cimma-bussi

 

 

CIMMAMaria Rosa Cimma

Università di Sassari

 

I TRATTATI E LA GUERRA: LA LUNGA TRACCIA DELLA CONSUETUDINE INTERNAZIONALE.

GRECIA E ROMA

 

 

 

Continuando la nostra panoramica non possiamo non ricordare i numerosissimi rapporti – attestati dalle fonti – che variamente legavano le città della antica Grecia, e poi i rapporti di queste città con i regni ellenistici, ed ancora i rapporti fra gli stessi regni.

Particolare importanza assume, nella Grecia classica, la concessione della ¢sul…a, che letteralmente significa inviolabilità, e che consisteva appunto nella garanzia di inviolabilità delle proprietà di uno straniero all’interno della comunità concedente. Da questa concezione interpersonale, attraverso la concessione diffusa a chi investisse un ruolo riconosciuto (es. ambasciatori, atleti che si recavano alle olimpiadi), si giunse all’applicazione dell’¢sul…a a luoghi, quali i templi, ma poi anche intere città. Fonti epigrafiche attestano il gran numero di rapporti interstatali di ¢sul…a.

Ancora dobbiamo ricordare gli istituti della proxen…a (concessione di diritti politici a singoli cittadini di altre città), e della ƒsopolite…a (concessione di diritti politici o commerciali all’insieme dei cittadini di un’altra città).

Sono tutti rapporti che testimoniano l’esistenza della consapevolezza di sé di una comunità come entità politica, ed il riconoscimento dell’altro come pari politicamente e culturalmente.

Grande importanza assumono poi le leghe, i koin£, forme federative attestate sin dalla Grecia classica attraverso tutta l’età ellenistica e nei rapporti con Roma. Il koinÒn nasceva da un trattato che dava vita ad una entità politica nuova, con propri organi (strathgÒj, ‰pparcoj, tam…aj, grammateÚj), all’interno della quale le singole città erano teoricamente sullo stesso piano, ma nella realtà finivano per subire l’egemonia della più potente.

Ciò nonostante i singoli membri del koinÒn godevano di una buona autonomia ed avevano una propria vita di relazione nei rapporti reciproci e con entità politiche esterne alla lega, ovviamente a patto di non tradirne gli scopi.

Per la soluzione di controversie fra città della stessa lega o esterne, oppure fra le stesse leghe, ed anche con regni, normale era il ricorso all’arbitrato, sovente negoziato mediante ambasciatori. Ambasciatori potevano poi essere incaricati di accettare una resa, oppure di negoziare un trattato, – e la loro diffusione, in età classica come in età ellenistica, è ampiamente documentata.

Quanto alle forme dei numerosi trattati attestati da fonti dirette e indirette, va sottolineato che normalmente venivano evocate svariate divinità, e si giurava nel nome di esse: lo stesso termine sovente usato per indicare un trattato, spond» (o meglio, al plurale, sponda…), fa riferimento alla cerimonia religiosa della libagione che faceva parte delle formalità di stipulazione. I contenuti potevano poi essere i più diversi: trattati di alleanza, di reciproca neutralità, di regolamento di confini, trattati commerciali, ecc.

 

A titolo di esempio citiamo due trattati: quello fra città e leghe greche con Filippo II di Macedonia, il padre di Alessandro Magno (siamo intorno alla metà del IV sec. a.C.)[1], ed un trattato di alleanza fra Etoli ed Arcanani (che sono due leghe), trattato concluso subito dopo il 272 a.C.[2]

 

Il primo recita:

 

Io giuro per Zeus, la terra, il sole, Pseidone, Atena, Ares e tutti gli dei e le dee. Io resterò in pace e non romperò i patti con Filippo il Macedone, né porterò armi con intenzioni ostili contro nessuno di coloro che si atterranno ai giuramenti né per terra né per mare. Segue l’impegno a partecipare alla difesa di chi eventualmente fosse aggredito in violazione dei patti.

 

Il secondo testualmente dice:

 

Patto e alleanza fra Etoli e Arcanani. La sorte sia propizia, e il patto concorde fra Etoli e Arcanani. Vi siano pace e amicizia reciproca, rimanendo amici e alleati per sempre, avendo come confini le terre lungo il fiume Acheloo fino al mare.

 

Segue l’indicazione dettagliata dei confini, e delle sanzioni previste per chi avesse contravvenuto al patto.

La violazione dei termini di un trattato veniva considerata causa legittima di guerra, poiché si annetteva alle sponda… forza vincolante sul terreno giuridico e religioso.

