D & Innovazione

 

 

foto_chessa_oIl regionalismo differenziato e la crisi del principio autonomistico(*)

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OMAR CHESSA

Università di Sassari

 

 

SOMMARIO: 1. Ascesa e declino del principio autonomistico. – 2. Il principio di differenziazione. 3. Necessità di una legge d’attuazione dell’art. 116, comma terzo? 4. L’iniziativa regionale. 5. L'intesa tra lo Stato e la Regione. 6. La consultazione degli enti locali. 7. Argomenti contro il regionalismo differenziato quale unica declinazione del principio autonomistico. – 8. Conclusioni. – 9. Riferimenti bibliografici.

 

 

1. – Ascesa e declino del principio autonomistico

 

In questo saggio mi occuperò del regionalismo differenziato nel quadro della crisi del principio autonomistico.

Anzitutto una precisazione terminologica: adopero la formula “principio autonomistico” come formula di sintesi per esprimere ad un tempo più cose o fenomeni, soprattutto per indicare il modo in cui gli assetti autonomistici vivono in un dato momento storico sia nelle discipline formali che nelle prassi applicative.

La mia tesi di fondo è che l’evoluzione del principio autonomistico abbia conosciuto quattro fasi:

La prima fase è quella dell’autonomismo (cioè federalismo-regionalismo) garantista o separazionista, imperniato su una nozione prevalentemente negativa di autonomia come garanzia di competenze proprie degli enti territoriali, i quali le esercitano senza intromissioni da parte del governo centrale e degli altri enti autonomi. Ciascuno degli attori territoriali – le regioni, le province, i comuni, se guardiamo all’esperienza italiana – ha proprie materie e funzioni, e all’interno del proprio ambito ha titolo a definire unilateralmente i criteri del proprio agire. Ovviamente questi ambiti possono essere più o meno estesi: negli ordinamenti federali lo sono, di regola, in misura maggiore che non in quelli regionali; ma in ogni caso, il governo centrale conserva ampi e incisivi poteri di interventi che delimitano parecchio le competenze decentrate. È un modello dalla logica semplice e lineare, ma che entra in crisi con il processo di democratizzazione che interessa un po’ tutti i regimi industriali avanzati nel Novecento.

La seconda fase di sviluppo del principio autonomistico è quella del “federalismo/regionalismo cooperativo” e prende l’avvio negli USA col New Deal rooseveltiano. Nei paesi europei ha preso avvio, invece, nel secondo dopoguerra, con le costituzioni democratico-sociali. È la declinazione del principio autonomistico più coerente con i valori e gli istituti di uno stato sociale. Quando l’intervento pubblico nell’economia crebbe, si realizzò un ampliamento dei compiti del governo centrale, e per compensare la restrizione degli ambiti di intervento degli enti territoriali sub-nazionali si introdussero dei dispositivi di raccordo e di co-decisione tra centro e periferia. Da un concetto negativo di autonomia come competenza esclusiva e facoltà di autodeterminazione unilaterale nel proprio ambito di competenza si transitò a un concetto positivo di autonomia come partecipazione ai processi decisionali che trascendono gli ambiti di competenza locali ma che comunque incidono su questi. Nell’autonomismo garantista di tipo negativo gli enti territoriali decidono da soli le cose che li riguardano (in quanto affidate alla loro competenza). Nell’autonomismo cooperativo e positivo, invece, si decidono assieme al livello di governo centrale le cose che riguardano tutti. Va detto, però, che la nostra Costituzione del 1948, nel suo impianto originario, non prendeva molto sul serio il modello cooperativo e ancora si imperniava sul modello precedente. Solo in via di prassi legislativa e giurisprudenziali si affacciarono timidamente i primi moduli di autonomismo cooperativo (ad es., il sistema delle conferenze e il principio di leale collaborazione come vincolo per la legislazione statale).

La terza fase che ha riguardato l’evoluzione del principio autonomista nel nostro ordinamento costituzionale si colloca a cavallo tra la fine degli anni Novanta e i primi anni Duemila. A fare da apripista furono le leggi Bassanini con il progetto di “federalismo amministrativo a costituzione invariata”; poi seguì la legge costituzionale n. 1 del 1999, che introdusse una forma di governo regionale imperniata sull’elezione diretta del vertice dell’esecutivo, uniformando così il modello regionale al modello locale già in vigore per i comuni e le province; infine ci fu la legge costituzionale n. 3 del 2001, che – come è noto – modificò profondamente il Titolo V della Costituzione. Questa terza fase rappresenta il momento culminate della fase ascendente del principio autonomistico in Italia. Ma subito dopo il 2001, cioè dopo l’entrata in vigore delle l. cost. 3/2001 ebbe inizio la quarta fase, dal carattere discendente per le sorti del principio autonomista. Una fase che ancora perdura.

