziale così illimitata da prevedere la sospensione di qualunque processo privato fino alla sentenza su un processo capitale tra due parti differenti; e questo nota anche Cicerone, aggiungendo che Metello, scartando il pregiudizio che sarebbe derivato a Verre dalla sentenza dei recuperatori, ha però egli stesso già dato su di lui un più grave giudizio: infatti ha dimostrato di credere che, con la condanna di Apronio, anche Verre sarebbe apparso condannato. Ma un’altra ragione induce a ritenere che la denegatio della formula Octaviana non possa esser riferita alla pretesa esistenza della regola pregiudiziale, e cioè il fatto che il crimen repetundarum non portò mai ad una condanna capitale: ora, mentre si spiega che Cicerone abbia potuto parlare di praeiudicium capitis, in quanto nei retori si incontra spesso la confusione della pena capitale con le pene conseguenti all’interdictio aquae et ignis[22], è invece difficile credere che Metello si sia espresso così come Cicerone riferisce[23].

Altrettanto poco probante per l’esistenza della regola pregiudiziale, è il secondo passo sul quale si appoggia l’opinione tradizionale:

 

De Inventione 2.59. Exemplum autem translationis in causa positum nobis sit huiusmodi: cum ad vim faciendam quidam armati venissent, armati contra praesto fuerunt et equiti Romano quidam ex armatis resistenti gladio manum praecidit. Agit is, cui manus praecisa est, iniuriarum. Postulat is, quicum agitur, a praetore exceptionem[24]: "EXTRA QUAM IN REUM CAPITIS PRAEIUDICIUM FIAT". [60] Hic is, qui agit, iudicium purum postulat; ille, quicum agitur, exceptionem addi ait oportere. Quaestio est: excipiundum sit an non? Ratio: "Non enim oportet in recuperatorio iudicio eius maleficii, de quo inter sicarios quaeritur, praeiudicium fieri". Infirmatio rationis: "Eiusmodi sunt iniuriae, ut de iis indignum sit non primo quoque tempore iudicari". Iudicatio: atrocitas iniuriarum satisne causae sit, quare, dum de ea iudicatur, de aliquo maiore maleficio, de quo iudicium conparatum sit, praeiudicetur?

 

Torneremo in seguito sulla fattispecie ipotizzata da Cicerone; per il momento è sufficiente osservare che l’oratore in questa parte dell’opera si occupa della translatio retorica[25] e ne dà nel cap. 20 un esempio scolastico: exemplum translationis in causa. Non decide però se il magistrato debba nel caso previsto concedere l’exceptio, ma si domanda se il convenuto possa, e con quale argomenti, postularla. Da questa circostanza la dottrina ha già dedotto che l’eccezione menzionata non fosse espressamente prevista nell’editto[26]; inoltre la discussione fatta da Cicerone sull’opportunità di sospendere o no il processo privato in considerazione della gravità dell’ingiuria sofferta, mi sembra dimostrare che l’idea pregiudiziale era molto imprecisa e che non esisteva un criterio tecnicamente certo e delimitato, in base al quale attuare la precedenza del processo capitale. I due passi considerati non danno alcuna indicazione che valga a chiarire il fondamento della regola pregiudiziale nell’età ciceroniana, e non si può pertanto da essi argomentare l’esistenza e i limiti della regola stessa in età posteriore.

Un’altra massima comunemente riportata alla nostra materia è

 

Paul. Sent. I.12.8(9) = D. 5.1.54. Per minorem causam maiori [cognitioni] praeiudicium fieri non oportet [: maior enim quaestio minorem causam ad se trahit][27].

 

Si è voluto vedere in questo frammento «eine wohl in den Anfangen schon zu Ciceros Zeit geltende ... , alte Praejudizialregel»[28]; d’altro lato, si riconosce che la contrapposizione causa maior causa minor è troppo indefinita per essere utilizzata come criterio discretivo dei processi che devono essere sospesi in ragione della regola stessa: e si conclude quindi negativamente sul valore del passo[29]. Questa conclusione è giusta, nel senso che esso non ci illumina sul regime seguito in epoca classica nel caso di interferenze tra processi pubblici e privati; mi sembra però che si possa fare un’osservazione sul valore che esso assume nell’epoca di composizione delle Sententiae[30]. Lo studioso compilatore dell’opera segue in questa parte l’ordine dell’editto[31]: ora, per quanto nel titolo edittale dedicato alle questioni pregiudiziali non trovasse posto l’exceptio extra quam in reum capitis praeiudicium fiat, tuttavia ad esso può essere riferita la prima frase del frammento che, sebbene indeterminata, aveva forse un valore indicativo dei rapporti tra quei processi che abbiamo visto esser privilegiati, e quelli sospesi per far luogo alla precedenza dei primi. Constatiamo poi che nel titolo delle Sententiae (I.XII De iudiciis] corrispondente a quello edittale, si trovano massime relative ai processi criminali: da questa circostanza e tenendo presente il fatto che nell’età postclassica il regime della connessione per pregiudizialità si viene modificando e precisando, mi sembra possibile dedurre che l’autore dell’opera abbia voluto riferirsi alla precedenza accordata al processo criminale, commentandola secondo i nuovi concetti: la seconda frase infatti esprime tendenze certamente esistenti nell’età dioclezianea[32].

Nel Digesto, un solo frammento è, secondo il piano dell’editto ricostruito, sicuramente da riportare al titolo relativo ai praeiudicia:

 

D. 5.3.5.1 ULPIANUS 15 ad edictum. Divus Hadrianus Trebio Sergiano rescripsit, ut Aelius Asiaticus daret satis de hereditate quae ab eo petitur, et sic falsum dicat: hoc ideo, quia sustinetur hereditatis petitionis iudicium, donec falsi causa agatur.

 

La petitio hereditatis, pur essendo essa stessa privilegiata nei confronti della rei vindicatio delle singole parti dell’eredità, deve esser sospesa fino al termine del processo criminale di falso, qualora il convenuto con la petitio dichiari di voler intentare l’accusatio falsi. egli dovrà però, secondo la decisione di Adriano, prestare una cauzione. Lenel[33] afferma che questo fr, doveva appartenere ad una spiegazione della precedenza accordata ai iudicia capitalia. osservo però che la regola non sarebbe assoluta nemmeno in questo caso, poiché Ulpiano stesso in una ipotesi analoga decide che se alcuno pretenda un legato da un testamento che si dica esser falso, il processo con cui si reclama il legato può essere istruito prima della sentenza sul processo di falso. Questo avrà la precedenza solo nel caso in cui sia lo stesso legatario ad intentarlo[34].

 

D. 40.12.7.4 ULPIANUS 54 ad edictum. Sunt et aliae causae, ex quibus in libertatem proclamatio denegatur, veluti si quis ex eo testamento liber esse dicatur, quod testamentum aperiri praetor vetat, quia testator a familia necatus esse dicatur: [cum enim in eo sit iste, ut supplicio forte sit adficiendus, non debet liberale iudicium ei concedi] sed et si data fuerit, [quia dubitatur, utrum nocens sit an innocens,] differtur liberale iudicium, donec constet de morte eius, qui necatus est [: apparebit enim, utrum supplicio adficiendus sit, an non][35].

 

Allo schiavo che dichiari d’essere stato manomesso per testamento, il liberale iudicium non deve esser concesso, o se già lo sia stato deve esser sospeso, qualora si sospetti che il testatore sia stato assassinato dalla sua familia: poiché in questo caso tutti gli schiavi, anche quelli eventualmente manomessi nel testamento, devono essere sottoposti alla tortura secondo le disposizioni del senatoconsulto Silaniano[36], la causa liberalis dovrà essere sospesa fino alla decisione sul processo criminale. Anche in questa ipotesi, il processo privato non è sospeso per dar la precedenza al iudicium publicum in quanto tale, in omaggio ad una antica regola sulla proibizione di recar pregiudizio al iudicium capitale[37]. la precedenza del processo d’omicidio, come quella del processo di falso in ULP. D. 5.3.5.1 si basa invece su una ragione di logica giuridica, essendo qui il giudicato criminale condizionale rispettivamente per la concessione della libertà allo schiavo, e per la rivendicazione dell’eredità.

Troppo poco quindi sappiamo sulla regola pregiudiziale per trarre delle conclusioni. Forse essa esistette nel diritto repubblicano, con lo scopo di impedire che la sentenza resa in una causa privata potesse costituire un mezzo di prova per il processo pubblico capitale; d’altronde il riconoscimento della forza probatoria del praeiudicium in Quintiliano dimostra che ciò non avvenne in ogni caso: e infatti tutte le decisioni che ci sono conservate nel Corpus Iuris in materia di successione di cause affermano la precedenza del processo capitale solo quando esso sia pregiudiziale alla causa privata, quando cioè in esso debba essere risolta una questione che, per ragioni d’ordine logico e giuridico, si presenti come presupposto del  fatto costitutivo del diritto che si fa valere con l’azione privata. Che i giuristi romani non abbiano impostato il problema, teoricamente, dal punto di vista della pregiudizialità della questione condizionante sulla questione condizionata non può recare stupore, stante la loro abitudine alla concretezza, né farci dubitare che tale concezione fosse tuttavia alla base delle singole decisioni con cui giuristi ed imperatori regolarono la successione dei processi connessi.

 

 

4. Praeiudicium e rapporti tra azione penale privata e mezzo pubblico di repressione

 

La teoria della precedenza accordata nell’editto al iudicium publicum capitale in ogni caso di interferenze con un iudicium privatum, affermata in generale sulla base dei testi esaminati, viene poi adoperata per chiarire il regolamento del concorso tra azione penale privata e mezzo pubblico di repressione. Abbiamo già accennato che la distinzione romana dei delitti in pubblici e privati conduce alla concorrenza dei due mezzi di repressione ogni volta che un fatto illecito venga preso in considerazione sia come delictum, punibile nelle forme del processo’privato, che come crimen, represso secondo la pubblica procedura delle quaestiones[38]. Il concorso della repressione privata con la repressione statuale è studiato dalla dottrina romanistica con una singolare confusione di dogmi repubblicani classici e postclassici: così si cerca di comprendere il regime classico risalendo all’antica regola pregiudiziale, e questa poi si vuoi conciliare con una costituzione di Valente, Graziano e Valentiniano (a. 378):

 

Th. 9.20.1 pr. = C. 1.9.31.1 pr. A plerisque prudentium generaliter definitum est, quotiens de re familiari civilis et criminalis competit actio, utraqne licere expediri, sive prius criminalis sive civilis actio moveatur[39], nec si civiliter fuerit actum, criminalem posse consumi, et similiter e contrario[40].

 

Da questa costituzione, interpretata senza le aggiunte giustinianee, e basandosi sull’accenno iniziale ai plerique prudentium, si sono voluti ricostruire i princìpi fissati dalla giurisprudenza classica: il concorso sarebbe cumulativo nel caso che l’azione penale privata sia stata esperita prima del iudicium publicum, mentre la decisione resa anteriormente su questo avrebbe effetto esclusorio nei confronti dell’azione privata. Tale regime troverebbe riscontro nei frammenti veramente classici che ci sono giunti; né sarebbe in contrasto con la prevalenza anticamente[41] stabilita a favore del iudicium publicum: essa «emerge effettivamente dal sistema classico in materia di concorso tra azione penale privata e mezzo di repressione pubblica» perché «mentre esperita l’azione privata è ancora possibile la repressione pubblica, non è vera la reciproca»[42].

Vedremo in seguito quale significato assuma l’accenno ai plerique prudentium in C.Th. 9.20.1; ma bisogna intanto osservare, in primo luogo, che la precedenza stabilita a favore del iudicium publicum non è basata su una pretesa prevalenza del processo criminale, sia essa intesa come maggior importanza della repressione statuale[43], oppure, come altri ha voluto, come «ein Schutz des Beklagten»[44]. In epoca classica, essa si riferisce all’ordine dei processi solo quando questi si trovino tra loro in rapporto di connessione e non di concorrenza: il concorso di un’azione penale privata con il mezzo pubblico di repressione non poteva infatti essere considerato da una regola pregiudiziale stabilita dall’editto, perché essendo l’illecito privato e quello pubblico sempre assolutamente indipendenti tra loro, i rispettivi mezzi di repressione posti eventualmente a tutela di uno stesso atto delittuoso erano cumulabi. La causa privata non era considerata concorrente con quella pubblica: in senso tecnico si può infatti parlare di concorso solo quando diversi mezzi di repressione esistenti in ragione di uno stesso fatto abbiano la stessa funzione: ora ciò non può ovviamente dirsi dei mezzi con i quali erano rispettivamente perseguibili l’illecito privato e quello pubblico. Il fondamento giuridico delle due forme di repressione non era uguale perché, pur tendendo ambedue alla punizione del colpevole, la persecuzione privata conduceva al pagamento di una pena pecuniaria a guisa di vendetta, la persecuzione statuale invece ad una pena pubblica prevista dalla legge. Pertanto, quando il fatto illecito presentasse una diversità di aspetti giuridici per cui veniva preso in considerazione, con un diverso titolo, sia dal diritto penale privato che da quello pubblico, i diversi mezzi di repressione previsti dall’ordinamento giuridico romano si ponevano come coesistenti e non come concorrenti. Non si può quindi affermare che la persecuzione pubblica avesse un effetto per così dire assorbente rispetto all’azione privata[45], nel senso cioè che questa risultasse esclusa da quella. Io ritengo quindi che alla distinzione tra delictum e crimen corrisponda la coesistenza dei rispettivi mezzi di repressione: ed era precisamente dalla possibilità di far valere ambedue questi mezzi che sorgeva il problema dei rapporti tra i diversi procedimenti, poiché è evidente che il primo giudicato veniva ad esplicare un’influenza (pratica ma non giuridica, in ragione della diversità di struttura e di funzione tra processo pubblico e processo privato) sul secondo giudizio. Abbiamo d’altronde già visto che tale possibile influenza non fu ragione capace di determinare i giuristi romani a proibire che il praeiudicium si verificasse, o fosse utilizzato dal secondo giudice come mezzo per formarsi la propria opinione.

Se queste considerazioni generali sono esatte, bisogna tuttavia interpretare alcuni frammenti giurisprudenziali sui quali la dottrina tradizionale si basa per sostenere l’effetto esclusorio della sentenza criminale nei confronti dell’azione penale privata: le fonti infatti ci presentano con una certa frequenza, nella tarda epoca classica, ipotesi di delictum e crimen esistenti in ragione di uno stesso fatto illecito, e troviamo le espressioni praeiudicium   praeiudicare usate in formule contrastanti: necque debet publico iudicio privata actione praeiudicari[46]; nec enim prohibendus est privato agere iudicio, quod publico iudicio praeiudicatur[47]; interdum evenit ut praeiudicium per privatum iudicium iudicio publico fiat[48]. Poiché io non credo che essi possano essere accordati con la pretesa antica prevalenza del processo capitale, bisogna accertare quale sia il significato di praeiudicium quando, come in questi frammenti, esso è riferito alla coesistenza di mezzi di repressione pubblici e privati.

 

 

5. Il iudicium publicum nella cognitio extra ordinem

 

È opportuno premettere qualche osservazione sull’evoluzione storica che si compie nell’età dei Severi, maturandosi il passaggio dalla procedura penale repubblicana, regolata definitivamente da Augusto con la lex Julia iudiciorum publicorum, alle nuove forme processuali della cognitio extra ordinem, È noto che dopo l’emanazione di questa legge, il diritto criminale legittimo, elaborato dalla giurisprudenza negli ultimi secoli della repubblica, non si evolve più; per le nuove fattispecie assoggettate a repressione non vengono create nuove quaestiones, ma vi provvede il magistrato con i suoi poteri di coercitio. Tuttavia, il procedimento usato in questi casi nella prima età imperiale non è sempre lo stesso: e mentre da un lato si creano autonomi crimina extraordinaria, raggruppando fatti particolari che hanno un elemento comune, d’altro lato si allarga la sfera di applicazione di una legge, istitutiva di un iudicium publicum, per ricondurre sotto l’orbita di essa le nuove situazioni ritenute meritevoli di protezione statuale[49]. Bisogna inoltre distinguere a seconda che la subsunzione di nuovi fatti nell’ambito di questa o quella legge sia avvenuta ad opera di senatoconsulti, o dell’interpretazione giurisprudenziali, o di rescritti imperiali: non si può infatti affermare che le varie fonti di produzione giuridica operassero nello stesso modo per quel che riguarda l’ampliamento dei fatti punibili. La riconduzione di nuove ipotesi al principio sistematico su cui è basato un reato già esistente avvenne in modo particolare all’inizio dell’età imperiale, in cui senato ed imperatori operarono sullo stesso piano; in prosieguo di tempo, mentre andava esaurendosi l’attività normativa del Senato acquistava autonomia e maggior importanza l’attività della cancelleria imperiale, sia creando nuove fattispecie punibili senza alcun richiamo ad una lex precedente[50], come dapprima era consuetudine, sia trasformando in crimina extraordinaria fatti illeciti in un primo tempo puniti solo attraverso il diritto penale privato[51], sia infine innovando profondamente nel sistema delle pene[52]. Quindi, piuttosto che separare nettamente il diritto criminale delle quaestiones dal successivo sviluppo di esso, affermando che «tutti i nuovi istituti (di diritto ... penale pubblico) entrati da quel momento nell’ordinamento giuridico romano non ebbero protezione...attraverso quaestiones, ma soltanto secondo la cognitio extra ordinem»[53], bisogna ritenere invece che «ordo iudiciorum e cognitio coesistono, si integrano, talora si intersecano, l’uno indebolendosi e gradatamente svuotandosi, l’altro rinforzandosi ed arricchendosi di sempre nuovo contenuto»[54].

In quale rapporto si trovavano le nuove ipotesi punibili, alle quali fossero state estese le pene previste da una legge, con il iudicium publicum creato dalla legge stessa? Nella tarda epoca classica si distingue, nei processi criminali, tra iudicia publica e extraordinaria:

 

D. 48.1.1 MACER. I de publicis iudiciis. Non omnia iudicia, in quibus crimen vertitur, et publica sunt, sed ea tantum, quae ex legibus iudiciorum publicorum veniunt, ut Julia maiestatis, Julia de adulteriis, Comelia de sicariis et veneficiis, Pompeia parricidi, Julia peculatus, Comelia de testamentis, Julia de vi privata, Julia de vi publica, Julia ambitus, Julia repetundarum, Julia de annona[55].

 

L’espressione iudicium publicum che stava dapprima ad indicare i processi promossi con accusa pubblica e repressi da una quaestio con una pena pubblica, ora indica invece i processi che si riferiscono a delitti configurati dalle leges iudiciorum publicorum. Perché si è conservata questa qualifica, basata su un criterio affatto esteriore, quando lo stesso Macro parla in generale di cognoscere extra ordinem de iudiciis piublicis[56], e Paolo avverte che ordo exercendorum iudiciorum <publicorum> capitalium in usu esse desiit[57]? La ragione si trova nel fatto che la cognitio rispettò, sostituendosi alle quaestiones, le regole che erano proprie di queste, tranne naturalmente quelle relative alle giurie[58]. Infatti, a prescindere dai casi in cui venissero creati nuovi crimini, rispetto ai quali il potere d’iniziativa del magistrato poteva esplicarsi completamente, la cognitio extra ordinem si sostituì gradualmente a tutti i processi pubblici, sia nella repressione di delitti già previsti da leggi, che nell’ipotesi in cui la sfera d’applicazione di una legge venisse allargata, con la riconduzione di nuovi casi allo stesso principio informatore di un delitto già esistente: questi anzi nascevano spesso in occasione di cognitiones del tribunale imperiale[59]. In questi casi, pur restando nel magistrato quel potere personale d’investigazione, proprio al magistrato quanto alieno alle giurie, vennero recepite in quel processo molte delle regole proprie di queste: e in primo luogo il principio accusatorio non scomparve insieme alle quaestiones, ma accolto nella cognitio si confuse progressivamente con il principio della libera inquisitio magistratuale, giungendo i due principi ad assimilarsi in un unico processo tra la fine del II e l’inizio del III secolo quando, scomparse le quaestiones[60], la cognitio assorbì completamente il iudicium publicum. Questo termine continua ancora a designare i processi criminali previsti dalle leges iudiciorum publicorum, ma benché essi non si svolgano più dinanzi alle giurie essendosi loro sostituita la cognitio, quest’ultima, riferita a tali processi è tuttavia informata al principio accusatorio. Esso viene d’altronde ristretto, non solo nel senso che la posizione degli accusatori è limitata nella cognitio dai più larghi poteri del magistrato, ma anche perché in molti casi il diritto di accusare viene in questo processo limitato all’offeso,e ai suoi prossimi parenti. Così, mentre da un lato l’accusa pubblica non è più ritenuta.necessaria per i nuovi crimina, sorti durante il Principato, d’altro lato si riconosce privilegiata la posizione di colui che persegue con l’accusa suas suorumque iniurias[61].

Concludendo, si può dire che l’antitesi iudicium publicum / cognitio extra ordinem che è alla base delle elaborazioni sistematiche del diritto criminale fatte dai giureconsulti classici[62], non sempre corrisponde all’altra accusatioinquisitio: sotto il profilo processuale iudicium publicum è il processo che si svolge con caratteri di unilateralità[63], e su iniziativa di un privato, che può essere secondoi casi, una determinata persona o qualsiasi cittadino romano. Il fatto che un dato crimen sia previsto da una lex o posteriormente ad essa, che represso da una quaestio o dal tribunale imperiale o senatorio, che l’iniziativa processuale sia pubblica o limitata all’offeso, non significa necessariamente che esso dia o non dia luogo ad un iudicium publicum[64].

 

 

6. – Esame dei vari delitti perseguibili con mezzi di repressione pubblici e privati: I) rapina; II) spoglio violento del possesso; III) omicidio di uno schiavo; IV) plagio; V) ingiurie

 

Le precedenti osservazioni sono importanti poiché nei passi dedicati dai giureconsulti classici ai rapporti tra i diversi procedimenti penali, la menzione del praeiudicium è sempre in relazione il iudicium publicum[65]: è quindi opportuno aver presente il mutevole significato di questo termine nel sistema processuale romano per poter studiare il problema della coesistenza di iudicium privatum e iudicium publicum, senza tralasciare di inquadrarlo nelle tendenze del momento storico in cui esso si pone. Alla luce di queste osservazioni, possiamo ora esaminare partitamente le singole ipotesi in cui le fonti attestano che uno stesso fatto illecito fu considerato come delictum e come crimen, con la conseguenza di mezzi proce suali privati e pubblici previsti per reprimerlo.

