Testatina-Monografie2013

 

 

 

Cap. IV della monografia: Francesco Cuccu, L'impianto normativo dei controlli interni e le nuove regole di autodisciplina, Napoli - Roma : Edizioni scientifiche italiane, 2012. - 156 pp.  ISBN  978-88-4952-399-7

Indice-Sommario

 

 

 

Foto Francesco Cuccu-1Francesco Cuccu

Università di Sassari

 

Il codice di autodisciplina

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Sommario: 1. Il nuovo Codice di Autodisciplina delle Società Quotate. – 2. Un breve sguardo di insieme. – 2.1. Composizione del consiglio di amministrazione. – 2.2. Ruolo e funzionamento del consiglio di amministrazione. – 2.3. L’organizzazione e i compiti dei comitati interni al consiglio. – 2.4. Sistema di controllo interno. – 3. Le raccomandazioni del Codice. – 3.1. Una nuova impostazione chiarificatrice. – 3.2. L’impulso dato dal d. lgs. 39/2010. – 4. I punti deboli del Codice. – 4.1. La necessità di migliorare i flussi informativi. – 4.2. I rapporti interorganici. – 5. Il ruolo marginale svolto dall’assemblea nel sistema dei controlli. – 5.1. L’esigenza di un ripensamento del ruolo. – 6. Gli amministratori indipendenti. – 7. L’adesione al Codice: alcuni dati. – 8. Qualche considerazione finale.

 

 

1. – Il nuovo Codice di Autodisciplina delle Società Quotate

 

Il 5 dicembre 2011 è stata presentata a Milano, nella sede di Borsa Italiana, la nuova edizione del Codice di Autodisciplina delle Società Quotate.

Eccettuata la parte relativa alle remunerazioni, che era stata oggetto di aggiornamento nel 2010, il testo del Codice risaliva al 2006; da allora si sono succeduti numerosi interventi normativi che hanno reso per molti aspetti obsolete le raccomandazioni del Codice. Un aggiornamento era peraltro necessario anche per consentire un allineamento dello stesso alle più recenti evoluzioni delle best practices nazionali e internazionali.

La forma è ora quella del decalogo, dai precedenti dodici articoli si è infatti passati agli attuali dieci.

Il Codice presenta immutata la struttura che lo caratterizza sin dalla sua prima edizione, secondo la quale ogni articolo si compone di tre sezioni: principi, criteri applicativi e commento. La prima sezione detta le raccomandazioni di carattere generale, le seconda fornisce indicazioni di dettaglio sui comportamenti raccomandati in quanto tipicamente necessari per realizzare gli obiettivi indicati nella prima, e la sezione relativa al commento ha il duplice scopo di chiarire la portata dei principi e dei criteri applicativi e di descrivere ulteriori condotte virtuose.

Gli emittenti sono invitati ad applicare le modifiche entro la fine dell’esercizio che inizia nel 2012, dandone informazione al mercato con la relazione sul governo societario relativa al medesimo anno (punto VII dei Principi guida). Un periodo transitorio più lungo, e diversificato per alcune raccomandazioni, è previsto per determinate  novità in tema di composizione del consiglio di amministrazione e dei relativi comitati[1].

Nei principi guida tuttavia, oggi come ieri, si precisa che l’adesione al Codice  è volontaria, ribadendo così il carattere non formalmente vincolante delle disposizioni.

Un elemento di novità è invece rappresentato dal fatto che il Comitato per la corporate governance è divenuto una struttura stabile che dovrà riunirsi almeno una volta all’anno per effettuare un monitoraggio sull’applicazione delle raccomandazioni del Codice e per valutare la necessità di aggiornamenti del medesimo.

 

 

2. – Un breve sguardo di insieme

 

Guardando alle nuove regole di autodisciplina introdotte nel dicembre 2011 si deve notare che gli elementi di innovazione sono sicuramente numerosi e toccano un po’ tutti gli aspetti. Ciò che preme fin da ora mettere in evidenza è però che il cambiamento più importante sembra rinvenibile in una nuova impostazione di base dei controlli nelle società.

Per comprendere in che modo la modifica viene ad incidere sul sistema attuale occorre ripercorrere, seppur brevemente, quelle che possono essere considerate le principali novità.

 

2.1. – Composizione del consiglio di amministrazione

 

La nuova edizione del Codice raccomanda che tutti gli amministratori siano dotati di adeguata competenza e professionalità (art. 2.P.1.), e fornisce puntuali indicazioni sul numero minimo di amministratori indipendenti, indicando per i consigli delle società appartenenti all’indice FTSE Mib la soglia minima di un terzo, e per tutte le altre ipotesi un numero minimo di due amministratori indipendenti (art. 3.C.3.), la maggioranza dei quali può ora, nelle società appartenenti all’indice FTSE Mib, chiedere che venga comunque nominato un lead independent director, anche se non si presentano le condizioni già previste, e ora confermate, per la designazione (art. 2.C.3.). Sempre in tema di amministratori indipendenti, nel commento all’art. 5 è formulato l’auspicio che questi si impegnino a mantenere tale qualità per tutta la durata del mandato e, se del caso, a dimettersi. Degna di segnalazione è la raccomandazione contenuta nell’art. 2.C.5., secondo la quale “(i)l chief executive officer di un emittente (A) non assume l’incarico di amministratore di un altro emittente (B) non appartenente allo stesso gruppo, di cui sia chief executive officer un amministratore dell’emittente (A)”, così provando a scoraggiare le situazioni di cross directorship tra CEO di emittenti quotati che non appartengono allo stesso gruppo.

Alcune interessanti novità si occupano di assicurare continuità nella gestione. Il commento all’art. 2, con attenzione rivolta in particolare al funzionamento dei comitati interni al consiglio di amministrazione, suggerisce agli azionisti di prendere in considerazione la possibilità di prevedere una scadenza differenziata di tutti o di parte dei componenti dell’organo amministrativo (c.d. staggered board), e l’art. 5.C.2. consiglia di valutare l’opportunità di predisporre un piano per la successione degli amministratori esecutivi.

 

2.2. – Ruolo e funzionamento del consiglio di amministrazione

 

All’art. 1.P.2., nel ribadire, come per le passate edizioni, che l’obiettivo primario che gli amministratori devono perseguire è la creazione di valore per gli azionisti, viene opportunamente aggiunta la precisazione che detto obiettivo deve essere inteso in un orizzonte di medio-lungo periodo, puntualizzazione opportuna per scongiurare i pericoli sottesi a politiche che nel recente passato hanno portato tante volte gli amministratori a privilegiare politiche gestionali premianti nel breve termine, ma rivelatesi poi decisamente fallimentari nel lungo periodo.  Da salutare con sicuro favore anche la raccomandazione che il consiglio di amministrazione definisca la natura e il livello di rischio compatibile con gli obiettivi strategici dell’emittente (art. 1.C.1., punto b).

Sempre in ambito di ruolo e funzionamento del consiglio di amministrazione sono state rafforzate le raccomandazioni relative all’autovalutazione, nell’effettuare la quale viene precisato che è bene tenere conto di elementi quali la professionalità, l’esperienza,  il genere e l’anzianità di carica (art. 1.C.1. punto g). I redattori della nuova edizione del Codice hanno mostrato una spiccata sensibilità al profilo informativo, raccomandando una più tempestiva e completa informativa consiliare e pre-consiliare (art. 1.C.5.), e prevedendo per il presidente del consiglio di amministrazione la facoltà di chiedere che i dirigenti responsabili delle funzioni aziendali intervengano alle riunioni consiliari per fornire gli opportuni chiarimenti e approfondimenti (art. 1.C.6.).

 

2.3. – L’organizzazione e i compiti dei comitati interni al consiglio

 

Le novità in tema di comitati prevedono che il relativi lavori siano coordinati da un presidente (art. 4.C.1.) che, nel caso del comitato controllo e rischi e del comitato per la remunerazione, dovrà  sempre essere un amministratore indipendente (artt. 7.P.4. e 6.P.3.). L’emittente, al verificarsi di determinate condizioni, potrà anche evitare di costituire uno o più comitati, riservando le relative funzioni all’intero consiglio (art. 4.C.2.).  Per quanto riguarda il comitato nomine, si raccomanda oggi direttamente la sua istituzione, e non più, come per il passato, semplicemente di valutare l’opportunità della stessa (art. 5.P.1.)

 

2.4. – Sistema di controllo interno

 

Non poche e di rilievo sono le novità in tema di sistema di controllo interno, segnalate già da alcuni significativi cambiamenti di denominazione. Non si parla infatti più di “sistema di controllo interno”, bensì di “sistema di controllo interno e di gestione dei rischi”; il “comitato per il controllo interno” è stato ridenominato “comitato controllo e rischi”. Detti cambiamenti sono indice ed espressione di una rinnovata idea del sistema dei controlli, imperniato oggi, ancora più che in passato, sul concetto di rischio.

È stato eliminato ogni riferimento ai “preposti al controllo interno”, locuzione i cui contorni decisamente troppo sfumati creavano non poche difficoltà nel ricostruire il sistema, e ora si parla, con maggiore chiarezza, di responsabile della funzione internal audit, funzione che esce rafforzata dalla rivisitazione del Codice.

Molto opportunamente, perché non poche in passato sono state le voci sollevatisi per lamentare  problematiche sovrapposizioni, il Codice è intervenuto per fare chiarezza sui ruoli rispettivamente da attribuire al comitato controllo e rischi e al collegio sindacale. Un intervento che sembra ispirato alla auspicata distinzione tra controlli di impresa e controlli societari e, pertanto, attribuisce i primi al comitato ed i secondi all’organo di controllo.

Di particolare interesse, nell’ottica di una razionalizzazione del sistema dei controlli, l’invito -con cui si chiude il commento all’art. 7-  a valutare l’opportunità di attribuire al collegio sindacale le funzioni di organismo di vigilanza ex d.lgs. 231/2001 (in linea con quanto previsto dalla Legge 12 novembre 2011, n. 183-cd. Legge di stabilità per il 2012).

 

 

3. – Le raccomandazioni del Codice

 

Le norme del Codice si concentrano prevalentemente, oggi come anche in passato, sull’attività degli organi societari – con speciale attenzione per l’organo amministrativo – e alle relazioni tra essi, disciplinandone composizione  e funzionamento, aspetti per il vero oggetto di scarsa attenzione da parte delle regola di origine legislativa.

Come detto, grande parte del Codice è dedicata al consiglio di amministrazione, del quale vengono definiti ruolo, composizione, nomina, remunerazione, rapporti con gli azionisti, istituzione e funzionamento dei comitati interni, gestione dei rischi e presenza di amministratori indipendenti.

Obiettivo delle norme è l’incentivazione dell’efficienza e della correttezza nei settori della gestione amministrativa e del controllo, concentrandosi sui profili interni della gestione, definendo ruolo e funzione del consiglio di amministrazione, dedicando una particolare attenzione all’equilibrio tra ruolo strategico del consiglio e funzioni degli organi delegati, e trascurando le composite problematiche dei rapporti con gli stakeholders.

 

3.1. – Una nuova impostazione chiarificatrice

 

Come visto precedentemente, al fine di evitare problematiche sovrapposizioni che sono alla base di inefficienze e malfunzionamenti, in ambito di controlli sembra indispensabile superare quelle ambiguità che da tempo caratterizzano la materia; ambiguità che, ci è parso, abbiano origine in un equivoco di fondo legato alla riduzione del “controllo” ad un concetto unico.

Una chiarezza appare dunque necessaria già, come si è detto, sul piano lessicale, data la molteplicità dei significati che in concreto può assumere il termine “controllo”, ma appare necessaria anche e soprattutto sotto il profilo funzionale dovendo portare, una volta individuati i differenti significati e quindi le diverse funzioni del controllo, ad una congruente attribuzione di queste ultime.

Ebbene,  sembra possibile individuare nella nuova edizione del Codice alcune importanti linee di sviluppo che, rompendo la consolidata tendenza di concentrare le responsabilità in tema di controllo in capo agli amministratori,  utilizzano criteri di attribuzione delle funzioni di controllo più “ordinati” e più attenti ad evitare posizioni di conflittualità di interessi.

Invero, uno degli articoli che è stato in misura maggiore rivisitato è proprio quello relativo al controllo interno, nel quale non pochi sono gli indici di un rinnovato modo di intendere la funzione di controllo.

Il commento all’art. 7, nel ricordare come la nuova denominazione intende differenziare il comitato controllo e rischi  dal comitato per il controllo interno e la revisione contabile previsto dal d. lgs. 29 del 2010, sottolinea le ben distinte incombenze dei due comitati.

Che l’ambito di operatività del comitato controllo e rischi sia circoscritto ad un controllo di merito sulla gestione, utile nell’indirizzare le strategie di business degli amministratori, e quindi ad un controllo di impresa, è confermato dalla possibilità che ad esso possa presiedere anche un amministratore investito di deleghe operative. Circostanza questa che non consente che detto comitato si possa occupare anche del controllo/vigilanza che si indirizza appunto sugli amministratori, in particolar modo quelli delegati, perché altrimenti si perverrebbe alla inaccettabile e perversa situazione in cui viene a rompersi quella ontologica separazione e distinzione tra controllore e controllato.  Tutte dette considerazioni trovano ulteriore conferma nell’espresso riconoscimento da parte del Codice -nella parte rinnovata del commento all’art. 7- di un vero e proprio rapporto gerarchico tra consiglio di amministrazione e responsabile della funzione di internal audit.

Ma, soprattutto, detto fondamentale cambiamento che porta ad un nuovo paradigma in tema di controlli trova espressa manifestazione in una delle aggiunte fatte alla nuova edizione del Codice, e segnatamente al commento dell’art. 8, ove viene chiaramente affermato che il collegio sindacale si “differenzia in modo netto rispetto al consiglio di amministrazione e al comitato controllo e rischi, i quali svolgono essenzialmente un ruolo di valutazione anche di merito sull’adeguatezza degli assetti e sull’andamento della gestione”. Una precisazione che mostra la presa di consapevolezza a parte dei redattori del Codice 2011 della necessità di distinguere tra due differenti tipi di controllo e delle conseguenti riflessioni in punto di assegnazione delle relative funzioni.

Riflessioni queste che trovano completamento nel riconoscimento, anch’esso inserito ex novo nella nuova edizione, per il collegio sindacale di un ruolo centrale nel sistema di vigilanza di un emittente (commento art. 8)

 

3.2. – L’impulso dato dal d. lgs. 39/2010

 

La nuova impostazione del sistema dei controlli adottata dal Codice sembra esser stata influenzata in maniera rilevante dal d. lgs. 39 del 27 gennaio 2010, la cui genesi e i cui caratteri è quindi qui opportuno, seppur brevemente, ricordare.

L’art. 41 della Direttiva 2006/43/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 17 maggio 2006 prevedeva che gli “enti di interesse pubblico”[2] dovessero dotarsi di un Comitato per il controllo interno e per la revisione contabile incaricato, tra l’altro, di monitorare il processo di informativa finanziaria, e di controllare l’efficacia dei sistemi di controllo interno, di revisione interna, e di gestione del rischio.

La direttiva riprendeva, per l’Europa, i principi su controllo interno e revisione legale imposti negli USA alle società quotate dal Sarbanes Oxley Act. In particolare, la Section 301 del Sarbanes – Oxley prevede la costituzione di un Audit Committee[3] all’interno del consiglio di amministrazione cui competono, tra gli altri, il potere di nomina dei revisori e quello di ricevere le segnalazioni relative a pratiche contabili o al sistema di controllo interno.

La direttiva comunitaria lasciava, invero, agli Stati membri ampia libertà di scelta sulla composizione del “comitato per il controllo interno e per la revisione contabile”, mentre rendeva obbligatoria la presenza dello stesso.

Ora, com’è noto, la scelta operata con il decreto legislativo che recepisce l’ottava direttiva europea sulla revisione legale dei conti va nel senso di attribuire tassativamente ogni prerogativa sulla struttura dei controlli interni delle società quotate in borsa al collegio dei sindaci[4]. 

Il legislatore italiano, dunque, in sede di attuazione della delega ha operato una scelta precisa nell’attribuzione dei compiti del comitato, e non ha ritenuto di mantenere flessibile per le società questa attribuzione, come invece consentito dalla direttiva e dalla stessa legge delega.

Le società quotate in Italia, però, seguono il codice di autoregolamentazione della borsa, che affida il compito di controllo interno al comitato audit  in seno al consiglio di amministrazione.

Le novità introdotte col decreto in analisi, si è quindi detto, determinerebbero una esplicita duplicazione dei compiti anche in tema di vigilanza sulla revisione legale dei conti  annuali. Il rischio, secondo taluni, sarebbe quindi quello di un cortocircuito dei controlli societarî[5].