È vero che nelle sue prime pronunce successive al 2001 la Corte costituzionale pareva sinceramente intenzionata a dare piena attuazione alla riforma. Però dopo qualche anno, assecondando le tendenze del legislatore statale, la Corte si adoperò al fine di depotenziare gli elementi più innovativi del Titolo V riformato. E a distanza di quindici anni dalla riforma possiamo dire che la giustizia costituzionale italiana contribuì in modo decisivo al processo di ri-centralizzazione del nostro ordinamento autonomistico.

All’origine di questo moto parabolico ci sono diverse cause, ma quella più importante e veramente determinante è la smisurata espansione della funzione statale di coordinamento della finanza pubblica, a sua volta motivata dall’orientamento, fatto proprio in sede sovranazionale e nazionale, secondo cui per fronteggiare la crisi economico-finanziaria sarebbero necessarie misure draconiane di consolidamento fiscale. A partire dal 2010 diversi decreti legge “anticrisi” hanno pesantemente condizionato, in nome degli obiettivi nazionali di finanza pubblica e dei vincoli sovranazionali, l’autonomia locale e regionale di spesa, sia delle regioni ordinarie che di quelle speciali, ponendo non solo limiti complessivi alla spesa, ma anche restrizioni puntuali e dettagliate. E parallelamente si è rafforzata la tendenza della Corte costituzione a interpretare in senso estensivo la competenza statale in oggetto[1]. Ora, se si afferma brutalmente l’idea che l’austerità fiscale debba passare attraverso la compressione dell’autonomia finanziaria degli enti territoriali, ne deriva come conseguenza obbligata la limitazione della loro autonomia normativa, amministrativa e finanche politica, considerato che queste declinazioni ulteriori del principio autonomistico sono solo flatus vocis, in assenza dell’autonomia finanziaria, che è condizione di ogni altra forma di autonomia.

Ciò premesso, la valorizzazione del “regionalismo differenziato” è la soluzione per uscire dal tunnel in cui è finito il principio autonomistico?

 

 

2. – Il principio di differenziazione

 

I luoghi in cui la nostra Costituzione sembra richiamare i principi e la logica del regionalismo differenziato sono diversi[2].

Anche se l’osservazione sembrerà contraddittoria, la differenziazione regionale trova anzitutto espressione mediante le competenze legislative che spettano in modo uniforme e generale a tutte le Regioni: l’esercizio effettivo di queste funzioni inevitabilmente differenzia tra loro i sistemi normativi regionali, perché non è detto che tutte le regioni le esercitano allo stesso modo, adottando le medesime soluzioni normative; inoltre alcune regioni le esercitano di più, altre di meno, altre ancora non le esercitano affatto, con ciò creando situazioni normative altamente diversificate nei vari ambiti regionali.

In secondo luogo la nostra Costituzione riferisce la differenziazione non solo alle competenze legislative, ma anche a quelle amministrative: anzi, in questo caso lo fa persino esplicitamente, là dove nell’art. 118 dice che il legislatore distribuisce le funzioni amministrative tra i diversi livelli di governo secondo sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza. Più che tre principi distinti, questi sono tre profili di un unico principio, poiché l’intervento sussidiario è condizionato al fatto di essere più adeguato nelle circostanze date e, a sua volta, l’adeguatezza deve essere valutata in relazione ai contesti e può quindi giustificare (o deve prescrivere) soluzioni differenziate secondo le situazioni: può darsi, cioè, il caso che enti dello stesso tipo, agenti in ambiti territoriali diversi, portatori di diverse esigenze e interessi, non abbiano le medesime competenze.