Chiaro è l’esempio delle vicende che precedettero la guerra nel Peloponneso: Sparta sosteneva che Atene aveva violato il trattato, ed adduceva questa come causa di guerra, anche se Tucidite afferma che si trattava di un pretesto, mentre in realtà Sparta temeva l’aumento inarrestabile della potenza ateniese. Resta il fatto che per dare origine ad una guerra occorreva trovarne una giustificazione formalmente valida.

 

Svariati ed articolati erano anche i rapporti delle città greche con i regni nati dopo la morte di Alessandro Magno, ed un esempio è rappresentato dal primo dei due trattati appena ricordati. Anche i regni ellenistici fra di loro intessevano rapporti, ma, almeno nella prima fase della loro esistenza, quando ancora ciascuno cercava il proprio consolidamento territoriale rispetto agli altri, l’elemento determinante era rappresentato non dai rapporti pacifici, bensì dalla guerra. I regni ellenistici nascevano dalla guerra, la guerra fra i diadochi, e nei loro rapporti essa era utilizzata quale strumento, al pari della diplomazia e delle alleanze militari o dinastiche. Inoltre la guerra, o meglio, la vittoria in guerra, rappresentava il momento di massima coesione fra il sovrano ed i suoi sudditi: lo stesso re veniva da un lato coronato come un eroe vincitore, dall’altro venerato come colui che, grazie alla vittoria, avrebbe garantito al suo popolo pace e prosperità.

 

Anche a Roma, in antico e per un lungo periodo, le problematiche relative alla guerra erano strettamente connesse con la religione, ma in un contesto e con modalità del tutto diverse da quelle sin qui ricordate. Roma, lo sappiamo, era una città situata nel cosiddetto Latium vetus, e con i Latini aveva in comune non solo la stirpe, ma anche la lingua, l’organizzazione sociale ed economica, la religione e per buona parte anche le concezioni e le istituzioni giuridiche.

Sappiamo anche, è quasi inutile ricordarlo, che per tutto il periodo della monarchia latino-sabina l’economia romana era basata essenzialmente sull’agricoltura e sulla pastorizia, e che l’impulso ad una espansione non solo economica, ma anche politica e territoriale si ebbe in particolare con l’avvento della monarchia etrusca. E’ quindi nel contesto dei rapporti con i Latini che nascono per Roma le prime forme di relazione con entità politiche diverse dalla propria.

Nel ricordare i primi rapporti di Roma con altre città Latine le fonti ci riportano all’età della monarchia latino-sabina, periodo nel quale si vennero dunque formando le concezioni di fondo ed i modelli che si radicarono profondamente nella cultura giuridica romana, tanto da sopravvivere nel tempo ben oltre l’intera età monarchica. Ma tali concezioni di fondo e tali modelli si svilupparono ovviamente nell’ambiente socio-culturale, e soprattutto religioso, di cui Roma faceva parte.

In questo contesto il versamento del sangue umano era considerato violazione di un tabù fondamentale, tale da turbare la pax deorum e causare quindi il disordine, in un mondo dominato ancora da concezioni magiche: infatti il turbamento della pax deorum, e cioè del fondamentale buon rapporto fra il mondo umano ed il mondo soprannaturale, poteva avere conseguenze imprevedibili e estremamente pericolose.

Queste convinzioni – che imponevano la punizione del colpevole da parte dell’intera comunità non solo per evitare l’esercizio della vendetta privata, ma anche e soprattutto per ripristinare lo stato di buoni rapporti con il mondo divino – queste convinzioni, dicevo, naturalmente rendevano necessarie formalità particolari quando si prospettava l’ipotesi di una guerra, che inevitabilmente avrebbe comportato l’uccisione di molti uomini.

 

E’ quindi più che naturale che compito di porre in essere i riti connessi con la guerra fosse affidato ad un collegio sacerdotale, quello dei Feziali. Questo collegio, la cui istituzione viene fatta risalire all’età della monarchia latino-sabina, ma che sembra esistesse anche presso altri popoli latini, aveva fra gli altri il compito di compiere una serie di atti tesi a dimostrare alle divinità romane, ed anche alle divinità dell’altra comunità, che la guerra che si andava ad intraprendere era una guerra giusta. L’espressione tecnica era bellum iustum, che non significa giusto in senso etico, bensì conforme al ius. Solo una guerra conforme al ius poteva essere dichiarata e combattuta senza compromettere la pax deorum.

La guerra veniva ritenuta giusta se dichiarata seguendo precise formalità, che prevedevano una prima fase, durante la quale si rendevano noti alla comunità straniera i motivi di doglianza del popolo romano, e si chiedeva la riparazione dei torti, mancando la quale Roma avrebbe dichiarato guerra - ed una seconda fase, consistente nella formale dichiarazione di guerra.

