Testatina-Monografie2013

 

 

 

Introduzione al volume di LEO PEPPE, Uso e ri-uso del diritto romano, Torino, G. Giappichelli Editore, 2012, pp. VIII-182. ISBN/EAN 978-88-348-3673-6

Indice-Sommario

 

 

 

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Leo Peppe

Università Roma Tre

 

 

Uso e ri-uso del diritto romano

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Sommario: 1. Premessa. – 2. Ri-uso. – 3. Uso. – 4. L’anatra. – 5. L’anatra non emerge più? – 6. L’anatra emerge ancòra. – 7. Una piccola parentesi sulla curiosità. – 8. Le vie del ‘classico’.

 

 

 

 

1. – Premessa*

 

Recentemente mi sono imbattuto in uno studio il cui titolo così come il titolo del libro che lo accoglieva mi hanno colpito: si trattava di Osservazioni sul passaggio dal “ri-uso rituale” al “ri-uso mondano” nell’opera di Vico di Stefania Sini, contenuto nel volume collettaneo Sul ri-uso. Pratiche del testo e teoria della letteratura[1].

A mia memoria non mi era mai capitato di incontrare in un contesto romanistico il sintagma ri-uso (o semplicemente riuso) con questa evidente importanza, mentre ciò si era verificato molte volte in relazione al termine base ‘uso’.

Nel linguaggio comune ricorre spesso l’espressione ‘uso e riuso’ ed è riferita prevalentemente alla conservazione dell’ambiente ed allo sviluppo sostenibile ed alle conseguenti possibili attività di riutilizzazione dei più svariati materiali.  Non è questo evidentemente il contesto che ci interessa, in quanto il nostro ambito di riferimento è quello dei beni immateriali, cioè — in senso lato — delle norme ed in particolare di quelle norme, formulazioni e concetti che vengono ricondotti all’esperienza giuridica romana.

È evidente da queste considerazioni preliminari come sarebbe necessario chiarire il significato delle parole che ci interessano in relazione al nostro contesto giusromanistico.

Ma perché questo avvio del mio discorso?

Nel corso della mia attività ormai molto lunga di docente del I anno del corso di laurea in Giurisprudenza, con qualche esperienza nel corso ‘avanzato’ di Diritto romano degli anni successivi, mi sono trovato prevalentemente ad insegnare a giovani studenti appena usciti dalla scuola e privi di qualsiasi retroterra per quanto riguarda la storia del diritto e quasi sempre anche per ciò che concerne il diritto contemporaneo. A questi studenti ho dovuto e devo proporre un programma estremamente tecnico, in un corso di lezioni il cui numero consente appena di impartire le nozioni fondamentali del diritto privato romano e del relativo processo: solo a fatica e sporadicamente è stato possibile aprire delle ‘finestre’ che mostrassero come quello che stavano studiando fosse in qualche modo collegabile alla loro realtà di studenti di oggi.  Ciò sarebbe stato possibile con la necessaria ampiezza e il dovuto approfondimento solo nel corso avanzato.

Ho avvertito perciò la necessità di offrire una possibilità di letture che mostrino immediatamente come ciò che vengono studiando nel I anno possa risultare utile non solo al fine — sempre indispensabile — di acquisire le nozioni fondamentali della disciplina, senza le quali nessuna ulteriore riflessione è possibile, ma consenta anche di venire a conoscere come alcuni nodi problematici del nostro tempo si intersecano con la realtà di quella lontana esperienza giuridica: o, ancòra più stimolante, come il rapporto tra l’attualità e il passato sia talvolta solo una costruzione dell’oggi.

È in questa prospettiva, rivolta essenzialmente agli studenti, che ho raccolto alcuni miei studi abbastanza recenti, che non fossero molto specialistici e quindi non richiedessero già competenze acquisite e mature, ma avessero come sfondo quanto gli studenti stavano apprendendo nel corso del I semestre del I anno e soprattutto potessero – spero – suscitare interesse e forse anche un pizzico di curiosità.  Non si tratta, con qualche eccezione, di studi che secondo l’approccio tradizionale mostrino come il diritto moderno trovi nel diritto romano – e in particolare nel diritto privato romano – un utile o addirittura necessario punto di riferimento, come strumentario concettuale costruitosi in una complessa storia (la nostra storia) che arriva fino all’oggi; si tratta soprattutto di temi contemporanei che appaiono (o talvolta sembrano solo apparire) essersi già imposti come importanti nel passato, non solo romano: per questo vi sono anche ampi riferimenti al Medio Evo oppure, in un caso, il punto di partenza è un passo di Tucidide.

Ma sullo sfondo la prospettiva rimane quella del diritto romano, come punto di riferimento almeno problematico: un punto di riferimento complesso e dalla storia molto più stratificata (e talvolta drammatica) di quanto possa apparire all’inizio degli studi giuridici, una storia che va dalla città di Roma delle origini fino all’attualità.  Mi è sembrato perciò opportuno offrire anche una chiave di lettura complessiva di questa raccolta: a ciò dovrebbero servire il titolo che ho individuato e la spiegazione che ne do nelle pagine che seguono, spiegazione che viene in realtà a innervarsi necessariamente su ciò che il diritto romano è stato e può essere oggi.

 

 

2. – Ri-uso

 

Il contesto tecnico del termine ri-uso è nel nostro caso quello letterario.  Nell’Introduzione al volume su citato, Edoardo Esposito ne traccia sinteticamente la storia[2], a partire dalla riflessione di Franco Brioschi[3], docente di Critica e teoria della letteratura scomparso nel 2005, che introduce il termine ‘ri-uso’ nel 1978 prendendo spunto da una distinzione operata da Heinrich Lausberg[4] tra ‘discorso di consumo’ e ‘discorso di ri-uso’ trattando del ‘discorso in generale’. Così Lausberg:

“Il discorso di consumo è un discorso che […] viene tenuto una sola volta da chi parla in una situazione e che, quindi, in questa situazione consuma interamente la sua funzione, secondo l’intenzione (voluntas) di chi parla.”

“Il discorso di ri-uso è un discorso che viene tenuto in tipiche situazioni (solenni, celebrative) periodicamente o irregolarmente, dallo stesso oratore o da oratori che cambiano: esso mantiene la sua ‘usabilità’ per dominare, una volta per tutte, queste situazioni tipiche (all’interno di un ordine sociale che si presume costante).”

Esposito riconduce al ri-uso “le leggi, le formule liturgiche e sacrali, e ogni discorso in cui la coscienza collettiva si riconosce e conferma se stessa […]: e tale è appunto la letteratura, la cui conservazione dà luogo alla tradizione letteraria”[5]. Si tratta evidentemente di una definizione molto ampia, ai fini della quale i criteri che consentono in un determinato caso di parlare di ri-uso sono diversificati[6], ma possono essere ricondotti in sintesi ai dati che il testo in esame sia applicabile, ben individuato nel suo contenuto e nella sua origine.