In un certo senso la differenziazione regionale e locale è inscritta nel codice genetico del principio autonomistico e nel concetto di autonomia territoriale, intesa in uno dei suoi profili essenziali, ossia come autonomia negativa. Come ho già detto, questa formula, che è evidentemente ricalcata su quella della libertà negativa, definisce una condizione di non-impedimento dell’ente territoriale, nella misura in cui gode di uno spazio in cui può autodeterminarsi senza temere intromissioni di sorta da parte di altri enti; indica, perciò, la situazione in cui si trova un ente quando può decidere singolarmente per sé, eventualmente differenziandosi dagli altri enti del medesimo tipo.

Ma come si è visto, l’autonomia può anche intendersi in senso positivo, cioè come partecipazione a processi decisionali sovraordinati. E mentre l’autonomia negativa si realizza incrementando il numero di decisioni che un singolo ente può adottare singolarmente e quindi in modo potenzialmente differenziato da quello degli altri enti, invece l’autonomia positiva si valorizza aumentando il numero delle decisioni che i diversi enti prendono assieme. Tra i due modelli c’è un evidente trade-off: se cresce il numero di decisioni e di competenze che si prendono ed esercitano da soli, si riducono quelle che debbono prendersi assieme, e viceversa, fermo restando che entrambe le dimensioni sono consustanziali alla nozione di autonomia.

Come ho già detto, il costituzionalismo democratico-sociale del Novecento ha visto lo sviluppo dell’autonomia positiva, che è poi un altro modo di definire il federalismo o regionalismo cooperativo: un po’ in tutte le democrazie industriali sviluppate l’espansione dei sistemi di welfare e dell’intervento pubblico nell’economia hanno visto crescere le funzioni del governo centrale, ma questo processo di accentramento è stato spesso compensato da robuste iniezioni di federalismo/regionalismo cooperativo: insieme al potere decisionale del centro si è accresciuta proporzionalmente la capacità della periferia di partecipare alle (e di incidere sulle) decisioni che si prendono in modo accentrato.

Non c’è dubbio, invece, che la riforma italiana del 2001 abbia scommesso più sull’autonomia negativa che non su quella positiva, e quindi più sul decentramento delle competenze e sulla possibilità di un loro esercizio territorialmente differenziato che non sullo sviluppo di istituzioni cooperative[3]. Un esempio paradigmatico di regionalismo differenziato è l’art. 116, comma terzo, il cui testo così recita: «ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia, concernenti le materie di cui al terzo comma dell’articolo 117 e le materie indicate dal secondo comma del medesimo articolo alle lettere l), limitatamente all’organizzazione della giustizia di pace, n) e s), possono essere attribuite ad altre Regioni, con legge dello Stato, su iniziativa della Regione interessata, sentiti gli enti locali, nel rispetto dei principi di cui all’articolo 119. La legge è approvata dalle Camere a maggioranza assoluta dei componenti, sulla base di intesa fra lo Stato e la Regione interessata».

La questione è se, al fine di ridare fiato all’istanza autonomistica, si debba ripartire da questa disposizione costituzionale, finora rimasta priva di attuazione. Ma preliminarmente occorrerà sciogliere qualche nodo interpretativo e offrire una ricostruzione dogmatica corretta della portata normativa dell’art. 116, comma terzo.

 

 

3. – Necessità di una legge d’attuazione dell’art. 116, comma terzo?

 

Il primo problema è se sia una disposizione d’immediata applicazione, senza che occorra l’interposizione di una disciplina legislativa di attuazione[4].

Può sostenersi che occorrerebbe anzitutto definire il significato preciso di formule come «iniziativa della Regione interessata», «sentiti gli enti locali», «intesa fra lo Stato e la Regione interessata»; e che solo dopo aver fatto questo sarebbe possibile attivare il procedimento per l’adozione delle leggi di autonomia negoziata. La legge di attuazione sarebbe, cioè, necessaria al fine di stabilire uno dei tanti possibili significati che legittimamente potrebbero ascriversi alle formule sopraddette.

Se invece si muove dal presupposto che ciascuna di tali formule non possa avere più significati legittimi, ma che solo uno sia quello corretto (ricostruito secondo i consueti canoni dell’interpretazione costituzionale), allora la legge attuativa non dovrebbe fare altro che esplicitarli: ma in tal caso ci sarebbe realmente bisogno di una una fonte attuativa? Non potrebbe ragionevolmente sostenersi l’autosufficienza e auto-applicabilità dell’art. 116, comma terzo?

La mia tesi è che l’art. 116, comma terzo, ponga solo un problema d’interpretazione costituzionale e non un più grave problema di attuazione costituzionale, come proverò ad argomentare nei paragrafi che seguono.