La prima fase prendeva il nome di rerum repetito, che potremmo tradurre come “richiesta di restituzione del maltolto”. Questa espressione naturalmente ci riporta ad un periodo molto antico, quando probabilmente i motivi di conflitto consistevano in razzie effettuate da altri in territorio romano.

Secondo Livio 1.32 (vedi fonte n. 1) il re Anco Marzio avrebbe introdotto in Roma questa procedura, mutuandola dal popoli degli Equicoli, che abitavano l’alta valle dell’Aniene a sud-est di Roma. Lo storico aggiunge che ancora ai suoi tempi, alla fine della repubblica, i feziali si attenevano a quelle norme per presentare i reclami di Roma a popoli stranieri (Livio è vissuto dal 59 a.C. al 17 d.C.).

Livio racconta la procedura della rerum repetitio, per la quale un feziale, denominato per l’occasione pater patratus veniva inviato presso il popolo straniero.

Vi riferisco il racconto di Livio, in una traduzione non proprio letterale:

 

“Quando l'inviato arriva alle frontiere del paese cui viene rivolto il reclamo, con il capo coperto da un berretto dotato di un velo di lana, dice: «Ascolta, Giove; ascoltate, o frontiere,» e qui specifica del tale e del talaltro paese, «e mi ascolti anche il sacro diritto. Io sono il rappresentante ufficiale del popolo romano. Vengo per una missione giusta e santa: la fides ispiri le mie parole.» Quindi elenca i reclami e chiama a testimone Giove: «Se io non mi attengo a ciò che è santo e giusto nel reclamare che mi vengano consegnati questi uomini e queste cose, possa non ritrovare più la mia terra.»

 

Ripete questa formula quando attraversa il confine; la ripete al primo uomo che incontra, la ripete quando entra in città, la ripete facendo ingresso nel foro, con solo qualche piccola modifica nella forma e nell'invocazione del giuramento. Se l'oggetto del suo reclamo non viene restituito entro il trentatreesimo giorno (si tratta del termine convenzionale), annuncia guerra con questa formula:

 

“«Ascolta, Giove, e ascolta tu, o Giano Quirino, e voi tutte divinità del cielo, della terra e degli inferi, ascoltatemi. Io vi chiamo a testimoni che questo popolo,» e ne fa il nome, «è ingiusto e non ripara quanto deve. A questo proposito, chiederemo consiglio in patria, ai più anziani tra i nostri concittadini, su come ottenere quanto ci spetta di diritto.» “ (Fonte n. 2)

 

Qui termina la prima fase, quella della presentazione dei reclami, ed il feziale ritornava a Roma, come dice Livio, per la decisione definitiva. Il re si consultava coi senatori, interrogandoli uno per uno sull’opportunità di dichiarare guerra, e una volta raggiunto il consenso del senato, iniziava la seconda fase dell’attività del feziale, quella appunto della dichiarazione di guerra. (Fonte n. 3)

 

Il sacerdote, è Livio che parla,  “porta ai confini con l'altra nazione una lancia dal puntale di ferro o temprato sul fuoco e, di fronte ad almeno tre adulti, dice: «Poiché i popoli dei Latini Prisci (con questo termine venivano indicati gli antichi abitanti del Lazio, i più vicini a Roma non solo dal punto di vista geografico, ma anche dal punto di vista etnico) e alcuni dei Latini Prisci si sono resi responsabili di atti e offese contro il popolo romano dei Quiriti; poiché il popolo romano dei Quiriti ha dichiarato guerra ai Latini Prisci e il senato del popolo romano dei Quiriti ha votato, approvato e dato il suo consenso a questa guerra coi Latini Prisci, per i suddetti motivi, io – e quindi il popolo romano dei Quiriti – dichiaro guerra ai popoli dei Latini Prisci e ai cittadini dei Latini Prisci e la metto in pratica.» Detto ciò, scaglia la lancia nel loro territorio.” Lo storico conclude: “ Ecco dunque in che termini fu esposto il reclamo ai Latini e come fu loro dichiarata guerra: l'usanza è passata ai posteri”. (Fonte n. 4)

 

Teniamo presenti i momenti essenziali di questa procedura: la rerum repetitio, potremmo dire oggi l’ultimatum (se non ripari al torto che mi hai fatto ti dichiaro guerra), e la formale dichiarazione di guerra (il lancio dell’asta in territorio nemico). Solo avendo compiuto queste formalità si poteva dare inizio alle operazioni militari, e solo allora si trattava di un bellum iustum.

 

Il momento religioso era fondamentale anche nella conclusione di un trattato, atto nel quale ancora una volta interveniva un feziale. Livio ricorda quello concluso fra Romani e Albani, ed afferma che si tratta del più antico trattato concluso da Roma, sotto il regno di Tullo Ostilio (data tradizionale 673-642 a. C. Fonte n. 5). La nomina del pater patratus avveniva secondo complesse formalità rituali, che servivano ad investire il sacerdote della facoltà di concludere il trattato a nome del re e del popolo romano (Fonte n. 6).

