D & Innovazione

 

 

Convegno

prigione e territorio

percorsi di integrazione dentro e fuori le carceri

Università di Sassari – 26-27 maggio 2017

(Aula Segni di Giurisprudenza / Aula Magna)

 

Patrizi-fotoGiustizia e pratiche riparative. Per una nuova giustizia di comunità

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PATRIZIA PATRIZI

Ordinaria di Psicologia sociale e giuridica

nell’Università di Sassari

 

 

SOMMARIO: 1. Premessa: il paradigma della giustizia riparativa. – 2. Concezioni e definizioni di giustizia riparativa. – 3. Applicazioni e programmi. – 4. Verso un modello di comunità riparativa. – 4.1. Il benessere. – 4.2. La responsabilità. – 4.3. Autoefficacia percepita ed efficacia collettiva. – 4.4. Capitale sociale, valore di legame, rispondenza fiduciaria. 4.5. Il modello Co.Re. – Comunità di Relazioni riparative. 4.6. Il progetto pilota di Nuchis-Tempio Pausania. – Abstract.

 

 

1. – Premessa: il paradigma della giustizia riparativa

 

Questo contributo riguarda un campo emergente di studio, ricerca e intervento delle scienze sociali applicate ai temi della devianza, della sua prevenzione, della risposta al crimine e, più in generale, della gestione dei conflitti che coinvolgono persone e collettività[1]. Ci riferiamo all’ambito della giustizia riparativa (Restorative Justice) e delle pratiche riparative (Restorative Practices), un insieme di valori, criteri e strategie che hanno come finalità generale la ricostruzione del senso di comunità, oggi sempre più compromesso, attraverso la promozione di occasioni positive di benessere individuale e collettivo[2].

L’approccio riparativo (Restorative Approach) si ispira al modello e alla filosofia della giustizia riparativa (Restorative Justice)[3] il cui presupposto fondamentale è considerare la riparazione di un danno prodotto nei confronti di persone e relazioni come focus prioritario e al di sopra di qualunque altro intervento (come ad esempio quello punitivo rappresentato dalla pena). Nella sua definizione tradizionale, la giustizia riparativa (RJ) può essere considerata come un modello di giustizia che coinvolge la vittima, il reo e la comunità nella ricerca di soluzioni operative in risposta alle conseguenze prodotte dal reato, allo scopo di promuovere la riconciliazione tra le parti e il rafforzamento del senso di sicurezza collettivo.

Secondo la giustizia riparativa (o relazionale, come viene talvolta definita) l’obiettivo principale verso cui dovrebbe tendere qualunque intervento è quello di recuperare le relazioni nelle quali è avvenuto il danno. Comprende un insieme di pratiche che mettono la vittima al centro della risposta alla criminalità e, allo stesso tempo, tendono a responsabilizzare l’autore/autrice sugli effetti delle sue azioni. Questo modello di giustizia nasce negli anni settanta del novecento con lo strumento della mediazione tra vittima e autore del reato, per poi svilupparsi negli anni novanta in un modello di intervento più ampio che include l’intera comunità nella gestione e riparazione del danno.