 

 

4. – L’iniziativa regionale

 

Vado con ordine, prendendo anzitutto in esame la formula «su iniziativa della Regione interessata». In dottrina sono emersi due orientamenti di fondo.

Per il primo l’iniziativa regionale dovrebbe intendersi come il mero potere di dare impulso al procedimento concertativo bilaterale finalizzato all’intesa tra Stato e Regione, sulla cui base dovrà poi adottarsi la legge di autonomia negoziata. Peraltro era la soluzione recepita nel ddl approvato dal Governo nel 2007 (ma che non divenne legge. In particolare l’art. 2 recitava così: «L’atto di iniziativa della Regione, deliberato con le modalità e le forme stabilite dalla Regione medesima, è presentato al Presidente del Consiglio dei Ministri o al Ministro per gli affari regionali da lui delegato»). Mi sembra una lettura svalutativa dell’iniziativa regionale e che rischia di non riconoscere granché alla regione interessata, poiché è indubbio che sul piano informale nessuno potrebbe impedire al Governo di richiedere a questa o quella Regione di dare formale impulso al procedimento ex art. 116 [5].

L’altro orientamento – più coerente col canone dell’interpretazione letterale e sistematica – è quello di intendere «iniziativa» nel senso di «iniziativa legislativa», anche considerando che poco prima compare la parola «legge»: il testo costituzionale dice, infatti, che le ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia possono essere attribuite «con legge dello Stato, su iniziativa della Regione interessata». Nella Costituzione il termine «iniziativa» compare 10 volte. A parte il riferimento all’iniziativa «economica» ex art. 41, all'autonoma iniziativa dei cittadini per lo svolgimento di attività nell'interesse generale ex art. 118, all'iniziativa del Presidente di ciascuna Camera, del PdR e di un terzo dei componenti di una Camera per la convocazione straordinaria della stessa ex art. 62, in tutti gli altri casi si parla sempre di iniziativa legislativa. Certo, è dubbio se l'iniziativa dei Comuni per il mutamento delle circoscrizioni provinciali ex art. 133 sia iniziativa legislativa: in dottrina si è sostenuto che sarebbe senz'altro così[6], sebbene si sia affermata la prassi di qualificare tale iniziativa come «parlamentare».

Il solo argomento contrario potrebbe essere quello secondo cui la Costituzione definisce espressamente i casi di iniziativa legislativa, affiancando al termine «iniziativa» il genitivo «delle leggi» o l'aggettivo «legislativa». Ma anche se tale rilievo varrebbe ad escludere l'iniziativa legislativa comunale, tuttavia non sarebbe spendibile nel caso che a noi interessa, poiché l'art. 121, comma primo,  Cost. prevede espressamente che ciascun Consiglio Regionale «può fare proposte di legge alle Camere», sicché alla luce di un'interpretazione sistematica l'art. 116, comma terzo, farebbe proprio riferimento al fatto che la Regione, e precisamente il suo Consiglio, elabori e deliberi una proposta di legge, da trasmettere alle Camere, le quali potranno approvare senza emendamenti, e in tal caso l'intesa tra lo Stato e la Regione interessata sarà in re ipsa, essendoci accordo su un medesimo testo; se invece le Camere emendano, dovrà ricercarsi l'intesa con la Regione: intesa che nel quadro di questa ricostruzione non potrà che essere “forte”, visto che essa si presume se la Regione e lo Stato deliberano il medesimo testo.

 

 

5. – L'intesa tra lo Stato e la Regione

 

Accedendo alla tesi secondo cui per «iniziativa della Regione» deve intendersi quella «legislativa», si risolvono – come si è visto – anche i problemi ermeneutici relativi alla nozione di «intesa»: questa non solo dovrà considerarsi come “forte”, alla luce di ciò che si è detto sopra, ma inoltre dovrà essere data dallo stesso organo che avanza la proposta di legge alle Camere, cioè dal Consiglio regionale, così come per parte statale dovrà essere il Parlamento (approvando la proposta legislativa formulata dal Consiglio regionale)[7].

Anche con riguardo a questo specifico profilo la mia proposta ermeneutica si discosta da quella recepita nel ddl governativo del 2007, il quale all'art. 2 disponeva che l'intesa intervenisse tra il Presidente del Consiglio dei Ministri e il Presidente di Regione. Tale soluzione, però, se è corretto quanto ho argomentato sopra, non può annoverarti tra quelle che sarebbero astrattamente e legittimamente possibili.