 

“Il compito del pater patratus – dice testualmente Livio - era quello di pronunciare il giuramento, cioè di concludere solennemente il trattato. Quindi, dopo aver letto le clausole, il feziale dice: «Ascolta, o Giove; ascolta, o pater patratus del popolo albano e ascolta tu, popolo di Alba. Da queste clausole che, da queste tavolette e dalla cera, sono state pubblicamente lette dalla prima all'ultima parola e senza la malafede dell'inganno, e che sono state qui oggi perfettamente capite, da queste clausole il popolo romano non sarà il primo a recedere. E se lo farà, per una decisione ufficiale o con qualche subdolo scopo, allora tu, o Giove superno, colpisci il popolo romano come io ora vado a colpire questo maiale in questo giorno e in questo luogo. E tanto più forte possa essere il tuo colpo quanto più grande e forte è la tua potenza.» Detto questo, colpì il maiale con una selce. Allo stesso modo gli Albani, attraverso il loro comandante e alcuni loro sacerdoti, pronunciarono le formule rituali e il giuramento che li riguardavano”. (Fonte n 7)

 

Le procedure per la dichiarazione di un bellum iustum e per la stipula di un trattato, di cui vi ho riferito, si situano in un periodo assai antico della storia di Roma, ma i tratti caratteristici che esse presentano sono espressione di concezioni che si radicarono profondamente nella cultura politico-giuridica di Roma, tanto da ritrovarsi nelle loro peculiarità essenziali in tutta la storia dell’espansione romana in Italia e in territorio transmarino, naturalmente con le modificazioni che derivarono dai contatti con altri popoli e soprattutto dai contatti con la cultura ellenistica. E’ significativo il fatto che per la conclusione del trattato con Cartagine dopo la fine della seconda guerra punica furono inviati in Africa i feziali dotati dell’erba sacra e della selce che sarebbero serviti a sancire il trattato (Fonte 8)

Sappiamo che Roma utilizzò lo strumento del trattato, il foedus, per legare a sé città e regni, determinando i contenuti delle clausole in funzione dei rapporti concreti. Abbiamo così i foedera aequa, ed anche aequissima, che stabilivano parità di condizione fra Roma e l’altro contraente, ed i foedera iniqua, che sancivano la superiorità politica di Roma. Troviamo attestati trattati di amicitia, di alleanza, trattati commerciali, come quelli stipulati con Cartagine prima delle guerre puniche, trattati di pace, che sancivano la fine di una guerra ed imponevano le condizioni di resa alla parte vinta: una varietà di contenuti, ma sostanzialmente le stesse formalità, anche quando a compierle non furono più i feziali, ma i pretori in età repubblicana, delegati del principe in età imperiale.

A riprova di ciò va evidenziato che l’espressione più usata nelle fonti per indicare la stipula di un trattato era foedus icere, ed il verbo icere significa “colpire”, con riferimento al colpo con il quale veniva ucciso l’animale sacrificato dal feziale durante la cerimonia di conclusione del trattato. Troviamo l’espressione foedus icere non solo in fonti relative all’età repubblicana, ma anche in autori che narrano vicende dell’età imperiale, quali Tacito, Svetonio, Ammiano Marcellino (Fonti n. 9). Fra queste merita in particolare di essere ricordata la testimonianza di Svetonio relativa alla vita di Claudio: cum regibus foedus in foro i[e]cit porca caesa ac uetere fetialium praefatione adhibita. La notizia va collocata nell’ambito della politica religiosa di Claudio, tesa a restaurare la religione dei padri, ma non per questo va sottovalutata, in quanto attesta la rilevanza che ancora veniva attribuita al momento religioso nell’instaurazione di rapporti internazionali.

 

Per quanto attiene alle procedure per la dichiarazione di guerra, va messo in risalto che gli antichi principi che esigevano la rerum repetitio e la successiva formale dichiarazione prima dell’inizio delle operazioni militari rimasero profondamente radicati nel modo romano di concepire la guerra nel corso dei secoli, pur con le modificazioni necessariamente intervenute nell’ampliarsi del teatro d’azione di Roma, che passò progressivamente dall’egemonia sul Lazio all’espansione politica e territoriale dapprima in territorio italico e poi in tutto il bacino del Mediterraneo.

Paradigmatiche al proposito sono le parole di Cicerone, il quale afferma:

 

(Cic. off. 1.11.36): Ac belli quidem aequitas sanctissime fetiali populi Romani iure perscripta est. Ex quo intellegi potest nullum bellum esse iustum nisi quod aut rebus repetitis geratur aut denuntiatum ante sit et indictum.