Vigorose critiche alle scelte del legislatore sono pervenute, in particolare, dal mondo delle associazioni degli imprenditori, le quali hanno affermato che col provvedimento in parola si è disegnata una struttura della vigilanza endosocietaria che privilegia, anche oltre gli stessi indirizzi comunitarî, il collegio sindacale. In un documento[6] inviato alle commissioni parlamentari che dovevano redigere i pareri sul decreto è stata criticata, anzitutto, la scelta di attribuire in via esclusiva al collegio sindacale i compiti di vigilanza del “comitato di controllo interno e per la revisione contabile”. Si tratterebbe, si è scritto, di un’opzione che <<non sembra in linea con le indicazioni comunitarie>>, e che <<si pone in controtendenza con l’evoluzione normativa italiana e internazionale in tema di assetto dei controlli nelle società per azioni, che ha condotto a valorizzare sempre più l’attività di controllo sulla gestione svolta dagli stessi amministratori>>.

Si è inoltre ricordato che nel sistema delineato dal recente diritto societario il primo controllore dell’attività di impresa è  il consiglio di amministrazione. Argomentazione quest’ultima, nello sviluppare la quale è stato messo in evidenza come a seguito della riforma societaria del 2003 il consiglio di amministrazione è chiamato, infatti, a valutare l’adeguatezza dell’assetto organizzativo, amministrativo e contabile sulla base delle informazioni ricevute dagli organi delegati[7]. Orientamento che, secondo gli autori che si pongono in posizione critica,  informerebbe anche i principi di autodisciplina delle società quotate, in cui si prevede l’istituzione, all’interno del consiglio di amministrazione, di un comitato che si occupa tanto del sistema di controllo interno quanto dei profili di controllo contabile[8].

Una  linea evolutiva –quella che vede al vertice del sistema dei controlli gli amministratori- lungo la quale, sempre a detta del mondo dell’associazionismo in ambito societario,  sembrano coerentemente collocarsi l’introduzione di modelli di governo societario privi del collegio sindacale (modelli dualistico e monistico), nonché, per le società quotate, l’introduzione in via legislativa[9] di una componente indipendente degli amministratori e della figura del dirigente preposto alla redazione dei documenti contabili.  Sulla scorta della considerazione che nell’impresa il sistema dei controlli interni rappresenta, oggi, il processo di governo dei rischi aziendali svolto dall’organo di governo societario, dai dirigenti e da altri operatori della struttura aziendale, e che i controlli contabili altro non sono se non una parte del più ampio sistema di controllo interno[10], si è giunti quindi alla conclusione che meglio sarebbe stato consentire alle stesse società, in via di autonomia statutaria[11], di distribuire le predette funzioni tra l’organo di controllo e una componente (non esecutiva) del consiglio di amministrazione, in quanto siffatta soluzione sarebbe stata maggiormente coerente con i principi comunitari[12].

Dette critiche non sembrano però cogliere nel segno, e sono espressione di un’idea di corporate governance non sempre del tutto condivisibile. Invero, il d. lgs. 39/2010 deve essere letto come un importante momento di riforma della governance societaria, in quanto realizza un’inversione di tendenza rispetto alla linea evolutiva che si era affermata negli ultimi tempi,  secondo la quale il consiglio di amministrazione è il primo controllore dell’attività di impresa[13].

La scelta del legislatore delegato, pur ponendo, come da tanti segnalato, un evidente problema di coordinamento tra il collegio sindacale e il comitato controllo e rischi, sembra però conferire al sistema dei controlli interni un’impronta di maggiore linearità e chiarezza.

In effetti, sono solo in parte condivisibili le riportate critiche, da più parti pervenute, sulle opzioni legislative contenute nel decreto n. 39. Infatti, certamente la scelta del legislatore ha creato qualche problema di adattamento delle strutture societarie che, in linea con i dettami del Codice di autodisciplina ancora purtroppo letti avendo poca chiarezza sul significato del termine controllo, prevedevano un comitato controllo e rischi che svolgeva dei compiti ora spettanti al collegio sindacale; però la distribuzione delle competenze effettuata sembra invece rispondere a criteri in grado di garantire maggiore chiarezza e funzionalità, e quindi da preferire anche perché in grado di agevolare un’opera di semplificazione indispensabile nel sistema dei controlli. Un’azione di chiarimento che, guidata dalla consapevolezza della necessità di distinguere tra i diversi significati del termine controllo, indica la via per superare molte contraddizioni presenti nel sistema. Invero, il comitato previsto dal decreto 39/2010 è un organo con funzioni di vigilanza e controllo che sembra ispirato al principio della necessaria separazione tra la funzione di controllo e quella di gestione. Ciò lo si evince dall’art. 19, comma secondo, lettera b) del decreto, che esclude che il comitato possa identificarsi con il consiglio di sorveglianza nel caso in cui a questo sia attribuita la competenza a deliberare in ordine alle operazioni strategiche e ai piani industriali e finanziari della società di cui all'articolo 2409-terdecies, primo comma, lettera f-bis, e per tale ipotesi prevede che le competenze in parola siano assegnate ad un comitato costituito all’interno del consiglio di sorveglianza[14].

Nessun dubbio che il comitato controllo e rischi previsto dal Codice di autodisciplina costituisca un’articolazione della funzione gestoria. Pertanto, la soluzione di identificare nel collegio sindacale il comitato previsto dal decreto n. 39 sembra in grado -delineando una più chiara distribuzione delle competenze ispirata al principio della divisione tra funzione gestoria e funzione di controllo- di evitare alcune delle attuali commistioni di ruoli, e si rivela inoltre fondamentale anche sul piano della divisione delle responsabilità[15].

Le paventate interferenze tra il comitato in parola e quello costituito ai sensi dell’art. 7 del Codice di Autodisciplina devono pertanto essere escluse sulla base della differente natura dei due comitati, essendo il secondo,una mera articolazione interna dell’organo amministrativo, con compiti di supporto per il medesimo[16].

L’analisi dei dati normativi sembra mostrare, quindi, che il legislatore, nell’identificare il comitato in parola con il collegio sindacale ha effettuato una scelta coerente con il vigente sistema normativo, che ha poi stimolato molte delle riflessioni che stanno alla base dei rinnovamenti nel Codice.

Nel rinnovato articolo che si occupa del sistema di controllo, infatti, non pochi sono gli elementi che mostrano un opportuno ripensamento del ruolo dei soggetti a vario titolo ricompresi nel sistema di controllo interno.

Dal nuovo art. 7 traspare in filigrana il riposizionamento, circoscrivendolo all’ambito gestorio e alla assunzione delle decisioni ad esso relative, della funzione di controllo degli amministratori  e del comitato ora denominato “controllo e rischi”.

Anche se può sembrare di poco conto, tale non è la precisazione, aggiunta all’art. 7.P.3., secondo cui il sistema di controllo interno e gestione dei rischi “coinvolge ciascuno per le proprie competenze”, il consiglio di amministrazione, i singoli amministratori, la funzione di internal audit, gli altri ruoli e funzioni aziendali coinvolti ed il collegio sindacale.

Si tratta infatti di una indicazione che mostra un nuovo modo di approcciarsi ai controlli societari, nel cui ambito, a differenza di quanto è possibile evidenziare per il passato, quando tutto veniva confusamente ricondotto agli amministratori, è indispensabile distinguere ruoli, competenze e funzioni.

Significativa è sicuramente la precisazione dei compiti del comitato controllo e rischi, le cui funzioni sono circoscritte ad una attività di supporto all’attività decisionale del consiglio di amministrazione (art. 7.P.3.. lett. a, punto ii), e solo  a questa attività, come si evince con certezza dalla cancellazione dal vecchio art. 8.C.3., ora art. 7.C.2., dell’espresso riferimento ad ulteriori attività del comitato in parola e dalla nuova formulazione della raccomandazione che non lascia dubbi in proposito.

Per il collegio sindacale si ricorda il ruolo anche di “comitato per il controllo interno e la revisione contabile” e si riserva un ruolo di vigilanza, scelta terminologica alla quale sembra possibile attribuire un particolare significato nel disegno di una nuova architettura dei controlli interni.

Ma vi sono ulteriori indici che mostrano come i redattori del Codice abbiano opportunamente circoscritto il ruolo degli amministratori, anche quando si parla di controllo, ad un solo controllo di gestione. In tale senso inequivocabilmente depone il rinnovato punto a) dell’art. 7.C.1., ove si precisa che il consiglio di amministrazione nel definire le linee di indirizzo del sistema di controllo interno e di gestione dei rischi deve avere come criterio guida una gestione dell’impresa coerente con gli obiettivi strategici aziendali.

Per comprendere fino in fondo la portata innovativa dell’attuale versione del Codice è importante soffermarsi ed analizzare non solo le novità consistenti nell’introduzione di nuove raccomandazioni, e quindi sulle aggiunte alla precedente versione, ma risulta altrettanto fondamentale valutare le parti espunte. Ad alcune cancellature e mancate riproposizioni di formulazioni in precedenza presenti deve essere infatti attribuito un rilievo primario e fondamentale, perché anch’esse sono indicative di un nuovo paradigma in ambito dei controlli. Siffatta fondamentale portata sembra dover essere riconosciuta sicuramente alla eliminazione nel commento all’attuale art. 7  -già art. 8 nella precedente numerazione- innanzitutto del passaggio nel quale veniva sottolineata la centralità del consiglio di amministrazione in materia di controllo interno, e poi dell’avvertenza della necessità di coordinare l’attività del comitato con quella del collegio sindacale a causa della parziale coincidenza delle rispettivi ambiti di operatività. Tali mancate riproposizioni devono essere lette in uno con l’inserimento dell’espresso riconoscimento per il collegio sindacale di un ruolo di vertice del sistema di vigilanza di un emittente (commento all’art. 7).

La lettura combinata di questi due fondamentali passaggi del nuovo Codice ci dà la “cifra” del rinnovato paradigma sulla base del quale è stato rivisitato il Codice, reso evidente anche da talune scelte terminologiche; ripercorrendo infatti l’articolato del Codice, emerge un dato che non sembra affatto casuale, e che  ancora una volta mostra la mutata concezione sul sistema dei controlli che ha ispirato i redattori dell’edizione 2011, improntata ad una netta distinzione tra controlli intesi quali attività coessenziali a quelle di governo e controlli intesi nel senso di verifica di conformità. L’esame dei verbi utilizzati per descrivere le attività svolte dai vari protagonisti del sistema dei controlli evidenzia infatti che gli amministratori esaminano, approvano, deliberano, curano, definiscono, valutano ed informano; il comitato controllo e rischi analizza, esamina, monitora e valuta; il responsabile della funzione di internal audit verifica; e il collegio sindacale, oltre a verificare e informare, è l’unico protagonista dei controlli che vigila. Il termine vigilare è utilizzato esclusivamente in relazione all’attività del collegio sindacale.

 

 

4. – I punti deboli del Codice

 

4.1. – La necessità di migliorare i flussi informativi

 

Sembra che un sicuro profilo di “debolezza” del Codice, anche nella più recente versione, risieda nella scarna disciplina dei flussi informativi. È sì vero che all’art. 7.P.3. una nuova raccomandazione invita a prevedere modalità di coordinamento tra i vari soggetti coinvolti nel sistema di controllo interno, e che detto coordinamento deve trovare declinazione anche in punto di circolazione delle informazioni all’interno della società, e che nel commento all’art. 7 è presente l’avvertimento che occorre porre particolare attenzione sui flussi informativi generati dalla funzione di internal audit, rendendo noti gli esiti delle verifiche da questa compiute a tutte le componenti del sistema di controllo interno, ma è altrettanto vero che sarebbe stata opportuna una più analitica disciplina di tale profilo.

Anche l’indicazione contenuta nell’ultimo capoverso del commento all’art. 8, che raccomanda l’instaurazione di un costante scambio di informazioni tra il collegio sindacale e gli organi e le funzioni che operano nell’ambito dei controlli interni, è indubbiamente troppo generica, niente di più di una –seppur opportuna- dichiarazione di principio. Ma ciò di cui si avverte la necessità è la previsione di regole maggiormente analitiche, e non di vaghe e indefinite affermazioni di principio.

Invero, i flussi informativi rappresentano un fattore da cui nessun soggetto può prescindere per il corretto ed esauriente espletamento delle proprie funzioni[17].

Del resto che per una buona gestione sia necessaria la predisposizione di efficienti flussi informativi endosocietari è opinione ormai da tempo consolidata[18].

È quindi indispensabile che tutti i soggetti che operano nell’impresa possano contare su un continuo e completo flusso informativo[19]; flusso che deve essere calibrato con grande attenzione, perché si deve evitare di eccedere nel prevedere obblighi informativi, dal momento che l’eccesso di informazione può anche condurre ad un effetto opposto rispetto a quello voluto, e cioè alla disinformazione[20].

Dunque una critica che può essere certamente mossa alla nuova edizione del Codice è che si sarebbe dovuto e potuto fare di più in tema di circolazione delle informazioni. Certo, qualche intervento in tale direzione è stato fatto, come quello di cui all’art. 7.C.3.  che consente a tutti i sindaci, e non più al solo presidente del collegio sindacale come era per il passato, di partecipare alle riunioni del comitato controllo e rischi[21], così favorendo la conoscenza e l’informazione, ma, si ripete, era auspicabile un intervento più efficace.

Infatti, nel tessuto sistematico di doveri di collaborazione interorganica[22] delineato dal legislatore -snodo fondamentale per il corretto funzionamento della governance societaria- l’assolvimento dei compiti specifici di ciascun organo dipende spesso, invero, dalla cooperazione, anche e soprattutto in tema di trasferimento delle informazioni, di altri organi. Dunque un sistema di controllo interno che voglia essere efficiente ed efficace non può prescindere da adeguati flussi informativi[23].

Sarebbe stata pertanto opportuna la presenza di indicazioni di maggiore dettaglio, ed un maggiore coraggio nel percorrere la via, intrapresa sì, ma troppo timidamente,  dal Codice di Autodisciplina[24], come anche dal codice civile e dal T.u.f..[25], della formalizzazione e procedimentalizzazione dei processi attraverso i quali trova attuazione l’esigenza di un’informazione corretta.  Tale via, attraverso una puntuale disciplina dei tempi, delle forme, dei contenuti minimi,  è infatti in grado di dare maggiore forza ai controlli e di assicurarne una migliore efficacia[26].

 

4.2. – I rapporti interorganici

 

I flussi informativi costituiscono, però, solo una parte, sebbene fondamentale, del complicato e problematico assetto dei rapporti tra i vari attori del sistema di controllo interno. Numerosi sono infatti i soggetti che, fornendo tutte le informazioni necessarie per il sistema, devono attentamente cooperare tra di loro, soprattutto in quelle delicate ipotesi di coordinamento di funzioni e di compiti per lo svolgimento dei quali è prevista una competenza congiunta.

Non poche sono le ipotesi in cui è definibile un ordine di iniziativa e di azione tra i vari organi nel quale l’operato di uno di essi si pone quale prius logico ed essenziale per il compito successivo assegnato ad altro organo, che si trova quindi nell’impossibilità di procedere, o di procedere correttamente, nell’ipotesi di inerzia o mancata collaborazione del primo. Tra i vari organi si instaurano quindi delle vere e proprie relazioni giuridiche[27], per le quali però mancano disposizioni che ne descrivano e regolino le dinamiche di esercizio e di svolgimento[28].

Anche tale profilo è sicuramente deficitario nel Codice, che nel commento all’art. 7 si limita a raccomandare, al fine di assicurare efficacia al sistema di controllo interno, che  le sue varie componenti siano tra loro coordinate e interdipendenti e che il sistema, nel suo complesso, sia a sua volta integrato nel generale assetto organizzativo, amministrativo e contabile della società, e nel commento all’art. 8 raccomanda che il collegio sindacale operi in modo coordinato con gli organi di gestione.

Non mancano certo alcuni criteri generali che possono utilmente indirizzare la ricerca di soluzioni e regole per i cennati problemi di coordinamento. I rapporti in parola devono infatti, come è ovvio, ispirarsi alla collaborazione e alla cooperazione reciproca[29].  Giova inoltre precisare che si tratta di situazioni e rapporti tutti finalizzati e funzionali al soddisfacimento di interessi organizzativi della società.  Non può però sottacersi l’inadeguatezza delle disposizioni del Codice in materia.

È di piana evidenza infatti che il sistema di controllo interno, a causa di un certo disordine nella distribuzione delle competenze, delle possibili sovrapposizioni di funzioni, e della necessaria collaborazione che deve instaurarsi tra i vari organi, costituisce un ambiente ideale per l’insorgere di conflitti interorganici[30]; ipotesi al verificarsi delle quali, a causa delle difficoltà nel distinguere i doveri generate dalla vaghezza del tenore di alcune disposizioni e dalla mancanza di una puntuale procedimentalizzazione delle forme di cooperazione e collaborazione, non sarà facile appurare il reale contributo e il grado di colpevolezza di ciascun organo, con il dannoso effetto di disperdere le responsabilità.