Ho presente l'obiezione che può muoversi a questa ricostruzione: sono solitamente gli esecutivi ad agire in rappresentanza dei rispettivi livelli di governo nelle relazioni inter-istituzionali tra enti territoriali. Ma qui l'art. 116 prefigura un procedimento negoziato per la ridefinizione dell'ordine costituzionale delle competenze legislative (e non solo: ma è indubbio che le competenze legislative sarebbero le più importanti forme e condizioni particolari di autonomia). E a questa negoziazione debbono partecipare gli organi le cui competenze sono direttamente incise, ossia il Consiglio regionale e il Parlamento nazionale. Ė francamente improprio che siano gli organi esecutivi ad accordarsi sull'assetto futuro delle competenze spettanti agli organi legislativi, come se la volontà governativa coincidesse con la volontà parlamentare maggioritaria e, nelle Regioni, la volontà presidenziale coincidesse con la volontà maggioritaria consiliare[8].

Ovviamente, questa disciplina procedurale formalizzata non esclude che la sua attivazione sia preceduta da trattative informali tra Regione interessata e Stato, in particolare tra gli esecutivi nazionale e regionale, al fine di prevenire spiacevoli “sorprese” quando poi si dovrà attivare il procedimento formale ex art. 116. Ma resta inteso che il meccanismo disposto dal testo costituzionale impegna direttamente gli organi legislativi Regionale e nazionale, ai quali spetta il formale avvio del procedimento legislativo, la gestione delle fasi consultive e la deliberazione concordata finale.

 

 

6. – La consultazione degli enti locali

 

Il terzo nodo ermeneutico riguarda la formula «sentiti gli enti locali», ossia la gestione delle fasi consultive. Nel testo dell’art. 116, comma terzo, l’inciso «sentiti gli enti locali» compare subito dopo la formula «su iniziativa della Regione interessata». A mio giudizio, questo accostamento e dislocazione spaziale indica il momento in cui deve intervenire la consultazione degli enti locali sub-regionali: precisamente, prima che la Regione interessata eserciti il diritto d’iniziativa legislativa deve sentire i suoi enti locali.

Per quanto riguarda le forme della consultazione locale, anche in questo caso mi parrebbe superflua una legge attuativa diretta a definire quali debbano essere. In tutte le regioni ordinarie, infatti, lo Statuto istituisce e disciplina il CAL «quale organo di consultazione tra la Regione e gli enti locali», sicché l’obbligo di consultazione previsto dall’art. 116 sarà adempiuto nelle forme e nei modi previsti dalle discipline statutarie regionali. In ogni caso non si può stabilire un’equivalenza tra consultazione degli enti locali sub-regionali e consultazione del corpo elettorale regionale, poiché la seconda non può surrogare la prima, visto che la volontà maggioritaria degli elettori regionali non equivale necessariamente alla volontà maggioritaria degli enti locali sub-regionali.

Altra questione è se sia doveroso ri-sentire gli enti locali qualora le Camere emendino la proposta regionale di legge. In tal caso, come ho detto prima, occorre raccogliere l’intesa del Consiglio regionale, il quale prima di deliberarla dovrà consultare il CAL ancora una volta.

Insomma, anche in riferimento a questo problema interpretativo si conferma la tesi di fondo secondo cui non occorre una legge attuativa che specifichi le fasi procedimentali che l’art. 116, comma terzo, stabilisce per l’adozione della legge statale rinforzata che attribuisce ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia. La disciplina costituzionale nasce perfetta e immediatamente applicabile in ogni sua parte.

Un’altra importante conclusione concerne la natura della fonte legislativa atipica e rinforzata prevista dall’art. 116, comma terzo. In dottrina c’è chi l’ha ricostruita come una legge “di mera approvazione”, cioè come una legge formale che deve consistere di una sola disposizione che conferisce forza normativa di legge all’intesa conclusa tra Governo nazionale e Giunta regionale, senza poterne emendare i contenuti (nella logica del “prendere o lasciare”)[9]. Ma è una soluzione che non può ricavarsi direttamente  dall’interpretazione del dettato costituzionale e che invero potrebbe essere solo una legge attuativa dell’art. 116 a introdurre: non per caso chi propone la tesi della “legge di approvazione” ritiene altresì necessaria una legge di attuazione dell’art. 116, che definisca preliminarmente le fasi procedimentali di adozione della suddetta legge approvativa. Peraltro non si tratta certo di un’opinione isolata, visto che ha costituito la base per il ddl deliberato dal Governo nel 2007.