Non è questa ovviamente la sede per approfondire il discorso, ma appare a prima vista possibile estendere il ricorso a queste categorie al diritto in generale, che è prima di tutto testo, che la scienza giuridica e gli operatori del diritto ‘utilizzano’, ed al diritto romano, che ancòra di più è oggi – ovviamente – testo scritto: e, non a caso, tutta l’influenza del diritto romano dopo la compilazione giustinianea viene riassunta nel sintagma ‘tradizione romanistica’, evidentemente accostabile a quello di ‘tradizione letteraria’ su menzionato.

Nella specificità della tradizione romanistica può evidenziarsi altresì che l’oggetto può in parte cambiare (il Digesto giustinianeo riemerge all’uso con fatica, le Istituzioni di Gaio vengono ritrovate nel 1816), ma il contenitore ‘Diritto romano’ ne costituisce un ‘segno’ forte e stabile.

Ed al contempo nel ri-uso è possibile attrarre anche l’esperienza giuridica romana, nel momento in cui in essa si faceva ricorso a norme esistenti e nozioni consolidate; è in fondo quanto Gaio afferma all’inizio delle sue Istituzioni (Gai 1.1): Omnes populi qui legibus et moribus reguntur, partim suo proprio, partim omnium hominum iure utuntur [Tutti i popoli che sono retti da leggi e costumi usano in parte un diritto loro proprio, in parte un diritto comune a tutti gli uomini]; (Gai 1.8): Omne autem ius quo utimur, vel ad personas pertinet vel ad res vel ad actiones [Invero tutto il diritto di cui ci serviamo attiene alle persone, o alle cose, o alle azioni].  Così, esplicitamente, all’inizio del Digesto giustinianeo il giurista Sesto Pomponio in D. 1.2.2.6 (Pomp. l. s. enchir.): Et fere populus annis prope centum hac consuetudine usus est [E il popolo si servì di questa consuetudine per circa cent’anni].

 

 

3. – Uso

 

Se il verbo latino uti [fare uso] ricorre nel lessico giuridico romano ad individuare (anche) il servirsi del diritto (in generale o di un particolare diritto), altrettanto può dirsi del sostantivo usus; ad es., ancòra guardando a Gaio, se da una parte viene impiegato come individuante l’esercizio di una specifica situazione giuridica (la manus, il godimento di un bene, di una servitù), dall’altra — in particolare nel sintagma in usu [nella pratica] — usus individua il sussistere di un istituto giuridico nella prassi viva del diritto, fino ad individuare una presenza consuetudinaria.  Ma in alcuni casi è evidente che in usu significa ‘essere utilizzato’, come nel caso delle legis actiones (Gai 1.25; 82), così come è indubbio che usus può significare solo ‘utilizzazione’ delle exceptiones in Gai 4.108: Alia causa fuit olim legis actionum. Nam qua de re actum semel erat, de ea postea ipso iure agi non poterat; nec omnino ita, ut nunc, usus erat illis temporibus exceptionum [; … né in quei tempi vi era, come ora, uso delle eccezioni].

Nella tradizione romanistica usus ricorrerà in tutti questi modi e in particolare si può evidenziare che nel 1690 un importante professore universitario tedesco, Samuel Stryk (1640-1710), inizierà a pubblicare il suo Specimen usus moderni Pandectarum[7], nel quale i testi giustinianei vengono studiati ed utilizzati in vista delle necessità della pratica: in realtà Stryk si inserisce in una tendenza che già si stava affermando, ma il titolo della sua opera fu così fortunato da dare il nome a quella tendenza scientifico-pratica chiamata appunto usus modernus Pandectarum, sintagma che è stato tradotto ‘prassi romanistica adeguata alle esigenze del presente’[8].

Aggiungerei che è interessante anche la contestualizzazione attualizzante dell’usus che avviene mediante l’apposizione dell’attributo modernus; in altri termini, anche se evidentemente meno qualificante la prospettiva, il titolo avrebbe potuto fare a meno della specificazione modernus?  Credo che la presenza dell’attributo sia essenziale, ad indicare che la vera novità non è che siano in uso le Pandette, quanto il modo di tale uso.

Ciò indica la consapevolezza, del resto ovvia, che prima di lui le Pandette erano comunque ‘in usu’, in primo luogo da parte di quella tradizione dei Glossatori e Commentatori che va sotto il nome di mos Italicus, ma da questa Stryk si differenzia in modo sostanziale con il superamento della tecnica del commento dei singoli passi della compilazione giustinianea[9].

Ai giorni nostri troviamo invece l’usus hodiernus Pandectarum, evidente recupero di una precedente terminologia posto al servizio di un approccio storico-comparatistico allo studio del diritto, che è il titolo di un fondamentale articolo del 1991 di Reinhard Zimmermann[10], illustre comparatista con solide basi storico-romanistiche, oggi Direttore del Max Planck Institute for Comparative and International Private Law di Amburgo. O, all’opposto contrario, si può oggi trovare l’usus antiquus iuris Romani, titolo di un volume collettaneo[11] di studi sul diritto romano ‘dei Romani’.

In conclusione, l’usus può essere qualificato antiquus, modernus, hodiernus, ove modernus e hodiernus sostanzialmente si equivalgono.

Se invece si prende in considerazione la terminologia italiana — limitandoci a questa sola lingua moderna —  piuttosto che quella latina, si potranno immediatamente fare due considerazioni: la prima che nel nostro contesto ‘uso’ è nel senso concreto di ‘utilizzazione’; la seconda che anche qui il sostantivo si accompagna ad un attributo che lo specifica.

Il più importante di questi aggettivi è ‘attuale’, che può avere due significati: il primo, specifico, guarda all’oggi e colloca (prova a collocare) l’uso del diritto romano nel contesto della scienza giuridica contemporanea; il secondo (che in realtà comprende anche il primo)  individua il nesso tra il diritto romano e l’uso che se ne è fatto in un determinato periodo, qualificandolo in senso operativo in opposizione ad un uso puramente storico/antiquario.  È altresì qualificazione che accompagna momenti ed opere fondamentali della storia del diritto, a partire da quel monumento della scienza giuridica moderna che è il Sistema del diritto romano attuale[12] di Friedrich von Savigny e fino ai giorni nostri, quando nel 1999 ha iniziato ad essere pubblicata la nuova rivista Diritto romano attuale[13].  Sull’‘uso attuale’ del diritto romano sono state scritte biblioteche; tra le opere fondamentali vi è certamente quella di Riccardo Orestano, la Introduzione allo studio del diritto romano[14], su cui tornerò tra breve. Carlo Augusto Cannata, in un suo lavoro[15], così inizia: “L’‘uso attuale’ del diritto romano, o, per meglio dire, dei libri dell’imperatore Giustiniano identificati come Corpus iuris civilis, è stato variamente giustificato nel corso del medio evo e dell’epoca moderna”. Si possono individuare due tendenze di fondo: l’uso attuale del diritto romano come “il vigore positivo di quel diritto” oppure – storicamente prevalente, sia pure con accenti diversificati – il ricorso a quel diritto “come la sede del metodo giurisprudenziale corretto (ratio) e come il patrimonio comune dell’esperienza del giusto (aequitas)”[16].