Che fare dunque quando i rapporti di collaborazione degenerano in situazioni di conflitto?

È indispensabile individuare tecniche di composizione di tali conflitti che consentano di superare siffatti problemi in tempi che devono essere necessariamente rapidi, in linea con le istanze di efficacia e di efficienza dell’agire sociale, al fine di ridurre il più possibile gli effetti pregiudizievoli per la società.

Interessante modalità di risoluzione dei conflitti in parola è quella consistente nella proposta di promuovere una conversione dei medesimi in conflitti tra organo da una parte, e società dall’altra, con l’intento di poter quindi fare conseguentemente ricorso ai rimedi tipizzati dall’ordinamento corporativo per  fattispecie di questo tipo. Soluzione che tuttavia lascia lo spazio del dubbio anche da parte di chi l’ha formulata [31].

Si deve ricordare che a tal proposito la dottrina ha posto al vaglio anche la possibilità di promuovere la soluzione in sede giudiziale dei conflitti interorganici[32]. Tuttavia, a parte le numerose problematiche che una tale via implica (individuazione della riferibilità delle situazioni sostanziali, individuazione della legittimazione attiva e passiva, regime delle spese, etc.), questa soluzione sembra debba essere scartata in ragione dei ben noti tempi delle azioni in giudizio – e delle conseguenti situazioni di incertezza - che male si conciliano con la dinamicità connaturata all’agire imprenditoriale che troverebbe risposte più adeguate in meccanismi risolutori societari, e segnatamente assembleari[33]. In alcune ipotesi di conflitti interorganici, quali quelli che possono insorgere in relazione alle sovrapposizioni di funzioni, sembra infatti che l’assemblea potrebbe validamente funzionare quale istanza interna di composizione. Sarebbe quindi auspicabile, tanto nella redazione degli statuti, quanto in una prospettiva de jure condendo, una valorizzazione in tal senso dell’organo assembleare. Certo, se riferita a scelte di tipo gestorio, sulla base della disciplina vigente, siffatta configurazione del ruolo dell’assemblea potrebbe porsi in contrasto con quanto disposto dal primo comma dell’art. 2380-bis c.c. In ragione di tale preclusione,  in dottrina vi è chi ha ipotizzato per l’assemblea un ruolo <<debole>> di composizione dei conflitti interorganici estrinsecantesi non in una vera e propria decisione vincolante, bensì in una sorta di parere che i soggetti coinvolti nel conflitto sono liberi di seguire o meno, ma che può comunque agevolare la composizione del conflitto. Nessun ostacolo, invece, secondo la medesima dottrina, si frappone al riconoscimento di un ruolo  dell’assemblea quale valida guida per il superamento dei conflitti in materia di vigilanza[34].

Per le ragioni indicate parrebbe quindi opportuno  concentrare gli sforzi interpretativi al fine di avvalorare un più forte ruolo dell’assemblea, anche quale risolutore di conflittualità endosocietarie[35], per dare risposta alla sempre più pressante «esigenza di efficienza . . . e correttezza della gestione dell’impresa sociale[36]».

 

 

5. – Il ruolo marginale svolto dall’assemblea nel sistema dei controlli

 

In tutti gli scandali - italiani, europei e statunitensi - degli ultimi anni è possibile evidenziare il ruolo cruciale determinante e attivo svolto dai vertici societari: amministratori delegati, amministratori non esecutivi e amministratori indipendenti. Sembra altrettanto evidente che le criticità emerse con riferimento all’esercizio delle funzioni connesse a tali ruoli siano state certamente favorite, almeno in buona parte, dalla progressiva concentrazione di potere in mano agli amministratori delegati[37], iniziata già col codice del 1942[38]. L’altra faccia della medaglia di tale spostamento del potere decisionale è rappresentata, come ben noto, dalla crisi dell’assemblea[39], sempre più “dominata”, appunto,  dagli amministratori.

Già nel 1972 Giuseppe Ferri osservava come ad una struttura essenzialmente basata su una concezione democratica, e imperniata sulla preminenza dell’assemblea, si era ormai sostituita una struttura organizzativa basata su una concezione autocratica e <<imperniata sull’assoluta preminenza dell’organo amministrativo>>[40].  Considerazioni che non solo non sembrano aver perso di valore, ma che anzi appaiono oggi ancora più valide ed attuali, nonostante il passare del tempo ed il susseguirsi delle riforme.

Non sembra dubbio peraltro che siffatta situazione di squilibrio si riverberi inevitabilmente sul sistema dei controlli interni[41]; sistema che, in ragione degli interessi cui è preposto a fornire tutela, dovrebbe essere invece basato proprio sulla preminenza dell’organo assembleare. Infatti, con espressione tanto scontata quanto “brutale”, si può naturalmente osservare che la società è innanzitutto degli azionisti[42]. E dire azionisti vuol dire in primo luogo assemblea[43]. Ma si tratta di affermazione tutt’altro che scontata soprattutto allorché ci si muova in una prospettiva che tiene conto, in primis, del dato empirico.

Com’è a tutti noto, secondo l’impostazione più tradizionale l’assemblea, luogo di espressione della volontà sociale, costituirebbe il centro decisionale di vertice nella struttura organizzativa societaria, un centro che si pone in posizione sovraordinata[44] rispetto a tutti gli altri organi[45]. Un’assemblea che detiene l’interezza dei poteri sociali, ed è competente su ogni materia o affare sociale[46]. Nel corso dell’evoluzione socio-economica della società per azioni, soprattutto in conseguenza dell’affermarsi delle teoriche relative alla separazione tra proprietà e controllo, a fronte di un continuo rafforzarsi della posizione dell’organo gestorio si è registrato un corrispondente indebolimento del ruolo dell’assemblea[47]. Anche alcune delle più recenti riforme[48]  si sono mosse lungo questa risalente linea evolutiva (il pensiero va alla completa esclusione dalla funzione gestoria, ma anche alla possibilità di attribuire, per via statutaria, all’organo di amministrazione la competenza ad assumere decisioni già di competenza assembleare – ad es. attinenti alla struttura organizzativa della società -)[49].

La necessità di riportare al centro della vita della società l’assemblea[50] è tuttavia ribadita da tempo ed il relativo auspicio, se così si può dire, si rinviene già nel Rapporto che faceva da premessa alla prima edizione del Codice, ove si affermava  che è “interesse delle società quotate instaurare un dialogo continuativo con la generalità degli azionisti”.

In tale linea ricostruttiva, secondo la quale audit e controlli interni devono rappresentare pratiche di riduzione del rischio a favore del “principale”[51],  pare naturale  che i vari soggetti del sistema di controllo interno abbiano come principal l’assemblea e non gli amministratori[52]. Questi ultimi, in tale ruolo, si trovano infatti spesso in una situazione di conflitto di interessi[53]. Tale rinnovato ruolo dell’assemblea[54] sarebbe in linea con il nuovo modello di sistema dei controlli introdotto nel Codice 2011 che sottintende una nuova configurazione al rapporto principal-agent[55] nel sistema dei controlli[56].

I vari soggetti del sistema di controllo, secondo una più ordinata distribuzione delle competenze che riconduce il controllo all’interesse cui lo stesso deve fornire tutela, si dovrebbero rapportare, in ultima istanza, con l’assemblea dei soci[57]. In un sistema  così organizzato, l’assemblea potrebbe riacquistare  la sua originaria funzione di controllo interno, e si potrebbe risolvere il problema dato  dalla posizione di conflittualità degli amministratori, nello stesso tempo  oggetto del controllo e responsabili dello stesso[58].

Certo si è consapevoli del fatto che, per dimensioni e composizione, non è agevole ipotizzare un ruolo “attivo” dell’assemblea[59]. Si tratterebbe però di recuperare alla stessa quanto meno un ruolo di ultima istanza, con poteri di indirizzo che, in seno allo stesso organo, potrebbero essere svolti anche (o almeno) da un comitato ristretto di soci (un gruppo rappresentativo degli azionisti[60]) nominati dalla stessa assemblea al proprio interno. Tale comitato, pur conservando l’auspicato ordine e allineamento tra interessi tutelati e relativi poteri di controllo, potrebbe agire e operare con quella agilità che manca all’assemblea.

Sono del resto ben noti gli argomenti utilizzati dai detrattori dell’assemblea. Si dice che l’azionista è distratto, cioè privo di desiderio e interesse a partecipare alla vita sociale. L’azionista viene accusato di egoismo, in quanto non penserebbe che a se stesso, non preoccupandosi degli stakeholders.  Ulteriore profilo di criticità relativo alla posizione dell’azionista sarebbe la sua irresponsabilità, in quanto, a differenza degli amministratori, non è chiamato a rispondere del proprio operato. Infine, si dice che l’azionista è incapace, ovverosia privo delle informazioni e delle competenze tecniche necessarie per risolvere i complessi problemi dell’impresa sociale[61].

 La rappresentazione dell’azionista quale figura carica dei difetti e delle deficienze sopra ricordati ha avuto dunque come naturale corollario lo spostamento di tutto il potere in capo agli amministratori.

Secondo tale linea di pensiero, come è noto, la migliore tutela per l’azionista non consiste nell’esercizio di poteri endosocietari di voice, bensì nella c.d. Wall Street Rule, ossia nella possibilità di smobilizzare l’investimento, che è poi il filo conduttore della riforma del 2003[62].

A completare il quadro deve ricordarsi una solida fiducia nella funzione disciplinare del mercato di matrice marcatamente darwiniana; questa svolgerebbe un’azione di controllo sugli amministratori: se la società è gestita male e non vengono prodotti utili, il corso dei titoli scende fino al punto in cui si crea la convenienza ad acquistare il controllo, e quindi sostituire gli amministratori inefficienti.

 

5.1. – L’esigenza di un ripensamento del ruolo

 

Negli ultimi anni, soprattutto in occasione della riforma del 2003, non poche voci hanno offerto una lettura del ruolo svolto dall’assemblea nell’ambito dei rapporti endosocietari ben diversa da quella fin qui ricordata. Ciò soprattutto in una prospettiva volta a suggerire soluzioni che, de jure condendo, potessero valorizzare la voce degli azionisti, in particolare quelli di minoranza[63]: una valorizzazione che appare condivisibile e che sembra poter essere perseguita anche nella prospettiva dei controlli che in questa sede più ci sta a cuore. Giocano in tal senso non poche  considerazioni.

Da un lato si deve osservare che gli insuccessi e i fallimenti in precedenza ricordati sembrano però smentire l’esistenza, o almeno il corretto funzionamento della funzione disciplinare svolta dal mercato. Con frequenza inquietante si è infatti assistito ad improvvise implosioni di realtà societarie che fino ad un attimo prima di collassare presentavano corsi azionari che non solo non mostravano indici rivelatori di criticità ma, anzi, venivano premiati dal mercato e indicati dallo stesso come modelli per tutti gli altri.

Pertanto, quando gli investitori hanno avuto segnali che potevano suggerire una strategia di smobilizzazione dell’investimento, di quest’ultimo rimaneva ben poco, e quindi l’exit non era praticabile –per l’impossibilità di trovare compratori - o lo era a condizioni rovinose[64].

Da altro lato, e con specifico riferimento alle accuse solitamente rivolte all’azionista, appare doveroso ricordare che la dottrina ha puntualmente neutralizzato le motivazioni che ne son state fornite. Innanzitutto non sembra condivisibile l’accusa volta a rappresentare l’egoismo dell’azionista. L’egoismo, infatti, è stato giustamente osservato, lungi dall’essere un vizio, in tale situazione costituisce invece valida garanzia che l’attività sociale sarà indirizzata al profitto[65]. Dunque nel migliore dei casi si tratta di accusa o comunque di rilievo che appare inconferente.

Allo stesso modo non convince l’accusa di irresponsabilità, se è vero, come sembra innegabile, che i primi a risentire dell’andamento della società sono gli azionisti[66].

Quanto alle accuse di incompetenza e di disinteresse mette conto rilevare, innanzitutto, il mutamento di scenario creato dalle possibilità offerte dai recenti sviluppi tecnologici che agevolano enormemente tanto la possibilità di diffondere, quanto quella di acquisire informazioni, nonché le agevolazioni in relazione alle modalità di incontro e confronto. In tale scenario il più importante cambiamento è dato naturalmente dalla sempre più rilevante presenza degli investitori istituzionali dei quali non è possibile non tener presenti il ruolo e le modalità del coinvolgimento nell’attività deliberativa[67]. La tesi del disinteresse degli azionisti, è stato giustamente affermato, si fonda su indebite generalizzazioni di situazioni limite proprie di ordinamenti altri rispetto a quelli continentali, mentre nel nostro sistema è frequente la presenza di un certo numero di azionisti di rilievo, estranei al gruppo di comando, interessati alla gestione della società[68].

Ebbene, per questi la strategia dell’exit[69] non si presenta semplice come potrebbe sembrare. Invero, costituisce una dato incontestabile che la liquidità di un investimento è inversamente proporzionale alla sua entità.

Ma l’exit degli investitori istituzionali presenta ulteriori complicazioni che hanno portato la dottrina ad evocare il modello del dilemma del prigioniero: la mala gestio di una società dovrebbe suggerire la smobilizzazione dell’investimento, ma se ciò viene fatto da tutti gli investitori istituzionali l’exit avrebbe effetti disastrosi[70].

L’investitore istituzionale, quindi, tutt’altro che disinteressato e incompetente a far sentire la sua voice, ben difficilmente praticherà una linea di azione qualificabile, secondo una ben nota teoria, come apatia razionale.

Si deve quindi ristabilire un rapporto diretto principal-agent tra assemblea e preposti al controllo interno[71].

Tutto ciò comporta, in conseguenza, la necessità di una rimodulazione dei flussi informativi. Occorrerà infatti dotare l’assemblea di tutti gli strumenti di conoscenza necessari per svolgere il proprio ruolo[72].

Nell’ottica di un ripensamento dell’intero sistema dei controlli si deve tuttavia ancora una volta ricordare che lo scenario normativo è per molti versi asfittico nel senso che, come spesso è stato fatto notare, il mondo dei controlli appare oggi più come un «reticolo», che come un vero e proprio sistema[73]. Un coacervo di regole per le quali[74], si è detto, «è dubbio che esse siano a valle di scelte di sistema»[75]. Certamente, a monte vi sono interventi legislativi tra loro non collegati, ed introdotti nell’ordinamento senza troppa cura del contesto nel quale andavano ad inserirsi.

Il problema principale per gli operatori è, quindi, quello di come coordinare l’intero meccanismo dei controlli[76].

Un’opera di coordinamento e di ricostruzione del sistema per la quale non sembra sufficiente il solo lavoro degli interpreti, ma si rende necessario un intervento del legislatore con l’introduzione di misure che favoriscano una evoluzione del sistema da una mera sommatoria di controlli ad un vero sistema di controllo.

D’altra parte, la considerazione che quasi nessuno dei vari scandali societari degli ultimi anni sia stato scoperto dai soggetti specificamente incaricati del controllo  sulle aree interessate dai problemi[77] induce inevitabilmente a ritenere che sia necessario ripensare ruoli e responsabilità.

L’attuale confusione relativa ai centri di competenza  e al coordinamento tra organi, con la conseguente impossibilità di ricostruire con precisione le varie fasi in cui si articola il controllo, determina una dispersione dei momenti di responsabilità. Dunque, una precisa definizione e separazione delle competenze ridurrebbe sicuramente tali problemi e darebbe, di conseguenza, maggiori garanzie di efficacia dell’azione dei controllori.

Verosimilmente, il sistema dei controlli guadagnerebbe in efficienza ed efficacia se si desse attuazione all’idea di spostare le responsabilità verso i reali centri di svolgimento delle operazioni, creando così un policentrismo di compiti e relative responsabilità.

In altre parole, il sistema di controllo dovrebbe essere configurato come una “rete”[78] di controllo, che “filtra” e “cattura” le criticità, ossia un modello organizzativo/operativo caratterizzato da una struttura data dall’interconnessione tra nodi legati da un rapporto di interdipendenza e cooperazione.

Un siffatto insieme di entità – organi e persone - interconnesse le une alle altre, ciascuna responsabile per l’area di propria competenza, qualificato da una precisa delimitazione delle competenze di ciascuna entità/nodo, con la conseguente possibilità di effettuare una precisa individuazione delle relative responsabilità, dovrebbe garantire una maggiore responsabilizzazione delle varie funzioni e quindi una maggiore efficienza delle stesse[79]. Inoltre, in un sistema così costruito, caratterizzato dalla segmentazione delle relazioni, risulterebbe sicuramente più agevole ordinare e canalizzare efficacemente le informazioni e farle circolare secondo regole ben precise.