Il focus sta nel passaggio dalla sola/principale forma di risposta al crimine, la reclusione, verso nuove e più complesse modalità di inclusione: degli attori sociali coinvolti, dei loro sistemi di appartenenza, della comunità locale, delle istituzioni e della società stessa entro cui tutti questi livelli di responsabilità si incontrano circolarmente e si (auto)generano[4]. Si tratta di restituire il conflitto alle persone e ai sistemi che del conflitto stesso sono proprietari, come ha ben evidenziato Nils Christie[5]. Numerosi studi hanno dimostrato, peraltro, la migliore efficacia (in termini di rilevante riduzione della recidiva) dei programmi condotti su base comunitaria e fondati su una serie di condizioni atte a realizzare inclusioni responsabili e partecipate: strumenti e figure specialistiche di supporto alla persona rispetto ai problemi rilevati e tenuto conto dell’ambiente di vita (vs. il controllo rafforzato che si è dimostrato, invece, peggiorativo), coinvolgimento della persona, nelle attività di trattamento, e della sua famiglia per l’individuazione dei rischi e delle risorse presenti nella rete sociale, attività a carattere riparativo[6]. Le indicazioni presenti nelle fonti internazionali testimoniano in tal senso il grande interesse esistente sia di ordine economico che sociale per ridurre l’impatto del sistema penale sulla vita degli individui. Si sostiene specificamente l’obiettivo di incentivare, nei diversi sistemi di giustizia, le pratiche alternative alla detenzione quali strumenti in grado di ridurre i rischi di recidiva, aumentare il benessere delle vittime, degli stessi operatori e operatrici del sistema penale, della comunità. Questo orientamento è stato assunto anche dalla Direttiva 2012/29/UE del 25 ottobre 2012, che istituisce le norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato e che fa esplicito riferimento alle modalità attuative dei “servizi di giustizia riparativa” come strumento, non solo, di più rapida risoluzione del conflitto e di riduzione di vittimizzazione secondaria, ma anche di prevenzione della criminalità, sviluppo di sicurezza e promozione del benessere per tutte le parti coinvolte. La stessa Direttiva definisce così la giustizia riparativa: «qualsiasi procedimento che permette alla vittima e all'autore del reato di partecipare attivamente, se vi acconsentono liberamente, alla risoluzione delle questioni risultanti dal reato con l'aiuto di un terzo imparziale». Lo scopo dunque è quello di garantire che le vittime di reato (definite come persone fisiche che hanno subito un danno, anche fisico, mentale o emotivo, o perdite economiche che sono stati causati direttamente da un reato) ricevano informazione, assistenza e protezione adeguate e possano partecipare ai procedimenti penali.

 

 

2. – Concezioni e definizioni di giustizia riparativa

 

Le principali concezioni con cui la giustizia riparativa può essere considerata sono ben tracciate dall’Handbook on Restorative Justice Programmes[7]. Si tratta di tre concezioni concordi sull’idea che il crimine genera danni e produce bisogni e che la giustizia dovrebbe dunque operare in termini di riparazione del danno e indirizzare bisogni, i quali si presentano in forme diverse: materiali, emozionali, sociali, relazionali, fisiche. Esse differiscono, tuttavia, in termini di enfasi.

Una prima concezione è quella dell’incontro:

 

«This focuses on the unique feature of restorative justice, which is the parties meeting together to discuss the crime, its aftermath and what should be done to make things right. These are what the United Nations Basic Principles on the Use of Restorative Justice Programmes in Criminal Matters and this handbook refer to as restorative processes. Persons who work within this conception may suggest that restorative processes be used even when there has not been a crime, such as when neighbours have a conflict or a family needs to solve a problem»[8].

 

La seconda è quella riparativa:

 

«This focuses on the need to repair the harm resulting from crime. People who work within this conception agree that this is best done in a restorative process, but they are willing to find other ways to repair that harm even if there is no restorative process (for example, if the offender is never caught or the victim is unwilling to participate)»[9].

 

La terza è la concezioni trasformativa:

 

«This is the broadest perspective of all: it not only embraces restorative processes and steps to repair the harm, but it also focuses attention on structural and individual injustice. It does the former by identifying and attempting to resolve underlying causes of crime (poverty, idleness, etc.). However, it also challenges individuals to apply restorative justice principles to the way they relate to those around them and to their environment. This can generate a kind of internal spiritual transformation even as it calls for external societal transformation»[10].

 

Ciascuna di queste concezioni concorda sui valori dei processi riparativi e sui bisogni cui essi vengono indirizzati, ma ognuna include anche elementi che le altre concezioni possono non accettare come riparative o non ritenere sufficienti allo scopo. Per esempio, nella concezione trasformativa, che è la più ampia e radicale, non può esserci giustizia riparativa se non attraverso un contemporaneo lavoro di giustizia sociale teso a rimuovere le condizioni di marginalità, discriminazione ecc.

L’International Institute for Restorative Practices Mission Statement parla delle pratiche riparative come di una nuova scienza:

 

«Restorative practices is a social science that studies how to build social capital and achieve social discipline through participatory learning and decision making»[11].

 

Le Nazioni Unite elaborano la seguente nozione di processo riparativo:

 

«“Restorative process” means any process in which the victim and the offender, and, where appropriate, any other individuals or community members affected by a crime, participate together actively in the resolution of matters arising from the crime, generally with the help of a facilitator. Restorative processes may include mediation, conciliation, conferencing and sentencing circles»[12].