Orestano[17] ha individuato – oltre a quella ovvia di diritto romano come ‘diritto romano storico’, cioè il diritto dei Romani dalle origini di Roma a Giustiniano – nel corso dei secoli diverse nozioni di diritto romano, che dipendono dal ruolo che in essi quel diritto ha avuto, in altri termini dal suo uso in diversi contesti; il loro elenco (per ciascuna di esse si rinvia al corso di lezioni) è:

1.  diritto romano come tradizione romanistica: in realtà si tratta del contenitore generico e generale di tutte quelle esperienze successive al ‘diritto romano dei Romani’ e che hanno in comune il Corpus iuris come punto di riferimento[18];

2.  diritto romano come diritto comune europeo (ius commune);

3.  diritto romano come pandettistica;

4.  diritto romano come romanistica (o, come si dice oggi, giusromanistica), cioè ‘lo studio del diritto dei Romani’;

5.  diritto romano come romanesimo, ‘cui non corrisponde alcuna formazione concreta’ ma che è essenzialmente il veicolo di affermazioni ideologiche, pur – come si vedrà tra breve – non irrilevanti.

A questo elenco si potrebbe oggi aggiungere una sesta nozione, che pone il diritto romano tra i ‘fondamenti del diritto europeo’[19], con opzioni di tipo storico-culturale o ‘neopandettista’, in un dibattito molto vivo tra i giusromanisti e tra questi e gli storici del diritto intermedio e i comparatisti: non può altresì essere sottaciuto che in questi dibattiti forte è la presenza/influenza della sofferenza (in termini di spazio e peso dei relativi insegnamenti nelle Università) per la pressione accademica delle materie cd. professionali a danno delle materie cd. ‘culturali’. Ma questa problematica è evidentemente figlia del modello di Università e di formazione che si intende perseguire.

Torniamo ad Orestano, per un punto qualificante della sua ricostruzione. I cinque (o sei, con l’aggiunta dei ‘fondamenti’) significati di diritto romano su elencati sono tutti ‘usi impropri di questa espressione’[20], a fronte dell’unico uso proprio secondo Orestano, quello di ‘diritto romano storico’ dalle origini di Roma al Corpus iuris. Ma questa contrapposizione così netta, oggi, quando la lezione di Orestano è stata compiutamente metabolizzata, non è più necessaria, anche se è ovvia e preliminare a qualsiasi altra considerazione: ciò che oggi rileva dal punto di vista metodologico è la consapevolezza di una piena contestualizzazione di qualsiasi uso o, nella terminologia che si è visto, di ri-uso.

Concludo queste considerazioni con tre ultimi rilievi.

Il primo punto, è la constatazione che quanto qui finora sinteticamente esposto, è con tutta evidenza espressione di concettualizzazioni secolari e complesse. Ma, come ha scritto efficacemente Carlo Lanza, “Noi sappiamo che i concetti sono necessari. Negare a un giurista l’uso dei concetti sarebbe come negare all’uomo l’uso del linguaggio, per il fatto che le parole non sono altro che pallidi indici della realtà[..].  Ma, come insegnava Orestano, se i concetti sono buoni servitori, essi sono cattivi padroni[58] [21]. Cattivi e astuti”[22].  Né è possibile e corretto escludere aprioristicamente campi di indagine, come paradossalmente faceva l’art. 2 dello Statuto (1866) della Société de Linguistique de Paris: La Société n’admet aucune communication concernant, soit l’origine du langage, soit la création d’une langue universelle” (‘La Société non ammette alcuna comunicazione che riguardi l’origine del linguaggio o la creazione di una lingua universale’).

Il secondo punto è che questi diversi usi del diritto romano sono spesso avvenuti non senza forti contrasti ed opposizioni: nella rivolta dei contadini tedeschi (1524-25) corre il motto Juristen, schlechte Christen (‘Giuristi, cattivi cristiani’, ove i giuristi sono i doctores di formazione romanistica[23]); nel volgere dei secoli si è parlato, a proposito del diritto romano, (nell’Umanesimo giuridico) di ‘veleno’[24], (nell’Illuminismo) di prodotto nauseabondo “de’ secoli i più barbari”[25], (nella Germania tra fine 800 e inizi 900) di ‘infezione distruttiva’ e di ‘sventura nazionale’[26], oppure – di recente ed a mettere in guardia – di ‘buon uso del diritto romano’[27].

Il terzo punto è la sottolineatura del linguaggio variato, dall’astratto al concreto, che ricorre nel discorso fatto finora.  Il diritto spesso vive nella coscienza dell’operatore giuridico ed ancòra di più del cittadino comune nella sua concretezza, grazie ad immagini concrete e similitudini apparentemente semplici.

Ad es., un tema classico del costituzionalismo a partire da Alexis de Tocqueville è se il Regno Unito abbia o no una costituzione[28]; se nel 1867 Walter Bagehot pubblica The English Constitution, quattro anni dopo un tipico rappresentante dell’establishment accademico-culturale inglese, il letterato/filosofo Leslie Stephen[29], fondatore con altri dell’Alpine Club nel 1857 e di esso presidente negli anni 1865-1868, racconta di una sua scalata nell’estate del 1869 a Primiero, in Trentino, e così conclude, manifestando ironicamente disinteresse per altre cime nella zona: “Per quanto mi riguarda, fin tanto che la costituzione inglese continuerà a valere e l’Alpine Club ad esistere, le ultime cime di Primiero possono restare inviolate”[30]. Per lui  la costituzione inglese è in realtà un saldo punto di riferimento[31].

Se si guarda al diritto romano, ormai una similitudine si è imposta – non solo tra i romanisti, come si vedrà tra breve – come sintesi e rappresentazione della sua storia: è quella dell’anatra, che va sott’acqua e poi riemerge, risalente a Goethe ed utilizzata assai spesso, in genere nell’introduzione ad una trattazione romanistica[32]. L’importanza di queste parole di Goethe per i romanisti è stata giustamente sottolineata, anche come un lascito impegnativo[33]: meritano perciò qualche riflessione, anche in considerazione del loro ri-uso recente in chiave polemica[34].

 

 

4. – L’anatra

 

Le parole di Goethe vengono utilizzate o in una parafrasi o come citazione letterale della frase circa il diritto romano. In realtà, qui si è in senso proprio davanti ad un caso di ri-uso ed esso merita qualche riflessione. I romanisti ovviamente sono interessati ad utilizzare l’immagine, né credo sia irrilevante l’attribuzione a Goethe, conosciuto essenzialmente come scrittore massimo; ed altrettanto ovviamente essa viene presentata in traduzione.

Nella più recente traduzione in italiano[35] si legge che il diritto romano è “un’istituzione intramontabile, la quale, simile a un’anatra che si immerge nell’acqua, di tanto in tanto scompare, ma non va mai interamente perduta e prima o poi riemerge in tutta la sua vitalità”. È questa la frase che viene di solito citata, ma il suo significato si arricchisce notevolmente se la si restituisce in modo più ampio nel suo contesto e in una traduzione più fedele all’originale, del quale preliminarmente si deve ricordare l’assoluta peculiarità. Non si tratta di un testo scritto da Goethe di suo pugno, ma di una ‘conversazione’ (datata 6 aprile 1829) tra lui e Johann Peter Eckermann (1792-1854), tra le tante che intercorsero tra i due negli ultimi nove anni di vita di Goethe (†1832) e che Eckermann poi pubblicò con notevole libertà (e grande successo).