 

I) L’ipotesi in cui il problema è maggiormente complicato l’abbondanza dei mezzi a disposizione dell’offeso è quella di danneggiamento o furto commesso con violenza. Essa era contemplata nel diritto dell’età repubblicana da un editto emanato dal pretore regrino M, Lucullus Licinianus[66], che concedeva un’azione contro chi saccheggiasse beni altrui con bande armate o con una folla anche senz’armi: hominibus armatis coactisve[67]. La rapina, e cioè il furto commesso con violenza da un solo, non sorse come delitto a sé, ma fu originariamente considerata come un caso di furto. È difficile stabilire se l’azione pretoria contro il damnum datum hominibus armatis coactisve sia stata ad essa estesa ad opera della giurisprudenza, oppure se un secondo editto de bonis vi raptis abbia seguito quello di Lucullo[68]; ambedue le formule furono certamente provocate dal desiderio di reprimere più severamente quei fenomeni di sopraffazione rivoluzionaria che si verificarono ovunque in Italia nell’epoca tra la dittatura di Siila e la congiura di Catilina[69] e vennero nell’uso comune unificate sotto il nome di actio vi bonorum raptorum[70]. È quindi opportuno tener separate le diverse ipotesi per individuare i casi in cui si ebbe la possibilità che le menzionate azioni coesistessero con il iudicium publicum ex lege Julia de vi (publica seu privata).

Il concetto di vis, intesa come esercizio di una costrizione atta a ridurre allo stato passivo colui che ne è oggetto, è alla base dell’azione pretoria de bonis vi raptis come del iudicium publicum creato dalla lex Julia[71]: di qui la possibilità, almeno in teoria, che il rapinatore venga perseguito sia con l’una che con l’altro. D’altronde non ogni violenza è repressa pubblicamente come vis publica o’ privata: ma talune ipotesi vengono tutelate, per tutta la durata dell’età classica, solo dal diritto penale privato[72]. Una di queste è precisamente il furto compiuto con la violenza ma senz’armi: esso fu attratto nella sfera del crimen vis solo da norme posteriori[73]. A discussioni da luogo l’origine della repressione criminale della rapina a mano armata: si soleva ritenere che essa fosse prevista dalla lex Julia de vi privata, ma ciò è stato recentemente posto in dubbio dal Niedermeyer, il quale afferma «dass nicht nur der Raub, der nicht mit Waffengewalt ausgeführt ist, nicht unter die lex Julia de vi privata fällt, sondern dass der Raub überhaupt grundsätzlich durch die extraordinaria cognitio gebüsst wurde»[74], L’autore osserva che non vi sono passi genuini dai quali appaia la possibilità di reprimere criminalmente la rapina sulla base della lex Julia[75], mentre in qualche testo si parla, in connessione con la rapina, di crimen vis o anche semplicemente di crimen, senza riferimento alla lex Julia[76]. Su questi passi Niedermeyer si basa per affermare l’esistenza, accanto alla lex Julia de vi privata, di un crimen extraordinarium costruito allo scopo di colmare le lacune della legge. Contro questa concezione reagisce Lauria[77], riaffermando la dottrina tradizionale secondo la quale la rapina era originariamente contemplata nel dispositivo della lex Julia[78].

In realtà, non abbiamo alcuna prova dell’esistenza di un crimen extraordinarium vis indipendente dalla lex Julia in quanto inadeguato a dimostrarla è il fatto che Macro ed Ulpiano[79] menzionino in questa materia un crimen senza qualificarlo, mentre nulla certamente può trarsi dalle costituzioni di Diocleziano e posteriori, addotte da Niedermeyer, al fine di distinguere le fattispecie regolate dalla cognitio da quelle previste dalla legge. Inoltre, non appare convincente la dimostrazione delle molte interpolazioni che egli è costretto a supporre. Tuttavia, ciò non significa che la rapina a mano armata sia necessariamente da riportare alla lex Julia: abbiamo visto infatti come operasse la cancelleria imperiale nell’allargare la sfera d’applicazione di una legge, e come non debbano a tali nuove fattispecie esser negate le caratteristiche del iudicium publicum. Ora, la repressione criminale della rapina è attestata in D, 48. 6. 3. 2, della cui sostanziale genuinità non si può dubitare, con un generico riferimento alla lex Julia de vi publica[80].

 

D. 48.6.3.2.3 MARCIANUS 14 institutionum. In eadem causa sunt, qui pessimo exemplo convocata seditione villas expugnaverint et cum telis et armis bona rapuerint. Item tenetur, qui ex incendio rapuerit aliquid praeter materiam.

 

È noto[81] che le espressioni hac lege (oppure item) tenetur   in eadem causa sunt   huius legis poena punitur non introducono le disposizioni originarie di una legge: l’unica locuzione tecnica per indicare queste è lege ... cavetur. Esse sono invece usate per raggruppare sistematicamente intorno ad una legge tutte le fattispecie che ad essa vengono ricondotte per via d’elaborazione giurisprudenziale o per opera di senatoconsulti o attraverso l’intervento diretto della cancelleria imperiale. Questo metodo d’esposizione, spesso seguito da Marciano nelle sue Istituzioni[82], mentre conferma la supposizione che la rapina non rientrasse originariamente nella lex Julia, c’impedisce però di sapere l’epoca in cui divenne possibile la sua repressione criminale, in quanto non ci resta che una concisa enunciazione di fattispecie punibili, elencate l’una dopo l’altra senza alcun riferimento alla fonte ad opera della quale esse furono originariamente previste. Si può quindi soltanto supporre, argomentando dalle testimonianze che altri giureconsulti ci hanno tramandato in materia di repressione criminale della violenza, che anche per quel che riguarda la rapina a mano armata l’attività imperiale abbia incominciato ad esplicarsi nel II secolo[83].

Nemmeno il danno arrecato da uomini armati o da una folla anche senz’armi, sanzionato dall’azione pretoria creata da Lucullo, dovette essere previsto dalla lex Julia de vi: non prova, per le ragioni testé accennate,

 

D. 48.6.10.1 ULPIANUS 68 ad edictum = D. 48.7.2 SCAEVOLA 4 regularum. Hac lege tenetur et qui convooatis hominibus vim fecerit, quo quis verberetur et pulsetur, neque homo occisus sit.

 

Neppure si può addurre

 

D. 48.2.15 ULPIANUS 56 ad edictum. In eum, cuius dolo malo hominibus coactis <armatisve>[84] damni quid datum esse dicatur, non debet cogi actor omissa actione civili crimen intendere.

 

Infatti è possibile che, estendendo al danno hominibus armatis coactisve datum la pena della legge Julia, l’accusa relativa venisse tuttavia concessa all’offeso[85]. Una conferma del fatto che l’illecito penalmente represso da Lucullo non fu in origine sanzionato anche dalla lex Julia si ha considerando che la clausola dell’editto contro il danno non previde la violenza come elemento del delitto stesso, in quanto si rifaceva al damnum iniuria datum della legge Aquilia, aggravato con gli elementi del dolo e dell’attruppamento[86]: la violenza fu invece ad esso riferita solo da Giustiniano, che sviluppando nuove concezioni sorte nelle scuole bizantine, unificò le due clausole dell’editto, sopprimendo ogni elemento di diversificazione tra di esse[87].

Il problema dei rapporti tra l’azione pretoria contro la rapina o il danno e il iudicium publicum ex lege Julia de vi si pone quindi al più presto nel II secolo. Non v’è dubbio che fino a quando l’accusatio vis fu portata dinanzi alla quaestio ex lege Julia, qualora essa tendesse a reprimere un fatto considerato punibile anche a norma del diritto penale privato, lo stesso fatto avrebbe potuto essere perseguito anche secondo quest’ultimo: il pretore cioè avrebbe accordato all’offeso la formula prevista dall’editto, senza preoccuparsi della successione cronologica dei due giudizi[88]. Ora, è possibile che, essendo la rapina assoggettata alla pubblica persecuzione solo in un secondo tempo, e dovendo quindi il crimine esser giudicato dal funzionario imperiale anziché dalla giuria, i rapporti tra delictum e crimen fossero regolati in maniera differente? Vi sono alcune testimonianze testuali apparentemente in questo senso, in quanto sembrano negare il principio dell’indipendenza dei mezzi di repressione coesistenti:

 

D. 47.8.2.1 ULPIANUS 56 ad edictum, [Hoc edicto contro, quae vi committuntur, consuluit praetor. Nam si quis se vim passum docere possit, publico iudicio de vi potest experiri, neque debet iudicio privata actione praeiudicari quidam putant: sed utilius visum est, quamvis praeiudicium legi Juliae de vi privata fiat, nihilo minus tamen non esse denegandam actionem eligentibus privatam tionem].

 

D. 48.1.4 PAULUS 37 ad edictum. Interdum evenit ut praeidicium <per privatum iudicium>[89] iudicio publico fiat, sicut in actione legis Aquiliae et furti et vi bonorum raptorum et interdicto unde vi et de tabulis testamenti exhibendis [: nam in his de re familiari agitur].

 

II passo ulpianeo afferma, nel suo attuale tenore, una generica concorrenza dell’actio vi bonorum raptorum e del iudicium publicum ex lege Julia de vi privata, e nonostante la contraria opinione di alcuni giureconsulti secondo i quali il processo pubblico dovrebbe avere la precedenza, nel testo si ritiene, in base a considerazioni di utilità, che la scelta tra il mezzo di repressione pubblico e l’azione privata sia lasciata all’interessato. Questa decisione corrisponde piuttosto ai princìpi giustinianei che a quelli classici: e non mancano infatti nel frammento abbondanti indizi formali di alterazione che inducono a: non crederlo genuino[90]. Immediatamente dopo di: esso Lenel[91] colloca D. 48.2.15 [92], in cui Ulpiano afferma che, chi sia stato danneggiato hominibus armatis coactisve non deve essere costretto a rinunciare ad ottenere soddisfazione nelle forme del processo privato, per intentare l’accusa criminale. Anche qui dunque, pur non facendosi menzione del praeiudicium, si nota la preoccupazione di ripetere che la coesistenza dei due mezzi di repressione non deve essere regolata con la precedenza accordata al iudicium publicum: ma mentre D. 47.8.2.1 afferma la concorrenza elettiva, presentandola come contraria ai princìpi e concessa solo, per un criterio di utilità, in D. 48.2.15 è semplicemente e con chiarezza definita la libertà dell’attore di intentare l’accusa criminale o l’azione privata[93]. Questa decisione è quindi coerente con i princìpi esposti. Per determinare il rapporto tra i due frammenti, Niedermeyer ritiene che esistessero, al tempo della compilazione del Digesto, ambedue questi passi come introduttori all’editto sulla rapina: uno di essi, D. 48.2.15, avrebbe fatto parte del genuino commento ulpianeo alla clausola sul danno arrecato hominibus coactis; l’altro invece, ammettente la generale concorrenza dell’azione pretoria con il crimen vis, sarebbe postclassico. Quest’ultimo, poiché era nella linea della legislazione giustinianea, fu conservato, mentre una parte del primo veniva inserita in D. 48. 2, titolo dedicato alla teoria del diritto penale pubblico[94]. Niedermeyer però non si domanda quale principio giuridico fosse alla base dell’affermazione neque debet publico iudicio privatam actione praeiudicari ... sed utilius visum est non esse denegandam actionem eligentibus privatam persecutionem. Se essa infatti avesse veramente origine come scolio pregiustinianeo[95], rivolto ad estendere la repressione ex lege Julia ad ogni caso di violenza, come potremmo trovare quell’espressione, in un’epoca in cui non si distingue più tra iudicium publicum e iudicium privatum[96], e con riferimento ad un passaggio sicuramente genuino in cui non era parola della pretesa «alte Prävalenz des iudicium publicum über die Privatklage »[97]? Si può pensare piuttosto che l’introduttorio di Ulpiano all’editto considerasse la coesistenza con la repressione pubiblica anche per la clausola sui bona vi rapta, poiché abbiamo visto non potersi negare l’estensione della lex Julia a certi casi di rapina. Non è possibile ricostruire il frammento nel suo tenore originario, poiché esso è molto largamente rielaborato; è tuttavia verosimile supporre che la decisione non fosse contrastante con quella resa per la clausola sul danno.

La stessa ipotesi è considerata anche da Paolo in D. 48.1.4 [98]. Una prima cosa da notare in questo frammento è il fatto che Paolo presenti come eccezionale (interdum evenit) la possibilità di praeiudicium fieri iudicio publico, pur comprendendo poi nella sua esemplificazione tutti i casi in cui un fatto illecito è sanzionato sia dall’azione penale privata, sia attraverso la repressione pubblica. Il fr. 4 cit. è portato come argomento a dimostrare che l’ordine d’esercizio delle azioni è libero qualora si tratti di mezzi a tutela della proprietà[99]: in questo caso cioè, in contrasto con la regola che stabilisce la precedenza del processo criminale, si ammette che il giudizio privato venga esperito prima, restando tuttavia possibile il successivo esercizio del mezzo criminale, e il primo giudicato «eserciterà un influsso sul seguente giudizio penale pubblico»[100]. Gli autori traggono conferma per la loro tesi dal fatto che con il fr. 4 si accordi CTh. 9.20.1 pr.[101], e ne deducono che il regolamento del concorso rimane immutato anche in epoca postclassica. L’osservazione è certamente giusta: meglio ancora D, 48.1.4 si accorda con la redazione giustinianea della costituzione, inserita in CI. 9.31 con rubrica Quando civilis actio criminali praeiudicet et an utraque ab eodem exerceri potest, collocazione che attribuisce alla costituzione importanza di norma generale. La formulazione della rubrica è significativa perché in essa si domanda quando l’azione civile possa essere esperita cumulativamente[102] con l’azione criminale[103] e la risposta che dà il testo della costituzione è nel senso di permettere il cumulo quotiens de re familiari civilis et criminalis competit actio, decisione identica dunque a quella di Paolo. Inesatta tuttavia mi sembra la conseguenza che da tale identità si è voluto trarre: poiché essa, piuttosto che il permanere della dottrina classica nella legislazione posteriore, dimostra che il frammento di Paolo fu elaborato dai compilatori per inserirlo nella teoria generale del diritto penale pubblico[104].

Il fr. 4, tratto dal libro 37 ad edictum, è riportato da Lenel[105] allactio de moribus. Questo mezzo processuale resta per noi oscuro, essendo stato abolito da Giustiniano[106]; sembra tuttavia che esso trovasse applicazione in seguito alla condanna della donna sulla base della lex Julia de adulteriis, per far valere in giudizio le conseguenze patrimoniali del divorzio risultante dalla sua cattiva condotta[107]: il publicum iudicium era in tal caso pregiudiziale all’azione privata e questa doveva pertanto essere sospesa fino alla decisione su quello. Nel suo commento al iudicium de moribus quindi Paolo doveva stabilire la precedenza del processo criminale, condizionante quello privato. In tale occasione egli poteva commentate che una simile precedenza non era invece stabilita a regolare le ipotesi in cui la sfera d’applicazione di certi crimini fosse stata allargata fino a ricomprendervi fattispecie già punibili nelle forme processo privato: sicut in actione legis Aquiliae et furti et vi bononorum raptorum. L’originale di D. 48.1.4 e CTh. 9.20.1 si spiegherebbero dunque a vicenda, poiché il passo di Paolo era certamente presente alla cancelleria imperiale che redasse la costituzione del 378 [108], mentre l’attuale tenore del fr. 4 sarebbe stato determinato dal desiderio dei compilatori giustinianei di adeguarlo a quella, da essi inserita nel Codice con importanza di norma generale.

Possiamo ora individuare le ragioni che condussero i giureconsulti dell’età dei Severi ad occuparsi dei rapporti tra iudicium publicum e iudicium privatum: diverse circostanze infatti, introdottesi con il prevalere della cognitio extra ordinem, concorrono in questo periodo ad alterare l’indipendenza che regolava, secondo il diritto processuale ordinario, la coesistenza di actio ex delicto e crimen in ragione di uno stesso fatto. Una di esse sta nell’involuzione del principio accusatorio, che si manifesta nella tendenza a limitare all’offeso l’attribuzione dell’iniziativa processuale: ciò indubbiamente portò a riconoscere importanza predominante al diritto sostanziale nei confronti della procedura, permettendo di vedere come, sotto il profilo della funzione, i due mezzi di repressione ora a disposizione dell’offeso non possono considerarsi differenti[109]. Una seconda ragione di perplessità per i giuristi di quest’epoca si può vedere nella teoria della cosa giudicata che si viene sviluppando in tutte le sue conseguenze: appartiene all’età dei Severi infatti l’elaborazione e la regolamentazione unitaria della eadem res come criterio oggettivo[110], e della teoria dei limiti soggettivi della cosa giudicata: questa è spesso considerata sotto il profilo dell’importanza pregiudiziale che la sentenza non deve assumere nei confronti di altri: res inter alios iudicatae nullum aliis praeiudicium faciant[111]. L’elaborazione del concetto di res iudicata, quale si compie nell’età dei Severi attraverso la corrispondente elaborazione dell’appellatio[112], messa in relazione con la circostanza testé; esaminata[113], dovette convincere i giuristi e gli imperatori del tempo ad occuparsi dei rapporti tra processo privato e processo criminale, per negare che la decisione su uno di essi, pur essendo resa tra le stesse parti, dovesse impedire lo svolgimento dell’altro[114]. La circostanza che il problema della regolamentazione di tali rapporti si sia posto per la prima volta nell’avanzata età classica, spiega le incertezze e le divergenze che troviamo nelle fonti in argomento: gli ultimi giuristi dovevano qui costruire con le loro sole forze, senza potersi appoggiare ai grandi maestri che li avevano preceduti, in una materia delicata che non era stata regolata dalla legislazione né dalla dottrina precedente.

Essi quindi furono indotti a riferire alla coesistenza dei mezzi di repressione l’espressione con cui originariamente era stata discussa l’opportunità di tutelare lo svolgimento del processo criminale ritenuto di maggior importanza. A tale scopo il pretore avrebbe impedito che azioni private aventi qualche elemento comune con una questione sottoposta a iudicium publicum, venissero intentate prima di quest’ultimo. Tuttavia, mentre in quel caso la proibizione di recar pregiudizio alla causa capitale aveva un preciso riferimento tecnico, in quanto il magistrato avrebbe provveduto a farla rispettare denegando l’azione privata, quando nella elaborazione giurisprudenziale la regola viene riferita a ipotesi di coesistenza, essa assume un semplice valore indicativo dell’indipendenza dei giudicati; per cui da un lato si ammette la possibilità che l’azione privata preceda il iudicium publicum, dall’altro si afferma che tale precedenza non attribuisce alla prima sentenza valore vincolante nei confronti del successivo giudizio.

Praeiudicium iudicio publico fieri in actione vi bonorum raptorum, fu pertanto sempre possibile nel senso che non si proibì l’esercizio dell’azione privata in vista del possibile processo pubblico successivo; e ciò non per la ragione affermata dai compilatori nel frammento di Paolo (nam in his de re familiari agitur), che giustifica il cumulo in qualsiasi ipotesi in cui il delitto abbia conseguenze patrimoniali, ma perché nonostante le nuove tendenze che potevano portare a dubitarne, si tenne fede al principio dell’indipendenza tra i mezzi processuali, che si basava sulla distinzione strutturale tra iudicium publicum e iudicium privatum[115].

 

II) Nel fr. 4 cit., Paolo si occupava ancora dei rapporti tra interdictum unde vi e accusatio vis ex lege Julia: questa ipotesi è compresa anche nell’elenco esemplificativo fatto in CTh. 9.20.1.1 [116], e alla stessa situazione si riferisce inoltre:

 

CI. 8.4.4 Impp.DIOCLETIANUS et MAXIMIANUS A A. Theodoro. Si de possessione vi deiectus es, eum[117] et legis Juliae vis privatae reum postulare et ad instar interdicti unde vi convenire potes, quo reum causam omnem praestare, in qua fructus etiam, quos vetus possessor percipere potuit, non quos praedo percepii, venire non ambigitur (a. 294).

 

Nella costituzione viene affermato che sia la difesa interdettale che la repressione criminale sono accordate all’offeso contro chi l’abbia con la violenza spogliato del possesso: ma non è stabilita alcuna precedenza a favore del processo criminale, né è detto che questo precluderà l’esercizio dell’interdetto. Infatti la natura di quest’ultimo è tale che una simile preclusione non poteva venire in questione: poiché funzione della postulatio è tuttora solo la punizione del reo di violenza, mentre con l’interdetto, o con l’azione che ne consegue qualora l’ordine del magistrato non venga seguito, l’offeso potrà ottenere la restituzione del fondo e dei frutti maturati durante la sua forzata assenza[118].

Poiché i due mezzi processuali hanno fini giuridici ben diversi l’uno dall’altro, sarebbe stato assurdo impedirne il cumulo. Il fatto che Paolo accosti in D. 48.1.4 questa ipotesi a quella precedentemente esaminata e relativa alla rapina, conferma che egli non attribuiva al praeiudicium la portata che si suole ricollegarvi in ordine all’effetto esclusorio della sentenza sul crimen, ma solo un valore indicativo dei rapporti tra giudicato civile e criminale[119].

La precedenza del crimen vis sulla controversia relativa alla proprietà appare in un decreto di Antonino Pio:

 

D. 48.6.5.1 MARCIANUS 14 Institutionum. Si de vi et possessione [vel dominio][120] quaeratur, ante cognoscendum de vi quam de proprietate rei divus Pius tù koinù tîn Qess£lwn Graece rescripsit: sed et decrevit ut prius de vi quaeratur quam de iure dominii sive possessionis[121].

 

II rescritto menzionato nella prima parte del frammento va riferito[122] all’obbligo di decidere prima sulla questione di violenza (che ha dato luogo all’emanazione dell’interdictum de vi) e poi sulla questione di proprietà; ad esso fa seguito un decreto sulla precedenza accordata al iudicium publicum de vi nei confronti della rei vindicatio. Poiché, come abbiamo visto, non esisteva alcuna norma tendente a. regolare in maniera generale la successione cronologica dei giudizi in considerazione dell’influenza che il primo avrebbe potuto esplicare sul successivo, bisogna interpretare il decreto di Antonino[123] come relativo ad un determinato caso di violenza i cui particolari elementi indussero l’imperatore a considerare opportuna la precedenza del processo criminale. Ciò non significa che questo avesse generalmente importanza predominante, né che l’imperatore abbia inteso, con la sentenza in questione, andare oltre il regolamento del caso singolo, per porre una norma procedurale di carattere generale.

Una opposta decisione per un caso apparentemente analogo, ci è conservata in una sentenza di Settimio Severo:

 

C.I. 7.62.1 SEVERUS A. dixit: Prius de possessione pronunciare et ita crimen violentiae excutere praeses provinciae debuit. quod cum non fecerit iuste provocatum est (a. 209).

 

L’imperatore ritiene giustamente proposto l’appello contro una sentenza del praeses provinciae che aveva giudicato, in un processo per violenza, senza tener conto della questione relativa al possesso. Osservo anzitutto che qui si tratta per la decisione sul possesso, di una sentenza interlocutoria con valore di accertamento[124]: Severo infatti si riferisce ad un processo extra ordinem, e afferma che la pronuncia sul possesso spetta allo stesso magistrato che deve decidere anche sul crimen violentiae; inoltre è anche questa certamente decisione di un caso particolare, del quale non. ci sono riferiti gli estremi.

Queste costituzioni quindi confermano l’ipotesi che non esistesse una regola generale per stabilire a priori la successione dei mezzi processuali civili e penali a disposizione di chi avesse sofferto una violenza, ma essendo essi tutti esperibili, l’ordine in cui dovevano essere esercitati era determinato da esigenze di logica giuridica, le quali come tali si imponevano anche al magistrato competente.