 

L’European Forum for Restorative Justice afferma:

 

«There is no single definition of restorative justice. Restorative justice is seen as a broad approach oriented towards repairing, as far as possible, the harm caused by crime or other transgressions. A core element of restorative justice is active participation by the victim, the offender and possibly other parties (the community)»[13].

 

Affinché la visione fin qui illustrata possa svilupparsi in chiave attuativa è necessario che i suoi principi e le sue finalità vengano condivise anche all’esterno del sistema della giustizia e che i suoi programmi vengano pensati/progettati lungo un continuum di promozione di occasioni di benessere e di prevenzione del disagio. Questo processo di interazione discorsiva allargata può costituirsi come risorsa per affrontare il problema penale al di fuori della prevalente logica lineare carcere – rieducazione/trattamento – reinserimento sociale, verso forme di giustizia riparativa, responsabile e responsabilizzante, capaci di assumere anche i meccanismi più problematici della sicurezza sociale.

La questione diventa, dunque, come sviluppare un modello riparativo in grado di muoversi anche fuori dal sistema penale onde evitare ambigue sovrapposizioni tra azione riparativa, da una parte, punitiva-rieducativa dall’altra, e, conseguentemente, la pericolosa generazione di pensieri pre-strutturati, come quelli di colpa, castigo, minaccia, pena, espiazione, scusa strumentalmente definita, non coerenti con la promozione circolare di responsabilità tipica degli approcci riparativi. Fin quando l’azione riparativa verrà realizzata (sporadicamente e soltanto) all’interno dei sistemi penali tradizionali, essa non potrà raggiungere i risultati previsti nelle premesse. È nella diversion che è possibile realizzare piani di giustizia riparativa e di mediazione almeno parzialmente sganciati dal sistema penale.

In sintesi si tratta di:

 

«focalizzare la profonda diversità concettuale tra un’idea di riparazione che si pone come alternativa preventiva all’idea stessa di pena, come modo di non arrivare quindi alla condanna, come alternativa all’idea stessa di sanzione, da una giustizia riparativa che al più si pone come alternativa al carcere in prosecuzione di una condanna penale, rispetto alla quale si configura inevitabilmente come modalità di esecuzione della stessa, assumendo perciò una funzione essenzialmente afflittiva, cioè inevitabilmente come un onere aggiuntivo di cui viene caricato il soggetto già condannato, e che quindi non potrà che vivere come ulteriore afflizione, come qualcosa che opportunisticamente si applica per saldare definitivamente il proprio debito e uscire dalla condizione sociale di debitore, spesso debitore a vita»[14].

 

Il paradigma della giustizia riparativa riconduce alla necessità di rivedere i sistemi penali con un’attenzione alla vittima dei reati e, contemporaneamente, allo sviluppo di nuove forme di trattamento in grado di ridurre il conflitto all’interno delle dinamiche sociali. Se la commissione di un reato crea una frattura tra la persona autrice dell’illecito e la società nella quale lo stesso è avvenuto, l’intervento/pena deve occuparsi anche di quella relazione e di riparare la frattura sociale. In accordo con recente letteratura, individuiamo nella giustizia riparativa un orientamento volto a riformulare i rapporti tra le parti sociali, attraverso il coinvolgimento di tutti i sistemi interessati, inclusa la giustizia. L’ipotesi è quella di sviluppare un sistema di intervento di comunità che superi persino la logica della mediazione penale per proiettarsi verso una società ad approccio riparativo come quella ben descritta nel modello delle città di Hull e di Leeds in Inghilterra[15]. Si tratta di una svolta culturale che muove dalle tradizionali visioni re-attive (basate sulle risposte a ciò che è stato) verso quell’ottica squisitamente pro-attiva che guida azioni e interventi promozionali (fare in funzione della situazione attesa). Se assumiamo questa prospettiva, possiamo anche rilevare sorprendenti omologie processuali fra contesti e circostanze apparentemente molto distanti: dalle situazioni di marginalità sociale ai disordini nelle scuole, dai conflitti di vicinato agli atti di bullismo, dai danni prodotti da piccole trasgressioni ai traumi e alle sofferenze di chi è vittima di gravi delitti, ma anche ai traumi e alle sofferenze di quelle vittime indirette che sono figlie e figli, le famiglie di chi il reato l’ha commesso. E poi ci sono le nostre relazioni quotidiane, i nostri atteggiamenti nelle interazioni di ogni giorno e nei confronti dei fenomeni che osserviamo o di cui siamo parte. Atteggiamenti e relazioni che non sono immuni a quanto accade intorno a noi, né (tantomeno) sono neutre rispetto alla possibilità che proprio quei fenomeni si producano. Non sono neutri gli atteggiamenti della classe, il disinteresse di compagne e compagni alla possibilità che si verifichi un atto bullistico o che la vittima di un episodio inizi a percepirsi vulnerabile nelle sue interazioni di ogni giorno, o che bulli e bulle finiscano per incastrarsi in una “carriera” nella devianza. Non è neutro rispetto all’escalation di marginalità sociale il nostro ostracismo di fronte al diverso da noi (siano persone, culture, movimenti che rivendicano diritti). Quello riparativo può definirsi paradigma proprio perché non appartiene a una specifica situazione (di quelle evocate o di altre), ma tutte le attraversa. Perché è riparativo/relazionale/restorative agire (sia come risposta a danni prodotti, sia predisponendo le condizioni che prevengano danni) con il coinvolgimento di tutte le parti interessate, garantendo e richiedendo responsabilità e supporto sociale.