In una situazione testuale così delicata mi sembra indispensabile essere il più fedeli possibile all’originale tedesco[36] e senza trascurarne il contesto; faccio quindi ricorso all’edizione di Eugenio Donadoni del 1912[37], più fedele all’originale. La conversazione inizia con le lodi di Goethe a Guizot ed alle sue lezioni di storia[38], che risalgono fino all’VIII secolo e – a parere di Goethe – sono interessanti soprattutto perché spiegano adeguatamente i cambiamenti storici e le questioni religiose. Ma l’opera di Guizot ad avviso di Goethe è da apprezzare perché guarda anche al diritto romano e qui facciamo iniziare la nostra citazione (ed. Donadoni): “Anche vediamo molto ben tracciata la storia del diritto romano, che continua sempre ad operare e che, come anatra che si attuffa, si nasconde di tempo in tempo, ma non si perde mai, e sempre risuscita piena di vita. E a questo proposito sono pienamente riconosciuti i meriti del nostro eccellente Savigny. Là dove Guizot parla degli influssi, che gli antichi Galli … ”; segue una descrizione del carattere nazionale dei popoli germanici.

Le diversità rispetto alla traduzione 2008, troppo libera, sono evidenti: il diritto romano non è una istituzione, l’anatra si nasconde, non scompare; ho qui aggiunto al modo tradizionale di citare il riconoscimento della grandezza di Savigny. Tutto ciò consente due rilievi: il nascondersi evidenzia ulteriormente che ciò che conta nel discorso è la visibilità dell’anatra, dal punto di vista etologico l’animale si immerge infatti non per nascondersi ma per cercare cibo.  Il secondo punto è l’ammirazione per Savigny: essa conferisce al discorso di Goethe una sfumatura interna al diritto ed al diritto romano in particolare; è cioè la spia che qui non si tratta solo di un poeta colto che opera un excursus.  Ed infatti Goethe ha una preparazione giuridica: figlio di Johann Caspar, doctor iuris, tra il 1765 ed il 1771 compie (malvolentieri) studi giuridici a Lipsia e Strasburgo, vi è una notevole consonanza del pensiero di Goethe con quello di Savigny[39]: in conclusione Goethe, ormai ottantenne nel 1829, con piena consapevolezza rende omaggio al diritto romano ed a quello che per lui ne è il migliore interprete del suo tempo.

 

 

5. – L’anatra non emerge più?

 

Il 5 novembre 2010 a Roma ha luogo uno di quei riti affettuosi che tengono stretti i legami all’interno di una comunità scientifica: la presentazione degli Scritti scelti di un professore universitario che va in pensione, con la consegna di un esemplare dei volumi allo stesso alla fine della riunione. È spesso un’occasione anche di discussione e di confronto, prevalentemente sui temi studiati dal collega che viene festeggiato, talvolta con relazioni talvolta con tavole rotonde; in quest’occasione – che riguarda un giusromanista – si tratta di una tavola rotonda dal tema “Diritto romano e formazione del giurista negli anni duemila”. Tra gli oratori vi è Sabino Cassese[40], uno tra i nostri maggiori amministrativisti, che – dopo aver ricordato il glorioso passato del diritto romano nella tradizione giuridica europea – in modo molto diretto accusa i romanisti di oggi di essere sordi alle domande del presente (e di conseguenza di essere sempre più isolati) oppure di aver ecceduto nell’attualizzazione “andando alla ricerca di classi, partiti, imprese nel diritto romano”.

Poi viene chiamata in causa la povera anatra e, dopo aver fatto la citazione dalla traduzione del 2008, l’oratore constata: “Ora, nell’ultimo quarto di secolo, l’anatra non è più riapparsa. Basti dire che di dieci noti giuristi, europei, americani e indiani, richiesti da una rivista giuridica americana di indicare i dieci scritti più importanti per la loro formazione intellettuale, nessuno ha menzionato un libro di diritto romano o legato alla tradizione romanistica”[41].

 

 

6. – L’anatra emerge ancòra

 

Le cose stanno veramente così? O si potrebbe anche concludere che non solo i romanisti non volano più? Un soldato, o meglio un altissimo ufficiale, italiano che tra i tanti incarichi militari che ha ricoperto è stato anche addetto militare a Pechino dal 1993 al 1996, ha scritto[42]: “E la stessa cultura giuridica occidentale si è trasformata sempre di più in cultura del Common Law anglosassone, per cui specialmente nelle missioni internazionali si assiste all’abbandono di tutti gli altri sistemi giuridici, compreso il diritto romano, a cui molti popoli di antica tradizione giuridica si ispirano e altri che vorrebbero riformare il proprio fanno riferimento. La Cina, ad esempio, nonostante sia il paese consuetudinario per eccellenza, quando ha intrapreso la riforma del proprio sistema si è messa a tradurre e si è ispirata al diritto romano, considerandolo molto più adatto alla propria cultura del Common Law anglosassone”.

Io stesso sono stato in Cina nel 2007 a Shangai, presentando la relazione “La ‘fiducia’ romana. Uno strumento versatile” in un convegno organizzato da Lihong Zhang (Full Professor of Civil Law and Roman Law - East University of Political Science and Law, Shanghai), che ha conseguito il dottorato di ricerca in Italia nel 2003 ed ha pubblicato un volume in Italia[43]. Insomma, come le anatre, anche il diritto migra, con flussi e trapianti talvolta imprevedibili, ma ben noti nei loro meccanismi ai comparatisti.

Quanto all’assenza assoluta di studi romanistici tra gli studi più importanti nella formazione di ‘dieci noti giuristi, europei, americani e indiani’, questo non mi stupisce. A meno che non si attribuisca da una parte una patente di universalità dall’altra una sorta di egemonia culturale agli studi di diritto romano, mi sembrerebbe del tutto impossibile un risultato diverso. Molto più modestamente mi preoccupa l’affermazione che in Italia, o ovunque sia insegnato il diritto romano, da una parte non vi sia più comunicazione tra i cultori del diritto romano e gli studiosi e più in generale gli operatori del diritto positivo, dall’altra che gli studi di diritto romano abbiano perso qualsiasi contatto con la realtà: è ovvio che riflettere su questo punto comporterebbe un lungo discorso, ma credo di poter utilmente rinviare all’ultimo dei miei lavori inserito in questa Raccolta, Alcune riflessioni sulla storia del diritto ovvero della rottura della tradizione (giuridica)[44], risalente alla fine del 1999, ma che sembra ancòra attuale, pur in un quadro che può ulteriormente indurre al pessimismo[45].

Ma sono comunque necessarie tre precisazioni.