Un sistema dei controlli così strutturato e organizzato  dovrebbe produrre le sinergie tipiche di un sistema policentrico, verso il quale sembra auspicabile evolva l’organizzazione societaria dei controlli, rilevato che, nel recente passato, gli organi di controllo che avevano funzioni più accentrate non hanno dato risultati positivi[80]. Un modello che, invero,  sembra adombrato nel nuovo Codice, nel cui commento all’art. 7 è contenuto l’auspicio che il sistema evolva verso una “integrazione” che presuppone un coordinamento e una interdipendenza tra le sue componenti, e che sembra pertanto evocare l’auspicato schema organizzativo.

Un sistema dei controlli ispirato al policentrismo delle funzioni, nel quale ogni “nodo” della rete sia dotato della necessaria autonomia e di poteri e strumenti adeguati, sembrerebbe inoltre in grado di attenuare il problema della prevalenza dei controlli cc.dd. indiretti su quelli diretti[81]. Laddove, diversamente, la concentrazione del potere conduce ad una crescita esponenziale del rischio. L’inefficienza di un solo organo o di una sola funzione rischia infatti di avere conseguenze catastrofiche per la società. Invero, alcuni degli attori del sistema di controllo interno - Collegio sindacale, Audit Committee/Comitato controllo e rischi e Organismo di vigilanza – si trovano in concreto a dipendere, sotto il profilo operativo, dalla sola funzione di internal audit e/o dal responsabile della medesima[82].

Per una piena operatività dell’idea di rete dei controlli, al fine di garantirne l’efficienza, si rende necessario individuare gli organi cui attribuire la funzione di coordinamento operativo e quella di risolutore di eventuali conflitti interorganici.

La prima delle due funzioni dovrebbe essere affidata, sulla base della distinzione in precedenza analizzata tra controlli di impresa e controlli societari, rispettivamente al consiglio di amministrazione o al collegio sindacale a seconda appunto del tipo di controllo svolto.

Alla seconda delle due funzioni sopra ricordate dovrebbe essere deputata, in ragione del nuovo rapporto di agenzia ipotizzato in precedenza, l’assemblea, o ad un ristretto gruppo di azionisti[83].

In questa rete dei controlli, l’assemblea dovrebbe quindi assumere un ruolo centrale di coordinamento, indirizzo, supervisione globale e di risoluzione di eventuali situazioni di impasse. Un vero e proprio “baricentro” del sistema dei controlli che, espressione del necessario allineamento tra interessi tutelati dal controllo e controllori, sembra in grado di superare le incongruenze di una configurazione che riconosce rilievo primario all’organo amministrativo e di riportare in equilibrio un sistema costruito nel tempo su scelte appunto contraddittorie.

L’auspicato nuovo ruolo per l’assemblea si mostra infatti come una condizione indispensabile per passare dall’attuale sommatoria di controlli ad un sistema in grado di operare quella sintesi tra elementi [84] in grado incrementare efficienza e valore degli stessi.

 

 

6. – Gli amministratori indipendenti

 

Da sempre, uno dei caratteri distintivi del codice di autodisciplina è rappresentato dall’istituto degli amministratori indipendenti, che negli ultimi anni ha avuto una affermazione crescente nell’evoluzione della governance societaria.

La presenza nel consiglio di amministrazione di membri indipendenti si inserisce in una nuova concezione dell’organo amministrativo secondo la quale si è passati dall’idea di un <<consiglio che gestisce>> (managing board) a quella di un <<consiglio che controlla>> (monitoring board)[85], nell’ambito del quale si ritiene che la presenza di consiglieri indipendenti sia in grado di mettere in discussione le decisioni dei managers, e quindi meglio tutelare gli interessi degli azionisti e degli stakeholders.

Il problema di fondo dell’istituto, nel nostro ordinamento, sta nella necessità di capire se agli amministratori indipendenti possa essere attribuita una funzione specifica e un ruolo autonomo rispetto agli amministratori non delegati, in uno scenario caratterizzato da società i cui assetti proprietari presentano problematiche di governance sicuramente diverse da quelle proprie delle società diffuse nel mondo anglosassone dove esso ha avuto origine. Nel nostro paese sono infatti molto diffusi assetti di controllo a carattere prevalentemente familiare[86].

Una prima risposta a detto interrogativo si trova accennata già nel Codice di Autodiscplina, ove al commento all’art. 3 si osserva che negli emittenti con proprietà concentrata, o nei quali sia comunque individuabile un gruppo di controllo, gli amministratori indipendenti rispondono all’esigenza di avere alcuni amministratori che siano indipendenti, appunto, dagli azionisti di controllo o che comunque esercitano un’influenza dominante.

Tanto la constatazione degli insuccessi accumulatisi nelle realtà operative nelle quali si sono verificati clamorosi scandali societari, quanto le difficoltà incontrate nell’individuazione, già su un piano generale e astratto, di una definizione di indipendenza, e nella precisazione dei suoi caratteri essenziali, portano a ritenere che la figura dell’amministratore indipendente, così come è stata fino ad oggi concepita e vissuta nella realtà operativa, debba essere ripensata.

  Invero, l’esperienza ci ha mostrato che l’istituto non ha funzionato (gli esempi più rappresentativi sono quelli della società Enron, che presentava 11 amministratori indipendenti su un totale di 13, e dell’italiana Parmalat, i cui amministratori indipendenti erano tutti chiaramente riconducibili e legati all’azionista di controllo) e che la radice del malfunzionamento possa, almeno in parte, essere individuata nella duplicità di ruoli rivestiti dagli amministratori.

 Innanzitutto non sembra dubbio che la stessa commistione che deriva dal fare parte dello stesso organo non sia certamente funzionale ai compiti di controllo-vigilanza[87]. La “prossimità” di ruoli appare in effetti come una delle cause che hanno condotto a risultati decisamente insoddisfacenti, e sembrerebbe pertanto opportuno separare nettamente funzioni e responsabilità degli stessi dall’oggetto del controllo.

Non è possibile inoltre non condividere la considerazione che l’indipendenza, e quindi la libertà di giudizio, è elemento che afferisce, in primo luogo, alla sfera interiore dell’individuo, alla sua coscienza e al suo più interno sentire, laddove l’attuale configurazione normativa del relativo requisito non sembra valorizzare tali aspetti, concentrandosi piuttosto su dati esteriori  che non colgono il vero valore dell’indipendenza[88].

Dunque, più che di una tipizzazione di ipotesi di presunta e verosimile mancanza di indipendenza, si avverte il bisogno di strumenti di verifica dell’agire indipendente che consentano di superare le problematiche situazioni di conflitto generate dal particolare rapporto tra le parti e gli incarichi ricoperti.

C’è da dire allora che quella vissuta nella prassi è stata indubbiamente una versione “distorta” dell’istituto[89], utilizzato più che altro come una “certificazione”, una “patente” di legittimità, e forse anche come una sorta di maquillage per la corporate governance[90]. Questo concentrarsi su aspetti meramente formali, relativi a fattori tutti riconducibili all’esteriorità, ha in conseguenza svilito l’istituto collocandolo in una dimensione ben lontana dalle esigenze concrete che ne hanno motivato l’introduzione, e non ne ha consentito il corretto operare.

Sembra finanche superfluo allora sottolineare quanto sia auspicabile un deciso revirement, tanto in sede di disciplina quanto in sede di relativa interpretazione, che ne valorizzi la vera funzione e ne sviluppi le potenzialità[91]. 

In questa prospettiva di ripensamento dell’istituto non si dovrebbe poi insistere nell’errore  di riporre eccessive aspettative sull’apporto degli amministratori indipendenti. Essi infatti non potrebbero giammai essere in grado, da soli, di risolvere le inefficienze e gli insuccessi del sistema dei controlli, dovendo piuttosto essere considerati come uno dei “momenti” del sistema nell’ambito del quale sono chiamati a dare un contributo, si spera significativo[92].

Altro aspetto su cui sembra necessario riflettere è l’esistenza di due “specie” di indipendenza. Infatti, nel  Codice il carattere dell’indipendenza degli amministratori è declinato con caratteri parzialmente diversi da quelli previsti dall’art. 148, co.3 del T.u.f. Una differenza che porta a chiedersi se sia opportuno un allineamento tra i due criteri o se, invece, si tratta di una distinzione che ha un senso e che è bene conservare.

Ma in che modo si differenziano i due canoni di indipendenza?

Le norme del T.u.f. individuano una serie tassativa di ipotesi che fanno riferimento a rapporti personali o professionali al sussistere dei quali scatta una presunzione di non indipendenza.

Le norme del Codice, pur contenendo anch’esse la previsione che gli amministratori per poter essere qualificati indipendenti non devono intrattenere, né avere di recente intrattenuto, neppure indirettamente, con l’emittente o con soggetti ad essa legati, relazioni tali da condizionarne attualmente l’autonomia di giudizio, contengono qualcosa in più, e non solo perché indicano una casistica –non tassativa-  più ricca. Il quid pluris dell’indipendenza da Codice attiene al profilo qualitativo dell’individuazione della fattispecie; difatti, l’art. 3.C.1., con un passaggio di non poco momento,  stabilisce che il consiglio di amministrazione, nel valutare l’indipendenza dei propri componenti, deve avere riguardo più alla sostanza che alla forma.

In estrema sintesi, si può dire che per il Codice, sebbene alcuni indici esteriori e formali -quali l’esistenza di ruoli esecutivi e di significative relazioni commerciali , finanziarie o professionali con la società, i suoi esponenti di rilievo, i suoi azionisti di controllo o quelli in grado di esercitare un’influenza dominante[93]- comportano l’esclusione del requisito dell’indipendenza, l’essenza della nozione di quest’ultima  risiede non in dati formali relativi a situazioni di fatto, bensì in una valutazione di tipo funzionale sullo svolgimento del ruolo[94].

Di sicuro, l’individuazione dei requisiti di indipendenza costituisce un compito molto arduo[95]. Ogni scelta rischia infatti di essere over-inclusive o under-inclusive, <<perché ci sarà sempre qualche amministratore sostanzialmente indipendente ma privo dei requisiti formali che lo qualifichino tale e, viceversa, qualche altro amministratore formalmente indipendente ma non realmente tale nei comportamenti effettivi>>[96].

La nozione del Codice, essendo meno legata al dato formale, e riconoscendo rilievo preminente alla sostanza, sembra meglio interpretare il difficile concetto di indipendenza, e costituisce un modello di disciplina più avanzato che dovrebbe poter guidare il legislatore per il futuro. Anche in questo caso quindi il Codice svolge egregiamente quella funzione sua propria di sperimentazione di soluzioni di avanguardia che, una volta raggiunto un adeguato clima culturale di condivisione, possono essere trasfuse nella legge statale[97].

 

 

7. – L’adesione al Codice: alcuni dati

 

L’efficacia del Codice e la sua capacità di avere un impatto sulla realtà organizzativa delle società sono diretta funzione del livello di applicazione delle sue disposizioni da parte delle società.

Oggi come ieri l’adesione al Codice può avvenire secondo diverse modalità. Com’è noto, è possibile effettuare una trasposizione delle previsioni del Codice nello statuto della società, come anche adottare atti formali, quali ad esempio regolamenti interni oppure, ancora, realizzare un adeguamento nei fatti, attraverso una prassi operativa, non formalizzata, in linea con le regole autodisciplinari. La diversa modalità di adeguamento da seguire è naturalmente legata anche al tipo di previsione del Codice. Alcune di queste (si pensi all’istituzione dei vari comitati), infatti, si prestano ad essere tradotte in atti formali, per altre (come, ad esempio, per il dovere degli amministratori di avere come obiettivo prioritario la creazione di valore per gli azionisti) di contro, sarà più funzionale un adeguamento solo nella prassi operativa, senza necessità di formalizzazioni di sorta[98].

Ripercorrendo a grandi linee il processo di adeguamento da parte degli emittenti, si può rilevare che esso ha iniziato a raggiungere un buon grado di effettività dopo qualche anno dalla introduzione del Codice, e più precisamente negli anni 2002-2003.

La risposta più pronta è stata quella offerta dalle società del listino MIB 30 e del MIDEX, ma anche per le società quotate sul segmento STAR e sul Nuovo Mercato, spinte dai relativi regolamenti di Borsa, si può riscontrare un rapido processo di adeguamento al Codice.

Il livello di adesione formale al Codice è attualmente altissimo; ben 249 società, rappresentanti quindi il 95% del totale, hanno fatto tale scelta. Tra le società appartenenti all’indice FTSE Mib la percentuale arriva al 100%[99].

Il comitato per il controllo interno (ancora così denominato nelle relazioni relative all’anno 2011, e che per il futuro prenderà il nome di comitato controllo e rischi) è stato istituito nel 89,7% delle società (100% delle società del listino FTSE Mib). Nel 97% dei casi (229 società su 235) è seguita la raccomandazione che il comitato sia composto esclusivamente da amministratori non esecutivi, mentre la raccomandazione che questi siano in maggioranza indipendenti è seguita nel 93% dei casi[100] (218 società).

È in continua crescita il numero delle società che fornisce informazioni sui compiti effettivamente svolti dal comitato per il controllo interno (81% nel 2011, 76% nel 2010, 69% nel 2009, 67% nel 2008, 57% nel 2007, 59% nel 2006).

Molto elevata -80,2%- è anche la percentuale relativa alla istituzione, così come raccomandato dal Codice,  di una funzione di internal audit. Anche in relazione a tale ultimo dato si può osservare una continua crescita dell’adesione (76,5 % nel 2010, 73,1 % nel 2009 e 72,9 % nel 2008).

L’esistenza di casi nei quali le società decidono non seguire  le raccomandazioni del Codice, determinando quindi degli scostamenti da una totale adesione, non deve essere valutata negativamente. Anzi, se contenuta entro limiti “fisiologici”, costituisce indice di una adesione al Codice non meramente formale e frutto di una decisione  ragionata e non superficiale. È infatti inevitabile che vi siano realtà nelle quali si verificano condizioni tali da rendere inopportuna una adesione al Codice, e privilegiare peculiari e diversi assetti organizzativi.

Va segnalato inoltre che le norme in precedenza ricordate, e in particolar modo l’art. 123-bis del T.u.f.,  hanno avuto l’effetto di portare la totalità delle società quotate ad offrire un buon livello di disclosure su taluni aspetti fondamentali del loro modello di governo societario[101].

Qualche considerazione deve inoltre tener presente quelli che sono i limiti del Codice. Non sembra dubbio infatti che la linea di confine della utilizzabilità dell’autodisciplina deve essere tracciata lungo il “territorio” degli interessi dei soggetti coinvolti dagli effetti dalle disposizioni autoregolamentari.

Si deve infatti ritenere che l’autoregolamentazione sia un valido metodo di regolazione allorquando i valori e gli interessi in gioco sino tutti riconducibili entro la sfera del soggetto che detta le regole. Tutte le volte in cui, invece, l’area degli interessi oggetto di regolamentazione si estenda oltre, coinvolgendo posizione altre e distinte, se non addirittura contrastanti rispetto a quelle del regolatore, si dovrà pervenire all’opposta conclusione. La disciplina di interessi plurimi deve essere infatti affidata ad un soggetto che rappresenti le istanze di tutti i soggetti coinvolti, e non soltanto di una di esse, al fine di evitare una regolamentazione unilateralmente ispirata.

Essendo frutto dell’autonomia privata, il Codice quindi giustamente si concentra su aspetti dell’organizzazione corporativa relativi alla gestione e al controllo, e lascia a regole di rango superiore la disciplina di materie che incidono più direttamente su una serie composita di interessi. Non appare infatti accettabile che la regolamentazione pubblica abdichi alla possibilità di regolare quei tipi di controllo cc.dd. societari, riconducibili a posizioni e interessi che potrebbero configgere con quelli del gruppo di comando e dei managers.  In tali ambiti l’autodisciplina può trovare applicazione, in necessario coordinamento con le di disposizioni di rango superiore, soltanto per aumentare il livello minimo di tutela da queste ultime garantito.

Con tutta evidenza, se così non fosse, e se gli effetti delle disposizioni si dovessero riverberare anche su soggetti ulteriori, si sconfinerebbe in una non accettabile eteroregolazione. È invece bene che venga sempre conservato il carattere riflessivo della regolazione, garantito anche dalla sola adesione volontaria alla regola, sebbene non vi sia stata partecipazione al momento genetico della medesima.

Così individuati i confini dello strumento autoregolamentare, non può non notarsi come non manchino nel Codice valide applicazioni di essi. Sicuramente, in ambito di disciplina dei flussi informativi tra organi delegati e consiglio di amministrazione. Un raffronto tra quanto disposto in materia dall’art. 2381 c.c. e le raccomandazioni contenute nell’art. 1.C.1. dell’articolato autodisciplinare mostra come  quest’ultimo detti tempi molto più serrati, tre mesi in luogo di sei, così migliorando sicuramente la cadenza dei report informativi rispetto al livello minimo già stabilito dalla legge.