Interessante, in proposito, appare il feedback di prevenzione nella giustizia riparativa elaborato da McCold (v. figura 1)[16], dove le azioni riparative, rispondendo ai bisogni conseguenti ai danni prodotti dai reati, funzionano come intervento promozionale che, intercettando quei bisogni, riparano danni con l’obiettivo di prevenire reati.

Figura 1 Il feedback della prevenzione nella giustizia riparativa (McCold, 2005, cit. in Wright, 2010)

Alla base dell’ottica che stiamo illustrando si pone il rispetto reciproco, come motore dell’azione riparativa e come suo esito privilegiato.

Nello specifico della giustizia formale, il modello riparativo sollecita/esige responsabilità e re-include nella vicenda penale sia la vittima che la collettività. Attraverso la realizzazione di progetti che prevedono una riparazione attiva dei danni e una gestione partecipativa del conflitto, viene messa in primo piano non solo l’interazione autore-vittima, ma anche il rapporto tra la norma e una risposta sociale in grado di considerare le conseguenze materiali, psicologiche e simboliche dell’azione deviante di tipo criminale. Perché norma e risposta sociale sono entrambe variabili influenti sui fenomeni che la prima intende regolare, che la seconda contribuisce a costruire e di cui è, al contempo, parte costitutiva. La finalità del modello di cui stiamo discutendo, che certamente include la mediazione del conflitto, si muove oltre questa possibilità per attuare una negoziazione tra le parti, che sia mirata al cambiamento del reciproco modo di percepirsi/rapportarsi e alla realizzazione di nuove modalità sia di assunzione responsabile dell’azione commessa sia delle diverse possibilità di reagire alla stessa.

La persona autrice di reato viene riconsiderata come soggetto cui chiedere di rispondere degli effetti negativi dell’azione commessa; la vittima (anche in un senso esteso di collettività) come principale interlocutrice cui riferire le azioni restitutive poste in essere. Ma la vittima è anche, soprattutto, la persona con il suo carico di sofferenza, di dolore per l’esperienza vissuta nel reato e in ciò che gli consegue nella vita di ogni giorno e in tribunale. E quanto più grave è il delitto, quanto più forte e profonda la sofferenza, più si rende necessario che una risposta riparativa sappia intercettarla. Non necessariamente, non principalmente, con la finalità di una mediazione diretta, ma perché quella esperienza possa essere elaborata nella maniera più funzionale per sé, come persona e come parte sociale.

Esplicativo di ciò che è la giustizia riparativa in termini di paradigma, si può considerare il modello bilanciato proposto da Tim Chapman, presidente del board dell’European Forum for Restorative Justice, docente e direttore dei master in Restorative Justice all’Università di Ulster, che ha lavorato a lungo come probation officer. Il modello a cui si fa riferimento rispecchia e chiarisce qual è il focus del paradigma, ponendo al centro della figura il danno (v. fig. 2)[17].