La prima è che anche in una disciplina ‘antica’ come il diritto romano possono intervenire delle novità non sul piano interpretativo ma sul piano oggettivo, con ritrovamenti di nuovo materiale che possono cambiare ricostruzioni consolidate.  Un esempio: uno dei testi fondamentali della storia costituzionale romana sono le Res gestae divi Augusti, che sono il testamento politico di Augusto e il documento-base per qualsiasi ricostruzione del passaggio dalla Repubblica al Principato; questo passaggio potrebbe aver cambiato natura, con la pubblicazione nel 2003 di un nuovo, piccolo frammento delle Res gestae, del § 1 del cap. 34, con la sostituzione del tradizionale potitus (rerum omnium) con potens [dopo essere divenuto padrone→essendo padrone di tutte le cose=‘del sommo potere’[46]].

Una seconda precisazione è che non bisogna inciampare nella enorme quantità di materiali, carta, studi più o meno validi che affollano la scrivania ed il computer di ciascuno di noi (fenomeno non nuovo, se si pensa che, da poco nata la stampa, nell’anno 1500 erano già stati pubblicati 2000 titoli di opere giuridiche). Faccio anche qui un esempio. Nella Sezione II di questa Raccolta sono pubblicati due miei articoli, che conseguono ad una rilevante novità normativa italiana (D. lg.vo 8 giugno 2001, n. 231 - Disciplina della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni anche prive di personalità giuridica, a norma dell'articolo 11 della legge 29 settembre 2000, n. 300); come spiegato nella sede propria[47], il primo dei due articoli trae la sua origine dall’attribuzione al diritto romano del brocardo Societas delinquere non potest da parte della gran parte dei giuristi positivi italiani (e stranieri); solo prima della stesura finale del secondo articolo mi sono imbattuto in una relazione congressuale[48] di uno dei massimi civilisti italiani, Angelo Falzea, che nel 1979 sinteticamente aveva negato l’origine romana del brocardo (tra l’altro richiamando uno studioso precedente, ma senza farne il nome): un lavoro sconosciuto ai più (e non era di un romanista … ).

La terza ed ultima precisazione consiste nell’affermazione (che già avevo fatto nel 1999) che lo studio del diritto romano non deve essere al servizio del diritto positivo, ma deve incrociarsi con esso sulla base della propria capacità di farsi, fare e ricevere domande (ed anche una risposta non soddisfacente può essere importante): in altri termini, esso deve essere guidato da quella curiosità che ormai individua un approccio scientifico preciso (appunto curiosity driven o blue skies research) o più semplicemente dalla curiosità scientifica. Così conclude le bellissime pagine del suo intervento di saluto in un convegno a lui dedicato Dieter Nörr, forse il più grande romanista vivente: “Ognuno deve trovare la sua strada e la terapia adatta per venire a capo del suo istinto di curiosità. Chi sceglie la storia del diritto, non deve aspettarsi sicuro plauso e aiuto; nello stesso tempo deve essere cosciente del fatto che anche la sua scelta spesso è quasi casuale. In altre parole: non siamo noi a scegliere la nostra professione; è piuttosto l’ambiente culturale, nel quale la nostra professione vive o muore, che ci sceglie”[49].

 

 

7. – Una piccola parentesi sulla curiosità

 

Ma la curiosità non è solo ‘professionale’, è e deve essere uno stimolo per tutta la nostra vita (ma in tanti, da Agostino ad Heidegger, non hanno amata la curiosità). Quando ero in Cina, nel 2007, in una pausa ho fatto una passeggiata in un parco pubblico, dove, in una piazza lastricata di pietre lisce, c’era un gruppo di uomini di una certa età tra i quali uno ogni tanto faceva qualcosa e poi gli altri ne discutevano animatamente. Mi sono avvicinato (con discrezione) e ho visto che di volta in volta uno di loro intingeva un pennello in un barattolo e tracciava caratteri; gli altri commentavano, era evidentemente un esercizio di calligrafia (antichissima arte cinese). Ma la cosa straordinaria era che il pennello era intinto nell’acqua cosicché i caratteri avevano vita brevissima, evaporando rapidamente. Solo un gioco, un serissimo gioco?

Uno degli uomini mito del nostro tempo, Steve Jobs, il creatore della Apple, scomparso nel 2011, il 12 giugno 2005 in un discorso (lo si trova dappertutto nel web) ai laureandi dell’Università di Stanford racconta di aver abbandonato al college i corsi che non lo entusiasmavano e di aver seguito solo quelli che lo interessavano.  “E quello che trovai seguendo la mia curiosità e la mia intuizione risultò, solo dopo, essere senza prezzo.  Vi faccio subito un esempio. Il Reed College all’epoca offriva probabilmente la migliore formazione del Paese in calligrafia. In tutto il campus ogni poster, ogni etichetta, ogni cartello era scritto a mano con grafie bellissime. Dato che avevo mollato i corsi ufficiali, decisi che avrei seguito il corso di calligrafia per imparare a scrivere così. Fu lì che imparai i caratteri serif e sans serif, la differenza tra gli spazi che dividono le differenti combinazioni di lettere, quello che rende eccezionale un’eccezionale stampa tipografica. Era bello, storico, artistico e raffinato in un modo che la scienza non è in grado di offrire e io ne ero completamente affascinato [It was beautiful, historical, artistically subtle in a way that science can't capture, and I found it fascinating]. Nessuna di queste cose però aveva alcuna speranza di trovare un’applicazione pratica nella mia vita.  Ma dieci anni dopo, quando ci trovammo a progettare il primo Macintosh, tutto quello che avevo imparato mi tornò utile. E lo utilizzammo tutto per il Mac. È stato il primo computer dotato di una bellissima tipografia.”

Dimenticavo: anche Goethe da giovane studia calligrafia[50]; e quando, cinquant’anni dopo, scrive quello che forse è il suo capolavoro, Le affinità elettive (1809), nel rivelarsi dell’amore tra Ottilia ed Edoardo è centrale il ruolo della scrittura[51].

In conclusione, seguire le proprie curiosità è certamente divertente, ma può poi risultare anche utile o molto utile in quella che sarà la propria attività lavorativa.

 

 

8. – Le vie del ‘classico’

 

Concludo questa introduzione con una citazione dalla pagina finale di un mio lungo saggio recente sull’esecuzione personale[52], un saggio complesso e tecnico che idealmente riprende e porta alla conclusione il lavoro iniziato sull’argomento con il mio primo libro, del 1981[53].