 

Secondo l’oratore, quindi, il ius fetiale aveva stabilito le norme relative al bellum iustum, e quindi non poteva esistere una guerra conforme al ius se preventivamente non fosse stata compiuta la rerum repetitio, oppure non vi fosse stato un avvertimento preliminare seguito da una dichiarazione di guerra.

 

Durante tutto il periodo dell’espansione romana in Italia e nel Mediterraneo i Feziali continuarono ad operare e a fornire le soluzioni atte ad affrontare in modo conforme al ius le situazioni nuove.

Interessante al proposito un episodio narrato da Servio, concernente la dichiarazione di guerra contro Pirro, il cui regno si trovava al di là dell’Adriatico, mentre ai Feziali non era consentito operare al di fuori del territorio italico. Si ricorse quindi ad un espediente:  un soldato di Pirro venne catturato e costretto ad acquistare un appezzamento di terra vicino al Circo Flaminio, per poter adempiere alle formalità della dichiarazione di guerra quasi in hostili loco, facendo uso di una fictio, con una tecnica simile a quella usata dai pontefici per realizzare attraverso un negozio del ius civile un risultato diverso da quello per cui il negozio era nato (es. mancipatio familiae e la vindicatio in libertatem). Successivamente, continua Servio, in quel luogo, davanti al tempio di Bellona, venne consacrata una colonna, dalla quale veniva lanciata l'asta nel territorio considerato nemico (Fonte n. 10)

Ancora le fonti ricordano l’attività del collegio dei Feziali durante le guerre di espansione di Roma nel Mediterraneo. In particolare essi venivano consultati in qualità di esperti sempre in occasione di dichiarazioni di guerra, come attesta un episodio del 200 a.C., quando il console chiese il loro consiglio per la dichiarazione di guerra contro Filippo II di Macedonia. Si trattava di sapere se l’indictio belli dovesse essere fatta personalmente al re nel suo regno, oppure se bastasse farla nel presidio militare del sovrano più vicino al confine. I Feziali “decretarono” che ambedue i modi sarebbero stati legittimi (Fonte n.11).

Un altro episodio si riferisce alla dichiarazione di guerra contro Antioco III re di Siria e gli Etoli. Secondo il racconto di Livio il console venne inviato dal senato ai Feziali per sapere se la dichiarazione di guerra dovesse essere fatta al re Antioco dovunque si trovasse, o se fosse sufficiente farla in un suo presidio, ed ancora se agli Etoli dovesse essere fatta la dichiarazione di guerra separatamente, e se fosse necessario prima denunciare il trattato di alleanza ed amicizia che esisteva fra gli stessi Etoli e Roma, e fra Antioco e Roma.

Interessante la risposta dei Feziali: non era importante dove venisse fatta la dichiarazione di guerra al re, e all’amicitia romana già aveva rinunciato chi aveva ritenuto di non rispondere e di non dare soddisfazione agli ambasciatori repetentibus res, e cioè che facevano la rerum repetitio. Quanto agli Etoli, essi stessi avevano dichiarato per primi la guerra occupando militarmente città amiche di Roma e aiutando Antioco a portare guerra al popolo romano (Fonte n. 12). Oltre alla rilevanza data all’opinione dei Feziali l’episodio dimostra come fosse ancora considerato doveroso fare la rerum repetitio, e dichiarare la guerra solo dopo non aver ricevuto soddisfazione.

 

Per quanto attiene alle guerre condotte da Roma in età imperiale le fonti non consentono di affermare la stessa attenzione alle formalità della dichiarazione di guerra che si può invece riscontrare nelle fonti relative all’età repubblicana. Ciò non significa, però, che la questione avesse perso di importanza, come è attestato dall’attenzione posta al problema dai giuristi dell’età imperiale.

Ci si potrebbe chiedere per quale motivo in un mondo ormai tanto lontano dal contesto politico e culturale nel quale le antiche formalità erano nate, la questione continuava ad avere rilevanza.

 

In realtà l’attento rispetto delle norme relative alla dichiarazione di guerra, e quindi il concetto di bellum iustum, non aveva una valenza esclusivamente religiosa, ma aveva anche una grande rilevanza giuridica, attestata, come abbiamo detto, dall’attenzione posta alla questione da parte della giurisprudenza imperiale. Questa attenzione prova anche che, pur mancando notizie provenienti da fonti letterarie, tuttavia il concetto di bellum iustum continuava ad avere un preciso significato tecnico.