 

IlI) Le osservazioni precedenti sulla coesistenza del mezzo pubblico di repressione con l’azione penale privata nell’ipotesi di violenza ci aiuteranno a chiarire anche gli altri casi in cui le fonti considerano i rapporti tra i due mezzi di repressione dal punto di vista dell’importanza pregiudiziale che il giudicato civile può assumere per lo svolgimento del processo criminale. Uno di questi si ha nell’ipotesi si dolo servus occisus sit.

La lex Aquilia de damno contiene disposizioni contro il damnum iniuria datum, e stabilisce nel primo capitolo che l’uccisore di uno schiavo debba pagarne al padrone il più alto prezzo avuto nell’anno anteriore al delitto[125]. È questa la disposizione che ci interessa, in quanto l’uccisione del servo cade anche sotto la sanzione della lex Cornelia de sicariis: giuristi ed imperatori si occuparono anche in questa ipotesi del problema dei rapporti tra i due mezzi di repressione. Abbiamo già visto che in D. 48.1.4 la legge Aquilia è menzionata tra le azioni penali private, per mezzo delle quali evenit ut praeiudicium iudicio publico fiat. Inoltre:

 

GAI. III.213. Cuius autem servus occisus est, is liberum arbitrium habet vel capitali crimine reum facere eum qui occiderit, vel hac lege damnum persequi.

 

D. 9.2.23.9 ULPIANUS 18 ad edictum. Si dolo servus occisus sit, et lege Cornelia agere dominum posse constat; et si lege Aquilia egerit, praeiudicium fieri Corneliae non debet.

 

C. 3.35.3 Imp. GORDIANUS A. Dolenti. Ex morte ancillae, quam caesam conquestus es, tam legis Aquiliae damni sarciendi gratia actionem quam criminalem accusationem adversus obnoxium competere posse non ambigitur (a. 241).

 

Nell’ipotesi si servus occisus sit abbiamo dunque tre diverse soluzioni date rispettivamente da Gaio, Ulpiano e Paolo: e mentre il primo sembra introdurre la concorrenza alternativa, il secondo esclude la possibilità che si verifichi il praeiudicium e il terzo infine ammette che ciò avvenga, Nel Codice poi, Gordiano, senza usare il termine praeudicium né l’ordine da seguire nell’esercizio delle due azioni, afferma che ambedue competono contro l’uccisore. Il cumulo assoluto è attestato anche, nelle Istituzioni, da Giustiniano che ricalcando Gaio trasforma i due vel in et[126], Di fronte a tali diverse soluzioni date da giuristi ed imperatori, è legittimo il dubbio se sia possibile trarne un significato apprezzabile per capire quale fosse il regolamento della coesistenza di iudicium publicum e iudicium privatum nell’ipotesi di uccisione di un servo.

In realtà, anche qui la retta comprensione dei rapporti tra i due mezzi di repressione è oscurata dal voler connettere all’ordine di successione dei processi la menzione di un praeiudicium, mentre questo non può essere riferito all’esistenza di una regola pregiudiziale. Bisogna invece vederne il significato nell’affermazione dell’importanza probatoria che la sentenza anteriore può assumere per il processo successivo, pur non avendo essa determinato i Romani ad impedirla radicalmente con l’obbligo di sospendere il processo meno importante fino alla decisione dell’altro, ritenuto di maggior importanza. Quando Paolo dice: evenit ut praeiudicium iudicio publico fiat .... in actione legis Aquiliae[127], ciò non può significare che (come abbiamo già visto nell’analogo caso relativo al delitto di rapina) ammettere la possibilità di accusare ex lege Cornelia indipendentemente dal fatto che già sia stata esperita contro l’uccisore l’actio legis Aquiliae, Ulpiano si pone da un punto di vista diverso ma non contrastante: mentre infatti gli esempi di Paolo erano probabihnente presentati come eccezionali di fronte al regime dell’actio de moribus, Ulpiano usa in D. 9.2.23.9 la stessa espressione in forma negativa, preoccupandosi di chiarire che la coesistenza dei due mezzi di repressione da lui affermata nella prima parte del paragrafo, non significa che l’uno di essi possa escludere l’altro[128].

Nel paragrafo gaiano invece il problema dei rapporti tra i due mezzi processuali, e dell’importanza pregiudiziale del giudicato anteriore non è ancora posto: esso va inteso piuttosto come affermazione della contemporanea spettanza al dominus sia l’actio legis Aquiliae[129] che dell’accusa criminale per omicidio; i due vel che appaiono introdurre la concorrenza alternativa, indicano invece l’impossibilità, logica se non giuridica, di porre in essere contemporaneamente i mezzi di repressione pubblico e privato. Altrimenti sarebbe da interpretare il passo, qualora Gaio regolasse i rapporti tra azione penale e accusa pubblica: così, esso conferma l’ipotesi che questo problema si ponga per la prima volta ai tardi giuristi classici, in relazione alle nuove tendenze che abbiamo sopra individuato.

Anche Gordiano, nella costituzione del 241, si pone evidentemente dal punto di vista del diritto sostanziale, e ribadisce che contro il colpevole competono sia l’azione penale privata che il mezzo pubblico di repressione: nessun accenno alla precedenza della persecuzione statuale, né alla preclusione del processo privato operata da quello[130].

È inoltre opportuno ricordare che la legge di Silla sull’omicidio non era certamente in origine, applicabile all’uccisione dello schiavo, ma fu ad essa estesa nella prassi giuridica posteriore[131]. Non è possibile determinare con precisione l’epoca in cui ciò avvenne: si suole pensare che la repressione ex lege Cornelia fosse concessa contro l’uccisore di uno schiavo altrui già sotto Claudio, argomentando da

 

SUET. Claud. 25. Quod si quis necare quem (sc. mancipium) mallet quam exponere, caedis crimine teneri.

 

Tuttavia, dalla circostanza che Claudio ritenga colpevole di omicidio il padrone che uccida il proprio schiavo infermo, non si può dedurre che alla quaestio inter sicarios spettasse di giudicare questo e gli analoghi casi. Sappiamo infatti da Tacito[132] che già Augusto aveva affidato al praefectus urbi la vigilanza sul comportamento de servi e la sua competenza si estende in seguito al trattamento che questi ricevevano dai propri padroni[133]. È quindi verosimile che al prefetto stesso piuttosto che alla quaestio spettasse la cognitio sul caedis crimine di cui non sappiamo con quanta esattezza terminologica parla Svetonio: e d’altronde, è già stato visto che questa attività di Claudio «deve interpretarsi per vero più come un’ordinanza di polizia che come un precetto giuridico»[134].

La repressione criminale dell’omicidio ingiustificato del’proprio servo è invece da Gaio attribuita ad Antonino Pio, nel quale, probabihnente per l’influenza delle idee stoiche[135], è da vedere l’autore di sostanziali riforme a favore degli schiavi:

 

GAI. I.53. Nam ex constitutione imperatoris Antonini qui sine causa servum suum occiderit, non minus teneri iubetur, quam qui alienum servum occiderit.

 

Tuttavia la costituzione di Antonino[136], come l’affermazione di GAI. III.213, non ci illuminano sulla disposizione originaria ad opera della quale fu punita con la poena legis Corneliae l’uccisione dello schiavo altrui: sappiamo solo che l’estensione è certamente già avvenuta intorno alla metà del II secolo.

 

IV) Anche per il furto ci è attestata la possibilità della coesistenza di azione penale privata e iudicium publicum: ancora da Paolo in D. 48.1.4, dove non viene determinato quale sia il iudicium publicum, e in altri testi nei quali è genericamente ammessa l’esperibilità sia dell’actio furti sia dell’accusatio ex lege Fabia.

La natura del giudizio creato da questa legge e gli elementi del reato di plagio sono stati recentemente messi in discussione da vari autori, i quali vedono in modo diverso la questione dei rapporti tra lex Fabia e plagium, e lo sviluppo storico di questo reato in relazione alla cognitio extra ordinem e alla legislazione dioclezianea. Niedermeyer[137] infatti ricostruisce la storia del reato di plagio partendo dalla considerazione che alla lex Fabia era estraneo il termine plagium: essa quindi avrebbe creato un crimen ex lex Fabia, senza altra denominazione, punibile a Roma con una pena pecuniaria; mentre di plagio si sarebbe parlato solo in provincia, dove la legge non era applicabile e lo stesso reato era represso in via straordinaria. Il vero creatore del crimen plagii sarebbe quindi Diocleziano, al quale è dovuta la fusione dei due concetti: «der festgefügte, aber erweichte und erweiterte Tatbestandsrahmen der lex Fabia, die Strafsätze aber der Praxis der extraordinaria cognitio entnommen wurden»[138]. Questo punto centrale della tesi di Niedermeyer è già stato criticato[139], e in realtà non è del tutto convincente. In particolare non è affatto dimostrata la differenza intercedente tra lex Fabia e cognitio in ordine alla configurazione del reato: è infatti di tutta evidenza l’osservazione che, se anche la legge effettivamente non avesse usato il termine plagium, ciò sarebbe insufficiente a dimostrare una diversità tra il crimen legis Fabiae e il reato represso in via straordinaria nelle provincie, convincendoci invece del contrario la considerazione che nel linguaggio giuridico il nome plagium è usato correntemente a designare il reato contemplato dalla legge Fabia e dalle successive disposizioni che la integrarono e modificarono[140].

La lex Fabia mirò in origine solo alla repressione della usurpazione della patria o dominica potestas, in relazione all’anarchia sociale regnante in Italia alla fine della Repubblica, la quale rese necessario punire severamente il commercio che si faceva di uomini liberi e di schiavi sottratti[141]. Questo è ancora lo scopo della legge nel II secolo:

 

D. 48.15.6 pr. CALLISTRATUS 6 de cognitionibus. Non statim plagiarium esse, qui furti crimine[142] ob servos alienos interceptos tenetur, divus Hadrianus in haec verba rescripsit: ‘Servos alienos qui sollicitaverit aut interceperit, crimine plagii, quod illi intenditur, teneatur nec ne, facit quaestionem[143]: et ideo non me consuli de ea re oportet, sed quod verissimum in re presenti cognoscitur sequi iudicem oportet. plane autem scire debet posse aliquem furti crimine ob servos alienos interceptos teneri nec idcirco tamen statim plagiarium esse existimari’.

 

Adriano rifiuta di pronunciarsi sui limiti di separazione del plagium dal furtum, dicendo spettare al giudice la decisione, secondo i princìpi (quod verissimum in re presenti cognoscitur). Egli d’altronde non offre espressamente alcun elemento d’individuazione, limitandosi ad affermare che non ogni furto di schiavo è anche un plagio. In un altro rescritto dello stesso imperatore, riportato nel § seguente da Callistrato, viene poi fornito un esempio:

 

Idem princeps in haec verba rescripsit: ‘Apud quem unus aut alter fuerit fugitivus inventus, qui operas suas locaverint ut pascerentur, et utique si idem antea apud alios opus fecerint, hunc supprcssorem non iure quis dixerit’.

 

Da questo rescritto si può dedurre che secondo Adriano per concretare un plagio è necessario l’esercizio di atti di dominio sullo schiavo, poiché egli esclude il reato di plagio qualora esistano un contratto di locazione e analoghi precedenti che tolgano al contratto stesso ogni carattere di eccezionalità[144]. Ora ciò conferma che in epoca classica l’usurpazione della dominica potestas era un elemento costitutivo del plagio, mentre una simile precisazione non si trova più a partire da Diocleziano, il quale generalizzando la portata della lex Fabia, portò a considerare plagio ogni atto di disposizione dello schiavo[145].

Dopo queste osservazioni, utili a chiarire perché in età postclassica il plagio potesse venire presentato come un semplice caso di furto, dal quale più non si distingueva per l’elemento caratteristico originario, possiamo tralasciare lo studio dello sviluppo storico del reato, che si concluse con la concessione di Diocleziano Plagii criminis accusatio publici sit iudicii[146]; Passiamo invece a considerare i rapporti tra actio furti e iudicium legis Fabiae: i testi affermano. il cumulo dei due mezzi di repressione, confermando ancora una volta l’inesistenza di una regola sulla successione dei processi[147].

La possibilità di cumulare persecuzione pubblica e privata ci è indirettamente testimoniata da CALL. D. 48.15.6: per quanto infatti in questo frammento si dichiari che non ogni furto di schiavo è anche un plagio, ne risulta la possibilità di ipotesi in cui si esauriscano gli estremi di entrambi i reati.

 

D. 47.2.83(82).2 = Paul. Sent. II.31.31. Qui ancillam non meretricem libidinis causa subripuit, furti actione tenebitur et, si subpressit, poena legis Fabiae coercetur.

 

Chi rapisce una schiava libidinis causa è colpevole di furto e, se esercita su essa atti di dominio, incorre anche nel reato di plagio. La dichiarazione non meretricem mette in rilievo l’atto del subprimere, con il quale il rapitore compie gli estremi del plagio[148].

Nel Codice la stessa ipotesi[149] è prevista da

 

CI. 9.20.1 Imp. ANTONINUS A. Placido. Pater tuus adversus eum, a quo sollicitatam ancillam, plagio quoque facto exportatam quaeritur, apud suum iudicem civiliter in rem actione instituta consistat. si in causa tenuerit, etiam legis Fabiae crimen persequi poterit (a. 213)[150].

 

Contro chi abbia fatto fuggire una schiava, è possibile tanto esperire l’accusatio legis Fabiae[151], quanto agire civiliter: Caracalla non specifica quale sia il mezzo civile concesso in questo caso; si può pensare all’actio ad exhibendum o all’actio furti[152]. In ANTON. CI. 9.20.2 coesistono invece crimen legis Fabiae e actio servi corrupti, e infine CTh. 9.20.1.2 ha un’affermazione di carattere generale.

 

Quo in genere habetur furti actio et legis Fabiae constitutum ... ut, cum altera prius actio intentata sit, per alteram quae supererit iudicatum liceat retractari.

 

Essa si spiega per la considerazione che la lex Fabia dà ora luogo ad un crimen publicum, ed è inoltre difficile, per l’allargamento del concetto di plagio, distinguerlo dal semplice furto di schiavo; pertanto gli imperatoli possono presentare l’actio legis Fabiae quasi come un mezzo d’appello concesso a chi è stato vinto nel processo privato.

Il crimen legis Fabiae coesiste ancora con l’interdictum de nomine libero exhibendo, e viene affermato il cumulo dei due mezzi:

 

D. 43.29.3 pr. ULPIANUS 71 ad edictum. Quod et lex Fabia prospexit, neque hoc interdictum aufert legis Fabiae executionem; nam et hoc interdicto agi poterit et nihilo minus accusatio legis Fabiae institui. et versa vice qui egit Fabia, poterit nihilo minus etiam hoc interdictum habere[, praesertim cum alius interdictum, alius Fabiae actionem habere possit][153].

 

Decisione conforme ai princìpi e al carattere dell’interdetto.

 

V) Vediamo infine se anche per l’ultimo dei delitti tipici, l’iniuria, fosse possibile la coesistenza dell’azione privata con il iudicium publicum e, eventualmente, come esso fosse regolato.

Lingiuria consiste nell’offendere una persona con atti che significano disprezzo di essa; può essere reale o verbale:

 

Paul. Sent. V.4.1. Iniuriam patimur aut in corpus aut extra corpus: in corpus verberibus et illatione stupri, extra corpus conviciis et famosis libellis.

 

Contro l’ingiuria intesa come lesione personale, che era già prevista dalle XII Tavole, il pretore concesse una formula, detta actio iniuriarum aestimatoria, alla quale seguirono poi altre clausole edittali, che compresero nell’ingiuria le varie specie di contumelia. È possibile che alcuna delle ipotesi previste dall’editto fosse considerata punibile anche come crimen sulla base di una legge istitutiva di un iudicium publicum[154].

In primo luogo viene qui in considerazione il passaggio del De inventione in cui Cicerone discute se si possa in recuperatorio iudicio eius maleficii de quo inter sicarios quaeritur praeiudicium fieri[155]. A questo proposito bisogna osservare che, contrariamente a quanto fu creduto, il crimen de sicariis non può essere intentato per la ferita inferta al cavaliere da uno ex armatis resistenti gladio, ma per il fatto che alcuni uomini armati si fossero riuniti ad vim faciendam. Infatti le semplici ferite[156] non erano considerate dalla lex Cornelia: solo Adriano prescrisse che fosse punito come omicida chi avesse arrecato ferite allo scopo di uccidere[157]. La legge prevedeva invece l’ambulatio cum telo hominis occidendi causa[158]; essa poteva quindi essere applicata al caso ipotizzato da Cicerone. È inoltre da considerare che, qualora l’interpretazione tradizionale fosse esatta, il convenuto con l’actio iniuriarum, ottenendo l’eccezione postulata, sarebbe giunto al risultato di costringere l’attore ad intentare l’accusa criminale invece dell’azione pretoria: ciò che non avrebbe potuto volere. Egli aveva invece interesse ad accusare prima d’essere giudicato per l’ingiuria fatta al cavaliere, in considerazione del pregiudizio morale che da tale sentenza gli sarebbe derivato.

Cicerone non discuteva quindi l’opportunità di concedere l’exceptio per regolare la coesistenza di actio iniuriarum e iudicium de sicariis; essa invece avrebbe avuto lo scopo di impedire che il giudicato potesse influenzare la giuria chiamata a decidere il processo criminale[159].

L’ipotesi che si suole ricollegare al passaggio ciceroniano è invece fatta in

 

D. 47.10.7.1 ULPIANUS 57 ad edictum. [Si dicatur homo iniuria occisus, numquid non debeat permettere praetor privato iudicio legi Corneliae praeiudicari? idemque et si ita agere velit ‘quod tu venenum dedisti hominis occidendi causa’? rectius igitur fecerit, si huiusmodi actionem non dederit, adquin solemus dicere, ex quibus causis publica sunt iudicia, ex his causis non esse nos prohibendos, quominus et privato agamus. est hoc verum, sed ubi non principaliter de ea re agitur, quae habet publicam executionem. quid ergo de lege Aquilia dicimur? nam et ea actio principaliter hoc continet, hominem occisum non principaliter: nam ibi principaliter de damno agitur, quod domino datum est, at in actione iniuriarum de ipsa caede vel veneno ut vindicetur, non ut damnum sarciatur. quid ergo, si quis velit iniuriarum agere, quod gladio caput eius percussum est? Labeo ait non esse prohibendum: neque enim utique hoc, inquit, intenditur, quod publicam habet animadversionem, quod verum non est: cui enim dubium est et etiam hunc dici posse Cornelia conveniri]?

 

In questo prolisso e certamente alterato[160] frammento, sono discussi i rapporti tra actio iniuriarum e iudicium publicum ex lege Cornelia de sicariis per l’uccisione di uno schiavo. La fattispecie è analoga a quella già esaminata, in cui lo stesso iudicium publicum coesiste con l’actio legis Aquiliae spettante al padrone dello schiavo per il danno derivantegli dall’uccisione di esso; qui viene in considerazione l’actio iniuriarum in quanto essa è concessa al dominus per l’ingiuria[161] arrecata al servo. La menzione del praeudicium deve appartenere ad Ulpiano che probabilmente dava per questo caso una soluzione analoga a quella data per l’ipotesi precedente in D. 9.2.23.9[162]. I compilatori, trovando tale parola, che essi invece usavano ad indicare l’effetto esclusorio del primo giudicato, inseriscono nel passo una lunga discussione di valore teorico per distinguere i casi in cui tale effetto dovesse operare, da quelli in cui era invece permesso il cumulo. II criterio discretivo qui applicato tende ad ammettere leffetto esclusorio del primo giudicato in tutti quei casi in cui principaliter de ea re agitur, quae habet publicam executionem, mentre lo esclude in ogni altro caso. Coerentemente si proibisce il cumulo della persecuzione pubblica con l’actio iniuriarum, perché in questa si vede l’appagamento della stessa vendetta che trova soddisfazione anche in quella; e a tale azione viene contrapposta l’actio legis Aquiliae, la quale, avendo per diritto giustinianeo funzione di risarcimento del danno[163], non deve esser esclusa dall’avvenuto processo criminale. Inoltre, e sempre nello stesso ordine di idee, viene respinta la decisione di Labeone[164], considerando che anche nell’ipotesi di percosse a mano armata, che ricade ora sotto la pena della lex Cornelia, la funzione dell’azione di ingiurie è identica a quella del mezzo pubblico di repressione. Il passo, prezioso per conoscere il punto di vista giustinianeo, non può essere utilizzato per la conoscenza della dottrina classica: Ulpiano, la cui decisione è impossibile ricostruire esattamente, doveva limitarsi ad indicare che, qualora un’azione fosse punibile sia privatamente come ingiuria, sia pubblicamente attraverso la lex Cornelia de sicariis (ad esempio appunto nell’ipotesi di omicidio del servo e nell’ipotesi di ferite arrecate allo scopo di uccidere), i diversi mezzi di repressione a disposizione dell’offeso erano tra loro indipendenti.

Un altro passo che ha dato occasione ad interpretazioni inesatte è

 

D. 47.10.6 PAULUS 55 ad edictum. Quod senatus consultum necessarium est, cum nomen adiectum non est eius, in quem factum est: tunc ei, quia difficilis probatio est, voluit senatus publica quaestione rem vindicari. ceterum si nomen adiectum sit, et iure communi iniuriarum agi poterit: nec enim prohibendus est privato agere iudicio, quod publico iudicio praeiudicatur [, quia ad privatam causam pertinet. plane si actum sit publico iudicio, denegandum est privatum: similiter ex diverso].

 

II passo è certo rimaneggiato[165]; esso tratta la repressione del libello infamante[166] che non contenga l’espressa menzione del nome di colui contro il quale è diretto: per questa ipotesi, a causa della difficoltà che questi avrebbe trovato a dimostrarsi legittimato, Paolo richiama un senatoconsulto attraverso il quale la fattispecie viene repressa publica quaestione, Di un’attività del senato in materia di libelli famosi abbiamo anche altre .testimonianze, che permettono di determinarne il contenuto. In un primo tempo, il Senatoconsulto fu ricollegato al crimen maiestatis attraverso il quale, secondo Tacito, Augusto fece giudicare dal senato Cassio Severo, per aver pubblicato scritti diffamatori contro persone d’alto rango[167]. Questa teoria fu però criticata dal Levy[168], il quale ritiene invece che il senatoconsulto abbia esteso alla fattispecie la pena della lex Cornelia de iniuriis: l’applicazione della legge (che originariamente contemplava le sole ipotesi in cui alcuno se pulsatum verberatumve domumve suam vi introitam esse dicat[169] sarebbe stata necessaria qualora nel libello fosse mancato il nome, o dell’autore o di colui contro il quale era diretto. Tuttavia, la repressione attraverso la legge Cornelia è bensì possibile nella prima ipotesi, ma non nella seconda, poiché per la legge unico legittimato all’accusa è l’interessato[170], il quale avrebbe pertanto trovato le stesse difficoltà ad accusare ex lege Cornelia, come ad esperire la normale actio iniuriarum. D’altronde, proprio per questa ipotesi, la testimonianza degli storici rende verosimile, come già vide Mommsen, l’applicazione della lex maiestatis[171].