 

 

7. – Argomenti contro il regionalismo differenziato quale unica declinazione del principio autonomistico

 

Chiarito perché si può dare immediata esecuzione alle potenzialità contenute nell’art. 116, comma terzo, Cost., ritorniamo alla domanda se il regionalismo differenziato è la via attraverso cui il principio autonomistico può risalire la china del suo declino.

Un indirizzo di pensiero sostiene che il regionalismo dell'uniformità non consentirebbe di distinguere tra regioni e regioni secondo le prestazioni di efficienza e che invece occorre iniettare un fattore competitivo e incentivante che faccia risaltare le performance migliori su quelle peggiori. Al fine di rianimare il principio autonomistico ci vorrebbe, quindi, lo stimolo degli incentivi per coloro che fanno già bene (stimolo che invece avrebbe una valenza punitiva, ma sferzante, per coloro che ancora non fanno bene). Insomma, bisogna premiare i bravi e responsabilizzare maggiormente i meno bravi, attraverso una redistribuzione a geometria variabile delle competenze di autonomia e delle relative risorse strumentali (in primo luogo quelle finanziarie).

Ma in base a questa logica, se i più meritevoli ottengono più competenze e più risorse, è ragionevole prevedere che i meno meritevoli manterranno le stesse competenze ma con meno risorse, considerato che i mezzi finanziari disponibili sono per definizione limitati e che non si può tirare una coperta troppo corta da una parte senza scoprirne un'altra. Certo, si può osservare un criterio di “neutralità perequativa” e lasciare invariata la dotazione di risorse destinata agli enti che non acquistano nuove competenze: ma in tal caso sarebbe la finanza statale a dover sopportare il peso della rinuncia e nessuno può garantire che da parte dello Stato questa disponibilità al sacrificio ci sia (né tantomeno esiste un processo decisionale conformato in modo tale che lo Stato sia, in qualche modo, “costretto” a tale sacrificio: il grado di realizzazione dell’autonomia positiva è ancora insufficiente, come si è detto).

Ma le obiezioni non finiscono certo qui: una si sintetizza nella domanda: “chi stabilisce chi sono i meritevoli e in base a quali indici?”. È scontato che sia lo Stato ad avere questo ruolo decisivo e determinare i criteri della meritevolezza, il quale Stato sarebbe così l’arbitro della competizione inter-regionale per ottenere maggiori risorse: questo dividerebbe il fronte regionale e porrebbe il governo centrale nella condizione di esercitare una sorta di “divide et impera”. Peraltro l'idea di una concorrenza tra le regioni, finalizzata alla selezione di best practices, mi sembra ideologicamente viziata da un certo ottimismo di stampo neo-liberale. Siamo veramente sicuri che incentivando la competizione tra enti territoriali si riesca a rilanciare il principio autonomistico?

Un’altra obiezione è che le diverse prestazioni regionali di efficienza riguardano l'azione amministrativa e non tanto quella legislativa, mentre il dispositivo dell'art. 116 concernerebbe primariamente le competenze legislative, con ciò costituendo la risposta sbagliata a una domanda tutto sommato corretta ("come restituire efficienza all'azione amministrativa regionale e locale di questo o quel territorio?"). Del resto, il rimedio contro l'inefficienza amministrativa regionale o locale esiste ed è il potere sostitutivo ex art. 120 Cost.[10]

C'è infine da considerare quale spazio l'art. 116 consenta per ampliamenti significativi delle competenze legislative. Non mi sembra che sia granché. Prendiamo le materie statali esclusive richiamate: tralascio l’«organizzazione dei giudici di pace», che francamente non mi sembra che possa costituire l'occasione di un intervento legislativo regionale dalla portata innovativa. Rimangono le «norme generali in materia di istruzione», ma l’istruzione è già una materia di legislazione regionale concorrente, e quindi non si capisce in che senso le regioni possano dettare «norme generali»: se queste sono tali perché devono valere su tutto l’ambito nazionale, le norme regionali per definizione non potranno certo essere “generali”. Né può pensarsi che una forma e condizione particolare di autonomia differenziata possa essere quella consistente nell’escludere che le norme statali generali trovino applicazione nella regione interessata dal processo di differenziazione. Al limite, si può pensare che talune norme generali non trovino applicazione. Lo stesso può dirsi per la tutela dell’ambiente e dei beni culturali: l’autonomia differenziata consisterà nell'interrompere l’applicazione di questa o quella norma statale con riguardo alla regione beneficiaria della differenziazione, e non già nel fatto di riconoscere alla regione una competenza in materia di ambiente e di beni culturali, visto che tali competenze è pacifico che siano anche regionali.