“Ma forse è più importante far emergere una circostanza che mi sembra molto rilevante in una prospettiva generale. Per quanto riguarda la giustificazione ultima che ho dato, dopo averla sottolineata, dell’importanza del corpo nelle origini a Roma nel § 3, ho addotto fonti romane e letteratura scientifica note e meno note; ciò è vero per quanto riguarda Livio e Dionigi di Alicarnasso, ma per quanto riguarda le citazioni dall’Eneide e ad esse collegate, queste sono venute in un secondo momento, quando il lavoro era praticamente concluso, a sèguito di uno spunto dato dalla lettura in un quotidiano[54][204] di un breve articolo di una giovane scrittrice, Igiaba Scego, nata nel 1974, cittadina italiana di prima generazione, nata da una famiglia somala rifugiata in Italia per le note vicende della Somalia. Questo articolo lamentava la difficoltà di riconoscersi, da italiana, nei recenti cambiamenti che erano evidenti nella società e nella politica italiane circa l’accoglienza degli stranieri e concludeva con i versi 1.384-5 dell’Eneide [  versi da me appunto precedentemente citati: sono le parole di Enea davanti alle mura di Cartagine; Virg. Aen. 1.384: Ipse ignotus, egens, Libyae deserta peragro,/ Europa atque Asia pulsus; (A. Caro, 620) “Ed io mendíco, ignoto e peregrino, de l’Asia in bando, da l’Europa escluso, e ’n fin dal mar gittato or ne la Libia vo per deserti inospiti e selvaggi”, o, più alla lettera, “io ignoto, bisognoso, percorro i deserti di Libia, cacciato da Europa ed Asia”; e già al secondo verso dell’Eneide Enea si rappresenta come profugus]; io non li avevo avuti presenti a suo tempo, mi sono vergognato della mia dimenticanza o ignoranza, sia per l’oggetto in sé sia per la mancata consapevolezza da parte mia della reale capacità dei nostri classici di essere ancòra patrimonio comune, di tutti, anche e soprattutto dei giovani e dei nuovi concittadini. A questo punto, sono andato su Internet e ho trovato tante cose notevoli, a me ignote, in modo particolare nell’ambito di quella che è stata chiamata la ‘cultura dell’accoglienza’[55][205]. Le vie del ‘classico’[56][206] sono veramente infinite, talvolta ormai inimmaginabili per una persona come me non più giovane: ma per fortuna è così.”[57].



 

* Quanto qui segue, con adattamenti meramente formali, è l’Introduzione alla raccolta (di sèguito citata come Raccolta) ordinata di scritti già editi L. Peppe, Uso e ri-uso del diritto romano, Torino 2012, 1-20.

 

[1] S. Sini, Osservazioni sul passaggio dal “ri-uso rituale” al “ri-uso mondano” nell’opera di Vico, in Sul ri-uso. Pratiche del testo e teoria della letteratura (a cura di E. Esposito), Milano 2007, 25 ss.  Sul titolo e l’approccio del contributo di Sini vd. infra nt. 5.

 

[2] Sul ri-uso cit., 7-10.  Si è evidentemente al di fuori di qualsiasi prospettiva giuridica in ordine alla disponibilità di un bene (nel caso specifico, ad es., nella problematica del diritto d’autore).

 

[3] Il volume Sul ri-uso cit. è opera degli allievi di Brioschi.

 

[4] H. Lausberg, Elementi di retorica, Bologna 1969, 15 s. Le citazioni da Lausberg sono tratte da Sul ri-uso cit., 8 s. Ci si potrebbe chiedere a quale tipo sia più simile il responsum del giurista romano.

 

[5] Esposito, Introduzione, cit., 9.  In questo contesto si colloca il contributo di Sini, Osservazioni, cit., che prende avvio (p. 25) da un‘affermazione di Brioschi da F. Brioschi-C. Di Girolamo, Elementi di teoria letteraria, Milano 1984, 96: “la letteratura sembra accompagnare il passaggio da un ri-uso fortemente rituale a un ri-uso più mondano, più diffuso, più vicino, da ultimo, a un’immagine laica del mondo.”

 

[6] Secondo Brioschi criterio ‘semantico’, ‘espressivo’, ‘eziologico’.

 

[7] Titolo che può tradursi Esempio dell’uso moderno delle Pandette, con l’uso del termine specimen quasi ad indicare la consapevolezza della novità metodologica.

 

[8] F. Wieacker, Storia del diritto privato moderno2, I, tr. it. U. Santarelli-S.A.Fusco, Milano 1980, 307 (in ted. “zeitgemäße Praxis des römischen Rechts”); vd. anche 330. I contemporanei parlavano anche di mores hodierni (in ted. ‘heutiger Brauch’).

 

[9] L. Solidoro Maruotti, La tradizione romanistica nel diritto europeo II. Dalla crisi dello ius commune alle codificazioni moderne. Lezioni, Torino 2010, 10.

 

[10] R. Zimmermann, Usus hodiernus Pandectarum, in R. Schulze (a cura di) Europäische Rechts- und Verfassungsgeschichte, Ergebnisse und Perspektive der Forschung, Berlin 1991, 61 ss.

 

[11] W. Ernst-E. Jakab (a cura di) Usus Antiquus Juris Romani. Antikes Recht in lebenspraktischer Anwendung, Berlin-Heidelberg 2005, titolo che sembra riecheggiare quello di Ch. Cellarius-S. Stryk, Dissertatio juridica sistens processum juris Romani antiquum, Halle 1698.

 

[12] System des heutigen römischen Rechts, Berlin 1841-1849.

 

[13] Diritto romano attuale. Storia, metodo, cultura nella scienza giuridica. In epigrafe alla Rivista si legge: “Chiamiamo Diritto romano le tecniche dei giuristi romani di modificazione dell’esercizio del potere e di conformazione delle manifestazioni degli interessi. La rivista ha nel titolo attuale, perché attuali sono i punti di riferimento dei temi trattati”.

 

[14] R. Orestano, Introduzione allo studio del diritto romano, Bologna 1987.

 

[15] C.A. Cannata, Usus modernus Pandectarum e diritto europeo (a proposito di: H. Coing, Europäisches Privatrecht, I; Älteres Gemeines Recht [1500 bis 1800], München 1985), in SDHI, 52 (1986), 435 ss.  (= in Id., Scritti scelti di diritto romano I, Torino 2011, 443 ss.).

 

[16] Cannata, Usus, cit., 436.

 

[17] Orestano, Introduzione, cit., 457.

 

[18] Sulla ‘utilità’ oggi della tradizione romanistica vd. U. Petronio, Quale storia per quali giuristi (a proposito di P. Caroni, La solitudine dello storico del diritto, Milano 2009), in Riv. Dir. comm., 109 (2011), spec. 272 s.

 

[19] Diritto europeo che, comunque, non potrà essere quello che, con divertente espressione, F. Casavola, Dal diritto romano al diritto europeo, in Diritto @ Storia. Rivista internazionale di Scienze Giuridiche e Tradizione Romana 5 (2006) http://www.dirittoestoria.it/5/Tradizione-Romana/Casavola-Dal-Diritto-romano-al-diritto-europeo.htm , ha chiamato “una ennesima metempsicosi romanistica”.

 

[20] Orestano, Introduzione, cit., 473.

 

[21] “58 R. Orestano, ‘Diritto’. Incontri e scontri, Bologna 1981, 54 (= Id., Scritti, Sez. I, Saggistica, a cura di M. Campolunghi- C. Lanza, Napoli 1998, III, 1741).

 

[22] C. Lanza, Contrarietà ‘dogmatica’ alla diarchia mommseniana, in Id., Concezioni giuridiche in forma storica, Napoli 2012, 26.