Positive sono anche le recenti aggiunte (art. 1.C.5. e commento art. 1) che, in tema di informativa preconsiliare,  non si limitano a dire quanto già statuito dal primo comma dell’art. 2381 c.c. ma, sempre  in attuazione della funzione propria di un codice di autodisciplina, si occupano di fornire maggiore dettaglio e garanzie, nel caso di specie aggiungendo l’importante  elemento del congruo anticipo e della tempestività e completezza con cui la documentazione relativa agli argomenti all’ordine del giorno deve  essere portata a conoscenza degli amministratori e dei sindaci.

Analoghe riflessioni possono essere svolte in relazione all’invito, rivolto al consiglio di amministrazione, contenuto nel commento all’art. 1, a formulare le deleghe in modo tale da non risultare di fatto spogliato delle proprie prerogative. Esortazione  che dice sicuramente qualcosa di più e di diverso da quanto già stabilito dall’art. 2381 c.c. in materia di delega delle funzioni.

 Apprezzabile per il contributo a specificare e migliorare la disciplina già posta a livello generale è anche la raccomandazione di cui all’art. 8.C.3., a mente della quale il sindaco che, per conto proprio o di terzi, abbia un interesse in una determinata operazione dell’emittente informa tempestivamente e in modo esauriente gli altri sindaci e il presidente del consiglio di amministrazione circa natura, termini, origine e portata del proprio interesse

 

 

8. – Qualche considerazione finale

 

Dopo poco più di un decennio dalla sua introduzione, il Codice sembra essere entrato in una nuova e più matura fase, grazie anche ovviamente all’esperienza fino ad oggi compiuta.

Un’esperienza che ha contribuito a fare chiarezza sul ruolo che deve essergli riconosciuto, sui confini del suo operare,  e sul tipo di apporto che da esso ci si può aspettare.

Indubbiamente, per quanto il giudizio complessivo sulla nuova edizione del Codice non possa che essere positivo, non mancano però alcuni aspetti che ancora suscitano qualche perplessità.

Sembra infatti sicuramente suscettibile di miglioramento la composizione del comitato che, monitorando costantemente la realtà normativa nazionale e internazionale, e le best practices aziendali,  deve elaborare gli aggiornamenti al Codice. Per quanto infatti detto comitato non manchi di autorevolezza[102],  è però auspicabile che  in esso trovino maggiore spazio rappresentanti delle altre constituencies coinvolte, quali sicuramente studiosi, investitori istituzionali, e figure rappresentative di quel mercato cui il Codice è diretto. 

Ancora, non possono essere ritenute pienamente soddisfacenti tutte quelle raccomandazioni del Codice dal contenuto decisamente vago, come quella dell’art. 1.P.1., che raccomanda che il consiglio di amministrazione si riunisca con “regolare cadenza”, o quella dell’art. 3.P.1. che suggerisce che il numero degli amministratori indipendenti sia “adeguato”. È infatti auspicabile che il Codice dia indicazioni più precise, e, per il vero, su questa linea hanno iniziato ad operare i redattori dell’edizione 2011, aggiungendo, in relazione all’ultima ipotesi ricordata, alcune opportune specificazioni[103].

Nell’ottica dello sviluppo futuro del Codice è auspicabile quindi che si prosegua sulla già intrapresa linea di dare un maggiore grado di specificazione a quelle raccomandazioni troppo vaghe e generiche, ed è anche auspicabile che vengano espunte quelle troppo ovvie e scontate[104] che rischiano di far scadere nel banale anche le indicazioni più importanti e innovative.

Le cennate critiche non sono tali però da revocare in dubbio l’evidente portata innovativa del Codice che si segnala per una nuova impostazione in tema di controlli indice di una acquisita consapevolezza tanto delle necessarie partizioni della funzione di controllo quanto delle conseguenti attribuzioni di ruoli.  

Il contributo che l’autoregolamentazione può dare allo sviluppo di una corporate governance è sicuramente importante, a condizione infatti di individuarne con precisione l’ambito di operatività. Una piena valorizzazione delle potenzialità insite nello strumento autoregolamentare dipende dunque dalla capacità che si ha di individuare il ruolo che essa può egregiamente svolgere, evitando di caricarla di compiti e aspettative per i quali si rivelerebbe inadeguata.

Essendo l’adesione al Codice scelta che attiene all’esercizio della libertà di iniziativa economica, ad esso non è possibile affidare la disciplina di diritti non comprimibili, la quale deve essere necessariamente posta dal legislatore statale, ed in relazione alla quale il Codice si può occupare di dare una disciplina puntuale e accurata a quegli ambiti nei quali il legislatore non può che dettare una disciplina generale, come quello appunto della gestione delle società, al fine di favorirne efficacia ed efficienza. In altri termini, è opportuno che vi sia una relazione di complementarietà tra legge e Codice; dove arriva il diritto societario, è bene che non si sovrapponga l’autoregolamentazione; dove invece la prima non riesce o non può arrivare, è bene che la seconda sia presente[105]. L’ambito di elezione del Codice, quello in relazione al quale gode di maggiore spazio di manovra, è quindi quello lasciato libero dal regolatore primario.  Quando invece esso va a disciplinare interessi che devono essere ritenuti incomprimibili, troverà un limite nella normativa statale e dovrà necessariamente coordinarsi con essa, potendo non diminuire, ma soltanto elevare il livello di tutela da quest’ultima posto.

Il Codice può e deve quindi innanzitutto occuparsi della disciplina del funzionamento dell’organo amministrativo[106]; in esso quindi ci si deve aspettare di trovare una regolamentazione che miri a colmare le lacune della legislazione in tema di doveri degli amministratori, funzionamento del consiglio di amministrazione e rapporti di questo con i soci, ponendosi quale benchmark al quale le società quotate devono fare riferimento nelle loro operazioni di disclosure, e quale riferimento che può avere grande rilievo nelle decisioni degli investitori[107].

La via per trovare una soluzione al problema dell’individuazione del ruolo che deve essere attribuito all’autodisciplina richiede innanzitutto di liberare il polisenso termine controllo dalla ambiguità che lo caratterizza.

A tal proposito, non può non rilevarsi che l’edizione del 2011 si caratterizza, positivamente, per un rinnovato modo di interpretare la funzione di controllo, che si spera possa col tempo contribuire a formare una nuova “cultura” in subiecta materia. Sono infatti numerosi gli indici che mostrano una inversione di tendenza di non poco momento in punto di distribuzione delle funzioni di controllo. Mentre fino ad un recente passato anche il Codice aveva seguito la tendenza a concentrare sempre più in capo agli amministratori anche le funzioni di controllo-vigilanza, l’edizione ultima del Codice sembra ispirata alla diversa logica di ben distinguere tra attività che hanno natura di governo e attività che hanno natura di vigilanza, attribuendo la responsabilità delle prime all’organo di gestione e quella delle seconde all’organo di vigilanza[108].

Una ripartizione delle competenze che è indice di una nuova lettura del sistema dei controlli, ispirato a rinnovati schemi logici che consentono, con maggiore chiarezza rispetto al passato, una interpretazione della collocazione e del ruolo svolto all’interno di tali organi dai diversi comitati dei quali fino a ieri non poteva dirsi del tutto chiara la funzione.

La consapevolezza dell’importanza dei profili funzionali è ciò che sembra fare la differenza rispetto agli schemi del passato, e ciò di cui l’interprete da oggi in poi non potrà non giovarsi.

In definitiva sembra proprio che  i redattori della più recente edizione del Codice abbiano al meglio interpretato l’importanza e i limiti della funzione che può essere assolta dal Codice, valorizzandone le sicure potenzialità. 

 

 



 

[1] L’adesione ai nuovi principi relativi alla composizione del consiglio di amministrazione e dei comitati interni e a quelli relativi al lead indipendent director  è raccomandata a decorrere dal primo rinnovo del consiglio di amministrazione successivo alla fine dell’esercizio iniziato nel 2011, mentre la raccomandazione riguardante il numero degli amministratori indipendenti dal primo rinnovo del consiglio di amministrazione successivo alla fine dell’esercizio che inizia nel 2012.

 

[2] Stabilisce l’art. 16 del d.lg. 39/2010 che sono “enti di interesse pubblico”: le società quotate, le società che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio, le imprese di assicurazione, le banche, le società di gestione dei mercati regolamentati, le società che gestiscono i sistemi di compensazione e di garanzia, le società di gestione accentrata degli strumenti finanziari, le società di intermediazione mobiliare, le società di gestione del risparmio, le società di investimento a capitale variabile.

 

[3] Al tempo in cui la SOX fu emanata, le società italiane quotate negli USA chiesero alla SEC, ed ottennero, che non fosse loro imposta l’istituzione dell’Audit Committee, in quanto questo comitato è estraneo al modello tradizionale di governo delle società italiane e, nella sostanza, i compiti di controllo previsti per questo comitato sono già svolti -per le società che aderiscono al codice di autodisciplina delle società quotate- dal collegio sindacale e dal comitato per il controllo interno istituito nel cda.

 

[4] L’art. 19 del d.lg. 39/2010 prevede che il comitato per il controllo interno e la revisione contabile si identifica, nelle società che adottano il sistema di amministrazione e controllo di tipo tradizionale, con il collegio sindacale.

 

[5] R. Sabbatini, Controlli societarî a rischio cortocircuito, in Sole 24 ore - Finanza & Mercati, giovedì 26 novembre 2009– N. 326, p. 47. 

 

[6] Assonime, Osservazioni sullo schema di decreto legislativo in materia di revisione legale dei conti (consultato dal sito http://www.assonime.it).

 

[7] Come si desume dall’art. 2381 c.c. ai sensi del quale il consiglio di amministrazione “(s)ulla base delle informazioni ricevute valuta l’adeguatezza dell’assetto organizzativo, amministrativo e contabile della società” (co.3, secondo periodo).

 

[8] Art. 7 del Codice di autodisciplina.

 

[9] Legge n. 262 del 28 dicembre 2005 (c.d. legge risparmio) e successivo decreto correttivo n. 303 del 29 dicembre 2006.

 

[10] Più precisamente, rappresentano quella parte orientata a soddisfare lo specifico obiettivo dell’attendibilità dell’informativa finanziaria resa pubblica da parte delle società

 

[11] Qui di seguito la riformulazione della norma proposta da Assonime:

Rubrica della norma: “Controllo interno e revisione contabile”

Comma 1 “Negli enti di interesse pubblico sono affidati al collegio sindacale ovvero a un comitato composto da membri non esecutivi del consiglio di amministrazione, attraverso un’apposita previsione statutaria, i compiti di vigilare su: a) il processo di informativa finanziaria; b) l’efficacia dei sistemi di controllo interno, di revisione interna, se applicabile, e di gestione del rischio; c) la revisione legale del bilancio d’esercizio e del bilancio consolidato; d) l’indipendenza del revisore legale, in particolare per quanto concerne la prestazione di servizi non di revisione all’ente sottoposto alla revisione legale dei conti. In assenza di una specifica previsione statutaria, i compiti spettano al collegio sindacale.” Comma 2 “Negli enti di interesse pubblico che adottano il sistema di amministrazione e controllo dualistico, i compiti di cui al comma 1 sono esercitati dal consiglio di sorveglianza.” Comma 2bis “Negli enti di interesse pubblico che adottano il sistema di amministrazione e controllo monistico, i compiti di cui al comma 1 sono esercitati dal comitato per il controllo sulla gestione.”

 

[12] Il considerando 24 della direttiva richiama a proposito del comitato per il controllo interno e la revisione contabile la raccomandazione della Commissione del 15 febbraio 2005 sul ruolo degli amministratori non esecutivi.

 

[13] Assonime, Circolare n. 16 del 3 maggio 2010, Il testo unico della revisione legale, p. 8, consultabile sul sito www.assonime.it.

 

[14] La soluzione adottata dal d.lg. 39/2010 sembra seguire quella contenuta nelle “Disposizioni di vigilanza in materia di organizzazione e governo societario delle banche”, ove a p. 9 si legge:“Nei modelli dualistico e monistico le banche devono adottare idonee cautele – statutarie, regolamentari e organizzative – volte a prevenire i possibili effetti pregiudizievoli per l’efficacia e l’efficienza dei controlli derivanti dalla compresenza nello stesso organo di funzioni di amministrazione e controllo. Nel modello dualistico, ove la funzione di supervisione strategica sia assegnata al consiglio di sorveglianza o quest’ultimo abbia un numero elevato di componenti, detti obiettivi vanno assicurati attraverso la costituzione di un apposito comitato (comitato per il controllo interno), punto di riferimento per le funzioni e le strutture aziendali di controllo interno”, così Banca d’Italia, Provvedimento del Governatore n. 264010, Disposizioni di vigilanza in materia di organizzazione e governo societario delle banche, consultabile sul sito http://www.bancaditalia.it

 

[15] Cfr. A. Toffoletto – C.N. Bevilacqua, La disciplina della revisione legale dei conti negli enti di interesse pubblico, in Società - Gli Speciali – Il d.lg. n. 39/2010: la nuova disciplina della revisione legale, 2010, p. 31, ove gli Aa., nel commentare il d.lg. 39/2010, individuano uno dei punti che, come si vedrà infra, maggiormente influiranno sulla nuova edizione del Codice.

 

[16] Cfr. N. Abriani, Controllo mirato solo per gli enti di interesse pubblico, in Sole 24 ore – Norme e tributi, 6 dicembre 2010, p. 5.

 

[17] G. Santoni, I flussi informativi tra comitato di gestione e consiglio di sorveglianza, in Sistema dualistico e governance bancaria, a cura di P. Abbadessa e F. Cesarini, Torino, 2009, p. 33, afferma che <<(l)a riforma delle società di capitali ha incrementato la centralità del ruolo svolto dalla trasparenza e dalla circolazione delle informazioni riguardanti l’attività sociale>>. Sulla stessa linea anche P. Montalenti, Gli obblighi di vigilanza nel quadro dei principi generali sulla responsabilità degli amministratori di società per azioni, in Il nuovo diritto delle società, Liber amicorum Gian Franco Campobasso,t.2, Assemblea - Amministrazione, diretto da P. Abbadessa e G.B. Portale, Torino, 2007, p. 836. D. Caterino, La funzione del collegio sindacale delle società quotate, tra “prevenzione”e “allerta” della crisi d’impresa, in http://www.orizzontideldirittocommerciale.com, p. 2, afferma che “(l)e più convincenti evoluzioni della dottrina aziendalistica puntano l'attenzione sull'organizzazione aziendale come rete di informazioni e di comunicazioni”.

 

[18] Sul tema D. Caterino, La funzione del collegio sindacale delle società quotate, tra “prevenzione”e “allerta” della crisi d’impresa, cit.,  p. 3, rileva che <<(l)a corretta gestione dei flussi informativi dell’impresa rappresenta fase essenziale per la definizione di indici di rischio specifico, l’attivazione di procedure di controllo concomitante e la correzione in tempo reale delle strategie di gestione; e costituisce pertanto prerequisito essenziale per una corretta governance dell’impresa societaria>>.

 

[19] Per uno studio del rapporto tra efficacia dell’azione degli amministratori indipendenti e profilo informativo, con particolare riferimento al costo per l’acquisizione delle informazioni, si v. R. Duchin, J. G. Matsusaka e O. Ozbas, When are outside directors effective?, in J. of Financial Economics, Vol. 96, Issue 2, May 2010, pp. 195 ss.

 

[20] Cfr. V. Buonocore, La riforma delle società quotate, in La riforma delle società quotate: atti del Convegno di studio – Santa Margherita Ligure, 13-14 giugno 1998, a cura di F. Bonelli, Milano, 1998, p. 69, ove l’A. afferma che <<più sono le informazioni richieste e meno si è informati . . . più minute sono le notizie domandate e meno si raggiunge l’obiettivo della trasparenza e dell’utilità>>.

 

[21] Sul carattere funzionale all’esercizio del controllo, e sulle modalità attraverso le quali l’intervento dei membri dell’organo di controllo alle riunioni degli amministratori dovrebbe esplicarsi si v. le fondamentali considerazioni svolte da F. Massa Felsani, “Interferenze” del consiglio di sorveglianza nella gestione dell’impresa: appunti dalla disciplina del governo delle banche, in Riv. dir. comm., 2008, I, pp. 878-881 e 889-894.

 

[22] P. Montalenti, Amministrazione, controllo, minoranze nella legge sul risparmio, in Riv. soc., 2006, p. 981.

 

[23] G. Santoni, I flussi informativi tra comitato di gestione e consiglio di sorveglianza, cit., p. 34, sottolinea come una precisa definizione dei flussi informativi sia in grado di ridurre i cc.dd. costi da incertezza.