Uno scritto diffamatorio poteva dunque dar luogo sia all’actio iniuriarum che al iudicium publicum ex lege Julia maiestatis: a proposito dei rapporti tra i due mezzi di repressione Paolo afferma che l’azione privata non deve essere impedita in vista del processo criminale futuro. L’ultima parte del fr. rispecchia esattamente il pensiero giustinianeo: la giustificazione data della possibilità di esperire l’azione d’ingiurie è (oltre che formalmente scorretta) troppo banale per poter essere attribuita a Paolo, e infatti la privata causa corrisponde alla res familiaris con la quale in D. 48.1.4 i compilatori spiegano, dal loro punto di vista, una analoga espressione classica[172]. L’ultima frase poi si spiega per il ragionamento visto sopra, per cui Giustiniano nega il cumulo della repressione pubblica con l’actio iniuriarum, in quanto questa ha funzione esclusivamente penale[173].

 

 

7. – Riflessi processuali del cumulo dei procedimenti pubblico e privato

 

Dal punto di vista del diritto sostanziale, il principio del cumulo regola dunque nella tarda epoca classica la coesistenza della repressione pubblica e privata in ragione di uno stesso fatto: abbiamo visto infatti non potersi affermare che l’esercizio di uno dei mezzi di repressione abbia effetti preclusivi nei confronti dell’altro. Questo principio apre d’altronde il problema processuale dei rapporti tra i procedimenti: esso fu certamente visto dagli ultimi giuristi classici, i quali proprio in considerazione dell’importanza della prima sentenza si preoccuparono di negare la forza del firaeiudicium, Qual’è dunque, nella procedura romana, l’influenza del giudicato su un successivo processo relativo allo stesso fatto? È opportuno studiare partitamente le diverse ipotesi in cui tale influenza può esplicarsi:

 

a) dopo la sentenza resa sulla controversia privata, l’offeso o qualunque cittadino per i crimini la cui accusa è pubblica, intenta nelle debite forme il publicum iudicium;

b) viceversa, terminato questo, l’interessato agisce in via privata per ottenere soddisfazione dell’offesa mediante il pagamento della pena pecuniaria.

 

Nelle fonti, che non distinguono i diversi casi, né li prevedono tutti espressamente, assume particolare rilievo l’ipotesi in cui, definito con sentenza il processo privato viene posto in essere il processo criminale: essa è l’unica considerata nelle discussioni fatte, dai giuristi sull’ammissibilità del praeudicium, è questo è sempre menzionato come praeiudicium iudicio publico. Tuttavia, ancora una volta, ciò non significa che l’ipotesi inversa non fosse possibile per l’effetto assorbente del mezzo processuale pubblico nei confronti di quello privato; significa invece che, per diverse ragioni che vedremo, l’importanza del giudicato criminale sul successivo processo privato non venne considerata dai giuristi sotto l’aspetto messo in rilievo per il caso contrario. È quindi opportuno esaminare questo in primo luogo.

Questa ipotesi, che non dà luogo a difficoltà qualora il processo criminale ammetta la pubblica accusa e venga intentato da un qualisiasi cittadino, fu invece maggiormente discussa in relazione alla limitazione dell’accusa a pochi interessati[174]: tuttavia la pubblicità o meno dell’iniziativa del processo non porta a differenti riflessi per quel che concerne i rapporti tra i giudicati. Gli autori mo derni che hanno visto il problema[175] si limitano ad indicare, sulla base dei frammenti del Digesto già esaminati, quando l’azione privata pregiudichi il crimen; e quando invece non si verifichi il praeiudicium; il significato dell’espressione d’altronde è stato talvolta frainteso, talvolta non sufficientemente chiarito, Così la dottrina tradizionale elenca una serie di casi[176] in cui un pregiudizio può delinearsi; ma senza poi concludere, ciò che più importa dal punto di vista della tecnica processuale, quali siano le conseguenze di questa possibilità: e mentre sembra si faccia riferimento ad un generico influsso del primo giudicato, si vuole però riportare al praeiudicium l’effetto esclusorio con il quale il publicum iudicium opererebbe nei confronti dell’azione penale privata[177].

La visione del problema è certamente stata complicata dalla costituzione del 378[178] la quale, unendo una riforma di Valente, Valentiniano e Graziano in tema di crimen falsi a decisioni fraintese di giuristi classici, ha potuto sviare le ricerche della dottrina moderna presentando come dogma risalente una ibrida teoria costruita nella cancelleria postclassica.

È ormai stata chiarita la ragione che indusse gli imperatori ad emanare la cost. cit., a completare la riforma con cui due anni prima avevano innovato in tema di falso documentale. In CTh. 9.19.4 = CI. 9.22.23 (a. 376), gli stessi imperatori avevano stabilito che, qualora nel corso di un processo sorgesse contestazione circa l’efficacia probatoria di un documento, due vie fossero aperte per discuterne il valore: era possibile cioè de falso criminaliter o de scripturae fide civiliter experiri. L’ipotesi del falso documentale da quindi luogo alla possibilità di agere tanto in via civile che in via criminale[179], pur essendo configurata esclusivamente come crimen; il concorso tra i due mezzi processuali è dapprima retto dal principio dell’elettività[180], in seguito viene introdotto anche quello del cumulo, nel caso che il civiliter agere abbia avuto la precedenza. Questa innovazione è fatta appunto con CTh. 9.20.1, per presentare la quale gli imperatori si richiamano a precedenti classici, che dovrebbero illustrarla e conferirle maggior autorità[181]. Tuttavia il riferimento è inesatto: infatti, mentre nei casi discussi per diritto classico il cumulo era assoluto e giustificato per la circostanza che essi, erano, in astratto, considerati sia dall’ordinamento privato che dal diritto criminale, ciò non è vero per il falso documentale. I redattori della costituzione, considerando erroneamente analoghe le diverse situazioni, riferiscono gli esempi classici facendo precedere la menzione dell’azione privata al mezzo criminale[182] ottenendo il risultato di presentare quest’ultimo «quasi come un mezzo d’appello concesso a chi è stato vinto nel processo civile»[183]. Il regime introdotto nel 378 (ed espresso in modo esplicito dalla frase: cum altera prius actio intentata sit, per alteram quae supererit, iudicatum liceat retractari) è quindi ben lontano dalla dottrina classica ricordata nel pr. con l’accenno ai plerique prudentium.

Questi, ammettendo il cumulo tra azione penale privata e mezzo pubblico di repressione, non intesero certamente dare al secondo una funzione di revisione del primo processo: la diversità di struttura e funzione che caratterizza la contrapposizione iudicium publicum - iudicium privatum, esclude, più ancora che la mancanza di ogni testimonianza testuale in altro senso, che i giuristi classici potessero impostare il problema dei rapporti tra i mezzi processuali coesistenti nel senso rilevato in CTh. 9.20.1 [184]. I due; processi dovevano invece, coerentemente alla netta distinzione menzionata, essere indipendenti l’uno dall’altro: e l’influenza che il primo giudicato non poteva mancare di esercitare sul successivo influenza che, vista dai giureconsulti del III secolo, li condusse ad esaminare il problema , fu esclusivamente di fatto. Essa va intesa secondo gli insegnamenti dati da Quintiliano in materia di praeiudicia: questi cioè, presi nel senso letterale di decisione giudiziaria anteriore, costituiscono per il secondo giudice un argomento di prova, e vengono pertanto in considerazione nella sua sentenza come elemento logico, basato su qualunque fatto umano gli serva per formarsi una ragionata opinione[185].

In questo senso, e cioè come fatto, la decisione sull’azione penale privata non poteva non influenzare il giudice del processo criminale, data l’ampia libertà concessagli nella valutazione dei fatti e delle prove. Per questo non mi sembra possibile aderire alla conclusione che Siber vuol trarre dall’esame dei testi[186], nei quali appare la menzione del praeiudicium. Egli afferma che la regola pregiudiziale sulla prevalenza della causa maior[187] non può aver riferimento alla successione dei processi, né alla obbligatorietà giuridica delle sentenze anteriori per i processi futuri; praeiudicium ha il valore di mezzo di prova, non giuridicamente vincolante e tuttavia abitualmente seguito: la regola pregiudiziale significherebbe quindi che il giudice della causa maior non avrebbe dovuto servirsi della sentenza già resa sulla causa minor come elemento probatorio, per risparmiarsi un nuovo: esame dettagliato delle singole prove, mentre ciò sarebbe stato ammissibile nel caso inverso[188]. Ora tale conclusione, anche a prescindere dalla considerazione che l’esarne delle fonti non dà un risultato che permetta in ogni caso un’affermazione univoca, incontra un ostacolo insuperabile nel sistema romano dell’istruzione probatoria.

Ho già accennato, ed è generalmente noto, che l’ordinamento romano non regolò questa parte del processo, affidandola ai prin cipi elaborati nella prassi giudiziaria. I dati testuali in nostro;possesso sono quindi molto scarsi,, tuttavia si può» ritenere che due .elementi fondamentali caratterizzassero la posizione del giudice ordinario[189], sia nella procedura privata sia nella procedura pubblica: il principio della passività nella raccolta delle prove (e ciò perché, potendo il giudice essere scelto anche tra cittadini privi di conoscenza tecnica del diritto, egli era sprovvisto d’ogni mezzo personale d’azione) e il principio dell’indipendenza nel giudizio, basato sul fatto che il giudice non era sottoposto ad alcuna autorità. Il principio della passività importava che la produzione delle prove e l’andamento della discussione su esse era totalmente rimesso alle parti ed ai loro rappresentanti; e l’attitudine di passiva imparzialità dei giudice, mentre non gli permetteva di servirsi di informazioni personali, gli imponeva d’altra parte di tenere in considerazione tutti quegli elementi che gli venissero presentati[190].

Di fronte a questi princìpi non possiamo ammettere, senza una esplicita testimonianza in tal senso, l’esistenza di un limite fissato alla libera valutazione del giudice con riferimento alla nostra materia. Il giudice del processo criminale poteva quindi ripetere la decisione già resa dal giudice privato: tuttavia ciò non sarebbe avvenuto necessariamente, poiché non era compito suo, ma delle parti raccogliere tutti gli elementi utili affinché potesse formarsi un’opinione. Pertanto, mentre è innegabile l’influenza che il giudicato civile poteva esercitare sul giudice criminale qualora egli ne fosse a conoscenza, tale influenza non poteva però essere sufficiente a fargli rendere una nuova sentenza basata esclusivamente sulla prima: sia per il principio dell’indipendenza che regolava la valutazione delle prove da parte del giudice, sia perché l’interesse della parte vinta nel primo processo l’avrebbe indotta non solo a svalutare la prima sentenza nel senso già insegnato da Quintiliano, ma anche a portare nuove e più efficaci prove a suo vantaggio.

La stessa libertà nel giudizio doveva regolare l’ipotesi inversa[191], quella cioè in cui l’azione penale privata venga intentata dopo la sentenza resa sul processo criminale in ragione dello stesso fatto. Abbiamo già osservato che le fonti non parlano mai di praeiudicium iudicio privato: a questo proposito bisogna osservare che tale ipotesi ha minori probabilità di verificarsi: infatti, se la sentenza è di assoluzione, nessun praeiudicium[192] può derivare al processo privato, in quanto il fatto che una data azione non venga giudicata criminosa secondo l’ordinamento penale pubblico non significa che in essa non possa tuttavia vedersi un illecito privato[193]; se la sentenza è di condanna (e supponendo che questa non sia capitale, poiché in tal caso verrebbe meno ogni possibilità di far valere un’azione privata nei confronti del condannato), difficilmente sarà poi intentata anche l’azione penale privata, dato che il magistrato può direttamente condannare il reo anche ad una pena pecuniaria a favore dell’offeso[194]. La difficoltà pratica che questa ipotesi si verificasse spiega perché i giuristi abbiano esaminato la questione dei rapporti tra i processi solo per il caso contrario: tuttavia, poiché essa non si può, almeno in teoria, escludere assolutamente, tale questione va risolta in modo identico per ambedue le ipotesi.

Rimane ancora un problema da esaminare. Finora abbiamo visto che, sul piano del diritto sostanziale, il crimen non assorbe il delictum quando in uno stesso fatto si vedano i presupposti dell’uno e dell’altro; e che la coesistenza di essi, nei suoi riflessi processuali, dà luogo al cumulo del mezzo di repressione pubblico con quello privato. A sua volta, il cumulo è retto dal principio dell’indipendenza dei procedimenti, nel senso che nessuna precedenza cronologica è stabilita a favore di uno dei due e, inoltre, che nessun obbligo o limite è fissato al secondo giudice in relazione alla valutazione della forza probatoria della sentenza anteriore. Da questi princìpi discende la possibilità di un conflitto tra il giudicato criminale e il giudicato in materia penale privata: è infatti evidente come la cumulabilità dei due procedimenti, che possono esser condotti al loro termine, l’uno indipendentemente dall’altro, possa portare come conseguenza ad avere, su uno stesso fatto, due sentenze tra loro contrastanti. Ora, videro i Romani questa possibilità? E, se la videro, con quale mezzo si proposero di risolvere l’eventuale conflitto?

In realtà, i dati testuali in nostro possesso non ci consentono di dare con certezza una risposta affermativa alla prima di queste domande, per cui cade la possibilità di rispondere anche alla seconda, individuando un mezzo preciso, inteso a regolare la materia in modo generale, e cioè un mezzo processuale astrattamente riferibile alla risoluzione di ogni possibile caso di conflitto tra i giudicati. Infatti, mentre le discussioni che abbiamo trovato negli ultimi giuristi classici a proposito dell’ammissibilità del praeiudicium sono risolte in modo uniforme (nel senso che, pur mancando una regola che valga a definire il principio dell’indipendenza dei procedimenti, questo ritorna costantemente, ogniqualvolta l’osservazione che un determinato fatto illecito cade contemporaneamente sotto le disposizioni repressive dei diversi sistemi penali conduca a chiarire i rapporti tra esse), facendoci pensare che il problema debba esser stato visto anche nella sua estrema conseguenza, tuttavia questa, che si manifesta sotto l’aspetto del conflitto tra giudicato civile e criminale, non appare mai presa in considerazione.

Bisogna quindi pensare che l’ordinamento processuale romano non abbia inteso la contraddizione tra le due sentenze che concludono rispettivamente il iudicium publicum e il iudicium privatum come causa determinante la invalidità di una di esse, in quanto giuridicamente inconciliabile con l’altra. Non si può infatti riferire alla nostra materia

 

CI. 7.64.1 Imp. ALEXANDER A. Apollinario et aliis. Datam sententiam dicitis, quam ideo vires non habere contenditis, quia contra res prius iudicatas, a quibus provocatum non est, lata sit cuius rei probationem, si promptam habetis, et citra provocationis adminiculum quod ita pronuntiatum est sententiae auctoritatem non obtinebit (a. 222).

 

Non è qui certamente il caso di entrare nella discussione implicata dalla c. cit. a proposito della classicità, che viene posta in dubbio, del concetto di nullità della sentenza, e dei rapporti di esso con l’istituto della consunzione giudiziale[195]. Ma, qualunque soluzione voglia darsi al problema, non è possibile pensare che la nullità della sentenza che qui si afferma conseguire alla difformità con un precedente giudicato possa esser riferita all’argomento del concorso di azione privata e repressione pubblica: l’espressione contra res prius iudicatas infatti presuppone che anche il secondo processo sia avvenuto de eadem re, ciò che esclude trattarsi di due giudizi, uno pubblico e uno privato, sullo stesso fatto.

Posta l’inesistenza di una regola generale per risolvere astrattamente ogni caso di conflitto tra il giudicato civile e il giudicato criminale, è opportuno considerare partitamente i diversi aspetti del problema: è ovvio infatti che non ogni ipotesi in cui si abbiano su uno stesso fatto una sentenza privata e una pubblica che non siano ambedue di condanna o di assoluzione deve necessariamente metter capo ad un conflitto tra i giudicati.

Distinguiamo quindi le varie ipotesi possibili:

 

a) una sentenza di condanna conclude il processo privato, seguita dall’assoluzione dell’accusato nel processo criminale intentatogli in ragione dello stesso fatto;

b) una sentenza assolutoria conclude il processo criminale; seguita dalla condanna nel processo privato;

c) una sentenza di condanna conclude il processo criminale, seguita dall’assoluzione nel processoprivato;

d) una sentenza assolutoria: conclude il processo privato; seguita dalla condanna nel processo criminale.

 

Nelle ipotesi fatte sub a) e b) non si verificherà il conflitto tra i giudicati, per la ragione che i presupposti della punibilità del fatto non coincidono nei due ordinamenti penali, privato e pubblico[196]. Il conflitto è invece possibile nel caso visto sub c): ma essa ha in pratica poche probabilità di verificarsi, per le ragioni già viste che inducono a ritenere difficile che il condannato in un processo criminale sia nuovamente convenuto nelle forme del indicium privatum[197].

Conflitto di giudicati può poi determinarsi nell’ipotesi vista sub d): infatti la circostanza che tutti i casi di procedimenti, sopra individuati attraverso l’esame testuale sorgano per la sussunzione nel campo criminale di fattispecie dapprima considerate punibili solo nel campo del diritto penale privato, importa che nel crimen si riscontrino tutti gli elementi del delictum, aggravati con l’elemento costitutivo della punibilità del fatto nel sistema penale pubblico[198].

II cumulo del mezzo di repressione pubblico con l’azione penale privata può quindi dar luogo al conflitto dei giudicati solo nell’ipotesi in cui actione privata praeiudicium iudicio publico fiat, quella cioè che diede origine alle discussioni giurisprudenziali in materia: ma la risoluzione di esso non è prevista dall’ordinamento processuale romano.

Va chiarito, d’altronde, che il conflitto è d’ordine pratico, in quanto le due sentenze decidono in senso contrastante il medesimo fatto e sono quindi tra loro logicamente inconciliabili, ma il rapporto giuridico che viene definito è diverso nell’una e nell’altra: per questa ragione forse, stante la rilevata indipendenza dei sistemi penali pubblico e privato, i Romani non videro la contraddizione come inconciliabilità giuridica, e non si preoccuparono quindi di regolarne le conseguenze[199].

 

 

8. – Connessione e pregiudizialità tra iudicium publicum e iudicium privatum

 

Dobbiamo infine esaminare i rapporti tra giudicato civile e giudicato criminale nell’ipotesi di connessione tra iudicium privatum e iudicium publicum: a questa materia si riferiscono le notizie che possediamo sul principio pregiudiziale in omaggio al quale sarebbe stata stabilita la precedenza del processo capitale. Sebbene esse siano insufficienti a dimostrare l’esistenza di una norma edittale in tal senso in qualunque momento del diritto romano, tuttavia è opportuno occuparsene brevemente in questa sede, poiché nelle frasi ciceroniane in cui quella regola sarebbe documentata ritorna il termine praeiudicium, in un’espressione simile a quella con la quale i giuristi romani indicano i rapporti tra procedure coesistenti; e questa circostanza ha dato luogo all’equivoco per cui la dottrina ha creduto di poter unire la trattazione dei due argomenti.

Nel senso più lato, si verifica connessione tra procedimenti quando tra essi intercede una qualunque relazione processuale: tuttavia, se in questa definizione rientrano le ipotesi riferite da Cicerone[200], nelle quali avrebbe operato la regola pregiudiziale, dobbiamo però rilevare che un concetto di connessione così largo non può essere tecnico, non può cioè essere utilizzato per definire quali relazioni tra diverse procedure fossero regolate con la precedenza del processo criminale. Per l’epoca più antica dobbiamo pertanto limitarci a concludere, riunendo i dati positivi che possediamo in materia, esser verosimile che, in rispetto alla maggior importanza del iudicium publicum, il pretore potesse in determinati casi sospendere l’azione privata la cui decisione avrebbe potuto influenzare l’opinione della giuria chiamata a giudicare un crimen capitale. Non possiamo sapere per quanto tempo, né entro quali limiti, abbia operato questa idea pregiudiziale nel periodo che segue l’età di Cicerone: né ci risulta che essa abbia trovato posto nell’editto di Salvio Giuliano, in una disposizióne pretoria espressamente diretta ad impedire che si agisse nelle forme del processo privato prima della definizione di un crimen capitale con quello connesso. Poiché anche questo problema non può essere risolto che attraverso l’esame testuale, bisogna convincersi che la precedenza del processo pubblico, in epoca classica, ci è attestata in alcuni casi ben diversi tra loro e che non si prestano ad essere riuniti sotto una generalizzazione concettuale.

In un primo caso, dà luogo alla sospensione del processo civile il crimen falsi ad esso incidentale: ULP. D. 5.3.5.1; CI. 9.22.2 (ALEX., a. 223); CTh. 9.19.2 (CONST. a. 320)[201].

In altra ipotesi il iudicium publicum precede la controversia privata quando il pretore non concede il liberale iudicium allo schiavo che si dica manomesso per testamento, perché egli non si sottragga alla tortura disposta al fine di indagare sulla morte del testatore: ULP. D. 40.12.7.4 [202].

Infine, l’accusatio adulterii è pregiudiziale al iudicium de moribus in PAP. D. 48.5.12.3.13; CI. 9.9.32 (THEOD. ARCAD. HONOR., a. 392)[203].

In tutti questi casi, il iudicium publicum è con il iudicium privatum in rapporto di connessione per pregiudizialità, in quanto la previa risoluzione del primo è condizionale per la risoluzione del secondo. Tuttavia è evidente rimpossibilità di riunire le diverse ipotesi sotto un concetto tecnico di pregiudizialità che giustifichi la precedenza del processo criminale in ognuno dei casi esaminati, poiché questi sono tra loro giuridicamente differenti: se noi chiamiamo pregiudiziale in senso tecnico quella questione che si presenti come presupposto non solo logico ma giuridico della questione che viene proposta in un secondo processo, tale qualifica spetta al crimen falsi sorto incidentalmente nel corso di una controversia privata e al crimen adulterii nei confronti dell’iudicium de moribus; ma non può invece essere usata a definire l’ultima ipotesi in cui le fonti affermano la precedenza del iudicium publicum.

Infatti, lo schiavo manomesso non deve ottenere il liberale iudicium perché anch’egli dev’essere sottoposto alla tortura prescritta dal SC. Silanianum per tutta la familia del testatore ucciso; ora, non si può dire che l’inchiesta sull’omicidio sia presupposto logico e giuridico della libertà che lo schiavo otterrebbe per mezzo della causa liberalis, in quanto il risultato di quella lascia comunque impregiudicata la questione della manumissione[204].

Diversa è l’ipotesi della sospensione del iudicium de moribus, poiché quest’azione non esiste se non in seguito ad una condanna per adulterio, con lo scopo di definire le conseguenze patrimoniali di un divorzio risultante dalla cattiva condotta della donna: in questo caso pertanto la precedenza del processo criminale è bensì dovuta ad una ragione di pregiudizialità logica e giuridica, ma questa a sua volta non si manifesta sotto il profilo dell’influenza che il primo giudicato può assumere per il secondo giudice. Non essendo possibile far valere una pretesa nel processo privato se non come conseguenza della sentenza criminale di condanna, il giudice della causa de moribus deve necessariamente tener conto di essa e non può quindi determinarsi conflitto tra i giudicati.