 

[23] O. Bucci, Germanesimo e romanità2, Napoli 2004, spec. 143 ss.

 

[24] ‘Poison’, nel discorso di Michel de l’Hospital al Parlamento di Parigi  tenuto il 7 sett. 1560 (in L. Petris, La plume et la tribune.  Michel de l’Hospital et ses discours, Genéve 2002, 376); in realtà, nel pensiero de l’Hospital (di formazione umanista), è veleno non il diritto romano, ma tutti i commenti che si sono sedimentati su di esso, portando ad una formazione universitaria inconcludente (sul punto condivisibile S. Hanley, What is in a Name?: “our French Law”, in Law and History Review, 29 (2010), 827 ss., che commenta negativamente M. Seong-Hak Kim, Civil Law and Civil War: Michel de L’Hôpital and the Ideals of Legal Unification in Sixteenth-Century France, ibid., 798).  Vd. però la lettera de l’Hospital a François Duaren cit. in Orestano, Introduzione, cit., 629 nt. 118.

 

[25] Così Cesare Beccaria “nella parte introduttiva del suo celeberrimo Dei delitti e delle pene, intitolata A chi legge” (F. Fasolino, Il diritto romano nella cultura giuridica italiana del XVIII secolo, in TSDP, 1 (2008) [“*Destinato agli Studi Martini”, ove appare Il dibattito settecentesco intorno al diritto romano: prime considerazioni, in Studi Martini I, Milano 2008, 1073 ss., ma in cui la pagina di Beccaria qui citata non viene ricordata]).

 

[26] Su questa terminologia vd. J.Q. Whitman, The Moral Menace of Roman Law and the Making of Commerce: Some Dutch Evidence (1996), in Yale Law School Legal Scholarship Repository, Paper 654 (vol. 105, 1841-1889); vd. anche (ma non riveduto dall’A.) Id., The disease of Roman Law: a Century Later, in Syracuse J. Int’l L. & Com. 228, 1994.

Questo insieme di accuse confluirà nell’art. 19 (di 25) del programma del NSDAP (il partito nazista tedesco) del 1920: “Noi sostituiremo il diritto romano, che è al servizio dell’ordinamento materialistico del mondo, con un diritto comune tedesco”; sull’art. 19 vd. G. Santucci, Diritto romano e nazionalsocialismo: i dati fondamentali, in (a cura di M. Miglietta-G. Santucci) Diritto romano e regimi totalitari nel ’900 europeo, Trento 2009, 55 (ove vd. in particolare anche A. Somma, L’uso del diritto romano e della romanistica tra fascismo e antifascismo, 101 ss.).

 

[27] F. Zuccotti, «Bellum iustum» o del buon uso del diritto romano, in www.ledonline/rivistadirittoromano/allegati/ dirittoromano04zuccotti.pdf (dello stesso A. vd. anche Vivagni X: Díkaios pólemos, o del buon uso del diritto greco, in www.ledonline/rivistadirittoromano/allegati/dirittoromano10ZuccottiVivagni.pdf. ); A. Lovato, Del buon uso del diritto romano, Napoli 2012, ove il ‘buon uso’ appare essere in primo luogo lo sfuggire a qualsiasi tentativo di attualizzazione.

Quanto si è venuti dicendo finora mostra come evidente la realtà di un uso ‘politico’, cioè in chiave e con finalità politiche, del diritto romano; su questa prospettiva vd. l’aggiornata sintesi di A. Somma, «ROMA MADRE DELLE LEGGI» L’uso politico del diritto romano, in Materiali per una storia della cultura giuridica, 32 /2002), 153 ss.

 

[28] A. Torre, La circolazione del modello costituzionale inglese, in www.astrid-online.it/Dossier--R3/Studi-rice/TORRE-On-English-constitutional-mode.pdf, spec. il § 1.

 

[29] 1832-1904: docente a Cambridge, è ricordato soprattutto come padre di Virginia Woolf; su di lui, da ult., P. Crivellaro, Com’é bello finire in Disgrazia, in Il Sole 24 ore, 19 agosto 2012, 39.

 

[30] Da Le cime di Primiero, in L. Stephen, Il terreno di gioco dell’Europa.  Scalate di un alpinista vittoriano, Torino 1999 (in questo volume non sono compresi i primi due capitoli del volume inglese, The Playground of Europe, London 1871, ora in L. Stephen, Da orribili a sublimi.  The playground of Europe (capitoli I e II), Verbania 2012).  “So far as I am concerned, the last peaks of Primiero may remain unscaled as the British constitution flourishes, or the Alpine Club continues to exist” (Stephen, Playground, cit., 227).

 

[31] Così anche in un precedente racconto, quando, constatando che ormai alla fine del 700 non si poteva più sfuggire all’ammirazione nei confronti delle Alpi, Stephen cita il caso dell’arcidiacono Coxe “a solid archdeacon, with a firm belief in the British constitution, and Church and State” (Stephen, Playground cit., 42).

 

[32] Recente esempio in G. Santucci, Diritto romano e diritti europei. Continuità e discontinuità nelle figure giuridiche, Bologna 2010, 9: “ […] L’immagine, tanto semplice quanto suggestiva, coglie elegantemente il ruolo che il diritto romano, assieme ad altri fattori, ha avuto nella tradizione giuridica europea.”

 

[33] Così K.-H. Below, Goethe in seinem Verhältnis zum römischen Recht, in L’Europa e il diritto romano. Studi in memoria di P. Koschaker II, Milano 1954, 268 s.

 

[34] “Il ri-uso è infatti un atto di riappropriazione, in cui lo stesso oggetto è sottoposto alle modalità fruitive più diverse, attraverso circostanze che cambiano. […]  Ma ad essere chiamata in causa è innanzitutto una relazione comunicativa non scontata e non banale tra il soggetto e l’oggetto del ri-uso.”: così L. Neri, Il ri-uso: condizione del discorso retorico, in Sul ri-uso, cit., 11.

Del resto, guardando ancòra alla similitudine dell’anatra, se da una parte può dirsi che – come si è visto – l’anatra/diritto romano può assumere diverse forme, dall’altra può anche dirsi che talvolta l’acqua nella quale l’anatra nuota può essere ‘estremamente torbida’ (così, a proposito di Carl Schmitt e del suo rapporto con il diritto romano, M. Bretone, L’anatra giuridica. Meditazione sul diritto romano tra Savigny e Schmitt, in Materiali per una storia della cultura giuridica, 33 (2003), 135): in altri termini, il contesto della ‘emersione’ può essere a sua volta complesso e/o fortemente problematico.

 

[35] J. P. Eckermann, Conversazioni con Goethe negli ultimi anni della sua vita (a cura di E. Ganni), Torino 2008, 265.

 

[36] “Auch das römische Recht, als ein fortlebendes, das gleich einer untertauchenden Ente sich zwar von Zeit zu Zeit verbirgt, aber nie ganz verloren geht und immer einmal wieder lebendig hervortritt, sehen wir sehr gut behandelt, bei welcher Gelegenheit denn auch unserm trefflichen Savigny volle Anerkennung zuteil wird.”