Come ha posto bene in luce R. Ortu, infatti, le fonti giuridiche fanno distinzione fra gli hostes, letteralmente i nemici, ed i latrones e praedones. Secondo le parole del giurista Pomponio i primi, gli hostes, sono quelli cui è stata dichiarata una guerra publice, e cioè da parte dello stato.

 

D. 50.16.118 Pomp. II ad Quintum Mucium: ‘Hostes’ hi sunt, qui nobis aut quibus nos publice bellum decrevimus: ceteri latrones aut praedones sunt.

 

Il concetto viene meglio esplicitato da Ulpiano, il quale afferma che hostes sono coloro ai quali il popoli romano decretò pubblicamente guerra, o che dichiararono pubblicamente guerra al popolo Romano. Gli altri sono latruncoli o praedones, e se qualcuno è catturato da costoro non diviene schiavo, e quindi non gli serve il postliminium. Al contrario, se taluno viene fatto prigioniero dai nemici, diviene loro schiavo, ed a lui si applica, se ritorna, il postliminium, per cui recupera lo stato precedente.

 

D. 49.15.24 (Ulp. I institutionum): Hostes sunt, quibus bellum publice populus Romanus decrevit vel ipse populo Romano: ceteri latrunculi vel praedones appellantur. et ideo qui a latronibus captus est, servus latronum non est, nec postliminium illi necessarium est: ab hostibus autem captus, ut puta a Germanis et Parthis, et servus est hostium et postliminio statum pristinum recuperat.

 

Il concetto viene ribadito ancora da Paolo, il quale chiaramente afferma che i prigionieri dei pirati e dei latrones rimangono liberi (D. 49.15.19.2 (Paul. X ad Sabinum: A piratis aut latronis capti liberi permanent). Libero rimaneva anche chi fosse stato fatto prigioniero durante una guerra civile, ma il fondamento di quest’ultima regola era del tutto diverso, come si può facilmente intendere leggendo il passo citato qui di seguito:

 

D. 49.15.21.1 (Ulp. libro quinto opinionum): In civilibus dissensionibus quamvis saepe per eas res publica laedatur, non tamen in exitium rei publicae contenditur: qui in alterutras partes discedent, vice hostium non sunt eorum, inter quos iura captivitatium aut postliminiorum fuerint. et ideo captos et venumdatos posteaque manumissos placuit supervacuo repetere e principe ingenuitatem, quam nulla captivitate amiserant.

 

Quindi iusta era solo la guerra formalmente dichiarata, e solo se taluno veniva fatto prigioniero durante un tale conflitto diventava, per un principio di ius gentium, schiavo del nemico. La controprova è data da un episodio narrato da Livio, il quale racconta che intorno al 145 a.C. venne revocata da parte del senato la condizione servile degli Abderiti poiché contro di loro era stato portato un bellum iniustum. Secondo le parole dello storico latino il senato decretò che venisse annunciato al console Ostilio e al pretore Ortensio che la guerra contro gli Abderiti era stata iniusta, e che bisognava ricercare tutti quelli che erano stati ridotti in schiavitù e restituire loro la libertà:

 

Liv. 43.4.13: Iisdem mandatum ut et Hostilio consuli et Hortensio praetori nuntiarent senatum Abderitis iniustum bellum inlatum conquirique omnes qui in servitute sint, et restitui in libertatem aequum censere.

 

A questo punto è intuitiva l’importanza del concetto di bellum iustum, che da una primitiva valenza fondamentalmente religiosa era passato ad avere un preciso significato tecnico giuridico, con risvolti assai importanti dal punto di vista economico: basti pensare al ruolo svolto dalla schiavitù nell’economia romana per tutta l’età repubblicana ed imperiale, e al fatto che la guerra dal punto di vista quantitativo era la fonte di approvvigionamento di schiavi assolutamente preminente.

Ciò non deve far pensare, tuttavia, che si fosse persa la consapevolezza del fatto che il soldato, andando in guerra, si sarebbe macchiato del sangue di altri uomini. Per questo motivo per tutto l’arco della storia romana, sino al tardo antico, al soldato, prima che potesse imbracciare le armi, veniva imposto un giuramento, che era un giuramento di fedeltà al comandante, ma veniva prestato nel contesto di una solenne cerimonia di purificazione, poiché l’impresa bellica avrebbe comportato versamento di sangue e sacrificio di vite. Questi eventi erano giustificabili solo se compiuti nell’adempimento di un dovere e se riferiti alla divinità, mentre sarebbero stati ingiustificabili se compiuti dall’individuo per i propri scopi.

 

 

Fonti

 

1

Liv. 1.32.5: Ut tamen, quoniam Numa in pace religiones instituisset, a se bellicae caerimoniae proderentur nec gererentur solum, sed etiam indicerentur bella aliquo rítu, ius ab antiqua gente Aequiculis, quod nunc fetiales habent, descripsit, quo res repetuntur.