 

[24] D. Scarpa, Profili informativi della gestione e del controllo nelle società quotate in funzione della trasparenza, in Riv. dir. comm., 2009, I, p. 237, mostra fiducia nella idoneità dei codici di autodisciplina a svolgere un ruolo decisivo per la crescita dei flussi informativi all’interno delle società quotate.

 

[25] In dottrina è stato osservato che le scelte del legislatore in materia di procedimentalizzazione dei flussi informativi sono state, per il momento, molto timide. Cfr. F. Massa Felsani, “Interferenze” del consiglio di sorveglianza nella gestione dell’impresa: appunti dalla disciplina del governo delle banche, cit., p. 895; P. Benazzo, Autonomia statutaria e assetto delle responsabilità: un primo bilancio, in An. giur. econ., 2007, n. 2, p. 425.

 

[26] Cfr. F. Massa Felsani, o.l.c.

 

[27] Cfr. V. Cariello, I conflitti <<interorganici>> e <<intraorganici>> nelle società per azioni (prime considerazioni), in Il nuovo diritto delle società, Liber amicorum Gian Franco Campobasso,t.2, Assemblea - Amministrazione, diretto da P. Abbadessa e G.B. Portale, Torino, 2007, p. 777.

 

[28] Ibidem, p. 775

 

[29] F. Bonelli, I poteri individuali del sindaco, in Giur. comm., 1988, I, p. 524; S. Fortunato, Doveri e poteri del collegio sindacale nelle società quotate, in Riv. dir. comm., 1999, I, pp. 56 ss.; M. Rigotti, Commento sub art. 2403, in Aa. Vv., Commentario alla riforma delle società, artt. 2397-2409 septies, a cura di F. Ghezzi, diretto da P. Marchetti, L.A. Bianchi, F. Ghezzi, M. Notari, Milano, 2005, p. 197.

 

[30] Presenta una articolata rassegna delle molteplici declinazioni e delle varie modalità di atteggiarsi di detti conflitti V. Cariello, o.c., pp. 769 ss.

 

[31] Cfr. V. Cariello, o.c., p. 790, che indica, tra gli altri, le soluzioni tecniche di cui agli artt. 2383, co. 3, 2388, co. 4, 2391, co. 3, 2400, co. 2, e 2406, co. 2, c.c. L’A. manifesta, comunque, forti perplessità su tale soluzione, poiché essa, riqualificando ogni conflitto interorganico tra la società e un organo della stessa, avrebbe l’effetto di escludere la possibilità di configurare un autentico conflitto interorganico con gli organi contrapposti quali permanenti parti formali e sostanziali.

 

[32] V. Cariello, o.c., pp. 820 ss.; F. Guerrera, Illecito e responsabilità nelle organizzazioni collettive, Milano, 1991, p. 174. Per l’ipotesi di conflittualità interorganica, e segnatamente endoconsiliare, in cui gli organi delegati non ottemperino alla richiesta di informazioni proveniente dagli amministratori, si è individuata una possibile soluzione nel ricorso al meccanismo previsto dal terzo comma dell’art. 2392 c.c., investendo così del problema anche il collegio sindacale che può a sua volta fare uso delle proprie prerogative comunicando  alla Consob (art. 149 T.u.f.) l’irregolarità, o denunciando la stessa al tribunale (art. 152 T.u.f.): cfr. G.M. Zamperetti, Il dovere di informazione degli amministratori nella governance della società per azioni, Milano, 2005, pp. 341-345.

 

[33] Sembra avere quale criterio guida della risoluzione dei conflitti interorganici l’efficacia e l’efficienza dell’agire sociale anche V. Salafia, Rapporti interorganici nella s.p.a. e i loro effetti sulla società, in Società, 1984, n. 2, p. 143, ove l’A. afferma che «i rapporti interorganici . . .  sono previsti e regolati dalla legge con l’unico scopo di consentire l’operatività alla società . . . ».

 

[34] Cfr. V. Cariello, o.c., p. 815.

 

[35] Ritiene G.B. Portale, Dissenso e relazioni <<di minoranza>> nella formazione del bilancio di esercizio delle s.p.a., in Giur. comm., 1980, I, p. 942, nel caso di conflitto interorganico tra organo amministrativo e organo di controllo sorto nello svolgimento di un compito che prevede una necessaria collaborazione tra gli organi (nello specifico si trattava della collaborazione attiva che i sindaci sono tenuti a prestare agli amministratori nella redazione di alcune poste del progetto di bilancio)  la competenza a decidere sul dissidio spetta, certamente, all’assemblea. Secondo P. Abbadessa e A. Mirone, Le competenze dell’assemblea nelle s.p.a., in Riv. soc., 2010, fasc. 2-3, p. 270 e pp. 343 ss., all’assemblea, in quanto organo rappresentativo degli azionisti, spetta <<il ruolo di decisore d’ultima istanza>>. Sul tema si segnalano anche G.B. Portale e A. Daccò, Accentramento di funzioni e di servizi nel gruppo e ruolo dell’assemblea della società controllata, in Riv. dir. priv., 2006, n. 3, pp. 472 ss., e in part. p. 476, ove gli Aa. affermano che la regola che può trarsi è che <<in presenza di situazioni di straordinaria emergenza, un intervento dell’assemblea risulta necessario indipendentemente dal carattere gestionale o “meramente” organizzativo dei provvedimenti da assumere>>; G.B. Portale, La società quotata nelle recenti riforme, in La società quotata dalla riforma del diritto societario alla legge sul risparmio, a cura di U. Tombari, Torino, 2008, pp. 3-5. Fa riferimento alla possibilità di rivolgersi all’assemblea “per superare la crisi creatasi all’interno della società” tra collegio sindacale e amministratori, nel caso di condotte ostruzionistiche di questi ultimi nei confronti dei primi,  G. Cavalli, Profili del controllo sindacale sugli amministratori di società per azioni, in Riv. soc., 1968, p. 385. V. Calandra Buonaura, Gestione dell’impresa sociale e competenze dell’assemblea nella società per azioni, Milano, 1975, p. 136, ritiene che, al verificarsi di una situazione di stallo o di incertezza operativa che rischia di pregiudicare il buon andamento della gestione,  ci si debba rivolgere all’assemblea affinché essa adotti i provvedimenti necessari per uscire dall’impasse; A. Tucci, Gestione dell’impresa sociale e “supervisione” degli azionisti, Milano, 2003, pp. 20 e 27-28;

 

[36] Cfr. art. 4, co. 2, lett. b). L. n. 366/2001.

 

[37] Già nel primi anni ’60, Ernesto Rossi osservava aumentare sempre più <<il potere effettivo degli amministratori delegati, che finiscono per diventare inamovibili e per dipendere unicamente da se stessi ; una volta raggiunta questa posizione essi possono poi, a loro discrezione, investire il capitale sociale nelle più arrischiate speculazioni per trarne profitti personali; spogliare gli azionisti, travasando gli utili della società in cui hanno scarsi interessi nelle società in cui sono maggiormente interessati; annacquare i capitali; costituire holdings di comodo; fare scambi reciproci di pacchetti azionari, per estendere in sempre nuovi settori il loro dominio, col sistema delle società a catena e delle società a scatole cinesi>>, così E. Rossi, Borse e borsaioli, Bari, 1961, p. 175. Per considerazioni sul tema più vicine ai tempi attuali si v. F. Centonze, Controlli societari e responsabilità penale, Milano, 2009, p. 51, <<i vertici operativi delle società (o l’azionista di controllo) hanno assunto la forma di direzioni supreme, monarchie assolute o addirittura regimi dittatoriali e tale pienezza di poteri ha consentito di ordire le trame degli scandali finanziari, pur nell’apparente rispetto delle regole di corporate governance>>. J.K. Galbraith, The Economics of innocent Fraud. Truth for Our Time, Boston-New York, 2004, trad. it. L’economia della truffa, Milano, 2004, p. 65, afferma che <<in qualunque corporation . . . gli azionisti sono completamente subordinati al management>>; ebbene, anche se l’economista americano si riferisce espressamente alle società nordamericane, sul punto si deve osservare che, mutatis mutandis, si tratta di osservazioni decisamente riferibili anche alla realtà italiana. Sul punto si v. anche  R.C. Breeden,  Restoring Trust. Report to the Hon. Jed S. Rakoff the United States District Court for the Southern District of New York on Corporate Governance for the future of MCI, p. 25, consultabile sul sito ww. Sec.gov./spotlight/worldcom/wcomreport0803.pdf.

 

[38] Cfr. R. Weigmann, Responsabilità e potere legittimo degli amministratori, Milano, 1974, p. 227, ove l’A. afferma che <<nelle società per azioni c’è stato un progressivo spostamento del potere dall’assemblea verso gli organi incaricati dell’amministrazione, il consiglio innanzitutto e più ancora i comitati esecutivi e gli amministratori delegati. Si tratta di un graduale svuotamento dell’originaria sovranità assembleare, che ha trovato riconoscimento nel nostro codice civile, laddove quest’ultimo ha riservato una sfera autonoma di potere all’organo amministrativo>>.

 

[39] Per la descrizione del declino del principio della sovranità assembleare si v. V. Calandra Buonaura, Gestione dell’impresa sociale e competenze dell’assemblea nella società per azioni, cit., pp. 1 ss. L’A. ritiene che la ragione del declino del modello corporativo <<classico>> debba essere individuata nella tendenza imposta dalla evoluzione della realtà economica, ispirata dal culto dell’efficienza, della rapidità delle decisioni, piuttosto che nelle suggestioni esercitate dalle teorie istituzionalistiche (pp. 6-7).

 

[40] Cfr. G. Ferri, I controlli interni nelle società per azioni, in Controlli interni ed esterni delle società per azioni, CNPDS, Collana dei convegni di studio “Problemi attuali di diritto e procedura civile”, Milano, 1972, p. 20, ove l’A., riferendosi alla crisi dell’assemblea, afferma che <<(s)e il principio della divisione dei poteri assume un valore soltanto formale, perché in realtà tutto il potere si accentra sull’organo amministrativo, è chiaro che un istituto che trova la sua giustificazione e il suo fondamento nell’effettività di questo principio non sia più funzionale>>.

 

[41] Osserva G. Ferri, I controlli interni nelle società per azioni, cit., p. 20, che la “crisi attuale dell’istituto dei sindaci è la immediata conseguenza della crisi dell’assemblea”.

 

[42] Cfr. F. D’Alessandro, Un nuovo ruolo per l’assemblea nella società per azioni, in Aa.Vv., Verso un nuovo diritto societario – Contributi per un dibattito, a cura di P. Benazzo, F. Ghezzi e S. Patriarca, Bologna, 2002, p. 155. Afferma l’A. che <<la concezione secondo la quale la società è dei soci e deve perseguire solo l’interesse di questi, mi sembra  . . . solidamente fondata su un ben noto teorema, tanto semplice quanto, a mio giudizio, difficilmente controvertibile . . . (a)ttribuire all’interesse e alla volontà dei soci il primato nell’ambito dell’organizzazione societaria  (e si ricordi la vecchia formula, ora ingiustamente demodé, dell’assemblea quale “organo sovrano”)  significa dunque garantire nel modo migliore l’assolvimento efficiente dei compiti spettanti al diritto societario>>; P. Abbadessa, La società per azioni fra passato e futuro: l’assemblea, in La riforma delle società per azioni non quotate - Atti del Convegno di studio su La società per azioni tra passato e futuro: prospettive di riforma - Napoli 23-24 ottobre 1998, a cura di M. Porzio, M. Rispoli Farina, G. Rotondo, Milano, 2000, p. 61, ove l’A. afferma che <<nel sistema italiano l’interesse della società si identifica con quello dei soci>>; Id., Nuove regole in tema di procedimento assembleare e tutela delle minoranze, in Riv. soc., 2002, p. 171, segnala il vuoto legislativo <<circa la competenza dell’assemblea  in relazione a quelle operazioni, di intèrȇt primordial, le quali, pur ricadendo formalmente nella serie degli atti di gestione (e, pertanto, nella sfera propria degli amministratori), incidono di riflesso su interessi e situazioni giuridiche che l’ordinamento della società per azioni intesta alla collettività dei soci>>; T. Ascarelli, Studi in tema di società, Milano, 1952, p. 148. Per una approfondita analisi delle teorie istituzionalistiche e di quelle contrattualistiche si v. P.G. Jaeger, L’interesse sociale, Milano, 1964, ove l’A., a p. 145, afferma che deve darsi per acquisito che si debba escludere che <<secondo il nostro diritto delle società per azioni, interessi di soggetti diversi dai soci possano trovar posto in una definizione dell’interesse sociale>>. Sul tema del diritto di concorso dei soci all’amministrazione sociale si segnala anche M. Foschini, Il diritto dell’azionista all’informazione, Milano, 1959, pp. 82-88. In relazione al discorso sviluppato nel testo giova qui ricordare l’affermazione di Louis Loss, che, nei primi anni ’80, in relazione alla situazione nordamericana ebbe ad affermare che la legge <<did not take away from the citizen his inalienable right to make a fool of himself. It simply attempted to prevent others from making a fool of him>>, così L. Loss, Fundamentals of Securities Regulation, Boston-Toronto, 1983, p. 36.

 

[43] Per una ricostruzione storica del ruolo dell’assemblea nella società per azioni, anche in chiave comparatistica, si v. P. Abbadessa, La gestione dell’impresa nella società per azioni: profili organizzativi, Milano, 1975, pp. 5 ss.; V. Calandra Buonaura, o.c., pp. 26 ss.; P. Abbadessa, La società per azioni fra passato e futuro: l’assemblea, cit, pp. 61 ss. M. Sciuto e P.Spada, Il tipo della società per azioni, in Trattato delle società per azioni. diretto da G.E. Colombo e G.B. Portale, 1*, Torino, 2004, 60 ss.

 

[44] Cfr. F. Chiappetta, Diritto del governo societario, La corporate governance delle società quotate, Milano, 2007, p. 68, che, a tal proposito, ricorda che la posizione di preminenza rivestita dall’organo assembleare è espressa col termine -evocativo di concezioni politiche- sovranità.

 

[45] Pare doveroso, a tal  proposito, ricordare come P. Abbadessa, La gestione dell’impresa nella società per azioni: profili organizzativi, cit., p. 70, rilevi che <<nell’uso corrente si parla di sovranità assembleare per lo meno in tre significati distinti: per sottolineare l’insindacabilità della delibera da parte della minoranza e del giudice (v. ad es. Cass, 23 aprile 1969, n. 1290, in Foro it., 1969, I, cc. 1735 ss.), per affermare la situazione di preminenza che ad essa deriva soprattutto dal potere di revoca degli amministratori e di modifica dello statuto, per indicare l’esistenza di veri e propri poteri gerarchici nei confronti degli amministratori>>.

 

[46] Un’idea di sovranità assembleare ormai negletta, in relazione alla quale in dottrina viene segnalato come il pericolo per la stessa è stato per lo più riferito ad un eventuale usurpazione delle competenze dell’assemblea da parte dell’organo amministrativo: cfr. F. Massa Felsani, Il ruolo del presidente nell’assemblea della s.p.a. , Milano, 2004, pp. 96-97. L’A. segnala, inoltre, come alla sovranità assembleare venga attribuita, altre volte, un significato più ampio, <<come espressione in realtà confacente ad un principio di ordine democratico che si puntualizza nell’esigenza dell’esatta applicazione delle norme che garantiscono gli interessi tutelati dal procedimento>>.