Figura 2 Il Modello Bilanciato (Chapman, 2012)

Chapman infatti precisa, citando Micheal White[18], che «il problema è il problema», intendendo che il problema consiste proprio nel danno piuttosto che risiedere nell’autore, nella vittima o nella comunità. Il centro è il danno e ai vertici del triangolo rappresentato in figura vengono inseriti i tre protagonisti coinvolti (autore, vittima e comunità), ognuno dei quali ha responsabilità ed esigenze proprie. Chi è responsabile del danno è presente per ridurre il rischio di commetterlo di nuovo, ma anche per ottenere una vita migliore; la parte che è stata offesa ha bisogno di risposte, di protezione e necessita di una riparazione del danno; la comunità richiede sicurezza e inclusione.

 

 

3. – Applicazioni e programmi

 

Sono tre dunque i protagonisti fondamentali del paradigma della Restorative Justice che, come già illustrato, si può declinare in diversi approcci teorici e in diversi programmi specifici. La figura seguente lo illustra molto chiaramente (v. fig. 3)[19].

Figura 3 Le tipologie di giustizia riparativa (McCold, Wachtel, 2003)

I tre cerchi (le tre aree) rappresentati in figura indicano i protagonisti e i loro bisogni: a sinistra, viene illustrata l’area che concerne la vittima, colui/colei che ha subito il danno e i suoi conseguenti bisogni che consistono nella riparazione dello stesso; a destra abbiamo la comunità che ha bisogno di riconciliazione; in basso c’è chi ha commesso il reato, che necessita responsabilità.

I bisogni delle singole parti sono contemporaneamente i bisogni di tutti i protagonisti coinvolti. È evidente, infatti, come anche lo stesso autore di reato possieda una forte necessità di riparare poiché attraverso la riparazione del danno da lei/lui prodotto opera in termini di pacificazione personale e comunitaria, contribuendo così alla riconciliazione delle parti. Le tre aree stanno a indicare che la giustizia riparativa, la più solida, si realizza nella parte centrale della figura dove le rispettive esigenze e responsabilità e i rispettivi bisogni si intersecano e si sovrappongono tra loro. La Restorative Justice, considerando la sua definizione a pieno titolo, opera attraverso le family group conference, le conferenze di comunità, i circoli della pace; si tratta di programmi la cui costruzione non può prescindere dal territorio in cui vengono attuati, dalle persone che vi abitano e dalla frattura che si è creata e che ha prodotto sofferenza, elementi che il programma, per poter funzionare, deve tenere in grande considerazione. Laddove si incontrano solo due delle tre aree o nel caso in cui si agisce all’interno di una sola area, possiamo parlare di programmi mediamente o solo parzialmente riparativi. Si tratta di quei programmi che, considerati il contesto, la competenza, il sapere, la formazione e il posizionamento di chi li agisce e della realtà in cui si opera, non sono pienamente riparativi ma possono essere orientati in chiave riparativa. Facciamo qualche esempio riferito alle aree della figura che includono due dei tre protagonisti: autore – vittima, autore – comunità, comunità – vittima. La mediazione (VOM: victim offender mediation) e la restituzione si collocano nell’interazione fra l’area della vittima e quella dell’autore/autrice, ma orientando il programma in un’ottica di comunità sociale è possibile per le parti della comunità stessa essere inserite e agire da referenti dei processi che via via si attivano.

Infine ci sono programmi parzialmente riparativi, quelli che riguardano uno solo dei protagonisti (autore, vittima o comunità). Tali programmi includono il lavoro con le famiglie dell’autore di reato, il lavoro sociale centrato sulle famiglie, il lavoro sulla comunità, comprendendo anche programmi che lavorano esclusivamente con l’autore (per esempio, i programmi per sex offender orientati a promuovere abilità sociali e relazionali).

Evidente e centrale è il criterio della responsabilità, che approfondiremo in seguito, e della sua promozione in un’ottica di circolarità all’interno dei sistemi coinvolti[20].