II problema si pone invece nell’ipotesi del falso incidentale: quando cioè nel corso di un processo privato venga sollevata questione intorno alla validità di un documento. In tal caso, per diritto classico, l’autenticità di esso può essere controllata in due modi: da un lato, il convenuto sulla base di una disposizione contenuta in un documento può discuterne con qualunque mezzo il valore probatorio durante lo stesso dibattito che si svolge in sede civile per la formazione del giudizio di fatto: il giudice (il quale, mancando l’ordinamento romano di un sistema di prova legale, ha piena libertà nella valutazione dell’efficacia probatoria del documento) può scartare la prova che gli appaia falsa. Attraverso questo mezzo di difesa colui che si sia servito di un falso strumento perde il beneficio della prova arrecata, ma non si giunge ad una dichiarazione sulla falsità di essa né alla punizione del colpevole[205]. D’altro lato, il convenuto che voglia accertare l’autenticità di un . documento e ottenere la condanna del reo di falso, può promuovere contro di lui un processo criminale accusando ex lege Cornelia: in tal caso, il giudice sospende la causa privata per permettere che la questione incidentale venga preliminarmente accertata in un iudicum publicum[206]. Questo secondo mezzo attraverso il quale il  convenuto può discutere la validità di un documento che ritiene esser falso (da ultimo studiato in riferimento alla riforma con la quale nel 378 viene introdotta la possibilità di accertare, in un autonomo procedimento civile, l’autenticità di scritture probatorie[207], a noi interessa qui sotto il profilo dei rapporti tra la sentenza sul crimen falsi e il processo privato incidentalmente al quale esso è sorto.

Una costituzione di Alessandro Severo ci illumina sul significato e sulle conseguenze della precedenza accordata al processo criminale nei confronti della controversia civile:

 

CI. 4.21.2 Imp. ALEXANDER A. Maniliano. Si uteris in strumento, de quo alius accusatus falsi victus est, et paratus es, si ita visum fuerit a quo pecuniam petis, eiusdem criminis te reum facere et discrimen periculi poenae legis Corneliae subire, non oberit sententia, a qua nec is contra quem data est appellavit, nec tu, qui tunc crimini non eras subiectus, appellare debuisti (a. 223).

 

La sentenza con la quale alcuno fu condannato come reo di falso non oberit contro chi esibisca nuovamente lo stesso documento che ad essa diede occasione: l’attore può cioè portarlo a sostegno della propria pretesa, sapendo però che, qualora il convenuto ritenga opportuno intentare l’accusatio falsi, egli si espone al pericolo di subire a sua volta la pena della legge Cornelia[208]. La ragione per cui Alessandro afferma che l’attore creditore può esibire nuovamente un documento già riconosciuto falso in altro processo criminale, senza che la precedente sentenza possa venirgli opposta, è da vedere nel fatto che egli non era tunc crimini subiectus, e non aveva pertanto avuto la possibilità di interporre appello: sarebbe stato ingiusto che la condanna operasse contro chi non aveva avuto modo di essere ascoltato in giudizio. È quindi il principio così spesso ripetuto in quest’epoca, per il quale res inter alios iudicatas aliis non praeiudicare, che viene qui applicato e che esclude l’estensione della condanna per falso a chi usi in altro processo il documento che ad essa aveva dato luogo[209]. Da questo principio discende l’assoluta indipendenza della sentenza civile dal giudicato criminale: poiché il giudice, in coerenza con i princìpi che regolano la sua attività nella formazione del giudizio di fatto, deve decidere sulla pretesa dell’attore creditore secondo le prove che gli vengono presentate; e pertanto, qualora il convenuto non intenti la accusa, né riesca ad impugnare durante il dibattito l’efficacia probatoria della scrittura presentata, il giudice deciderà la controversia in base al contenuto del documento, anche se eventualmente egli conosca l’esistenza della precedente condanna criminale[210].

Dalla c. 2 cit. si deduce d’altronde, argomentando a contrario, che inter partes, qualora il convenuto intentasse l’accusatio falsi, la sentenza criminale era condizionale ed obbligatoria per la soluzione della controversia privata, la quale pertanto doveva essere decisa in conformità con quella.

La decisione di Alessandro si inserisce in perfetta coerenza nell’ordinamento processuale classico, in quanto con essa viene ribadita una volta di più l’indipendenza tra iudicium publicum e iudicium privatum, basata sulla differenza nella struttura degli stessi, la quale permette che il risultato del procedimento criminale, vólto unicamente alla punizione del reo, non abbia alcun effetto nel sistema privato, ciò che avverrebbe invece se, in base a quello, si imponesse la distruzione o almeno si impedisse l’uso del documento riconosciuto falso. Ciò spiega perché, pur essendo ovvio come questi princìpi riaffermati da Alessandro possano portare ancora ad una contraddizione tra i giudicati, giuristi ed imperatori non si diano pensiero di tale eventualità, ammettendo anche qui che l’incompatibilità logica tra due sentenze non dia luogo a conseguenze giuridiche. 

In una costituzione di non molto posteriore, i rapporti tra causa civile e questione criminale incidentale sono invece regolati in maniera fondamentale diversa:

 

CI. 3.8.3 Impp. VALERIANUS et GALLIENUS AA. Demetrio. Cum civili disceptationi principaliter motae quaestio criminis inciderit [vel crimini prius instituto civilis causa adiungitur], potest iudex eodem tempore utramque quaestionem sua sententia dirimere (a. 262).

 

In essa si afferma che, qualora incidentalmente nel corso di una controversia privata venga proposta una questione penale, oppure pendente un processo criminale sorga un incidente di natura civile, il giudice adito in via principale può definire ambedue le questioni contemporaneamente e con una sola sentenza. Questa cost., apparentemente inconciliabile con i princìpi già visti, non dà tuttavia luogo a difficoltà nell’interpretazione. Infatti (ove si tolga la frase vel - adiungitur, che generalizza la portata della decisione imperiale fino ad attribuire ad ogni giudice la competenza a definire con una sola sentenza qualsiasi questione che, nel corso del processo principale, appaia con quello connessa), essa si spiega secondo i nuovi princìpi introdotti dalla cognitio extra ordinem e ormai pienamente operanti. Fino a quando i giudizi si svolgono nelle forme stabilite dall’ordo iudiciorum, non si ha certamente la possibilità che lo stesso giudice decida contemporaneamente due questioni in materia civile e criminale, poiché l’ordinamento processuale è ancora interessato alla distinzione tra iudicia publica e iudicia privata: ma questa si va svuotando del suo significato e nel 262 per il progressivo generalizzarsi della procedura di cognizione ufficiale, gli imperatori possono prescindere dalla prassi risalente e permettere che il praeses provinciae[211] risolva con una sola sentenza la causa civile principale, e la questione criminale sorta incidentalmente. Valeriano e Gallieno, nel concedere la riunione dei procedimenti, potevano valersi di alcuni precedenti classici, che nel campo della cognitio extra ordinem avevano già ammesso questa possibilità[212]. Inoltre un precedente diretto, ed espresso quasi negli stessi termini, della costituzione del 262 si trova in una cost. di Alessandro Severo di cui nel Codice ci sono conservati due frammenti:

 

CI. 6.34.1 Imp. ALEXANDER A. Severae. Civili disceptationi crimen adiungitur, si testator non sua sponte testamentum fecit, sed compulsus ab eo qui heres est institutus [, vel quoslibet alios quos noluerit scripserit][213] (a. 229).

 

CI. 7.45.4 Imp. ALEXANDER A. Severae. Prolatam a praeside sententiam contra solitum iudiciorum ordinem auctoritatem rei iudicatae non obtinere certum est (a. 229).

 

Sono note le discussioni che sorgono dalla c. l. cit., in ordine al problema della validità del testamento coatto; le varie opinioni sostenute in proposito sono tutte volte a cercar di determinare il significato della civilis disceptatio cui Alessandro dice dar luogo la costrizione a testare[214], L’espressione però (indicando il dibattito tra le parti nell’istruzione preliminare della causa o nel vaglio dei rispettivi mezzi di prova), è troppo indeterminata e conviene a qualunque mezzo fosse attualmente in discussione per far valere l’invalidità dell’istituzione d’erede estorta con violenza o cori dolo: si suole quindi concludere che «l’imperatore si limita a dire che oltre la disceptatio civilis è intentabile l’azione penale contro colui che estorse con violenza il testamento»[215]. Io credo però che, se AIessandro avesse voluto indicare le conseguenze giuridiche della coazione secondo il diritto sostanziale,  come si ritiene per concorde dottrina, avrebbe maggiormente precisato i mezzi per diritto civile e criminale competenti contro l’autore della violenza, invece di limitarsi ad una generica formulazione; e sopratutto, da questo punto di vista, resta inesplicabile la seconda parte della cost., contenuta in CI. 7.45.4: essa, prendendo in considerazione la validità della sentenza, induce a pensare che Severa si fosse rivolta all’imperatore sottoponendo al suo parere un giudizio già avvenuto, piuttosto che per chiedergli quali fossero i mezzi a sua disposizione nella fattispecie concreta[216], Da questa precisazione mi sembra riceva luce la frase crimen adiungitur, con la quale forse Alessandro afferma che la controversia civile deve essere risolta in base all’esito dell’indagine sulla violenza fatta al testatore, condizionale per sapere se il testamento fosse o no giuridicamente valido. Con questa disposizione non si è ancora arrivati alla fusione delle due istanze quale, in seguito, vediamo ammessa da Valeriane e Gallieno, giacché l’affermazione che il crimen debba esser aggiunto alla discussione civile non dimostra ancora, in mancanza di espressa testimonianza in tal senso, che le due questioni possano essere risolte con una sola sentenza. La costituzione di Alessandro però, certamente presente ai compilatori di C. 3.8.3, chiarisce l’origine di questa disposizione, con la quale il problema dei rapporti tra procedimenti pubblici e privati (in quanto si presenti nell’ambito della cognitio extra ordinem, gli organi della quale hanno competenza in materia sia civile che criminale) viene risolto con la possibilità loro concessa di esaminare in un unico procedimento entrambe le cause[217].

Tuttavia, i nuovi princìpi ora visti non operano obbligatoriamente: potest iudex utramque quaestionem dirimere, dicono gli imperatori. Che anche in questo caso l’ordinamento romano non abbia autoritativamente abolito le forme più antiche, lasciando che esse si esaurissero progressivamente, è dimostrato da due costituzioni, dove Costantino richiama l’antica prassi, secondo la quale i procedimenti in materia civile e criminale erano tra loro indipendenti:

 

CTh. 9.19.2 pr. Imp. COSTANTINUS A. ad Maximum p. u. Cum in praeterito is mos in iudiciis servaretur, ut prolatis instrumentis, si ea falsa quis diceret, a sententia iudex civilis temperaret eoque contingeret, ut imminens accusatici nullis clausa temporibus …(a. 320).

 

Non ci interessa qui la riforma introdotta con queste parole, volta a far cessare gli abusi dei debitori che, convenuti sulla base di una disposizione contenuta in un documento, riuscivano a ritardare il processo con la minaccia di volerne impugnare l’autenticità: importante è invece rilevare come il regime classico dei rapporti tra causa civile e accusatio falsi sia rimasto sostanzialmente immutato: infatti il mos riferito da Costantino corrisponde alla dottrina che abbiamo visto insegnata dai giureconsulti[218]. Lo stesso regime è ancora ribadito, alcuni anni più tardi, in

 

CI. 3.8.4 Imp. COSTANTINUS A. ad Calpurnianum. Quoniam civili quaestione intermissa saepe fit, ut prius de crimine iudicetur, quod utpote maius merito minori praefertur: ex quo criminalis quaestio quocumque modo cessaverit, oportet civilem causam velut ex integro in iudicium deductam discingi, ut finis criminalis negotii ex eo die, quo inter partes fuerit lata sententia, initium civili tribuat quaestioni. (a. 336).

 

Mentre in CTh. 9.19.2 il mos secondo il quale il processo criminale ha la precedenza sulla controversia principale è riferito solo ai rapporti tra causa civile e accusatio falsi, qui la massima è ripetuta in modo generale, come applicabile ad ogni caso in cui si abbiano interferenze tra procedimenti civili e criminali. È difficile stabilire esattamente il valore di questa prassi riferita da Costantino, poiché l’unica ipotesi in cui essa si accordasse con la dottrina classica della connessione per pregiudizialità ha ormai ricevuto una diversa regolamentazione, proprio attraverso c. 2 cit., che la ricorda per lamentare gli inconvenienti da essa derivanti. Non mi sembra possibile pensare che in C. 3.8.4 il principio classico sia riportato con valore storico[219], in quanto, se l’antica prassi non fosse più operante in quest’epoca, difficilmente l’imperatore si sarebbe indotto a regolare il modo (velut ex integro) e i termini (ex eo die quo fuerit lata sententia) in cui deve esser ripresa la causa civile sospesa per giudicare la questione criminale sorta incidentalmente. Io ritengo che, poiché Costantino dice saepe fit, egli abbia in questa cost. inteso regolare le relazioni tra procedimenti in una di quelle ipotesi in cui la precedenza della questione criminale, come determinata da esigenze di logica giuridica, debba essere rispettata dal giudice competente pur in mancanza di una espressa disposizione in tal senso[220].

 

 

9. Conclusioni

 

In questa indagine ci eravamo proposti di cercare come fossero regolati nel diritto romano i rapporti tra processi pubblici e privati. La ricerca ci ha condotto a mettere in luce alcune tendenze determinate, sullo scorcio del Principato, dal passaggio dalla procedura ordinaria a quella dell’età postclassica.

Abbiamo visto in primo luogo non esser dimostrata l’esistenza nell’ordinamento romano di una regola pregiudiziale, inserita nel l’editto per stabilire la precedenza del processo pubblico in ogni caso di interferenze con un processo privato: il riconoscimento dell’influenza pregiudiziale che una sentenza può esplicare sullo svolgimento di un giudizio successivo, non si sostanzia mai in un comando giuridico pretorio.

Per valutare quindi in concreto i singoli casi di rapporti tra iudicia publica e iudicia privata, bisogna anzitutto distinguere a seconda che essi siano esperibili in ragione di uno stesso fatto, oppure si svolgano su fatti diversi e indipendenti, pur essendo collegati per una ragione di logica giuridica.

II primo problema non poteva porsi per i Romani sotto il profilo del concorso dei mezzi di repressione pubblici e privati, poiché la loro caratteristica differenza di funzione e di struttura implicava che essi fossero considerati come coesistenti e non come concorrenti. L’impostazione del problema da questo punto di vista conduce all’indipendenza tra iudicium pubblcum e iudicium privatum e infatti l’esame dei singoli delitti ha rivelato come essi fossero sempre cumulabili. Tale indipendenza poi, sul piano processuale, importa che nessun obbligo o limite sia fissato al secondo giudice in relazione alla possibile influenza del primo giudicato; una ulteriore conseguenza ne è da vedere nel fatto che l’eventuale conflitto tra i giudicati non fosse considerato come inconciliabilità giuridica determinante l’invalidità di una delle sentenze contrastanti.

Nella tarda epoca classica però si sviluppano alcune tendenze, determinate dall’evoluzione del diritto penale sostanziale e processuale. Da un lato cioè l’elaborazione del diritto criminale da parte del Senato e della cancelleria imperiale porta ad allargare il campo d’applicazione delle leggi criminali, ricomprendendovi nuove fattispecie dapprima considerate punibili solo nelle forme del processo privato. D’altro lato, una corrispondente evoluzione del diritto processuale conduce a limitare all’offeso la possibilità di accusare, in un primo tempo concessa a qualunque cittadino: si attenua così quella netta distinzione di funzione e di struttura che esisteva tra procedimenti pubblici e privati. Tuttavia il nuovo punto di vista che i giuristi romani non poterono mancare di considerare, non li indusse a regolare diversamente i rapporti tra processi coesistenti. Solo con la completa fusione della procedura pubblica e privata nella unificata cognito extra ordinem, che in Roma non è anteriore all’età dioclezianea, il problema può essere impostato sotto il profilo del concorso tra causae civiles e causae criminales, distinte in relazione all’oggetto della controversia, ma non più da un punto di vista strutturale.

In certo modo corrispondente è il regolamento della connessione tra processi: nell’ordinamento romano dell’età classica la precedenza del processo criminale sulla causa civile con quello connessa è certamente stabilita solo nell’ipotesi del crimen falsi incidentale ad una controversia privata: e ciò in considerazione della pregiudizialità della questione di falso sul processo civile, che deve esser deciso in base all’esito di quello. Per altri casi di interferenze tra processi pubblici e privati è da ritenere che non esistesse una regola generale per determinare la successione cronologica dei giudizi: essi erano indipendenti in coerenza con la diversità nella loro struttura: ma qualora, per ragioni d’ordine logico e giuridico, una questione si presentasse come pregiudiziale rispetto ad un’altra, la precedenza di quella doveva esser attuata dal magistrato competente. Il problema, nella stessa epoca classica, vien posto in una nuova luce dal diffondersi della cognitio extra ordinem, poiché in questa i giudizi si distinguono in relazione all’oggetto e non più alla struttura, e gli organi del processo hanno competenza sia in materia civile che criminale. In questa procedura quindi, dapprima eccezionalmente e poi con maggior sicurezza, si venne affermando il principio che le questioni connesse potevano essere decise nello stesso giudizio e con una sola sentenza.

 

 



 

[1] Non sarà evidentemente il caso dì esaminare tutti i significati che il termine riveste nel linguaggio tecnico del processo romano, ma solo quelli in cui esso è importante per la materia in esame. In altra accezione praeiudicium (o praeiudicialis formula) significa processo di accertamento, nel quale si ottiene una decisione condizionale per un altro processo ovvero per il prodursi di determinati effetti giuridici: GAI. IlI, 123; IV. 44. Il termine ritorna in due eccezioni concesse al fine di stabilire la precedenza di processi ritenuti privilegiati: ULP, D. 5. 3. 5. 2; ULP. D. h. t. 7; ULP. D. 8. 5. 1. Infine, praeiudicium indica l’autorità della cosa giudicata, alla quale consegue l’impossibilità che un secondo giudizio abbia luogo sullo stesso rapporto giuridico già definito con sentenza: MACER D. 42. 1. 63; MOD. D. 44.1. 40; ULP. D. 44. 2. 1; ecc.

 

[2] Pissard, Les questions préjudicielles en droit romain, Paris 1907, con la precedente letteratura.

 

[3] Rein, Das Criminalrecht der Römer von Romulus bis auf Justimanus, Leìpzig 1844, 253 ss.; 258 ss.; Ferrini, Diritto penale romano, Milano 1899, 222 ss.; Id., Esposizione storica e dottrinale del divitto penale romano, in Enciclopedia Pessina, Milano 1902, 133 ss.; Mommsen, Römisches Strafrecht, Leipzig 1899; tr. fr, Droit penal romain, Paris 1903, v. IlI, 221 ss.

 

[4] De Sarlo, Sulla repressione penale del falso documentale in dir, rom., in Riv. Dir. Proc. Civ. 14 (1937) I, 313 ss.

 

[5] Siber, Praeiudicia als Beweismittel, in Festschrift Wenger, I, München 1944, 46 ss.

 

[6] Riuniti da Bekker, Die Aktionen des römischen Prìvatrechts, Berlin 1871, 249 ss., 377. Cfr. anche Merguet, Handlexikon zu Cicero, Leipzig 1905, s. v. praeiudicium, praeiudicare.

 

[7] Particolarmente significativo in questo senso il Pro Cluentio.

 

[8] È questo il significato originario della parola, cfr. Ernout e Meillet, Dictionnaire étymologique de la langue latine, Paris 1932, s. v. ius.

 

[9] Si tratta delle prove in re positae o intrinseche.

 

[10] Sull’autorità della giurisprudenza, v. ULP. D. 1.3.34 e CALL, D. h. t. 38, Pseudo Asconius in Divin. in Caec., 4.12 (Orelli 1.104) commenta le parole di Cicerone De quo non praeiudicium sed iudicium con Praeiudicium dicitur res quae cum statuta fuerit affert iudicaturis exemplum quod sequantur.

 

[11] V. Pissard, Les questions préjudicielles, cit., 10 ss.; Siber, Praeiudicia als Beweismittel, cit., 48.

 

[12] V.2.3; XI.1.75-78.

 

[13] II valore di essi non è diminuito dal fatto che si tratti di una fonte letteraria, poiché l’opera dei retori è la più valida testimonianza in materia di sistema probatorio: Cfr. Cuq, Manuel des institutions juridiques des Romains, Paris 1928, 882; Tozzi, L’evoluzione del giudizio di fatto nel processo romano, in Riv. Dir. Proc. Civ. 17 (1940), I, 143 ss.

 

[14] Wenger, Istituzioni di proc. civ. rom., München 1925; trad. it., Milano 1938, 190 ss.; Costa, Cicerone, giureconsulto, Bologna 1926, I, 33 ss.; da ultimo a fondo sull’argomento Lemosse, Cognitio, Paris 1944, 158 ss. Su alcuni problemi dell’istruzione probatoria in dir. rom., cfr. anche Levy, Beweislast im klassischen Recht, in Jura, III (1952), 155 ss.

 

[15] Cfr. Siber cit. 52.

 

[16] Nella ricostruzione di Lenel, Das Edictum perpetuum, III ed., Leipzìg 1927, Tit. XIII, 140 ss.

 

[17] Lenel, Edictum, Tit. XLIV; Pissard cit., 42 ss.; Wenger, Istit. cit., 165.

 

[18] Lenel, l. c.; Pissàrd, 104.

 

[19] Op. cit., 140.

 

[20] Per l’intp. v. Brasiello, La repressione penale in dir. rom., Napoli 1937, 64. Altra soluzione per eliminare la sconcordanza formale propone Mommsen, ad h. l.

 

[21] Non bisogna dimenticare che è dell’epoca ciceroniana la regolamentazione, ad opera di Silla, delle quaestiones perpetuae (dapprima organizzate solo in via eccezionale), nelle quali si vedeva rappresentato tutto il popolo, cui spettava la persecuzione di un crimine che aveva offeso l’intera collettività.

 

[22] Cfr. Levy, Die römische Kapitalstrafe, Heidelberg 1931, 23 e n. 1, 30 ss.

 

[23] Levy Bruhl, La denegatio actionis sous la procedure formulaire, Lille 1924, 48, afferma che Metello giustifica il suo rifiuto di concedere la formula rifacendosi direttamente alle prescrizioni del suo editto che proibiva di portar pregiudizio ad una causa capitale: ma, pur se si voglia ammettere l’esistenza di una norma edittale così concepita non mi sembra che un simile riferimento ad essa si trovi documentato nel testo ciceroniano.

 

[24] Wlassak, Praescriptio und bedingter Prozess, in ZSSt. 33 (1913) 144, vede in questa exceptio una praescriptio pro reo, che operando come una denegatio sotto condizione non deduce l’azione in giustizia.