Infine va detto che il regionalismo differenziato, se non è adeguatamente compensato dal regionalismo cooperativo e integrativo, non solo rischia d’indebolire le realtà regionali nel loro complesso rispetto al ruolo statale, ma alla lunga può perfino compromettere la stessa coesione repubblicana, d’indebolire l’intensità dell’unione statale. Non bisogna dimenticare che storicamente il principio autonomistico ha operato come un potente fattore di integrazione statale. Anche etimologicamente il federalismo richiama il foedus, il patto d’unione che sigla l’accordo e la coesione tra ciò che prima era separato e potenzialmente conflittuale. Se poi guardiamo al federalismo germanico e all’esperienza del Bundesrat, che non è organo di rappresentanza territoriale bensì organo di partecipazione diretta delle entità federate all’esercizio delle funzioni federali, la valenza integrativa del principio autonomistico, colto nella sua accezione “positiva”, emerge con ancor più nettezza[11]

 

 

8. – Conclusioni

 

In definitiva il regionalismo differenziato non è la strada maestra per rianimare il principio autonomistico, a meno che all’attuazione degli istituti della differenziazione non segua un parallelo rafforzamento degli istituti di autonomia positiva: diversamente, si corre il rischio non solo di affossare definitivamente il principio autonomistico, ma anche di compromettere la coesione sociale, politica e istituzionale della Repubblica.

All'inizio del mio discorso ho detto che il segno, la manifestazione più evidente della caduta libera del principio autonomistico è la smisurata espansione della funzione statale di coordinamento della finanza pubblica e la conseguente compressione dell'autonomia finanziaria territoriale. Il detto no taxation without representation è palindromo e può essere letto pure al contrario: no representation without taxation and a budget. L’autonomia finanziaria è il presupposto di quella politica e quindi di quella legislativa e amministrativa.

Ma la ragione per cui l’autonomia finanziaria è caduta in balia del potere statale accentrato e unilaterale di coordinare la finanza pubblica è il fatto che abbiamo praticamente puntato tutto sull’autonomia negativa e la differenziazione, trascurando l’integrazione delle autonomie nei processi decisionali che contano. Non è infatti l’autonomia negativa, ma è l’autonomia positiva, il regionalismo cooperativo, ossia è la partecipazione ai processi decisionali che si svolgono al di sopra del soggetto autonomo e che si riverberano sulla sua condizione, il fattore che può garantire rapporti più equilibrati tra centro e periferia e contrastare le tendenze espansive del centro. Germania docet, dove è vero che a cavallo tra gli anni Novanta e Duemila sono stati introdotti elementi di federalismo asimmetrico e competitivo, nella logica dell’autonomia negativa, ma che comunque rimane un modello ancora essenzialmente e prevalentemente imperniato sull’autonomia positiva dei processi decisionali integrati tra centro e periferia.

Sappiamo che alcune regioni, oggi, aspirano a una maggiore autonomia negativa (è emblematico il referendum lombardo-veneto). Ma se il quadro dell’autonomia positiva rimane ancora gravemente incompleto, quest’aspirazione rischia di essere un calcolo miope e alla lunga controproducente.

 

 

9. – Riferimenti bibliografici

 

-        ANTONINI L., Il regionalismo differenziato, Giuffrè, Milano, 2000.

-        BIN R., “Regionalismo differenziato” e utilizzazione dell’art. 116, terzo comma, Cost. Alcune tesi per aprire il dibattito, in Le istituzioni del federalismo, 2008.

-        CARETTI P., TARLI BARBIERI G., Diritto regionale, Giappichelli, Torino, 2007.

-        CARTABIA M., Legislazione e funzione di governo, in Riv. dir. cost., 2006.

-        CECCHETTI M., La differenziazione delle forme e condizioni di autonomia regionale nel sistema delle fonti, in Osservatorio sulle fonti, 2011.