Di particolare interesse in questa prospettiva è la funzione assegnata a famiglie e comunità dal Children, Young Persons, and Their Families Act neozelandese del 1989. Tale legge rappresenta un tentativo rilevante di riformare la giustizia in un’ottica riparativa, introducendo strategie di intervento innovative tutte basate sul coinvolgimento delle persone, siano esse autrici di reato, vittime, famiglie interessate da procedimenti di tutela. Soprattutto, il modello decisorio è basato sul consenso di gruppo. Per esempio, l’art. 281, nella sezione riguardante le imputazioni a carico di persone minorenni, prevede che nessuna decisione possa essere presa dalla corte prima che una family group conference abbia avuto l’opportunità di considerare le modalità più opportune di intervento. La normativa neozelandese ha costruito un sodalizio forte tra famiglie e Stato, nell’intento di risolvere tutte le questioni che riguardano figlie e figli. Questo consente di potenziare le risorse familiari presenti, attivando sistemi autoregolativi tipici della famiglia, in grado di individuare le soluzioni più adeguate, sia sul versante della riparazione del danno subito dalla vittima che del contenimento e dell’assunzione di responsabilità da parte di chi ha causato il danno, limitando l’intervento dei servizi sociali per il rischio di deresponsabilizzazione, presente in alcune situazioni[21].

Watchel annovera le restorative practices tra i processi generativi di legame sociale e le considera modelli operativi trainanti in molti contesti tra cui famiglie, scuole, quartieri e comunità locali, organizzazioni politiche e amministrative, aziende, tribunali e ambiti dell’esecuzione penale. Per dirla con le sue parole (traduzione nostra):

 

«Le pratiche riparative costruiscono il capitale sociale e hanno implicazioni positive per tutti i contesti sociali, dalle famiglie alla scuola ai luoghi di lavoro. Attingendo a entrambi i valori liberali e conservatori, le pratiche riparative sostengono una società basata sulla partecipazione e sulla reciproca fiducia, una società dove cittadine e cittadini si assumono maggiori responsabilità sui propri percorsi di vita. I leader e i governi hanno un ruolo nel raggiungimento di benessere sociale, ma altrettanto importante è il supporto dalle nostre reti sociali: la famiglia, amiche e amici, vicine e vicini di casa e la comunità […]. Questa teoria poggia su un'ipotesi fondamentale – che "le persone sono più felici, più cooperative e più produttive, e hanno più probabilità di fare cambiamenti positivi quando quelli in posizioni di autorità fanno le cose con loro, piuttosto che a loro o per loro”»[22].

 

I riferimenti sono alla finestra della disciplina sociale, introdotta da Wachtel e McCold[23] nel 2001: tale figura concettuale individua diverse combinazioni fra alto/basso controllo e alto/basso supporto (v. fig. 4)[24]. Ne derivano quattro possibili schemi di interazione: “fare cose” con le persone in senso partecipativo; su di loro in senso autoritario-punitivo; per loro in chiave assistenziale e de-responsabilizzante; non fare in un’ottica lassista. Fare le cose con, quale risultato di alto controllo e alto supporto, corrisponde alle pratiche riparative.

Figura 4 Finestra della disciplina sociale (Wachtel, McCold, 2001)

Ai nostri fini argomentativi introduciamo gli sviluppi della figura concettuale proposti da Campbell, Chapman e McCredy[25] in relazione a un modello adottato nell’Irlanda del Nord[26] (v. fig. 5).

Figura 5 Adattamento della finestra della disciplina sociale (Chapman, 2012)

In accordo con Chapman[27] riteniamo che la giustizia riparativa si fondi sull'idea che causare danni a qualcuno crea un obbligo di fare ammenda. Se la persona si assume questa responsabilità e si impegna in un'azione riparatrice, la comunità dovrebbe sostenere il suo reinserimento.