 

[37] G.P. Eckermann, Colloqui col Goethe negli ultimi anni della sua vita I, Bari 1912, 340.

 

[38] François Guizot non ha ancòra ripreso la sua straordinaria vita di uomo politico.

 

[39] Below, Goethe, cit., 266 ss.

 

[40] S. Cassese, L’anatra di Goethe, in Index, 39 (2011), 26 ss.; oppure in www.estig.ipbeja.pt/~ac_direito/Cassese Anatra.pdf.

 

[41] Cassese, L’anatra, cit., 28.

 

[42] F. Mini, Perché siamo così ipocriti sulla guerra?, Milano 2012, 30 s.

 

[43] L. Zhang, Contratti innominati nel diritto romano.  Impostazioni di Labeone e di Aristone, Roma 2007; a p. XVII scrive: “A partire dalla metà degli anni ottanta del Novecento, l’interesse per il diritto romano in Cina è cresciuto significativamente e in maniera costante. […] non è azzardato riferirsi al tempo presente come ‘la primavera del diritto romano in Cina’.”

 

[44] Infra, n. 11 della presente Raccolta [originariamente in Scritti in memoria di Massimo D’Antona VI, Milano 2004, 4201-4232=in forma un po’ diversa in Diritto romano attuale 4 (2000) 61-88].  Credo altresì che i temi esaminati nei diversi studi qui riuniti mostrino almeno la possibilità di attenzione reciproca e di utile confronto.

 

[45] Ad es., un recente saggio di N. Irti, Del ritorno ai classici (e del negozio giuridico nel pensiero di Vittorio Scialoja), in BIDR, 105 (2011), così inizia (p. 90): “Sconcertante ambiguità del nostro paesaggio giuridico, che è insieme storico e anti-storico o, meglio, a-storico”.

 

[46] Così F. Costabile, Storia del diritto pubblico romano3, Reggio Calabria 2012, 229 ss.; l’A. suggerisce plausibilmente di restituire potiens piuttosto che potens (come avvenuto finora) e soprattutto attenua la rilevanza della novità testuale, sulla quale vd. in Costabile, op. ult. cit., 229 nt. 201, l’ampia letteratura già formatasi.

 

[47] Infra, Sez. II, Societas delinquere non potest, e L. Peppe, Societas delinquere non potest. Un altro brocardo se ne va, n. 5 della presente Raccolta [apparso in Labeo 48 (2002) 370-381=in (a cura di L. Peppe), Persone giuridiche e storia del diritto, Torino 2004, 143-157].

 

[48] A. Falzea, La responsabilità penale delle persone giuridiche, in Aa.Vv., La responsabilità penale delle persone giuridiche in diritto comunitario (Messina 30 apr.-5 maggio 1979), Milano 1981, 137 ss., spec. 145.

 

[49] D. Nörr, Sulla utilità e gli svantaggi della storia del diritto per la vita, ovvero: un romanista si sottopone al test di Nietzsche, in E. Stolfi  (a cura di), Dieter Nörr e la romanistica europea tra XX e XXI secolo, Atti del Convegno, Torino 26-27 maggio 2005, Torino 2006, 73.

 

[50] S. Aage JØrgensen-K. Bohnen-P. Øhrgaard, Aufklärung, Sturm und Drang, frühe Klassik, 1740-1789, München 1990, 440.

 

[51] J.W. Goethe, Le affinità elettive, Milano 1975, 95.

 

[52] L. Peppe, Riflessioni intorno all'esecuzione personale in diritto romano, in AUPA, 53 (2009), 161; conservo tra parentesi la numerazione originaria delle note.

 

[53] L. Peppe, Studi sull’esecuzione personale. I. Debiti e debitori nei primi due secoli della Repubblica romana, Milano 1981.

 

[54] “204 l’Unità, 13 maggio 2009, 48.”

 

[55]205 Mi limito a citarne due, la prima di cultura cd. alta, il testo di una lezione in sede SSIS (SSIS Toscana, a.a. 2004/2005, Pisa 11 maggio 2005), di una latinista di Pisa, Annamaria Cotrozzi, studiosa di Seneca [ …]: A. Cotrozzi, Il viaggio verso la nuova patria: un percorso nel mito di fondazione raccontato da Virgilio (lettura, in prospettiva didattica, di alcuni passi dell’Eneide), in http://ssis-old.adm.unipi.it/documenti/lezione introd.latinoMaster.doc.  Si tratta di una lezione assai fine, interessante anche sotto il profilo didattico per uno storico del diritto.

“La seconda cosa che ho trovato, molti non la considererebbero nemmeno cultura: è una composizione musicale del genere cd. Rap di un gruppo musicale militante, Assalti frontali, che in un suo disco del 2008 ha incluso l’Enea Super Rap, un pezzo di enorme successo nato dall’incontro del gruppo con i bambini di una scuola elementare romana.  Ascoltare su YouTube una canzone nella quale Enea è presentato come modello di immigrato clandestino, accanto ad Ulisse, e pensare ai bambini di oggi che la scandiscono è stata una sorpresa incredibile.”

 

[56] “206 Forse in questo contesto la nozione di classico più idonea potrebbe essere l’ultima nella elencazione delle definizioni di classico in Italo Calvino: “È classico ciò che persiste come rumore di fondo anche là dove l’attualità più incompatibile fa da padrona” (I. Calvino, Perché leggere i classici (1981), in Id., Perché leggere i classici, Milano 1995, 12).

“Sulla nozione di ‘classico’ in senso ampio vd. S. Settis, Futuro del ‘classico’, Torino 2004 (ma vd. anche A. Asor Rosa, Il tempo dei classici; M. Bettini, I classici nella bufera della modernità, in Critica del testo, rispettivamente 1.1 (1998) 53 ss.  e 3.1 (2000) 75 ss.); non ci si riferisce qui ovviamente ai significati del termine ‘classico’ possibili nella giusromanistica, per la quale vd., da ult., C. Cascione, Nota di lettura a O. Behrends, Scritti «italiani», Napoli 2009, xviii ss.”

 

[57] In realtà mi ero già occupato dieci anni prima della nozione di classico in Alcune riflessioni sulla storia del diritto ovvero della rottura della tradizione giuridica (cit., retro, in nt. 44), prendendo avvio da un saggio di Alberto Asor Rosa (A. Asor Rosa, Il tempo dei classici, in Critica del testo, I/1, 1998, 53 ss.). In questa Raccolta, pur essendo cronologicamente tra i meno recenti, ho voluto collocare questo mio studio alla fine, per ultimo, allo scopo di evitare che una collocazione iniziale potesse dare l’impressione che il ‘programma’ scientifico ivi delineato avesse poi avuto consapevolmente esecuzione negli studi successivi. Non è stato così e solo ora, nel riconsiderare tutta la mia produzione scientifica più recente per la preparazione di questo volume, mi accorgo che invece ho sostanzialmente rispettato quel programma, anche negli studi di maggiore impegno tecnico-scientifico che non hanno potuto essere qui riediti.