 

[47] Non è qui possibile, nell’economia del presente lavoro, e anche perché a tutti ben noti, ripercorrere e analizzare funditus  i termini della ormai storica ed ideologica contrapposizione tra chi vede nell’assemblea un ineliminabile e fondamentale elemento del governo societario e chi, sposando magari le teorie istituzionaliste, la considera soltanto un retaggio di un lontano passato. Per questi ultimi si tratta di una inutile e vuota celebrazione che a nulla serve se non a far perdere del tempo prezioso a chi deve condurre l’impresa. Gettando uno sguardo veloce alle vicende dell’assemblea nel nostro ordinamento, senza risalire troppo nel tempo, è possibile individuare il succedersi di tre momenti fondamentali di cambiamento, e quindi tre differenti concezioni dell’assemblea, in un continuo oscillare, con una varietà teoricamente indeterminata di soluzioni intermedie, tra le due posizioni estreme sopra ricordate, ossia quella secondo cui l’assemblea è l’organo sovrano della società, e quella proposta da chi, magari facendo ricorso a colorite definizioni che numerose si trovano nella letteratura in subiecta materia – squallido rituale, passerella di squalificati e ambigui protagonisti; istituto che andrà poco alla volta a morire, perché costituisce solo una perdita di tempo, e nessuno ha tempo da perdere; ritrovo di disturbatori professionisti e di mitomani; platea di fantasmi; più che sede di fruttuoso dibattito, palcoscenico per l’ouverture, o la minaccia, di successive impugnazioni a carattere risarcitorio da parte dei singoli soci disturbatori -, sostiene si tratti di un organo inutile. Una prima tappa fondamentale vede il passaggio, recepito a livello legislativo dal codice civile del 1942, da un assetto organizzativo nel quale all’assemblea veniva riconosciuta una pienezza di poteri ad uno nel quale sono gli amministratori l’organo al quale spetta il governo della società. Il successivo momento di cambiamento si ha nel 1974 con la legge 216, per mezzo della quale, a seguito del riconoscimento della specificità dei problemi delle società che ricorrono al pubblico risparmio, si punta sul controllo pubblico esterno, e si svaluta ulteriormente il ruolo dell’assemblea. L’ultima tappa prima della riforma del 2003 può essere individuata negli anni ’90. Sulla scorta di una serie di ragioni internazionali ed interne, quali ad esempio la ricostruzione dottrinale della società come rete di contratti, la globalizzazione dei mercati, il diffondersi degli investitori istituzionali e le privatizzazioni, viene in parte recuperato il ruolo dell’assemblea. I due provvedimenti legislativi più significativi sono probabilmente la l. n. 474 del 1994 sulle privatizzazioni e il testo unico della finanza del 1998. Per la precisa ricostruzione dei passaggi sopra ricordati si v. G.D. Mosco, Dove si forma la volontà sociale? Il ruolo dell’assemblea nella società per azioni: considerazioni introduttive, in Aa.Vv., Verso un nuovo diritto societario – Contributi per un dibattito, a cura di P. Benazzo, F. Ghezzi e S. Patriarca, Bologna, 2002, pp. 144 ss. Sul tema si segnala il fondamentale scritto di C. Angelici, Soci e minoranze nelle società non quotate, in La riforma delle società per azioni non quotate - Atti del Convegno di studio su La società per azioni tra passato e futuro: prospettive di riforma - Napoli 23-24 ottobre 1998, a cura di M. Porzio, M. Rispoli Farina, G. Rotondo, Milano, 2000, pp. 33 ss.

 

[48] Per una critica dell’attuazione della delega legislativa in relazione all’art. 2364, n. 4, c.c., e alla prima parte dell’art. 2380-bis c.c., si v. G.B. Portale, Rapporti fra assemblea e organo gestorio nei sistemi di amministrazione, in Il nuovo diritto delle società, Liber amicorum Gian Franco Campobasso, t.2, Assemblea - Amministrazione, diretto da P. Abbadessa e G.B. Portale, Torino, 2007, pp. 10 ss. L’A., nel ricostruire, con ricchi riferimenti comparatistici, il quadro dei rapporti tra assemblea e organo gestorio, mostra il proprio favore per il riconoscimento in capo all’assemblea di una eccezionale competenza gestoria <<non scritta>>; V. Calandra Buonaura, I modelli di amministrazione e controllo nella riforma del diritto societario, cit., p. 539; S.A. Cerrato, Il ruolo dell’assemblea nella gestione dell’impresa: il <<sovrano>> ha veramente abdicato?, in Riv. dir. civ., 2009, pp. 140-141; A. Tucci, Gestione dell’impresa sociale e “supervisione” degli azionisti, cit., p. 22.

 

[49] P. Abbadessa e A. Mirone, Le competenze dell’assemblea nelle s.p.a., cit., p. 275, nel commentare la riforma del 2003, affermano che <<la scelta “strategica” di emarginare drasticamente i soci dalla gestione . . . costituisce un profilo di indubbia debolezza della riforma, dal punto di vista delle opzioni di politica legislativa>>. Dell’opinione che non debba essere sopravvalutata la portata della riforma del 2003 S.A. Cerrato, Il ruolo dell’assemblea nella gestione dell’impresa: il <<sovrano>> ha veramente abdicato?, cit., pp. 136 ss.; l’A. ritiene infatti che l’opzione <<managerialista>> sia meno netta di quanto possa apparire a prima vista, e nella s.p.a. non esista una struttura rigida a <<compartimenti stagni>> fra assemblea ed amministratori, tra i quali sono invece possibili fenomeni di osmosi e spostamento di competenze.

 

[50] Tale ruolo per gli azionisti trova fondamento anche in  presupposti di teoria economica bene messi in evidenza da F.H. Easterbrook e D.R. Fischel, L’Economia delle società per azioni, Milano, 1996. Sul punto si v. in part. M. Libertini, Scelte fondamentali di politica legislativa e indicazioni di principio nella riforma del diritto societario del 2003. Appunti per un corso di diritto commerciale, in Riv. dir. soc., 2008, pp. 221 ss. Nella dottrina statunitense vi è chi è dell’idea che i legislatori nazionali dovrebbero attribuire ai soci, anche a quelli delle public companies,  più poteri di intervento e di decisione in relazione ad alcune fondamentali operazioni societarie, al fine di conseguire una maggiore efficienza: cfr. L.A. Bebchuk, The Case for Increasing Share hoder Power, in Harvard L Rev., Vol. 118, No. 3 (Jan., 2005), pp. 833 ss, il quale a p. 914 afferma:<<the allocation of power between management and shareholders merits careful reconsideration. Increasing shareholder power would much benefit shareholders and improve corporate performance>>. Le affermazioni di Bebchuk sono state oggetto di critica da parte di  S.M. Bainbridge,  Director Primacy and Shareholder Disempowerment, ivi, Vol. 119, No. 6 (Apr., 2006), pp. 1735 ss., e di L.E. Strine jr., Toward a True Corporate Republic: A Traditionalist Response to Bebchuk's Solution for Improving Corporate America, ivi, Vol. 119, No. 6 (Apr., 2006), pp. 1759 ss. A dette critiche l’A. ha replicato nello scritto: L. A. Bebchuk,  Letting Shareholders Set the Rules, ivi, Vol. 119, No. 6 (Apr., 2006), pp. 1784 ss.

 

[51] Cfr. M. Power, La società dei controlli – Rituali di verifica, a cura di F. Panozzo, Torino, 2002, p. 9.

 

[52] Ritiene che l’assemblea costituisca il necessario ed unico punto di riferimento del collegio sindacale G. Cavalli, Profili del controllo sindacale sugli amministratori di società per azioni, in Riv. dir. comm., 1960, II, p. 86. Sul rapporto di ausiliarietà sussistente tra i due organi si v. anche F. Galgano, La società per azioni, in Trattato di diritto commerciale e di diritto pubblico dell’economia, VII, Padova, 1984, p. 285.

 

[53] La serie di débâcle societarie  a cui si è assistito a partire dal 2001 ha riacceso il dibattito giuridico sulle soluzioni da approntare per il problema relativo alla separazione tra proprietà e controllo, già enunciato molto tempo fa da A. Smith, Wealth of Nations (1776), vol. 2, ed. 1976, Glasgow, il quale affermò, a p. 741 :<<being the managers rather of other people’s money than of their own, it cannot well be expected that (directors) should watch over it with the same anxious vigilance with which the partners in a private copartnery watch over their own>>, e in seguito elaborato in forma compiuta da A.A. Berle jr. e G.C. Means nel famoso “The Modern Corporation and Private Property” del 1932.

 

[54] P. Abbadessa, Il nuovo ruolo dell’assemblea nella società per azioni, in Aa.Vv., Verso un nuovo diritto societario – Contributi per un dibattito, a cura di P. Benazzo, F. Ghezzi e S. Patriarca, Bologna, 2002, p. 175, scrive:<<i più recenti sviluppi del diritto societario dimostrano che l’assemblea non è morta, morto è unicamente il vecchio modello di assemblea, che identificava questa con il solo momento collegiale, all’interno del quale doveva esaurirsi ogni iniziativa e potere del socio, laddove è ormai chiaro che l’assemblea va vista come un procedimento protratto nel tempo, nel quale c’è posto per tutti i soci con un occhio di particolare riguardo per quelli che, in proprio o in quanto gestori del risparmio altrui, possono vantare un interesse effettivo a partecipare ad un processo decisorio di cui i risultati sono, in definitiva, i destinatari>>.

 

[55] Sostiene M.J. Roe, A Political Theory of American Corporate Finance, in Columbia L. Rev., Vol. 91, No. 1 (Jan., 1991), in part. p. 66, dopo aver constatato che le moderne regole di governo societario non sono semplicemente il portato di una selezione darwiniana all’esito della quale è risultato vincente l’odierno modello di governance basato su una certa concezione della separazione tra proprietà e controllo, che bene si farebbe a prendere in considerazione alternative soluzioni organizzative in grado, forse, di dare migliori risposte ai problemi di agenzia.

 

[56] Una proposta, quella presentata nel testo, che offre sicuramente il destro a molte critiche, e rischia di essere tacciata di provocatorio massimalismo, è però innegabile che, come è stato acutamente osservato, gli ordinamenti sono dotati di una grande inerzia, e quindi, se le novità non impattano frontalmente e duramente con le vecchie concezioni, queste alla fine prevalgono. Per tali considerazioni cfr. F. d’Alessandro, <<La provincia del diritto societario inderogabile (ri)determinata>>.  Ovvero: esiste ancora il diritto societario?, in Riv. soc., 2003, p. 34.

 

[57] Auspica un maggiore coinvolgimento dell’assemblea nella vita della società l’Indagine conoscitiva sui rapporti tra  il sistema delle imprese, i mercati finanziari e la tutela del risparmio  - Camera dei Deputati, Commissioni Riunite Vi (Finanze e Tesoro) e X (Industria, Commercio, Turismo), Documento conclusivo approvato dalle Commissioni Riunite nella seduta del 24 marzo 2004, consultabile sul sito http://www.senato.it/leg/14/BGT/Schede/docnonleg/9357.htm, ove a p. 86 afferma: << Per tutelare questi ultimi ed evitare ulteriori “fallimenti del mercato” e` necessario, dunque, potenziare l’efficacia dei meccanismi di controllo endosocietario, favorendo la dialettica rappresentativa all’interno della compagine societaria, sia attraverso un rafforzamento del ruolo di controllo degli azionisti di minoranza, sia mediante un maggiore coinvolgimento – come gia` possibile nell’ambito dell’autonomia statutaria –, degli investitori istituzionali e dei rappresentanti dei titolari degli strumenti finanziari emessi dalla società per il mercato o assegnati ai dipendenti>>. Autorevole dottrina ha affermato che <<(a)ttribuire all’interesse e alla volontà dei soci il primato nell’ambito dell’organizzazione societaria  . . . significa dunque garantire nel modo migliore l’assolvimento efficiente dei compiti spettanti al diritto societario>>, così F. d’Alessandro, Nuovo ruolo dell’assemblea, in Aa. Vv., Governo dell’impresa e mercato delle regole, Scritti giuridici per Guido Rossi, Tomo I, Milano, 2002, p. 102.

 

[58] Contesta il ruolo centrale non episodico di monitoraggio, controllo e gestione che gli amministratori hanno recentemente assunto accanto a quella di partecipazione alle decisioni, perlomeno in termini di advice, ritenendo che si tratti di compiti tra loro incompatibili J.R. Macey, Corporate Governance. Promises Kept, Promises Broken, Princeton e Oxford, 2008, pp. 53 ss.

 

[59] Autorevole dottrina manifesta un forte scetticismo sulla capacità degli azionisti riuniti in assemblea di realizzare in seno alla stessa dibattito costruttivo. Siffatta posizione  dottrinale muove dalla constatazione che il socio deve essere considerato un investitore,  e non un socio industriale, e pertanto esso resta “fuori” dalla struttura societaria, e vera tutela per esso consiste oggi nell’exit piuttosto che nella voice. Ciò posto, dalla considerazione che l’assemblea è in primis la riunione degli azionisti investitori consegue la sfiducia nella possibilità che l’assemblea assuma un ruolo attivo nella vita della società. Cfr. B. Libonati, Il ruolo dell’assemblea nel rapporto tra azionisti e società quotate, in Riv. soc., 2001, pp. 86 ss.

 

[60] Sulla necessità di un gruppo di “sorveglianti” a tempo pieno diretta espressione di azionisti che abbia anche alcuni poteri decisionali su fondamentali questioni di politica societaria si v.  D. Preite, Investitori istituzionali e riforma del diritto delle società per azioni, in Riv. soc., fasc. 1-2, 1993, pp. 550 ss.

 

[61] Per una accurata presentazione  dei “pregiudizi” sull’assemblea radicati nella cultura giuridica ed economica si v. P. Abbadessa, La società per azioni fra passato e futuro: l’assemblea, cit.. pp. 62 ss.

 

[62] C. Angelici, La riforma delle società di capitaliLezioni di diritto commerciale, II ed., Padova, 2006, pp. 7 ss.

 

[63] Si v. in part. P. Abbadessa, Nuove regole in tema di procedimento assembleare e tutela delle minoranze, in Riv. soc., 2002, pp. 170 ss.

 

[64] Per il declino della strategia dell’exit e il rapporto di questa con l’esercizio del diritto di voice si v. J.C. Coffee Jr., Liquidity versus Control: The Institutional Investor as Corporate Monitor, in Columbia L. Rev., Vol. 91, No. 6 (Oct., 1991), spec. pp. 1339-1343, e p. 1366-1367.

 

[65] F. d’Alessandro, Nuovo ruolo dell’assemblea, cit., p. 104.

 

[66] Ibidem, ha definito un sofisma il ragionamento sull’irresponsabilità dell’assemblea.

 

[67] Sul ruolo che gli investitori istituzionali possono svolgere si v. J.C. Coffee Jr., Liquidity versus Control: The Institutional Investor as Corporate Monitor, cit., pp. 1277 ss.,spec. p. 1279, ove l’A. afferma: <<These trends toward greater "voice" and lesser "exit" seem likely to continue for institutional investors. As a result, greater institutional activism is predictable, even in the face of a static legal environment>>. Preconizza un maggiore attivismo degli investitori istituzionali S. Poli, L’evoluzione della governance delle società chiuse, Milano, 2010, p. 223. Probabilmente, la nuova disciplina relativa alla c.d. record date, prevista dall’art. 83-sexies, co. 2,  T.u.f.., introdotto dal d.lg. 27/2010, sarà in grado di favorire la partecipazione degli investitori istituzionali; questi, infatti, non saranno più tenuti a tenere bloccati i titoli fino al giorno della riunione assembleare. In effetti, il primo bilancio relativo all’introduzione della disposizione in parola elaborato dall’Air, associazione degli investor relation italiani (società di consulenza agli investitori finanziari), evidenzia come nell’ultima stagione assembleare italiana la partecipazione degli azionisti di minoranza alle assemblee delle società quotate sia sensibilmente aumentata, dal 10,7 % (2010) al 20,7 % (2011) del capitale presente (cfr. L. Serafini, I soci di minoranza raddoppiano in assemblea, in Sole 24 oreFinanza e mercati, martedì 5 luglio 2011, p. 33. Sul punto si v. anche L. Enriques, L’azionista riscopre l’assemblea, in Sole 24 ore, 7 luglio 2011, p. 20. Su questi aspetti v. già A. Irace, Il ruolo degli investitori istituzionali nel governo delle società quotate, Milano, 2001.

 

[68] P. Abbadessa e A. Mirone, o.c., p. 292.

 

[69] Sull’opportunità di un ruolo attivo degli investitori istituzionali si v. R. Sacchi, La partecipazione dei soci ai processi decisionali delle società di capitali, in Aa. Vv., Governo dell’impresa e mercato delle regole, Scritti giuridici per Guido Rossi, Tomo I, Milano, 2002, p. 193; M.A. Eisenberg, The Structure of the Corporation – A Legal Analysis, cit., pp. 61 ss.; Associazione Disiano Preite, Rapporto sulla società aperta – 100 tesi per la riforma del diritto societario in Italia, Bologna, 1997, pp. 60-62 e 65-67; A. Irace, Il ruolo degli investitori istituzionali nel governo delle società quotate, cit. pp. 111 ss.; L. Enriques, Nuova disciplina delle società quotate e attivismo degli investitori istituzionali: fatti e prospettive alla luce dell’esperienza anglosassone, in Giur. comm., 1998, I, pp. 681 ss.; M. Bianchi, M.C. Corradi e L. Enriques, Gli investitori istituzionali italiani e la corporate governance delle società quotate dopo la riforma del 1998: un’analisi del ruolo potenziale dei gestori di fondi comuni, in Banca impresa società, 2002, pp. 397 ss.

 

[70] Cfr. F. D’Alessandro, op. ult. cit., p. 106, che a tal proposito ha ricordato l’espressione dell’azionista “prigioniero del suo titolo”. Sul punto si v. anche P. Abbadessa, Il nuovo ruolo dell’assemblea nella società per azioni, cit., p. 164.