 

2

Liv. 1.32.6-10: Legatus ubi ad fines eorum venit unde res repetuntur, capite velato filo lance velamen est "Audi, Iuppiter" – inquit – audite, fines" – cuiuscumque gentis sunt, nominat – "audiat fas. Ego sum publicus nuntius populi Romani; fuste pieque legatus venio, verbisque meis fides sit. Peragit deinde postulata. Inde Iovem testem facit: "Si ego iniuste impieque illos homines illasque res dedier mihi exposco, tum patriae comportem me numquan siris esse". Haec cum fines suprascandit, haec, quicunque ei primus vir obvius ferit, aec portam ingrediens, haec forum ingressus, paucis verbis carminis concipiendique iuris íurandi mutatis, peragit. Si non deduntur quos exposcit diebus tribus et triginta – tot enim sollemnes sunt – peractis bellum ita indiciti "Audi Iuppiter, et tu, Iane Quirine, dique omnes caelestes, vosque terrestres vosque inferni, audite; ego vos testor populum illum" – quicumque est nominat – iniustum esse neque ius persolvere; sed de istis rebus in patria maiores natu consulemus, quo patto ius nostrum adipiscamur". Tum is nuntius Romana ad consulendum redit.

 

3

Liv. 1.32.11-12: Confestim rex his ferme verbis patres consulebat: quarum rerum, litium, causarum condixit pater patratus populi Romani Quiritium patri patrato Priscorum Latinorum hominibus que Priscis Latinis, quas res nec dederunt nec solverunt nec fecerunt, quas res dari, solei, fieri oportuit, dic' ínquit ei, quem primum sententiam rogabat, 'quid censes? tum ille: 'puro pioque duello quaerendas censeo itaque consentio consciscoque'. Inde ordine alii rogabantur, quandoque pars maior eorum, qui aderant, in eandem sententiam ibant, bellum erat consensum.

 

4

Liv. 1.32.12-14: Fieri solitum ut fetialis hastam ferratam aut sanguineam praeustam ad fines eorum ferret et non minus tribus puberibus praesentibus diceret: "Quod populi Priscorum Latinorum hominesve Prisci Latini adversus populum Romanum Quiritium fecerunt, delinquerunt, quod populus Romanus Quiritium bellum cum Priscis Latinis iussit esse senatusve populi Romani Quiritium censuit consensit conscivit ut bellum cum Priscis Latinis fieret, ob eam rem ego populusque Romanus populis Priscorum Latinorum hominibusque Priscis Latinis bellum indico facioque". Id ubi dixisset, hastam in fines eorum emittebat. Hoc tum modo ab Latinis repetitae res ac bellum indictum, moremque eum posteri acceperunt.

 

5

Liv. 1.24.3-4: Priusquam dimicarent, foedus ictum inter Romanos et Albanos est his legibus, ut, cuius populi cives eo certamine vicissent, is alteri populo cum bona pace ímperitaret. Tum ita factum accepimus, nec ullius vetustior foederis memoria est.

 

6

Liv. 1.24.4-5: Fetialis regem Tullium ita rogavit: "Iubesne me, rex, cum patre patrato populi Albani foedus ferire?" Iubente rege, "Sagmina" inquit "te, rex, posto". Rex ait: "Puram tollito". Fetialis ex arte graminis herbam puram attulit. Postea regem ita rogavit: "Rex, facisne me tu regium nuntium populi Romani Quiritium, vasa comitesque mens" Rex respondit: "Quod sine fraude mea populique Romani Quiritium fiat, facio".

 

7

Liv. 1.24.6-9: Pater patratus ad ius iurandum patrandum, id est, sanciendum fit foedus, multisque id verbis, quae longo effata carmine non operae est referre, peragit. Legibus deinde recitatis, "Audi," inquit, "Iuppiter; audi, pater patrate populi Albani, audi tu, populus Albanus. Ut illa palam postrema ex illis tabulis cerava recitata sunt sine dolo malo, utique ea hic hodie radissime intellecta sunt, illis legibus populus Romanus prius non deficiet. Si prior defexit publico consilio dolo malo, turo illo die, Iuppiter, populum Romanum ferito quanto magis potes pollesque". Id ubi dixit porcum saio silice percussit. Sua item carmina Albani suumque iusiurandum per suum dictatorem suosque sacerdotes peregerunt.

 

8

Liv. 30.43.9: Fetiales cum in Africani ad foedus feriendum ire iuberentur, ipsis postulantibus senatus consultum in haec uerba factum est, ut priuos lapides silices privas que uerbenas se cum ferrent, ut ubi praetor Romanus imperaret ut foedus ferirent, illi praetorem sagmina poscerent; herbae id genus ex arca sumptum fetialibus dare solei.