-        CHESSA O., Specialità e asimmetria nel sistema regionale italiano, in S. Mangiameli (a cura di), Il regionalismo italiano dall’Unità alla Costituzione e alla sua riforma, vol. I, Atti delle giornate di studio, Roma, 20-21 ottobre 2011, Giuffrè, Milano, 2012.

-        CHESSA O., Il presidente della repubblica parlamentare. Un’interpretazione della forma di governo italiana, Jovene, Napoli, 2010.

-        FALCON G., Il nuovo titolo V della parte seconda della Costituzione, in Le Regioni, 2001.

-        MANGIAMELI S., Il riparto delle competenze normative nella riforma regionale, in Id., La riforma del regionalismo italiano, Giappichelli, Torino, 2002.

-        MORRONE A., Il regionalismo differenziato. Commento all’art. 116, comma 3, della Costituzione, in Federalismo fiscale, 2007, n. 1.

-        PAJNO S., Per un nuovo bicameralismo, tra esigenze di sistema e problemi relativi al procedimento legislativo, in Federalismi.it, n. 4, 2014.

-        PALERMO F, Federalismo asimmetrico e riforma della Costituzione italiana, in Le Regioni, 1997.

-        G. RIVOSECCHI, Il coordinamento della finanza pubblica: dall’attuazione del Titolo V alla deroga al riparto costituzionale delle competenze?, in S. Mangiameli (a cura di), Il regionalismo italiano tra giurisprudenza costituzionale e involuzioni legislative dopo la revisione del Titolo V, Atti del seminario ISSIRFA-CNR Roma 13 giugno 2013, Milano 2014.

-        RUGGERI A., La “specializzazione” dell’autonomia regionale: se, come e nei riguardi di chi farvi luogo, in Le istituzioni del federalismo, 2008.

-        SPAGNA MUSSO E., Scritti di diritto costituzionale, Tomo I, Giuffrè, Milano, 2008.

-        ZANON N., Per un regionalismo differenziato: linee di sviluppo a Costituzione invariata e prospettive alla luce della revisione del titolo V, in AA.VV., Problemi del Federalismo, Giuffrè, Milano, 2001. 

 

 



 

(*)

 

[1] Cfr. RIVOSECCHI 2014, 147 ss.

 

[2] Il conio della formula «regionalismo differenziato» è di ANTONINI 2000, passim. Altri hanno proposto la formula di «federalismo asimmetrico» (Palermo 1997, 291 ss.) o «clausola di asimmetria», con riguardo specifico all’art. 116 (MANGIAMELI 2002, 141). Altri ancora hanno parlato di «nuova specialità» (CARETTI, TARLI BARBIERI 2007, 32), di «speciale specialità di singole regioni ordinarie» (FALCON 2001, 11) e di «specializzazione dell’autonomia regionale» (RUGGERI 2008, 51).

 

[3] Un’approfondita analisi delle vicende e questioni che interessano i raccordi cooperativi nell’ordinamento italiano, con particolare riguardo al tema della riforma del nostro sistema bicamerale, è in PAJNO 2014.

 

[4] A sostegno della risposta affermativa vedi CECCHETTI, 2011, 146-147; per quella negativa MORRONE, 2007, 154.

 

[5] Un po’ come succede col potere d’iniziativa del ministro proponente in relazione agli atti presidenziali ritenuti sostanzialmente governativi: così come nessuno può impedire al Capo dello Stato di sollecitare informalmente la proposta governativa, allo stesso modo non può escludersi che il Governo faccia lo stesso nelle relazioni con le Regioni.

 

[6] SPAGNA MUSSO 2008, 266-267.

 

[7] Per la tesi che assegna, invece, il potere d’intesa al Governo, vedi CECCHETTI 2011, 153.

 

[8] Sulla necessità di considerare ben distinta la volontà governativa-giuntale da quella della maggioranza parlamentare-consiliare, pur in presenza di un indubbio raccordo politico, vedi CARTABIA, 2006, 89 e CHESSA 2010, 122-123.

 

[9] ZANON, 2001, 57; MORRONE 2007, 162.

 

[10] Cfr. BIN 2008, 16.

 

[11] Ho illustrato ulteriori considerazioni critiche sul modello asimmetrico della differenziazione competitiva in CHESSA 2012, 164 ss.