 

[25] Questa translatio, costruita dai retori (Cic. De inv. 2.19.57-58; QUINT. Inst. Or. III.6.46, 53 ss.) ad imitazione dell’analoga meta/lhyij dei Greci, non va confusa con la translatio judicii: Cfr. KOSCHAKER, Translatio judicii, 1905, 17 n. 1

 

[26] Così Pissard, 99 ss. e, dubitativamente, Lenel, 1. c. per quel che riguarda l’editto adrianeo: secondo questi autori, la precedenza del processo capitale sarebbe comunque assicurata per mezzo della denegatio dell’azione privata.

 

[27] L’intp. è segnata da Biondi, La compensazione in dir. rom., Cortona 1927, 57, il quale nota come la prima parte del fr., nella quale si afferma l’indipendenza delle cause, sia in contrasto con la frase seguente. Non mi sembra però che si possa addurre a conferma del principio classico D. 44.1.21, dove si troverebbe sancita in ogni caso la proibizione di portar pregiudizio ad una causa maior. Nel fr. cit., invece, Nerazio si limita a definire in quale ipotesi si verifichi il praeiudicium: e cioè quando ea quaestio in iudicium deducitur, quae vel tota vel ex aliqua parte communis est quaestioni de re maiori: anche questa formulazione è evidentemente troppo comprensiva per poter essere tecnicamente usata a regolare ipotesi di connessione tra processi.

 

[28] Siber cit., 52.

 

[29] Pissard, notando che i giuristi non definirono la res maior, conclude: « quand les textes qui nous s’ont parvenus parlent de praeiudicium, c’est que le proces prefere doit ètre une causa maior » (148 n. 2). Siber, 59: «Für die Reihenfolge der Entscheidungen ergäbe hiernach die Kasuistik von minor und maior causa ein ganz unzutreffendes Bild».

 

[30] La dottrina più recente tende ad attribuire la compilazione delle Sententiae ad un giurista contemporaneo di Diocleziano: v. Arangio ruiz, Storia del dir. rom., Napoli 1950, 300, con bibliografia.

 

[31] Cfr. Schulz, Das Ediktssystem in den Paulus Sentenzen, in ZSSt. 47 (1927), 43; Scherillo, L’ordinamento delle Sententiae di Paolo, in Studi Riccobono, I, 44.

 

[32] V. infra § 8. Diversamente Siber cit., 63, che pur accettando la correzione di Biondi interpreta la seconda frase del fr. come indicativa della funzione della regola pregiudiziale in epoca classica.

 

[33] Op. cit., 140.

 

[34] D. 5.3.6 ULP. 75 ed. Si testamentum falsum esse dicatur et ex eo legatum petatur, vel praestandum est oblata cautione vel quaerendum an debeatur, etsi testamentum falsum esse dicatur. Ei tamen qui falsi accusat, si suscepta cognitio est, non est dandum. Sull’obbligo del legatario di prestare una cauzione per il caso d’evizione dell’eredità, v. PROC. D. 31.48.1; PAUL. D. 35.2.41; ULP. D. 35.3.3.6; PAUL. D. h. t. 4 pr.; CALL. D. h. t. 6; IUST. C. 3.31.12.1

 

[35] L’intp. è segnata, sulla base di indizi formali di alterazione, da Beseler (Miscellanea, in ZSSt. 44 (1925) 247; Romanistische Studien, in Tijdschrift vor Rechisgeschiedenis X (1930) 187) in una esatta critica esegetica, ma senza giustificazione dal punto di vista storico. Il pretore completando le disposizioni del SC. Sìlanianum aveva vietato di aprire il testamento di chi fosse stato ucciso dai suoi servi prima della fine dell’indagine sull’omicidio, proprio per evitare che gli schiavi in esso manomessi si sottraessero alla tortura. Il iudicium liberale quindi non viene differito fino alla sentenza sull’omicidio perché si possa stabilire in conseguenza di essa se anche gli schiavi liberati per testamento debbano esser sottoposti alla tortura, ma, viceversa, perché essi non si sottraggano alla tortura, disposta al fine di indagare sulla morte del testatore. Tuttavia il mutamento d’indirizzo è certo anteriore a Giustiniano, e le tre frasi inserite nel fr. 7.4 sono forse da considerare come glossemi| esplicativi.

 

[36] D. 29.5. De Senatus consulto Silaniano et Claudiano.

 

[37] Così invece Pissard, 184 ss., il quale, seguendo Lenel cit., riunisce intorno al concetto di praeiudicium proibito tutti i casi in cui le fonti attestino la precedenza di un processo capitale su un processo privato.

 

[38] Sulla distinzione tra delictum e crimen, v, Rein, Criminalrecht cìt., 98 ss.; Pernice, Labeo, II, 2 ed. 1895, II ss.; Mommsen, Dr. Pen, cit., I, 62 ss.; 202 ss.; Ferrini, Esposizione cit., 11 ss.; Costa, Crimini e pene da Romolo a Giustiniano, Bologna 1921, 17 ss.; Id., Storia del dir. rom. priv., 2 ed., Torino 1925, 313. Si veda inoltre Albertario, Delictum e crimen nel dir. rom. classico e nella legislazione giustinianea, in Pubbl. Univ. Catt. IlI (ora in Studi di dir. rom. IlI, Milano 1936, 141 ss.); e per alcune critiche alla troppo rigida concezione di Albertarìo Lauria, Contractus delictum oblgatio, in SDHI IV (1938) 163 ss.

 

[39] Sive moveatur om. Th.

 

[40] et similiter e contrario om. Th.

 

[41] A sua volta, l’esistenza di questa norma risalente sarebbe provata dall’exceptio che Cicerone menziona in De Inv. II.20.59.

 

[42] De sarlo, Riv. Dir. Proc. Civ. 14, cit., 347-348.

 

[43] Mommsen, III, 226; De sarlo, l. c.

 

[44] Niedermeyer, Crimen plagii und crimen violentiae, in Studi Bonfante, II, 416.

 

[45] Così invece De sarlo cit., 350. Egli ritiene che, ad impedire l’esercizio dell’azione privata dopo quello del mezzo pubblico, la denegatio pretoria abbia sostituito nell’età dei Severi l’exceptio extra quam riferita da Cicerone. A prescindere da ogni altra obbiezione contro questa costruzione, osservo che non si può collegare effetto esclusorio alla denegatio actionis, poiché come è noto questa impedisce bensì la litis contestatio e quindi il processo, ma non ha invece alcun effetto sull’azione, Cfr. Pugliese, II processo formulare, II, Lezioni Genova 1948-49, 149.

 

[46] ULP. D. 47.8.2.1.

 

[47] PAUL. D. 47.10.6.

 

[48] PAUL. D. 48.1.4.

 

[49] Mommsen, I, 220 ss.; Levy, Kapitalstrafe cit., 64; ID., Gesetz und Richter im kaiserlichen Strafrecht, in BIDR 45 (1938) 133 ss.; Brasiello, Repressione, 40 ss.; ID., Sulle linee e i fattori dello sviluppo del dir. pen. rom., in Arch. Giur. CXX (1938) 73 ss.; Archi, Problemi in tema di falso nel dir. rom., in Studi Sc. Giur. Università di Pavia 26 (1941).

 

[50] Nel Digesto, questi nuovi crimini occupano i titt. 11-22 del lib. 47; seguono quindi i titoli dedicati ai delitti privati, e precedono l’esposizione dei publica iudicia.

 

[51] Così ad es, per certe ipotesi di furto qualificato: cfr. ULP. D. 47.2.93.

 

[52] Mentre nell’ordo la pena era fissa, i rescritti imperiali davano solo elastiche direttive, che il giudice era tenuto a seguire ma che gli lasciavano molta libertà, anche se richiamavano una pena legale: v. Levy, Gesetz und Richter cit., 96 ss.

 

[53] Lauria, Accusatio Inquisitio, in Atti Accad. Sc., Mo. Polit. di Napoli, 56 (1933) 5 estr. Coerentemente con la visione dello sviluppo storico del diritto criminale da un punto di vista processuale tutto basato sul contrasto tra ordo iudiciorum - cognitio extra ordinem, Lauria considera poi, sul piano del diritto sostanziale, come autonomi crimina extraordinaria tutti i nuovi casi che, essendo previsti dopo la lex Julia, non potevano essere repressi da una quaestio né perseguibili con accusa popolare.

 

[54] Brasiello, Repressione cit., 45.

 

[55] Brasiello, 51 e n. 78, ritiene che l’elenco di Macro abbia solo un valore esemplificativo in quanto mancherebbero il falso, il peculato e il plagio. Ora, mentre i primi due delitti sono compresi nell’elenco (lex Julia peculatus, Cornelia de testamentis), mancano effettivamente il plagio e le iniuriae previste dalla lex Cornelia, Lauria, 60-62, pensando invece che Macro enumeri tassativamente i crimini perseguiti con accusa pubblica, rende ragione di questa mancanza con la considerazione che l’accusa per il plagio e per le iniuriae, crimini perseguibili in processi speciali, non era però concessa a quivis de populo. Si può notare che probabilmente ciò non è vero per il plagio (Huvelin, Études sur le furtum, I, Lion 1915, 105; Berger, Note crìtiche ed esegetiche in tema di plagio, in BIDR 45 (1938) 275; Pugliese, Studi sull’iniuria, Milano 1941, 130 ss.); inoltre, la lex Julia de adulteriis limita l’accusa al marito e al padre dell’adultera ed è tuttavia compresa nell’elenco. Non credo pertanto che questo comprenda l’enumerazione completa ed esclusiva dei crimini che, essendo perseguibili con accusa pubblica, sono tuttora qualificati publica, né che tale qualifica debba quindi essere negata a tutti i giudizi regolati dal Principe o dal Senato con la subsunzione di altre fattispecie sotto la figura criminosa prevista da una lex.

 

[56] D. 48.16.15.1 MACER 2 publ. iud.

 

[57] D. 48.1.8 PAUL. lib. sing. de publ. iud. Brasiello 209-10, ritiene che capitalium sia stato da Giustiniano sostituito a publicorum. Sembra però preferibile pensare alla semplice omissione di questa ultima parola; Mommsen, I, 224 n. 2 e Levy, Gesetz und Richter cit., 160 n. 479. Sull’argomento v. anche Girard, Les leges Julias iudiciorum publicorum et privatorum, in ZSSt. 34 (1933) 306 n. 1.

 

[58] Le linee di questa evoluzione sono messe in luce da Pugliese, Processo privato e processo pubblico, in Riv. Dir. Proc. v. 3 (1948) 92 ss.

 

[59] Minore importanza dovette avere la repressione straordinaria attuata dalle commissioni senatorie, sia per la probabile limitatezza del campo affidato alla giurisdizione del Senato che per il rapido decadere della sua attività. Su quest’argomento sappiamo tuttavia ben poco: v. Mommsen cit.,293 ss.; Staatsrecht, ed. fr. 1891, VII, 266 ss.; Costa, Crimini e pene cit., 81 ss.; e alcuni brevi cenni nei manuali di Storia del Diritto Romano.

 

[60] Le giurie non sono più ricordate dopo Settimio Severo: Mommsen I, 255 ss.; Pugliese, Processo cit., 96 n. 1; Arangio ruiz, Storia cit., 325. Gli argomenti di Brasiello, 45 ss., volti a dimostrare il permanere almeno formale delle quaestiones fino all’epoca di Diocleziano, in realtà non sono probanti per l’età successiva ai Severi. Che la cognitio sia ormai imperante provano invece i testi citati nelle nn. 56 e 57.

 

[61] L’involuzione del principio accusatorio. è messa in luce da Lauria, Accusatio cit., 40 ss.

 

[62] La maggior parte delle opere sui iudicia publica, pur comprendendo la trattazione di casi di giudizi straordinari, parte sempre dalla procedura ordinaria ed esamina quelli in contrapposto a questa.

 

[63] Prescindendo cioè dall’accordo delle parti e di fronte ad un magistrato: questi caratteri distintivi del iudicium publicum furono definitivamente chiariti da Wlassak, Anklage und Streitbefestigung im Kriminalrecht der Römer, Wien 1917.

 

[64] Cfr., oltre agli Autt. cit. nella n. 49, Levy, Von den römischen Anklägevergehen, in ZSSt. 53 (1933) 209, 225 ss.

 

[65] Cfr. i testi citt. nelle nn. 46, 47, 48.

 

[66] Secondo l’opinione comune, nellanno 66 a.C. Perozzi, Istituzioni di dir. rom., Milano 1928, II, 334; Arangio Ruiz, Istituzioni di dir, rom., Napoli 1952, 371.

 

[67] Lenel, Edictum, Tit. XXXIV, § 187, 391 ss.

 

[68] Per questa più probabile opinione Arangio Ruiz, l. c.

 

[69] CICERONE Pro Tull. 4.8: hoc iudicium paucis hisce annis propter hominum malam consuetudinem iniuriamque licentiam constitutum est ... cum multae familiae dicerentur in agris longinquis et pascuis armatae esse caedesque facere ... (5.10) cum ex bello diuturno atque domestico res in eam consuetudinem venisset, ut homines minore religione armis uterentur ...

 

[70] ULP. D. 47.8.2.17. È difficile dire in quale rapporto fossero le due formule all’epoca di Ulpiano: certamente però la definitiva identificazione di esse avvenne ad opera di Giustiniano; che le unificò in D. 47.8: vi bonorum raptorum et de. turba, abbreviando fortemente la trattazione dì Ulpiano in D. 47.8.2 pr. Cfr. Lenel, 393; NIEDERMEYER, St. Bonfante cit. II, 405 ss.

 

[71] Mommsen, II, 371 e n. 1; Coroï, La violence en droit criminel romain, Paris 1915, 20.

 

[72] Alcuni testi che proverebbero il contrario sono generalmente riconosciuti interpolati allo scopo di introdurre la nuova legislazione giustinianea, secondo la quale vis publica si identifica con violenza armata, mentre vis privata corrisponde ormai a sine armis. Così due testi attribuiti ad Ulpiano: D. 43.16.1.2; D. 50.17.152 pr. La dimostrazione dell’intp. di questi frammenti è stata data da Ferrini, Esposizione storica e dottrinale del diritto penale romano, in Enciclopedia Pessina, Milano 1902, 375 e 377; Girard, Les leges Juliae cit., 326 ss., seguiti dagli autori più recenti.

 

[73] Su questo punto non esistono contrasti in dottrina: Mommsen, II, 376; Coroï cit., 228; Niedermeyer cit., 408 ss,; Id., Ausgewälte Introduktorien zu Ulpian und zur Rechtslehre von der vis, in Studi Riccobono, Palermo 1936, I, 204; Flore, Di alcuni casi di vis publica, in Studi Bonfante IV, 344 e n. 29. Non credo tuttavia che già Ulpiano ammettesse una persecuzione generale ex crimine vis contro eum qui rapit: così Mommsen, II, 376 n. 2, basandosi su ULP. D. 50.17.152, dal quale però abbiamo visto non potersi trarre alcun argomento per la dottrina classica; e Coroï, 228, che cita ULP. D. 47.8.2.2. Egli è probabilmente indotto a tale opinione dal precedente § 1: ma anche questo è compilatorio (v. infra). Quanto alle disposizioni che attrassero nell’orbita del crimen vis determinate ipotesi di rapina qualificata, per quel che concerne la rapina in occasione di naufragio ci è testimoniata una vasta attività di Antonino Pio: MARC. D. 48.7.1.2 ex constitutionibus principis extra ordinem, qui de naufragiis aliquid diripuerint, puniuntur: nam et divus Pius rescripsit nullam vim nautis fieri debere ... (Il § 1 è intp.: in esso forse i compilatori si proposero di operare lo spostamento, che non venne poi compiuto, della repressione straordinaria alla lex Julia de vi privata). Altre decisioni dello stesso imperatore in materia ci sono riferite da PAUL. D. 47.9.4.1 e da VOL. MAEC. D. 14.2.9 (De robertis, Arbitrium iudicantis e statuizioni imperiali, in ZSSt. 59 (1939) 238 n. 1, ritiene invece che esse vadano riferite ad Antonino Caracalla). Più difficile sembra pensare, in ordine alla repressione criminale della rapina in occasione di naufragio, al senatoconsulto d’età claudiana (ULP. D. 47.9.3.8) o all’attività di Adriano (CALL. D. 47.9.7), in quanto essi ne regolarono solo i riflessi di diritto privato. In generale, la repressione straordinaria della rapina qualificata è testimoniata da ULP. 47.1.1 quamquam sint de his facinoribus etiam criminum executiones . . . Cfr. Costa, Crimini e pene cit., 118.

 

[74] St. Bonfante cit., 402.

 

[75] Sarebbero quindi intp. MARC. D. 48.7.1.1 (402 n. 77); ULP. 47.9.1| (ibid.); MACER D. 47.12.8 (401 n. 69); ULP. D. 47.8.2.1 (408); MARC. D. 6.3.2.3.5 (403 n. 78); la frase hac lege fecerit in MACER D. 48.7.3.2 (ibid.).

 

[76] N. si basa prevalentemente su ULP. D. 48, 2. 15; MACER D. 48. 2. 11. 1; C. 7.62.1 (SEVERUS, a. 209), che attesterebbero l’esistenza del crimen extraordinarium vis per l’epoca classica; le testimonianze aumenterebbero nelle costituzioni dì Diocleziano e Costantino: cfr. ad esempio C. 8.4.3 (a. 294); C. 4.I9.I5 (a. 293); C. 9.12.4 (a. 293); ecc.

 

[77] Accusatio cit., 23.

 

[78] Lauria afferma: a) che non risulta provata, questa lacuna delle leges Juliae; b).che le stesse furono indifferentemente messe la base delle quaestiones e della extraordinaria cognitio. In primo luogo, sono giuste le osservazioni con cui L. contesta la qualifica di crimen e. o. che sarebbe stata data alla rapina; ma ciò non prova che essa costituisse una delle fattispecie previste dalla lex Julia, essendo ugualmente possibile l’attrazione posteriore nella sfera di questa; per la stessa ragione, nulla prova il crimen intendere di ULP. D. 48.2.15, né il bona rapuerint di MARC. D, 48.6.3.2, di cui effettivamente non è provata l’intp. (Su ciò v. nel testo). Quanto; alla seconda argomentazione di L., essa non è che una conseguenza del suo ragionamento, criticato nel § 5, per cui sono straordinari e quindi repressi d’ufficio tutti i crimini non originariamente previsti da una legge.

 

[79] Rispettivamente in D. 48.2.11.1 e D. 48.2.15.

 

[80] De vi privata secondo Lenel, Palingenesia, MARC. n. 164.

 

[81] Levy, Kapitalstrafe cit., 35 ss., BIDR 45, 134 ss., ha chiarito il significato di poena legis nelle opere sistematiche dei giuristi e nelle costituzioni imperiali. Sulle conseguenze che da ciò si possono trarre, cfr., per il crimen falsi Archi, Problemi cit., 10 ss. e per il crimen plagii, Berger, BIDR 45 cit., 284 ss.

 

[82] V. in proposito le penetranti osservazioni di Archi, 1.c. Partendo dalla considerazione fatta alla n. precedente, egli mette in luce come Marciano (la cui opera era destinata all’insegnamento nell’ambiente provinciale), superando le risalenti antitesi processuali, ordini le varie fattispecie di un reato senza richiamarsi alla norma originaria, mettendo così in rilievo gli elementi di affinità sostanziale esistenti tra esse. L’indirizzo seguito da Marciano, per la sua maggior aderenza alla realtà del tempo, è ripreso nelle Sententiae, dove sotto le rubriche delle singole leggi sono enumerate le varie ipotesi punibili, anche qui senza distinguere quelle previste dalla lex da quelle introdotte posteriormente attraverso la cognitio. Questo metodo di esposizione rimase poi nella compilazione dove le Istituzioni di Marciano, proprio per la loro aderenza al diritto sostanziale, danno inizio alle trattazioni sulle diverse leges.

 

[83] Cfr. n. 73.

 

[84] Lenel, Palingenesia; ULP., n. 1311.

 

[85] Abbiamo visto che Lauria, 23 n. 3, vuol trarre dal fatto che il crimen intendere di questo passo sì riferisce all’accusatio vis, la prova.che la rapina fosse prevista dalla lex Julia, lo stesso Niedermeyer ammette, in St. Riccobono cit., 204, che ciò sia possibile. Mi sembra però che di questo ci manchi non solo la prova, ma anche qualsiasi indizio: inutile è anche addurre C. 9.12.4, di Diocleziano, e pertanto di un’epoca in cui il richiamo alla legge non può considerarsi probante ai fini di distinguere l’origine della disposizione. La sussunzione della rapina nel concetto di violenza nel tempo, che non può essere maggiormente precisato, tra gli Antonini e i Severi, è invece verosimile anche per la considerazione che gli imperatori del II secolo repressero gradualmente in via criminale anche altri illeciti dapprima sanzionati dalla sola azione penale privata: Mommsen, 376 n. 2; porta ad esempio il crimen stellionatus, che venne concesso in ogni caso in cui il dolo fondava un’azione penale privata; si può aggiungere che ULP. D. 47.2.93 conosce la possibilità di agire criminaliter per il furto. (Il fr. è genuino: v, Wlassak, Anklage cit., 87 n. 14; anche la correzione proposta da Levy, ZSSt. 53, 166 n. 2, non attacca la classicità del pensiero contenuto nel passo). Lo stesso vale probabilmente per l’iniuria (v. ULP. D. 37.14.1 e HERM. D. 47.10.45) e per alcune ipotesi di damnum iniuria (v. infra), Mentre il furto e le ingiurie, in quanto appartenenti al campo criminale, furono perseguibili extra ordinem, per l’impossibilità di ricondurli ad un iudicium publicum già esistente, la rapina fu ricondotta, con il procedimento già chiarito, al crimen ex lege Julia de vi.

 

[86] CICERONE, Pro Tull. 3.7; 18.42.

 

[87] Lenel, Edictum cit., 393; Mommsen, II, 380 n. 5 e 6.

 

[88] Abbiamo visto che non esisteva una regola pregiudiziale alla successione di mezzi di repressione coesistenti; e comunque chi ne afferma l’esistenza limita l’applicazione di essa ai processi capitali, mentre la rapina ricadde sotto la lex Julia de vi privata, che non portò mai ad una pena capitale (Cfr. Brasiello, Repressione cit., 92 ss.).

 

[89] Mommsen, ad h. l.

 

[90] Niedermeyer, St. Bonfante cit., 408, segna contra ea quae vi commituntur, espressione imprecisa e inadeguata a definire la clausola commentata; consulere contra, usato solo qui; il legittimato è una volta designato con quis, poi con eligentibus; inoltre nihilo minus tamen non e l’introduzione della concorrenza alternativa. SIBER, Fest. Wenger cit., 59, ritiene intp. il testo da quidam alla fine. Ciò, mentre salva la logicità della decisione, tuttavia non rende ragione delle generiche ed inesatte affermazioni contenute nel principio del passo. Io ritengo quindi impossibile ricostruirlo. Per la genuinità del testo, De SARLO, op. cit., 348.

 

[91] Palingenesia, n. 1311.

 

[92] V. 151.