La finestra della disciplina sociale sviluppata da Chapman indica i modelli di risposta ai comportamenti sfidanti e alle loro conseguenze, da cui derivano quattro possibili schemi di interazione: la forma di risposta della giustizia retributiva, quella della giustizia criminale, è caratterizzata da alto controllo e responsabilità e basso supporto sociale (relazione). Tale risposta è generata da e genera sentimenti di rabbia e agisce attraverso la punizione, l’autoritarietà. In tale quadrante si inserisce la soluzione carceraria e rappresenta lo schema di risposta autoritario sulle persone. Tale modello dunque è caratterizzato da sviluppi ed esiti stigmatizzanti, coercitivi, punitivi. Diverse le risposte che risiedono nel quadrante del fare le cose per le persone, quello compassionevole, salvifico, della commiserazione. È il quadrante del paternalismo – maternalismo, che nasce da un’ottica protettiva, interventista e salvifica e che nell’ambito della giustizia criminale, è il quadrante della rieducazione, del trattamento. Questo sviluppo avviene spesso nei contesti caratterizzati da autoritarietà; il rapporto tra il quadrante retributivo-punitivo e quello salvifico corrisponde al nostro sistema penale: retributivo, generatore di sofferenza e punizione ma trattamentale. Un sistema punitivo che prevede educatori/educatrici, psicologhe e psicologi, assistenti sociali, insegnanti e che mira a realizzare una sorta di riduzione del danno del carcere. In tale contesto si tende a fare le cose per le persone ed è ciò che le persone si aspettano: rappresenta infatti il quadrante caratterizzato da alta relazione e bassa responsabilità. All’interno dello schema troviamo anche il quadrante in cui il livello sia della relazione che della responsabilità è basso. È il quadrante del non fare, della difficoltà di agire che deriva da e sfocia nella paura. È il quadrante dell’indifferenza, della passività, dell’evitamento, è quello per cui non si agisce e non si chiede responsabilità, non si agisce e non si chiede relazione. È il non fare per paura. Infine viene rappresentato il quadrante della Restorative Justice, che consiste nel fare le cose con, che si sviluppa nell’agire con rispetto. Il rispetto non prevede necessariamente accordo ma significa il riconoscimento dell’altro e di ciò che questi prova. Alta responsabilità, alta relazione perciò producono il quadrante della giustizia riparativa, caratterizzato dall’autorevolezza, intesa come capacità di assumere le proprie responsabilità e chiedere all’altro di assumere le proprie con rispetto. La chiave di lettura della Restorative Justice è fare le cose con le persone. All’interno di questa prospettiva si possono senz’altro anche movimenti e azioni del fare su o per le persone o del non fare, ma è la chiave partecipativa quella che può consentire un cambiamento che sappia porsi in maniera trasformativa, perché inclusiva e partecipata. Fare le cose con diventa dunque un cambio di paradigma fondamentale[28].

Quanto fin qui esposto costituisce premessa fondamentale per ragionare sulla giustizia riparativa in un’ottica di comunità.

In situazioni e contesti di giustizia criminale è necessario specificare che la giustizia riparativa è una chiave di lettura delle relazioni, del modo di considerare i rapporti fra le persone, di favorire incontri in grado di gestire e superare le situazioni problematiche. Se esistono delle situazioni e dei comportamenti che producono danni si interviene rispetto al danno che c’è stato o si interviene, come nelle città riparative, in una chiave preventiva tesa a costruire condizioni di migliore vivibilità sociale, attraverso il benessere relazionale.

Nelle città di Leeds e Hull più sopra citate, tutti i servizi sono impostati in un’ottica riparativa (rispetto, accoglienza, responsabilità, autorevolezza), attraverso l’attivazione di processi partecipativi (fare le cose con le persone), considerando che ciò che avviene fra due o più persone o fra gruppi non riguarda solo loro, ma l’intera comunità all’interno del quale fatti e conflitti si sono verificati.

 

 

4. – Verso un modello di comunità riparativa

 

Il gruppo di ricerca in psicologia giuridica e giustizia riparativa dell’Università di Sassari, cui afferiscono allieve e allievi della Scuola romana di psicologia giuridica, costituitisi nel 2013 nell’Associazione PsicoIus, ha elaborato un modello denominato Co.Re. (Comunità di Relazioni Riparative). Si tratta di un modello in via di sperimentazione in cui la comunità è il luogo nel quale si possono promuovere stili di vita e di relazione orientati al benessere della persona e della collettività e alla pace.

La visione riparativa, cornice e orizzonte del Co.Re., è imperniata su alcuni costrutti che ne costituiscono le fondamenta: il benessere e la responsabilità, dove quest’ultima costituisce presupposto ed esito di un’intenzionalità sociale che persegue benessere che, a sua volta, è pensato per tutte le parti sociali. L’autoefficacia personale e collettiva, la rispondenza fiduciaria e il valore di legame intese come formidabili impalcature che connettono l’individuo e il suo sociale.

Di seguito daremo una breve descrizione di questi pilastri concettuali che sostanziano il modello, nella consapevolezza che, per assumere questa visione, è necessaria un’ampia rivisitazione dei criteri di convivenza sociale affinché persone e sistemi si rendano artefici della qualità di vita attesa, includendo l’ambito penale che è, non solo risposta ai delitti, ma anche luogo rigenerativo delle risposte mancate per il danno alle vittime. Tale obiettivo non è più rinviabile, considerata l’inefficacia dei tradizionali modelli punitivo e curativo e tenuto conto dei più recenti orientamenti sovra-nazionali: dalle direttive e raccomandazioni in materia di prevenzione del crimine alle indicazioni di sviluppo economico poste nella strategia Europa 2020 per rilanciare un’economia più intelligente, sostenibile, solidale e attenta alla coesione sociale.