 

9

Tac. Ann. 11.9.3: At Parthi imperatores cum pugnam pararent, foedus rapente iciunt cognitis popularium insidiis, quas Gotarzes fratri patefecit; congressi que primo cunctanter, dein complexi dextras apud altaria deum pepigere fraudem inimicorum ulcisci atque ipse inter se concedere.

 

Tac. Ann. 12.46.1: Digressu centurionis velut custode exsolutus praefectus hortari Mithridaten ad sanciendum foedus, coniunctíonem fratrum ac priorem aetate Pharasmanen et cetera necessitudinum nomina referens, quod filiam eius in matrimonio haberet, quod ipse Radamisto socer esset: non abnuere pacem Hiberos, quamquam in tempore validiores; et sates cognitam Armeniorum perfidiam, nec aliud subsidíi quam castellum commeatu egenum: ne dubia tentare armis quam incruentas condiciones mallet.

 

Tac. Ann. 12.47.2: id foedus arcanum habetur quasi mutuo cruore sacratum.

 

Amm. Marc. Rerum gest. 17.14.1: Hisce isdem diebus Prosper et Spectatus atque Eustathius legati ad Persas, ut supra docuimus, messi Ctesifonta reuersum regem adiere litteras perferentes imperatoris et munera poscebant que rebus integris pacem et mandatorum memores nusquam ab utilitate Romanae rei maiestate que discedebant amicitiae foedus sub hac lega firmare debere asseuerantes, ne super turbando Armeniae uel Mesopotamiae statu quidquam moueretur.

 

Amm. Marc. Rerum gest. 21.3.1: Didicit enim Alamannos a pago Vadomari exorsos, unde nihil post ictum foedus sperabatur incommodum, uastare confines Raetiis tractus nihil que sinere intemptatum manus praedatorias fusius discurrentes.

 

Amm. Marc. Rerum gest. 30.3.7: Post foedus tamen sollemni ritu impletum Treueros Valentinianus ad hiberna discessit.

 

Svet. Claud. 25.5: Cum regibus foedus in foro iecit porca caesa ac uetere fetialium praefatione adhibita.

 

10

Serv. in Aen. 9.52: Denique cum Pyrrhi temporibus adversum transmarinum hostem bellum Romani gesturi essent nec invenirent locum, ubi hanc sollemnítatem per fetiales indicendi belli celebrarent, dederunt operam, ut unus de Pyrrhis militibus caperetur, quam fecerunt in circo Flaminio locum amare, ut quasi in hostili loco ius belli indicendi implerent. Denique in eo loco ante aedem Bellonae consacrata est columna.

Cfr. Festus, s.v. Bellona: Bellona dicebatur dea bellorum, ante cuius templum erat columella, quae bellica vocabatur, super quam astaco iaciebant, cum bellum indicebatur.

 

11

Liv. 38.8: consultique fetiales ab consule Sulpicio, bellum quod indiceretur regi Philippo utrum ipsi utique nuntiari iuberent an satis esset in finibus regni quod proximum praesidium esset, eo nuntiari. Fetiales decreverunt utrum eorum fecisset rette facturum.

 

12

Liv. 36.3: Consul deinde M. Acilius ex senatus consulto ad collegium fetialium rettulit, iesine utique regi Antiocho indiceretur bellum, an satis esset ad praesídium aliquod eius nuntiari; et num Aetolis quoque separatim indici iuberent bellum, et num prius societas et amicitia eis renuntianda esset quam bellum indicendum. Fetiales responderunt, iam ante sere, cum de Philippo consulerentur, decrevisse nihil referre, ipsi coram an ad praesidium nuntiaretur; amicitiam renuntiatam videri, cum legati totiens repetentibus res nec reddi nec satisfieri aequum censuissent; Aetolos altro sibi bellum indixisse, cum Demetriadem, sociorum urbem, per vira occupassent, Chalcidem terra marique oppugnatum issent, regem Antiocum in Europam ad bellum populo Romano inferendum traduxissent.

 

 



 

[Un evento culturale, in quanto ampiamente pubblicizzato in precedenza, rende impossibile qualsiasi valutazione veramente anonima dei contributi ivi presentati. Per questa ragione, gli scritti della sezione “Memorie” sono stati oggetto di valutazione “in chiaro” da parte dell’organizzazione scientifica delle “Conferenze Romanistiche Sassaresi” (anno 2015 – MMDCCLXXVIII dalla fondazione di Roma); d'intesa con la direzione di Diritto @ Storia]

 

[1] Dittemberg, Syll.3.260 a-b.

 

[2] Dittemberg Syll.3.421.