 

[93] Cfr. Niedermeyer, 416 n. 118.

 

[94] St. Bonfante, 408 ss.

 

[95] L. c., n. 99, dove N., richiamando Karlowa, Römische Rechtsgeschichte, 1338, indica l’attività delle scuole del V secolo come probabile fonte del passo. Cfr. anche St. Riccobono cit., 203 ss.

 

[96] Questa terminologia non s’incontra più dopo Diocleziano, cfr. Puglese, Processo cit., 99.

 

[97] St. Bonfante, 416.

 

[98] V. 152.

 

[99] Mommsen, II, 376; III, 227; in senso sostanzialmente analogo Rein, Criminalrecht cit., 258; De sarlo, op. cit., 347, 350.

 

[100] De sarlo, l. c.

 

[101] V. n. 178.

 

[102] Questo è infatti per Giustiniano il significato di praeiudicare, usando egli la parola ad indicare i casi in cui l’esercizio dell’azione privata renda impossibile la successiva repressione pubblica. Ciò risulta anche dall’elaborazione di ULP. D.47.8.2.1.

 

[103] Vedremo (infra, n. 184) come l’antìtesi iudicium publicum - iudicium privatum si sia in epoca postclassica trasformata nell’altra causa civilis - causa criminalis.

 

[104] Esso è ritenuto intp. da Niedermeyer, St. Bonfante cit., 416, per una diversa ragione: «Unmöglich aber ist, dass sich ... Paulus an unserer Stelle so leichten Herzens mit der alten Pravalenz des iudicium publicum über die Privatklage abgefunden hätten, wenn sie die Frage überhaupt anschnitten». Dopo ciò, non capisco perché egli metta tra uncini l’ultima frase [nam agitur] (seguito da De sarlo, Riv. Dir. Proc. cit., 347), lasciando invece la prima parte del passo, nella quale appunto quella regola viene negata.

 

[105] Palingenesia, PAUL. n. 554; Edictum cit., § 116, 310.

 

[106] CI. 9.17.11.2b: iudicio de moribus ... penitus abolito ...

 

[107] CTh. 9.7.7 = CI. 9.9.32 (a. 392); PAP. D. 48.5.12.3, 13. Cfr. Lenel l. c.; Mommsen, III, 224; Bonfante, Corso di dir. rom. I, 345 ss. Inesatto Perrozzi, Istituzioni cit., I, 399 n. 2.

 

[108] L’elenco esemplificativo della costituzione presenta tre ipotesi che ci sono riferite anche da Paolo: e cioè il concorso dell’interdetto unde vi con l’accusatio ex lege Julia de vi; dell’interdetto ex lege Cornelia; dell’actio furti con il iudicium legis Fabiae de plagio. È inoltre significativo che in CTh. 9.20.1 si presenti come eccezionale di fronte al regime dei casi dell’elenco, quello del iudicium de moribus (et cum una excepta sit causa de moribus, frase che viene eliminata nella redazione giustinianea della cost.).

 

[109] È questa, per il momento, più che altro una tendenza, che potrà svilupparsi solo con il generalizzarsi della cognitio extra ordinem sia nel campo criminale che in quello civile. Cfr. Pugliese, Riv. Dir. Proc. cit., 99 ss.

 

[110] La letteratura in argomento è vastissima. V. per tutti Betti, Diritto romano, Padova 1935, 616 ss. Ivi ampia .bibliografia.

 

[111] ULP. D. 44.2.1. Inoltre MACER D. 42.1.63; Mod. D. 44.1.10; C. 7.56.2 (GORD. a. 239). V. su ciò la profonda e definitiva indagine di Betti, D. 42.1.63. Trattato dei limiti soggettivi della cosa giudicata in diritto romano, Macerata 1922.

 

[112] Cfr. Orestano, L’appello civile in dir. rom, Torino 1952, 398 ss.

 

[113] Non ho menzionato la prima e perentoria causa di questa evoluzione, da vedersi almeno per la rapina nel fatto che essa non era, nella procedura ordinaria, perseguibile criminalmente: è evidente che fino a quando non fu possibile si verificassero ipotesi di mezzi repressivi coesistenti, non poteva nemmeno porsi il problema dei rapporti tra processo pubblico e processo privato. Non voglio tuttavia escludere, stante la rilevata incompiutezza dei testi pervenutici che rende difficile risalire all’origine delle norme ad opera delle quali un fatto determinato diviene punibile, la possibilità che simili casi si siano verificati anche prima del II secolo: le osservazioni fatte nel testo sono comunque sufficienti a rendere ragione del diverso punto di vista dal quale si pongono i giuristi del tempo nel commentare la materia dei rapporti tra azione penale privata e mezzo di repressione pubblico.

 

[114] Ciò tuttavia non deve essere inteso nel senso che Cicerone e Quintiliano non conoscessero il valore della cosa giudicata, perché parlano  dell’importanza del praeiudicium in maniera generale e come riferentesi a chiunque, e che la restrizione inter easdem personas sia in epoca classica applicata all’argomento, per analogia con la consunzione giudiziaria (così Erman, D. 44.2.21.4. Études de droit classique et byzantin, in Mélanges Appleton, Lyon 1903, 285). I due significati del termine praeiudicium non discendono l’uno dall’altro; e se è esatto affermare che la teoria della cosa giudicata sia una conquista dei giuristi dell’età dei Severi, d’altronde non si può dire che attraverso essa si sia giunti ad una nuova regolamentazione dell’influenza pregiudiziale del primo giudicato (quale è ricordata da Quintiliano), avendo piuttosto i nuovi princìpi portato a chiarire come la restrizione inter easdem personas non fosse sufficiente ad escludere un nuovo processo sullo stesso fatto, quando esso fosse reso possibile dalla coesistenza di mezzi di repressione pubblici e privati.

 

[115] Poiché non mi propongo in questo studio una sistemazione completa dei princìpi che regolano questa materia nelle diverse epoche del diritto romano, posso prescindere dall’esaminare l’importanza che il praeiudicium assume nel linguaggio giustinianeo. È tuttavia indispensabile accennarvi almeno brevemente, giacché devo servirmi di testi interpolati. La dottrina accolta nel Corpus luris è la stessa dalla dottrina tradizionale attribuita ai giuristi classici: Giustiniano infatti: usa  il termine praeiudicium ad indicare l’effetto esclusorio che ora, caduta la distinzione strutturale tra processi pubblici e privati, consegue in determinati casi al primo giudicato su una causa criminalis nei confronti della causa civilis, possibile in ragione dello stesso fatto. .Ciò risulta dalla redazione giustinianea di CTh. 9.20.1 (= CI. 9.31.1, v. infra § 7); e dalle intp, operate sui testi classici in materia. Per distinguere le ipotesi in cui si ammette che si verifichi il praeiudicium (cioè, secondo i nuovi princìpi, che si possa far valere e l’azione privata e la repressione pubblica), Giustiniano si basa sul criterio della funzione dei diversi mezzi coesistenti; quindi il cumulo è ammesso qualora all’azione penale privata si attribuisca funzione di risarcimento, mentre è escluso nei casi in cui essa abbia unicamente scopo penale (ciò che avveniva sempre per diritto classico: la correlazione tra natura e funzione nelle azioni penali è dimostrata da Voci, Risarcimento e pena privata, Milano 1939). In questo secondo caso, la proibizione che praeiudicium iudicio publico fiat esprime l’impossibilità di far valere l’azione penale privata, la quale a sua volta viene ottenuta attraverso la denegatio actionis, è facile vedere come anche questa costruzione della denegatio con funzione consuntiva anziché sospensiva nei confronti dell’azione, si differenzi dai princìpi classici (per i quali v. supra, n. 45).

 

[116] Sic denique et per vim possessione deiectus, si de ea recuperanda interdicto unde vi erit usus, non prohibetur tamen etiam lege Julia de vi publico iudicio instituere accusationem.

 

[117] II testo appare corrotto, tuttavia il senso è chiaro.

 

[118] All’argomento si può riferire anche CTh. 9.10.3 = CI. 9.12.7 di Costantino (a. 319): Si quis ad se fundum vel quodcumque aliud adserit pertinere ac restitutionem sibi competere possessionis putat, civiliter super possedendo agat aut imputa solemnitate iuris crimen violentiae opponat … Quod si omissa interpellatione vim possidenti intulerit, ante omnia violentiae causam examinari praecipimus ... ut ei quem constiterit expulsum amissae possessionis iura reparentur, eademque protinus restituta, violentus poenae non immeritus destinatus in totius litis terminum differatur, ut agitato negotio principali, si contra eum fuerit iudicatum, in insulam deportetur … In questa cost. i rapporti tra i processi civile e criminale appaiono complicati dal fatto che qui si giunge alla definizione della controversia sul possesso e alla restituzione del fondo attraverso la causa violentiae, mentre in epoca classica il giudizio criminale si proponeva solo la punizione del reo di violenza. Sulla dottrina postclassica e giustinianea in argomento v. ora Levy, West Roman Vulgar Law, The law of property, Philadelphia 1951, 243 ss.; 266 ss.

 

[119] Diverso il significato che il richiamo alla fattispecie assume in CTh. 9.20.1.1, in relazione appunto al diverso regime dei rapporti tra i giudicati in epoca postclassica. (Su ciò v. infra).

 

[120] Probabile glossema esplicativo, cfr. Siber, Vorbereitung - und Ersatz zweck der Besitzinterdikte, in Scritti Ferrini, Milano 1949, IV, 125.

 

[121] Cfr. CALL. D. 5.1.37. Si de vi et possessione quaeratur, prius cognoscendum de vi quam de proprietate rei divus Hadrianus tù koinù tîn Qess£lwn Graece rescripsit. È ormai generalmente riconosciuto trattarsi di uno stesso rescritto, dai due giuristi attribuito a diversi imperatori (cfr. Siber, l. c.). Invece la Glossa, ad h. 1, ammetteva un rescritto di Adriano sui rapporti tra interdetto e rivendicazione, e un decreto di Antonino Pio sui rapporti tra crimen e rei vindicatio.

 

[122] Interpreto il testo secondo i chiarimenti dì SIBER, Scritti Ferrini cit., 124 ss.

 

[123] Il rescritto contenuto nella prima parte del fr. 5.1. cit., non ci interessa. Qui. È inoltre superfluo avvertire che anche in questa ipotesi il problema dei rapporti tra procedura civile e criminale non si pone sotto il profilo del concorso tra persecuzione pubblica e privata.

 

[124] Cfr. Siber, Festschr. Wenger cit., 57; ID., Scritti Ferrini cit., 125.

 

[125] Cfr. Arangio Ruiz, Ist. cit., 373 ss.

 

[126] Inst. IV.3.11. Liberum est autem ei, cuius servus fuerit occisus, et privato iudicio legis Aquiliae damnum persequi et capitalis criminis eum reum facere. La dottrina giustinianea è espressa anche in D. 19.5.14.1 e D. 47.10.7.1, ambedue di Ulpiano e interpolati.

 

[127] D. 48.1.4.

 

[128] Per de sarlo, op. cit., 343, conforme alla sua posizione di principio, il passo significa che dopo l’esercizio dell’azione privata, il giudizio di fronte alla quaestio de sicariis potrà svolgersi ugualmente, mentre non è vera la reciproca. Così anche Mommsen, III, 227 n. 4 e Ferrini, Diritto penale romano, Milano 1899, 239. Esatto Siber, Festschr. Wenger cit., 64, in ordine al cumulo dei mezzi di repressione in qualunque ordine esperiti.

 

[129] L’espressione di Gaio vel hac lege damnum persequi non deve far credere che l’actio legis Aquiliae sia volta al risarcimento del danno anziché al pagamento di una pena pecuniaria che valga come soddisfazione della vendetta: alla natura penale di questa azione corrisponde per diritto classico una funzione esclusivamente penale. Cfr. Voci, Risarcimento cit., 94 ss.

 

[130] È appena il caso di discutere la dottrina di arnò (Le «magnae varietates» in tema di «lex Aquilia» e di «concursus actionum», in Studi Riccobono, Palermo 1936, II, 169 ss.), il quale vuol vedere nelle contrastanti formulazioni dei giuristi a proposito del concorso dell’actio legis Aquiliae con il iudicium legis Corneliae una delle divergenze d’opinione che divisero le scuole dei serviani e dei muciani in materia di concorso d’azioni. Il muciano Ulpiano, secondo gli insegnamenti della sua scuola, vorrebbe in questa ipotesi il cumulo dei mezzi d’azione, mentre Gaio e Paolo serviani ammetterebbero la consunzione dell’uno per mezzo dell’altro: e cioè l’espressione praeiudicium fiat significa per Arnò che, quando si sia agito con l’azione privata, non è più possibile la pubblica accusa. Ora è certamente arbitrario attribuire a Paolo e a Gaio, sulle traccie dell’antico giureconsulto Servio, la possibilità di reciproca consunzione tra un’azione penale privata e un iudicium publicum, quando è proprio Gaio ad insegnare (III.181-182; IV.107) che consunzione si ha soltanto nei iudicia legitima in personam con formula in ius concepta. Ma anche se si voglia far rientrare nel concetto di consunzione l’effetto esclusorio che può seguire, per gli altri iudicia, in via giudiziale o pretoria, non si può tuttavia ammetterlo in questo caso, poiché tale effetto opera in base alla litis contestatio e richiede pertanto che ambedue i processi si svolgano secondo la procedura formulare. Nemmeno GAI. III.213 può quindi essere portato a dimostrare la teoria che «i Serviani ammettevano in modo rigorosissimo la consumazione per litis contestatio» (183).

 

[131] Cfr. Mommsen, II, 329, L’estensione è compiuta nell’età dei Severi: MARC. D. 48.8.1.2 qui hominem occiderit, punitur non habita differentia, cuius condicionis hominem interemit; ULP. Coll. 1.3.2 compescit (lex) eum qui hominem occidit, nec adiecit cuius condicionis hominem; ut et ad servum et peregrinum pertinere haec lex videatur.

 

[132] Ann. VI.11 sumpsit (Augustus) e consularibus qui coerceret servitia.

 

[133] SEN. De ben. III.22.3 così ne ricorda l’attività: atqui de iniuriis dominorum in servos qui audiat positus est, qui et saevitiam et libidinem et in praebendis ad victum necessariis avaritiam compescat.

 

[134] Bonfante, Corso di dir. Rom., I, 149.

 

[135] Cfr. Bonfante, op. loc. cit.

 

[136] Cfr. ULP. Coll. 3.3 = D. 1.6.2 = I. 1.8.2. La costituzione è rivolta ad alcuni praesides provinciarum, ai quali l’imperatore attribuisce la competenza a portare auxilium contra saevitiam vel famem vel intolerabilem iniuriam, cioè per le stesse cause di matrattamenti che, in Roma, erano affidate al praefectus urbi. Ciò avvalora la congettura che anche la cognitio sull’omicidio spettasse in Roma a questo magistrato, nel normale esplicamento dei suoi poteri nella giurisdizione straordinaria criminale. Sulla competenza del prefetto cfr. ora SCHILLER, The Jurists and the Praefects of Rome, in BIDR n. s. 16-17 (1953), 60 ss.

 

[137] Crimen plagii und crimen violentiae, cit., 383 ss.

 

[138] Op. cit., 400.

 

[139] Lauria, Appunti sul plagium, in Annali Univ. Macerata VIlI (1932) 196 ss.; Id., Accusatio cit., 20 ss.; Berger, BIDR 45 cit., 268; Id., Lex Fabia, in Pauly Wissowa R. E. Suppl. VII, col. 387 ss.

 

[140] Cfr, in questo senso Lauria, Accusatio, 21 n. 1; Berger, BIDR 45 cit., 274. Tuttavia le critiche mosse a Niedermeyer non tolgono valore ad alcuni punti della sua tesi, che sono, stati trascurati dai suoi recensori; così, in particolare, mi sembra certo che la repressione del plagio in provincia, svolgendosi secondo forme più libere che non in Roma, .abbia potuto innovare per quel che riguarda la pena da irrogarsi ai plagiarii, preparando in questo ambiente la nuova concezione del reato che Diocleziano completerà.

 

[141] MOMMSEN, III, 90 ss.

 

[142] L’espressione furti crimine sarebbe indizio di alterazione secondo Albertario, Delictum e crimen cit., 62. Cfr. però Lauria, SDHI IV cit., 186 ss. e Berger, BIDR 45 cit., 278 n. 46.

 

[143] R. Stephanus, ad. h. l., corregge in facti quaestio est. Il senso è comunque chiaro.

 

[144] Gli elementi del delitto, che si possono dedurre da questo rescritto in ordine alla distinzione tra plagio e furto, sono visti inesattamente sia da Mommsen (92 n. 1: «la seule difference à signaler est que le furtum usus n’est pas compris dans le plagium») che da Huvelin, Études cit., 106: «Le crimen plagii se distingue du crimen furti en ce que le premier suppose necessairement la mauvaise foi du detenteur de l’esclave, tandis que le second ne la suppose pas».

 

[145] CI. 9.20.9 (a. 293): Eum qui mancipium alienum celat, Fabiae legis crimine teneri non est incerti iuris. ULP. D. 11. 4. 1 pr. afferma solo: Is qui fugitivum celavit fur est. Sui rapporti tra Senatus consultum de fugitivis e legge Fabia in relazione all’allargamento del concetto di plagio, v. Lauria, Appunti cit., 200 ss., dove sono esaminate anche altre ipotesi ricondotte al plagio, ma che prescindono completamente dall’elemento dell’usurpazione della patria o dominica potestas. L’evoluzione è compiuta al tempo della compilazione della Collatio: nell’elenco attribuito ad Ulpiano (Coll. 14.3.5), delle fattispecie punibili a norma della legge Fabia, sembra ricadere qualunque furto di schiavo. Altrettanto completo è Paul. Sent. 5.30.1, che non distingue tra plagio d’uomo libero e di schiavo. Cfr. Niedermeyer, St. Bonfante, 391 ss., 397.

 

[146] CI. 9.20.13. Non è infatti il caso di prender posizione sulla questione, che non si può dire ancora definitivamente risolta, se l’accusatio legis Fabiae fosse originariamente pubblica o limitata all’offeso. Cfr. da un lato Mommsen, 92; Huvelin cit., 105; Berger, BIDR 45 cit., 2.75; Pugliese, Studi cit., 130 ss. D’altro lato Ferrini, Esposizione cit., 426; Lauria, Appunti, 196; Accusatio, 20, 57.

 

[147] Si potrebbe osservare che questa ipotesi non sarebbe retta dalla regola sulla precedenza del processo criminale, in quanto il iudicium publicum istituito dalla legge non era capitale. (Su ciò concordano per quel che riguarda la disposizione originaria, gli autori citati alla n. precedente). Abbiamo visto però che il praeiudicium è attestato in materia di repressione della rapina e che, in quanto ricadente sotto la lex Julia, essa non fu punita con pena capitale.

 

[148] Cfr. Volterra, Sull’uso delle Sentenze di Paolo presso i compilatori del Breviarium e presso i compilatori giustinianei, in Atti Congr. Internaz. Dir. Rom, Bologna 1933, I, 136 ss. Nello stesso ordine di idee ULP. D. 47.2.39, (nella ricostruzione di Volterra, 1. c.), afferma che non è plagio il furto di una schiava meretrice.

 

[149] Non si può invece parlare di concorso di procedura civile e criminale a proposito di Diocl. e MAXIM. CI. 9.20.12 (così Archi, «Civiliter vel criminaliter agere» in tema di falso documentale, in Scritti Ferrini, Milano 1947, I, 3 n. 2), in quanto qui lactio furti è concessa in ragione delle res furtivae sottratte dallo schiavo fuggitivo (v. anche ULP. D. 47.2.36.2), mentre Diocleziano parla solo di plagio per il fatto di aver accolto lo schiavo.

 

[150] La frase finale della cost., quod si per violentiam mancipium abreptum est, accusationem vis non prohibetur intendere, è aggiunta compilatoria: Cfr. Niedermeyer, 387 n. 19, seguito da Flore cit., 351 n. 55; Volterra cit., 137 n. 1. Contra, Lauria, 1. c.

 

[151] È anche qui chiaramente espresso come, per poter accusare, non sia sufficiente la sollicitatio della schiava, ma sia necessario commettere anche un atto di plagio.

 

[152] Più difficile è credere, con la Glossa (ad h. l.) che l’azione civile sia la rei vindicatio utilis: questa vindicatio contro chi dolo desiit habere è probabilmente introdotta da Giustiniano. Cfr. Arangio Ruiz, Ist. cit., 217 n. 3; Perozzi, Ist. cit., I, 720 ss.

 

[153] Questo testo è addotto da Lauria a dimostrare che l’accusatio legis Fabiae era limitata a pochi interessati: infatti la differenza di legittimazione presupposta nell’ultima frase del passo si spiegherebbe solo in quella ipotesi. Ma appunto quella frase è da ritenersi interpolata: cfr. Pugliese, Studi, cit., 131 ss.

 

[154] Non ci interessa invece, in questa sede, il concorso tra la normale actio iniuriarum e l’actio iniuriarum ex lege Cornelia su cui v. Pugliese, Studi cit., 152 ss.

 

[155] De Inv. 2.20.60, v. § 3.

 

[156] E, dobbiamo credere, anche se raggiungessero la gravità del taglio della mano.

 

[157] MARC. D. 48.8.1.3 Divus Hadrianus rescripsit eum ..,. qui hominem non occidit, sed vulneravit ut occidat, pro homicida damnandum. Cfr. anche Labeone in ULP. D. 47.10.7.1, che nega aversi publicam animadversionem per il fatto quod gladio caput eius percussum est. La testimonianza è però autentica?

 

[158] MARC. D. 48.8.1.1. Questa disposizione era contenuta nel testo originario della legge, poiché già Cicerone afferma non esservi alcuna differenza inter eum qui hominem occidit et eum qui cum telo occidendi hominis causa fuit (Pro Rab. 6.19).

 

[159] L’opinione tradizionale è sostenuta da Mommsen, III, 226; Pissard cit., 100 e in generale, almeno implicitamente, da quanti, sulle tracce di Mommsen, si basano su questo passo per affermare l’esistenza di una regola pregiudiziale in materia di concorso tra mezzi di repressione pubblici e privati. D’altronde, non si può obbiettare che l’eccezione ciceroniana non sia idonea a raggiungere lo scopo indicato nel testo, in quanto l’actio iniuriarum nella quale essa fosse inserita verrebbe consumata per litis contestatio con l’effetto di render impossibile la ripresa del processo dopo la sentenza sul crimen: Wlassak ha dimostrato (in ZSSt. 33 cit., 144 ss.) che l’exceptio ha qui il valore di una denegatio sotto condizione, la quale impedisce di proseguire il processo ma non ha alcun effetto sull’azione.

 

[160] Cfr. Arnò, St. Riccobono cit., 183; Siber, Festschrift Wenger cit., 64-65.

 

[161] Essa si estende alle lesioni con esito mortale.

 

[162] Siber, l. c., sottoponendo tutto il paragrafo a critica radicale, ricostruisce così il principio di esso: si dicatur homo iniuria occisus, non debet privato iudicio legi Corneliae praeiudicari.