 

[71] Cfr. Camera dei Deputati, Commissioni Riunite Vi (Finanze e Tesoro) e X (Industria, Commercio, Turismo), Indagine conoscitiva sui rapporti tra  il sistema delle imprese, i mercati finanziari e la tutela del risparmio, cit., ove a p. 86 si legge: «Il primo ed essenziale presupposto per la trasparenza informativa nei riguardi del mercato e` dato dalla presenza di organi di controllo realmente indipendenti all’interno delle imprese aperte al mercato dei capitali». Nel recente libro verde della Commissione europea si legge a p. 3: «(s)embrerebbe quindi opportuno riflettere su come si possa incoraggiare un maggior numero di azionisti a interessarsi a risultati duraturi e a prestazioni a lungo termine e ad assumere un ruolo più attivo in merito alle questioni relative al governo societario» (Commissione Europea, Libro verde – Il quadro dell’Unione europea in materia di governo societario, Bruxelles, 5.4.2011, COM(2011) 164 definitivo, consultabile sul sito http://ec.europa.eu/internal_market/company/docs/modern/com2011-164_it.pdf).

 

[72] L’assembela, in definitiva, è quella che può mandare a casa gli amministratori che hanno male operato, e la possibilità “reale” che ad essa spetti l’ultima parola costituisce un sicuro deterrente per chi gestisce la società. Ma affinché quella possibiltà sia, appunto, “reale”, occorre riconoscere un ruolo attivo anche alle minoranze, come capacità dialettica e propositiva. Cfr. sul punto P. Abbadessa, Nuove regole in tema di procedimento assembleare e tutela delle minoranze, cit., pp. 170 ss.

 

[73] Posizione dissonante, e  assolutamente solitaria, è quella di G. Ferrarini, Funzione del consiglio di amministrazione, ruolo degli indipendenti e doveri fiduciari, in I controlli societari – Molte regole, nessun sistema, a cura di M. Bianchini  e C. Di Noia, Milano, 2010, p. 65. L’A. ritiene che il sistema esista, e «forse» non solo sul piano economico-aziendale, ma anche su quello giuridico, e che, attraverso un’interpretazione di tipo funzionale, sia possibile portare ad unità e ad essere coerenti le molte regole presenti.

 

[74] P. Montalenti, Intervento, in Il sistema dei controlli societari: una riforma incompiuta?, a cura di C. Bellavite Pellegrini, M. Bianco, M. Boella, L. Cardia, F. De Bortoli, F. Denozza, B. Ermolli, P. Gnudi, P. Marchetti, P. Montalenti, M. Notari, A. Pasetti, R. Perrotta, M. Reboa, G. Squinzi, Milano, 2008, p. 153, parla di «una congerie alluvionale di norme».

 

[75] B. Libonati, Conclusioni, in I controlli societari – Molte regole, nessun sistema, a cura di M. Bianchini e C. Di Noia, Milano, 2010;, p. 197.

 

[76]Cfr.  P. Montalenti, Organismo di vigilanza 231 e ordinamento societario: spunti di riflessione sul sistema dei controlli, Relazione Convegno Assonime – Milano 31 marzo 2009, pp. 15-16, consultabile sul sito http://www.assonime.it.

 

[77] Cfr. A. Dyck,  A. Morse e L. Zingales, Who Blows the Whistle on Corporate Fraud?, Working Paper No. 08-22, ottobre 2008, Initiative on Global Markets, The University of Chicago, Booth School of Business, in part. p. 29, consultabile sul sito http://papers.ssrn.com/sol3/papers.cfm?abstract_id=891482;

 

[78] Un excursus semantico ed etimologico mostra che nelle diverse lingue europee il termine "rete" nasce per indicare un oggetto: la rete da caccia o da pesca. Il termine italiano rete deriva dal latino rete, retis – da cui deriva anche il francese réseau-  che rimanda alle reti da caccia e da pesca, anche nell’utilizzo figurato.

 

[79] Sembra porsi lungo tale linea evolutiva la creazione della figura del dirigente preposto alla redazione dei documenti contabili. L’istituto, in effetti, tiene conto delle realtà operative (almeno di quelle più complesse), nelle quali gli amministratori non si occupano della contabilità.

 

[80] Cfr. L. Cardia, Intervento, in Il sistema dei controlli societari: una riforma incompiuta?, a cura di C. Bellavite Pellegrini, M. Bianco, M. Boella, L. Cardia, F. De Bortoli, F. Denozza, B. Ermolli, P. Gnudi, P. Marchetti, P. Montalenti, M. Notari, A. Pasetti, R. Perrotta, M. Reboa, G. Squinzi, Milano, 2008, p. 119. L’A. si riferisce all’esperienza italiana, ma non solo.

 

[81] Segnala tale problema P. Montalenti, Crisi finanziaria, struttura dell’impresa, corporate governance, relazione presentata in occasione della giornata di studio, svoltasi a Roma il 20 giugno 2009, in preparazione del convegno su "Il diritto commerciale europeo di fronte alla crisi", p. 5, consultabile sul sito http://www.orizzontideldirittocommerciale.com, mettendo in evidenza come sovente <<molte istanze procedono non già ad atti di ispezione e di vigilanza diretta, bensì ad atti di accertamento presso le “istanze inferiori”, volte a verificare il corretto svolgimento delle procedure di controllo e l’adeguatezza degli assetti organizzativi, di cui le procedure stesse sono parti integranti>>.

 

[82] A. Malaguzzi, Il sistema dei controlli e il flusso delle informazioni nelle società quotate. Conclusioni. Il ruolo cruciale dell’Internal Audit,  in Riv. dott. comm., n. 1, 2007, pp. 118-119. Sul tema si v. anche M. Reboa, Le regole del buon governo societario a tutela del risparmio, in Riv. dott. comm., supplemento al n. 3/2007, pp. 21 ss.

 

[83] Allo stato attuale, giova ribadirlo, l’attribuzione all’assemblea di funzioni gestorie si scontra con le disposizioni degli artt. 2380-bis e 2364 c.c.

 

[84] L’evidente finalità del legislatore di rafforzare i compiti e il ruolo del collegio sindacale nelle società di capitali reso manifesto con il d.lg. 39/2010 sembra ispirato all’idea di rete e di policentrismo presentate nel testo. Cfr. Assonime, Circolare n. 16 del 3 maggio 2010, Il testo unico della revisione legale, cit., p. 9.

 

[85] Così G. Ferrarini, Funzione del consiglio di amministrazione, ruolo degli indipendenti e doveri fiduciari, cit. p. 51. L’A. indica in M.A.  Eisenberg, The Structure of the Corporation: a Legal Analysis, Boston-Toronto, 1976 il libro che ha segnato il ricordato passaggio. Sempre sul punto, si segnalano anche: R. Monks e N. Minow, Corporate Governance, 3° ed., Malden, Massachussets, 2004, p. 195, ove si legge: <<the board’s primary role is to monitor management on behalf of the shareholders>>; M.A. Eisenberg, Obblighi e responsabilità degli amministratori e dei funzionari delle società nel diritto americano, in Giur. comm., 1992, p. 617, ove l’A. afferma che la funzione primaria del consiglio di amministrazione, almeno nelle società medio-grandi, <<non consiste nell’amministrazione della società, bensì nella sorveglianza degli amministratori, cioè nel controllo di coloro che invece gestiscono la società, al fine di assicurare che questi lo facciano bene ed in modo efficiente>>.

Il crescente ruolo del consiglio di amministrazione in materia di controllo trovava una importante specificazione nel previgente Codice di Autodisciplina, che affidava ad esso la responsabilità dell’adozione di un sistema di controllo adeguato alle caratteristiche dell’impresa. Invero, a mente del vecchio art. 8.P.3 il compito di valutare l’adeguatezza del sistema di controllo interno rispetto alle caratteristiche dell’impresa spettava al consiglio di amministrazione, e, il vecchio art. 8.C.1 stabiliva che lo stesso, con l’assistenza del comitato per il controllo interno:

a) definisce le linee di indirizzo del sistema di controllo interno, in modo che i principali rischi afferenti all’emittente e alle sue controllate risultino correttamente identificati, nonché adeguatamente misurati, gestiti e monitorati, determinando inoltre criteri di compatibilità di tali rischi con una sana e corretta gestione dell’impresa;

b) individua un amministratore esecutivo (di norma uno degli amministratori delegati) incaricato di sovrintendere alla funzionalità del sistema di controllo interno;

c) valuta, con cadenza almeno annuale, l’adeguatezza, l’efficacia e l’effettivo funzionamento del sistema di controllo interno;

d) descrive, nella relazione sul governo societario, gli elementi essenziali del sistema di controllo interno, esprimendo la propria valutazione sull’adeguatezza complessiva dello stesso.

Ancora, la medesima disposizione stabiliva che il consiglio di amministrazione, su proposta dell’amministratore esecutivo incaricato di sovrintendere alla funzionalità del sistema di controllo interno, e sentito il parere del comitato per il controllo interno, nominava e revocava uno o più soggetti preposti al controllo interno e ne definiva la remunerazione coerentemente con le politiche aziendali.

 

[86] Cfr. M. Bianco e P. Casavola, Corporate governance in Italia: alcuni fatti e problemi aperti, in Riv. soc., 1996, pp. 429-436; F. Barca, M. Bianchi, F. Brioschi, L. Buzzacchi, P. Casavola, L. Filippa e M. Pagnini, Assetti proprietari e mercato delle imprese. Vol. II. Gruppo, Proprietà e controllo nelle nelle imprese italiane medio-grandi, Bologna, 1994, pp. 15 ss.

 

[87] Critica i sistemi alternativi di amministrazione e controllo per il loro non spingere fino in fondo la distinzione funzionale e strutturale del controllo sull’amministrazione S. Fortunato, La nuova disciplina dei controlli delle società per azioni: il punto di vista del giurista, in La riforma delle società di capitali – Aziendalisti e giuristi a confronto, a cura di N. Abriani e T. Onesti, Milano, 2004, p. 95.

 

[88] Cfr. A. Pisani Massamormile, Appunti sugli amministratori indipendenti, in Riv. dir. soc., 2008, 2, pp. 241 ss., ove l’A. svolge, tra le altre, interessanti considerazioni sulla distinzione tra il concetto di indipendenza e quello di autonomia.

 

[89] Tanto che vi è chi ne ha auspicato l’abolizione: cfr. L. Nazzicone, Sub art. 2387, in Amministrazione e controlli nella società per azioni, a cura di L. Nazzicone e S. Providenti, Milano, 2010, p. 121.

 

[90] Per il pericolo che l’introduzione della figura dell’amministratore indipendente si risolva in una mera operazione di facciata si v. R. Rordorf, Gli amministratori indipendenti, in Giur. comm., I, 2007, p. 162.

 

[91] Cfr. The High Level Group Of Company Law Experts, Report on A Modern Regulatory Framework for Company Law in Europe, Bruxelles, 04.11.2002, consultabile sul sito http://ec.europa.eu/internal_market/company/docs/modern/consult_en.pdf., ove a p. 18 si afferma: <<It is important for companies and their shareholders, as well as other stakeholders, that shareholders have effective means to actively exercise influence over he company. Shareholders are the residual claimholders – they only receive payment once all creditors have been satisfied – and they are entitled to reap the benefits if the company prospers. Shareholders need to be able to ensure that management pursues and remains accountable to the interests of the shareholders. Shareholders focus on wealth creation and are, therefore, very suited to act as "watchdog", not only on their own behalf, but even on behalf of other stakeholders. There is a particular need for this in the case of listed companies where shares are widely held>>.

 

[92] D. Regoli, Gli amministratori indipendenti tra fonti private e fonti pubbliche e statuali, in Riv. soc., 2008, pp. 387-388; M. Belcredi, Amministratori indipendenti, amministratori di minoranza, e dintorni, in Riv. soc., 2005, pp. 857 e 874; S.M. Bainbridge, A Critique of the NYSE’s Director Indipendence Listing Standards, Research Paper No. 02-15, University of California, Los Angeles School of Law Research Paper Series, p. 24, consultabile sul sito http://ssrn.com/abstract_id=317121.

 

[93] M. Belcredi, o.c., p. 68. Non si può non condividere il pensiero di L. Nazzicone, Sub art. 2387, in Amministrazione e controlli nella società per azioni, a cura di L. Nazzicone e S. Providenti, Milano, 2010, p. 121, secondo cui <<l’essenza della libertà di giudizio sta soltanto nelle fibre intellettuali, nella statura morale e nel carattere di ciascuno, e dunque non può che afferire alla sfera interiore dell’individuo ed è impossibile da imporre per legge>>.

 

[94] Cfr. F. Chiappetta, o.c. , p. 120, il quale ha osservato che quella adottata dal Codice di autodisciplina, essendo finalizzata alla valutazione della idoneità ad assolvere al meglio lo specifico ruolo assegnato, è una nozione di indipendenza eminentemente funzionale.

 

[95] P. Ferro-Luzzi, Indipendente . . . da chi; da cosa?, in Riv. soc., 2008, p. 207, individua il dato fondante dell’indipendenza nel valore di reputazione, professionale e personale, superiore al valore della carica.

 

[96] L. Enriques, Breve commento sulla <<natura>> e il ruolo degli amministratori indipendenti, in I controlli societari – Molte regole, nessun sistema, a cura di M. Bianchini  e C. Di Noia, Milano, 2010, p. 45.

 

[97] Cfr. The High Level Group Of Company Law Experts, Report on A Modern Regulatory Framework for Company Law in Europe, cit. , pp. 74-75.

 

[98] Cfr. Assonime, Circolare n. 87 del 1999, in Riv. soc., 1999, p. 1405.

 

[99] Assonime, La Corporate Governance in Italia: autodisciplina e operazioni con parti correlate (anno 2011), Note e studi 1/2012, febbraio 2012, p. 22, consultabile sul sito www.assonime.it.

 

[100] Assonime, op. ult. cit., p. 15.

 

[101] Assonime, op.ult. cit., p. 22.

 

[102] Si deve ricordare che la partecipazione degli esponenti del mondo delle società quotate è assolutamente indispensabile perché il Codice conservi quell’indefettibile grado di accettazione e condivisione.

 

[103] Il novellato art. 3.C.3. del codice di autodisciplina raccomanda infatti che negli emittenti appartenenti all’indice FTSE-Mib almeno un terzo del consiglio di amministrazione sia costituito da amministratori indipendenti, e che in ogni caso questi non siano meno di due.

 

[104] Il riferimento è a norme quali quella dell’art. 6.P.1., ove si raccomanda che la remunerazione degli amministratori e dei dirigenti sia stabilita in misura sufficiente ad attrarre, trattenere e motivare persone con adeguate qualità professionali, quella dell’art. 7.P.3. che sollecita a prevedere modalità di coordinamento tra i vari soggetti coinvolti nel sistema di controllo interno e gestione dei rischi, e quella del commento all’art. 8 che raccomanda un generico costante scambio di informazioni tra il collegio sindacale e gli organi e le funzioni societarie che operano nell’ambito dei controlli.

 

[105] L. Enriques, Codici di corporate governance, diritto societario e assetti proprietari: alcune considerazioni preliminari, in Banca impresa società, 2003, p. 99,

 

[106] A tal proposito A. Blandini, Società quotate e società diffuse – Le società che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio, in Tratt. dir. civ. del Consiglio Nazionale del Notariato diretto da P. Perlingieri, V, 10, Napoli, 2005, p. 488, parlando appunto del codice di autodisciplina, afferma che <<(i)n realtà, non è casuale la particolare attenzione dedicata all’organo amministrativo: non soltanto in quanto, essendo deputato alla gestione della società, costituisce evidentemente il più importante destinatario naturale di questi studi, ma, soprattutto, perché sostanzialmente privo di una adeguata regolamentazione, a differenza di quanto si verifica per il collegio sindacale, o, meglio, per l’organo di controllo interno, così come per le altre fattispecie di controllo, più o meno esterno, configurate>>.

 

[107] Come evidenziato da un sondaggio, non recente ma ancora sicuramente utile nel comprendere le dinamiche relative agli investitori istituzionali, realizzato tra il 1999 e il 2000 dalla McKinsey tra numerosi investitori istituzionali di tutto il mondo il profilo della governance di una società costituisce un dato fondamentale nel processo decisionale dell’investimento (cfr. McKinsey & Company, Investor Opinion Survey, june 2000, consultabile sul sito www.oecd.org.

 

[108] Il riferimento è, come visto supra, in particolar modo, alla netta differenziazione di ruoli, contenuta nel novellato art. 7, tra comitato controllo e rischi e organo di controllo interno, al quale ultimo si riconosce ora un ruolo centrale nella vigilanza societaria; riconoscimento che acquista ancora più valore se letto in uno con la mancata riproposizione di quei  passaggi che sottolineavano la centralità del consiglio di amministrazione in materia di controllo interno.