 

[163] Cfr. Voci, Risarcimento cit., 94 ss.

 

[164] Siber, 66, ritiene che il richiamo a Labeone avesse riferimento, come la massima di Ulpiano nel principio del paragrafo, all’uccisione dello schiavo, che nell’età augustea non fondava alcun iudicium publicum (cfr. § 6 III); essa è negata come assurda dai compilatori, poiché la riferiscono all’omicidio dello uomo libero. Ma, se è esatto che nella prima parte del § il concorso dei mezzi di repressione è discusso in relazione all’omicidio del servo (homo iniuria occisus indica lo schiavo nel c. 1 della legge Aquilia: GAI. III.210), non possiamo però escludere che nella seconda parte Ulpiano discutesse l’applicabilità degli stessi mezzi all’ipotesi del tentato omicidio di un uomo libero, ipotesi che egli poteva decidere in senso diverso da Labeone, in quanto la repressione criminale delle percosse arrecate allo scopo di uccidere risale all’epoca adrianea (v. n. 157).

 

[165] Ho tolto solo l’ultima parte, che esprime la dottrina giustinianea, ma anche nel principio si possono riscontrare imperfezioni formali: ei non è a posto: anche la correzione enim (krüger ad h. l.) non convince; prohibendus per prohibendum; quod per qua. Esse possono tuttavia esser dovute ad errori derivanti dalla tradizione manoscritta. Più grave il pertinet senza soggetto; agere riferito al publicum iudicium.

 

[166] Possibile civilmente in base all’editto ne quid infamandi causa fiat.

 

[167] Mommsen, III, 113 ss. Cfr. TAC. Ann. 1.72; IV.21; SUET. Aug. 55.

 

[168] Paulus und der Sentenzenverfasser, in ZSSt. 50 (1930) 286 ss.

 

[169] ULP. D. 47.10.5.

 

[170] Pugliese, Studi cit., 117 ss.

 

[171]Mi sembra che tale congettura sia avvalorata anche da Paul. Sent. V.4.15, dove si dice che, per la repressione del libello anonimo, un senatoconsulto ha stabilito la pena della deportazione: l’ipotesi di Levy, che nel passo, siano confuse due notizie: quella relativa all’estensione della legge Cornelia, e quella tramandata da Tacito, sull’applicazione della pena del crimen maiestatis a Cassio Severo, non mi sembra confermata da argomenti positivi.

 

[172] Cfr. § 61.

 

[173] § 6 V. È appena il caso d’avvertire che nella dottrina tradizionale questa ultima frase dovrebbe indicare la dottrina classica: così De Sarlo, 342, il quale espunge dal fr. 6 solo le parole similiter ex diverso.

 

[174] Ciò, ripeto; va inteso nel senso che la procedura straordinaria, nella quale sono giudicati alla fine dell’età classica anche crimini che vengono fatti rientrare nell’ambito .di una legge preesistente (con la probabile conseguenza della limitazione dell’accusa all’offeso ed ai consanguinei), permise l’affermarsi di nuove tendenze, per cui i giuristi considerarono il problema sotto una nuova luce.

 

[175] Citati nei singoli luoghi. Aggiungasi Wenger, Istit. cit., 136-37; tra gli autori meno recenti, qualche accenno in Bekker, Aktionen cit., 249 s. e Rein, Criminalrecht cit., il quale fa alcune considerazioni in materia di concorso di reati (253 ss., 258 ss,), ma si disinteressa dell’aspetto processuale della questione. Non ho potuto consultare Bülow, Prozesseinreden und Prozessvorawssetzungen, 1895; Naber, in Mnemosyne n. s. 53 (1925).

 

[176] Cioè in generale tutti i casi di coesistenza, ad eccezione della ipotesi in cui coesistano actio iniuriarium e iudicium legis Corneliae, qui il dovrebbe esser evitato in forza del ragionamento dai compilatori attribuito ad Ulpiano (in D. 47.10.7.1), ea res habet publicam executionem. V. le note alle diverse ipotesi.

 

[177] Anche le diverse opinioni su questo punto sono state singolarmente riportate.

 

[178] È opportuno riportarla qui integralmente. CTh. 9.20 Victum civiliter agere et criminaliter posse. Imppp. Valens, Gratianus et Valentinianus aaa. ad Antonium pf. p. A plerisque prudentium generaliter definitum est, quoties de re familiari et civilis et criminalis competit actio, utraque licere experiri, nec si civiliter fuerit actum, criminalem posse consumi. Sic denique et per vim possessione deiectus, si de ea recuperanda interdicto unde vi erit usus, non prohibetur tamen etiam lege Iulia de vi publico iudicio instituere accusationem; et suppresso testamento quum ex interdicto de tabulis exhibendis fuerit actum, nihilo minus ex lege cornelia testamentaria poterit crimen inferri; et quum libertus se dicit ingenuum, tam de operis civiliter quam etiam lege visellia criminaliter poterit perurgeri. Quo in genere habetur furti actio et legis fabiae constitutum. Et quum una excepta sit causa de moribus, sexcenta alia sunt, quae enumerari non possunt, ut, quum altera prius actio intentata sit, per alteram, quae supererit, iudicatum liceat retractari. Qua iuris definitione non ambigitur, etiam falsi crimen, de quo civiliter iam actum est, criminaliter esse repetendum.

 

[179] Nella redazione giustinianea della costituzione si parla addirittura di de falso ... civiliter experiri.

 

[180] CTh. 9.19.4 pr. Utrum de falso criminaliter an de scripturae fide statuat civiliter experiri.

 

[181] Su tutto ciò v. la profonda indagine di Archi, Civiliter e criminaliter cit., Archi però vuol trarre (3), dalla circostanza che per alcuni degli esempi portati nella cost. esistono precedenti decisioni della cancelleria imperiale postclassica, la conseguenza che i redattori abbiano tratto l’esemplificazione da queste, anziché essersi veramente rifatti alle opere dei prudentes. Tuttavia non esistono, come egli stesso riconosce, costituzioni imperiali per i rapporti tra interdictum de tabulis exhibendis e crimen falsi, e non è esatto riferire ai rapporti tra actio furti e actio legis Fabiae CI. 9.20.12 (cfr. n. 149). Io ritengo quindi che i redattori avessero effettivamente presenti testi classici in cui i vari casi venivano esaminati, e specialmente (per le ragioni viste § 6.I) PAUL. D. 48.1.4. Essi fraintesero però le soluzioni date dai giureconsulti, nel senso indicato nel testo e osservato dallo stesso A.: per cui non perde valore la sua considerazione tendente a dimostrare la mancanza di un esame approfondito delle opere classiche e, in conseguenza, che l’accostamento dei princìpi in esse contenuti alla riforma in tema di falso non si giustifica da un punto di vista di logica giuridica.

 

[182] La cancelleria fu forse indotta in tale errore dalla circostanza che, come abbiamo più volte rilevato, i giuristi classici discutono la possibilità del praeiudicium iudicio publico, mentre non menzionano mai un praeindicium iudicio privato. Più difficile è pensare ad una evoluzione che abbia portato, nel IV secolo, ad ammettere veramente il cumulo solo quando in precedenza sia stata esperita l’azione privata.

 

[183] Archi, 5. Egli chiarisce poi, 44-45, come ciò corrisponda al fine dell’innovazione del 378, dovuta al desiderio di risolvere gli inconvenienti sorti con la possibilità, introdotta con CTh. 9.19.4, di giudicare su un crimen falsi in sede civile.

 

[184] Nella c. cit. si coglie anche un altro aspetto della nuova teoria processuale: il concetto tecnico di consumptio, strettamente legato per diritto classico al criterio oggettivo della eadem res (GAI. III.181; IV.107), è ora riferito anche all’effetto esclusorio derivante dalla sentenza nell’ipotesi di concorso tra causa civilis e causa criminalis. (Sulla non classicità dell’espressione cfr. Wlassak, Anklage cit., 31. Levy, Die Konkurrenz der Aktionen und Personen, Berlin 1918, I, 67 n. 1). È questa una conseguenza della tendenza, già in atto sul finire dell’epoca classica per i procedimenti sorti nel dominio della cognitio extra ordinem, e sviluppatasi completamente in quest’epoca, per cui l’antica divisione dei processi in pubblici e privati viene sostituita da una distinzione tra causae civiles e criminales, relativa all’oggetto della controversia, ma non giustificabile dal punto di vista strutturale. Cfr. Pugliese, Processo cit., 99 ss.

 

[185] L’elemento logico della sentenza, come prodotto dell’intelligenza del giudice, è messo in luce da Biondi, Appunti intorno alla sentenza nel processo civile romano, in Studi Bonfante, IV, 32-33.

 

[186] L’esame è d’altronde limitato: Siber non considera affatto i testi in cui si afferma la possibilità di praeiudicium fieri, e ricostruisce sistematicamente quelli intp. in modo da farne apparire, senza incertezze e senza contrasti, la massima iudicio publico praeiudicium fieri non debet.

 

[187] Poiché, con la risalente dottrina, anche Siber ne ammette l’esistenza e ad essa riconduce tutte le decisioni in cui si fa menzione del praeiudicium in riferimento alla coesistenza di repressione pubblica e privata.

 

[188] Festschrift Wenger cit., 63 «der Richter über die maior causa durfte eine Vorentscheidung über die minor nicht durch Anschluss an diese als Beweismittel verwenden, um sich die Erhebung anderer Beweise zu ersparen»; 64 «der Kriminalrichter sich die erneute Beweiserhebung nicht durch Bezugnahme auf das Urteil .,. ersparen darf, während das Umgekehrte zulässig ist»: in questo senso viene intesa la seconda parte di P.S. I.12.8(9) maior enim quaestio minorem causam ad se trahit.

 

[189] Siber studia il praeiudicium solo con riferimento alla procedura ordinaria.

 

[190] Per quel che concerne il processo criminale, questi elementi essenziali sono chiariti da Mommsen, II, 99 ss. Cfr. anche, con riferimento al processo privato, Lemosse, Cognitio cit., 158 ss., 166 ss.

 

[191] Ciò sembra discendere dai princìpi, ai quali bisogna richiamarsi in mancanza di qualsiasi testimonianza delle fonti in materia.

 

[192] Nel senso di influenza, non necessariamente sfavorevole.

 

[193] Così, ad esempio, non ogni furto di schiavo è un plagio: dopo esser stato assolto per questo crimine, l’accusato poteva certamente essere convenuto con l’actio furti, e il giudicato criminale non avrebbe potuto influenzare il giudice privato. Gli esempi si potrebbero moltiplicare, poiché i presupposti della punibilità del fatto non coincidono nei due ordinamenti penali, pubblico e privato.

 

[194] Ferrini, Dir. pen. rom., 238; Esposizione cit., 141-42; Mommsen, III, 228; da ultimo Schulz, Classical Roman Law, Oxford 1951, 573: «Most probably the competing criminal procedure in which the judge was also entitled to award damages to the offended came in practice to supersede gradually the private penal actions». Ciò vale naturalmente solo per i casi in cui il iudicium publicum si svolga dinanzi al magistrato; invece, fino a quando il processo criminale si svolse di fronte alla quaestio, con accusa e pena pubbliche, una ovvia considerazione di giustizia avrebbe imposto che, qualora il fatto fosse punibile anche come delitto privato, dopo la condanna criminale l’offeso potesse ottenere il pagamento della pena pecuniaria attraverso l’azione penale.

 

[195] V. Biondi, Appunti intorno alla sentenza cit., 74: «Come è possibile che il secondo giudicato sia nullo? È chiaro che di fronte ad un principio generale di tal fatta la exceptio rei iudicatae su cui tanto si affaticavano i giuristi romani» avrebbe perduto ogni importanza, poiché la parte vittoriosa avrebbe potuto far valere la nullità assoluta del secondo giudicato de eadem re», L’argomento è studiato con nuova revisione di fonti da Apelt, Die Urteilsnichtigheit im römischen Prozess, Schramberg, senza data, 109 ss., che riconosce non potersi dare una risposta definitiva ai problemi sollevati da C. 7.64.1. Cfr. anche Wenger, Istit. cit., 203 ss.

 

[196] Cfr. n. 193.

 

[197] Non bisogna però confondere questa ragione concreta storica, per cui in molti casi il solo processo criminale sarà effettivamente intentato contro il colpevole, con quella (non solo difficile attuazione pràtica, come riconosce De Sarlo, op. cit., 350, ma anche inesatta secondo l’ordinamento processuale classico) per cui i compilatori e al loro seguito la dottrina tradizionale ammettono che l’azione privata venga assorbita dalla persecuzione pubblica.

 

[198] Così, ad es., se non sempre un’ipotesi di rapina concreta anche una violenza punibile in sede criminale, d’altro lato è evidente che la sentenza con cui si giudichi aver compiuto un crimen vis chi abbia asportato cose altrui con la violenza, è in aperta contraddizione con una precedente assoluzione sulla base dell’actio vi bonomm raptorum. Tuttavia, è anche in questo caso possibile che, svolgendosi il processo criminale dinanzi al funzionario imperiale anziché alla giuria, egli condanni il reo a pagare all’offeso una pena pecuniaria (cfr. n. 194).

 

[199] Altrimenti sarebbe da considerare il problema, qualora uno stesso rapporto giuridico venisse deciso con due sentenze contrastanti: in tal caso, il diritto romano risolve il conflitto ammettendo la nullità del secondo giudicato: cfr. CI. 7.64.1. È inoltre opportuno chiarire che in nessun caso la contraddizione delle sentenze avrebbe potuto esser ovviata con l’appello: questo mezzo processuale non entra qui in considerazione perché parlando di conflitto tra giudicati si intende appunto la contraddizione tra due sentenze che abbiano acquistato il valore di cosa giudicata o per non essere state impugnate entro i termini, o perché già confermate da una o più pronuncie successive di giurisdizioni superiori (Cfr. Orestano, Appello cit., 399).

 

[200] De Inv. 2.20.59-60, v. §§ 3 e 6 I; In Verr. 2.65.152, v. § 3.

 

[201] In D. 5.3.5.1, abbiamo già visto la regola affermata per i rapporti tra crimen falsi e hereditatis petitio: la stessa regola risulta per una fattispecie analoga da MOD. D. 48.2.18 (sul testo cfr. Wlassak, Anklage cit., 211 ss.). Le norme sorte in relazione al falso testamentario vengono estese, per l’evoluzione della tecnica documentale nel mondo romano, a qualunque tipo di documento solo nella tarda epoca classica (forse con Settimio Severo: cfr. Archi, Problemi cit., 91 ss., 97). In seguito infatti, la precedenza del falso incidentale sulla causa civile ci è attestata, per documenti di credito, da Alessandro in CI. 9.22.2 Satis aperte divorum parentum meorum rescriptis declaratum est, cum morandae solutionis gratia a debitore falsi crimen obicitiir, nihilo minus salva executione criminis debitorem ad solutionem compelli oportere. Poiché Alessandro afferma aver spesso gli imperatori ripetuto che, qualora la accusatio falsi sia intentata dal debitore a scopo dilazionatorio, il pagamento deve precedere la discussione sul crimen, è evidente l’esistenza nel suo tempo di una prassi secondo la quale appunto il crimen falsi interrompeva il corso della controversia civile per esser deciso prima di questa. Infine, in CTh. 9.19.2. Costantino riferisce la prassi classica come relativa a documenti di qualunque contenuto.

 

[202] Supra, § 3.

 

[203] Supra, § 6/I.

 

[204] La tortura cui deve esser sottoposto lo.schiavo non è una pena, ma un mezzo per indagare sulla morte del padrone (Cfr. Brasiello, Repressione cit., 256-57): qualora dall’inchiesta risulti la colpevolezza della familia anche lo schiavo che avrebbe dovuto esser manomesso sarà punito come omicida; altrimenti, nulla più si oppone a che egli ottenga la libertà.

 

[205] La possibilità di discutere il valore probatorio di una scrittura senza accertare il dolo di chi la produca, prescindendo cioè da una inchiesta penale, è messa in luce da Archi, Studi Ferrini cit., 9 ss., sulla base di un brano di Quintiliano (Inst. Or. V.5). Cfr. anche Lemosse, Cognitio cit., 247 ss.

 

[206] V. i testi citati nella n. 201.

 

[207] Supra, § 7.

 

[208] Interpreto il testo, nella lezione proposta da Kruger (ad h. l.), secondo l’esegesi di Wlassak, Anklage cit., 28, che mi pare l’unica possibile. (Per la dottrina risalente, che leggeva paratus est seguendo i manoscritti più antichi, v. Wlassak cit., 27 e n. 47).

 

[209] II principio trovava applicazione anche nel processo criminale: C.I. 7.56.3 (DiocL. a. 289): luris manifestissimi est et in accusationibus his, qui congressi iudicio non sunt, officere non posse, si quid forte praeiudicii videatur oblatum.

 

[210] Resta naturalmente aperta al convenuto condannato la possibilità di intentare in seguito l’accusatio falsi: e se riuscirà a dimostrare nel processo criminale d’essere stato condannato in base a documenti falsi, otterrà la restitutio in integrum: C.I. 7.58.2 (ALEX., a. 224). Un’analoga decisione era già stata presa da Adriano (CALL. D. 42.1.33), contro la condanna ottenuta per mezzo di false testimonianze.

 

[211] Gli imperatori parlano di iudex: ma appunto questo termine designa ora abitualmente il governatore della provincia: cfr. Mommsen, I, 291 n. 3.

 

[212] Si vedano gli esempi riportati da Orestano, Appello cit., 65 n. 1. Ad essi si può forse aggiungere C.I. 9.22.11 (Diocl. et Max., a. 287). Si lis pecuniaria apud pedaneos iudices remissa est, etiam de fide instrumenti [civiliter] apud eos iuxta responsum viri prudentissimi Pauli requiretur. Dal testo bisogna eliminare la parola civiliter, poiché il falso incidentale dà luogo ad un procedimento civile solo dopo la riforma del 378; il responso di Paolo doveva ammettere la competenza dei iudices pedanei (e cioè dei giudici delegati del processo straordinario) ad esaminare la questione incidentale: naturalmente però le due istanze, pur decise dallo stesso organo, dovevano esser giudicate separatamente, in quanto scopo del processo criminale è tuttora solo la punizione del reo. (In questo senso cfr. Lemosse cit., 249). È stato però ritenuto (Archi, op. cit., 14) che la cost. sia più gravemente alterata, e cioè che gli imperatori negassero la competenza dei giudici pedanei ad indagare sul falso e rimandassero, per l’indagine sulla fides instrumenti, al dibattito privato durante lo svolgimento della lis pecuniaria.

 

[213] L’intp. è segnata da Schulz, Die Lehre vom erzwungenen Rechtsgescäft, in ZSSt. 43 (1923) 190, e accolta da tutta la seguente dottrina.

 

[214] La vastissima letteratura in argomento è ricordata da Caporali, Della violenza come motivo del testamento, in RISG. IV (1887) 3 ss.; per quella posteriore si veda Betti, Dir. rom. cit., 309 n. 2.

 

[215] Così Sanfilippo, II metus nei negozi giuridici, Padova 1934, 61. Analoghe formulazioni in Biondi, Corso di diritto romano, I, Successione testamentaria, Milano 1936, 119; e Longo, Note critiche in tema di violenza morale, in BIDR n, s. 1 (1934) 105. Tuttavia non si: è ancora cercato di determinare con esattezza il crimen concretato dalla violenza testamentaria. (La fattispecie è considerata criminosa anche da PAP. D. 26.9.3 e in CI. 6.34.1 di Diocleziano e Massimiano). Il solo Lenel fornisce una indicazione, con la collocazione del fr. 3 nella Palingenesia sotto, rubrica ad legem Corneliam de falsis et SC. Libonianum (v. anche il richiamo ad essa, Das erzwungene Testament, in ZSSt. X. (1889), 74 n. 3): non mi sembra però possibile che Papiniano abbia individuato un falso nel testamento coatto. È più probabile che la repressione criminale della fattispecie ricadesse nell’ambito del crimen vis, come indica lo sc. 1 Bas. 35.4.4: nella tarda epoca classica questo crimine viene esteso anche ad ipotesi di violenza morale, cfr. MARC. D. 48.6.5 pr. (Lege Iulia de vi publica tenetur) ... qui per vim sibi aliquem obligaverit ... (La frase finale è certamente intp., come il riferimento alla vis publica anziché privata: cfr. Longo, op. cit., 101. Su questo testo v. anche Coroï, Violence cit., 205 ss.).

 

[216] Questo è tuttavia l’unico elemento positivo che si può trarre dalla c. 4 cit., giacché non è possibile determinarne il valore per il caso in esame. Si può pensare infatti che la nullità della sentenza consegua alla mancata osservanza della disposizione tendente a far risolvere la controversia privata in base al giudicato sul crimine a quella connesso: ma, poiché non ci sono riferiti gli estremi del caso sottoposto all’imperatore da Severa, ciò rimane solo una congettura. Se tale fosse il significato del solitus ordo iudiciorum, dovremmo concludere che esistesse una regola generale, stabilita sotto pena di nullità, secondo la quale il crimen vis incidentale ad una lita privata deve esser deciso prima di questa: ma, ancora una volta, non possiamo giungere ad una simile conclusione in base a questo solo testo.

 

[217] Questo indirizzo rende finalmente ragione di P.S. 1.12.8(9) = D. 5.1.54 (cfr. § 3) dove la seconda frase esprime, a quanto mi sembra, la possibilità di riunire i procedimenti connessi.

 

[218] Supra, n. 201. Mi sembra quindi ingiustificata l’affermazione che essa «non abbia nessun appoggio testuale nelle dottrine a noi tramandate dai giureconsulti classici. Questi, in simili casi di interferenze tra procedimento civile e criminale, discutevano se il giudizio dell’uno potesse costituire praeiudicium nei confronti dell’altro, ma non fissavano alcuna precedenza cronologica a favore di uno dei due» (Archi, op. cit., 36-37). I giureconsulti classici parlavano bensì di praeiudicium senza fissare precedenze nell’ipotesi di processi coesistenti, ma stabilivano anche che il processo civile venisse sospeso in caso di falso incidentale; questa prassi del resto risulta, oltre che dai testi già visti; anche dall’editto di VALERIUIS EUDAIMON (sul quale v. Gradenwitz, Rescripte auf Papyrus, in ZSSt. 23 (1902) 371 ss.), richiamato dallo stesso Archi come precedente storico della nostra costituzione.

 

[219] Così invece Pissard, Questions cit., 230.

 

[220] Un’ipotesi di questo genere poteva essere quella per cui Severa si rivolge all’imperatore (cfr. CI. 6.34.1; 7.45.4): la nullità che Alessandro afferma conseguire alla sentenza pronunciata contra solitum iudiciorum ordinem potrebbe esser dovuta alla mancata osservanza di una delle disposizioni regolanti la ripresa della causa civile dopo la decisione su quella criminale. La Glossa saepe fit (ad h. l.) interpreta nam quandoque aliter fit, ut cum civilis est praeiudicialis: l’affermazione è esattissima, ma non serve a spiegare l’espressione di Costantino il quale evidentemente si occupava nella c. 4 cit. di questioni criminali incidentali.