 

4.1. – Il benessere

 

Nella concettualizzazione del premio Nobel per l’economia Amartya Sen[29] il benessere è una categoria multidimensionale costituita da capabilities – ovvero l’insieme di capacità, potenzialità, attitudini, abilità, competenze che costituiscono quello che potremmo chiamare il “potere personale” dei soggetti – e dai funzionamenti o “stati di fare o di essere”, ovvero le condizioni oggettive che permettono alle persone di raggiungere e mantenere risultati rispetto alla qualità della vita (per esempio “poter scegliere”, guardato come un funzionamento, evidenzia subito la differenza tra scegliere di non alimentarsi là dove alimentarsi si può). La qualità della vita si misura con panieri alternativi di merci (dette “attribuzioni”) tra cui salute, nutrizione, longevità, istruzione, libertà di parola, integrità fisica[30] e a partire dal fatto che persone reali, che vivono e agiscono in contesti sociali altrettanto reali e dotati di un ordine storico, territoriale e morale, possano liberamente esercitare le loro capabilities di essere e di fare. Da qui la distinzione tra una qualità della vita basata sullo sviluppo di attribuzioni o sulla crescita quantitativa correlata al reddito. Una comunità orientata all’inclusione e al benessere è chiamata a garantire il pieno sviluppo individuale, sociale e relazionale delle persone, creando le condizioni per raggiungere i più alti livelli di qualità della vita (cfr. recenti rapporti sul BES - Benessere Equo e Sostenibile)[31].

Guardare le persone come artefici del proprio funzionamento affettivo e cognitivo, portatrici di risorse e capaci di governare i propri livelli di benessere in interazione con il proprio ambiente di vita, non significa accarezzare visioni solipsistiche e onnipotenti, ma attribuire importanza alle variabili relazionali e contestuali costitutive del benessere stesso. Lent e Brown[32], nell’ambito della psicologia positiva e in una prospettiva unificatrice, propongono un modello socio-cognitivo che considera il benessere uno stato di soddisfazione personale a cui le persone tendono attraverso un processo che include variabili cognitive, comportamentali, sociali, personali ed emotive; tra queste vi son quelle suscettibili di intervento e di cambiamento quali l’autoefficacia percepita, l’efficace perseguimento dei propri obiettivi, il sostegno materiale e sociale del contesto.

Poter vivere una vita sicura è un obiettivo prioritario di benessere e qualità della vita stessa; dunque il suo funzionamento va garantito attraverso la costruzione delle condizioni pratiche che ne permettano un effettivo esercizio affinché possano interagire due condizioni: che le persone “siano in grado di” e che “vengano messe nelle condizioni di”. Una circolarità virtuosa che richiama alla promozione sia delle capacità personali e gruppali che dei funzionamenti. Tale circolarità rimanda non solo al singolo, né a un individuo astratto, bensì a una pluralità di attori sociali, politici e istituzionali a loro volta chiamati a una responsabilità sistemica rispetto a tutte le funzioni implicate dalla sicurezza: da quelle normative a quelle di tutela e controllo; da quelle educative e formative a quelle preventive e promozionali.

 

4.2. – La responsabilità

 

Nel modello ecologico teorizzato da Gaetano De Leo[33] (v. fig. 6), la responsabilità rappresenta un concetto costitutivamente interattivo, culturalmente e socialmente costruito per connettere tutte le parti in gioco. Non si tratta di un contenuto interno alla mente, né di una qualità della coscienza o della volontà, né di un’entità o una sostanza. La responsabilità è un processo relazionale, una qualità emergente nei sistemi di reciprocità e di interazione che si costruisce nei rapporti fra soggetto, azione, istituzioni e società. Essa è al contempo una cornice che organizza le relazioni tra individui, azioni, norme e collettività.

Per De Leo la responsabilità è una funzione che connette una molteplicità di aspetti: psicologici, come il Sé e le prestazioni sociali dell’individuo, anche a fini identitari; interpersonali e normativi, per produrre coerenza e continuità di aspettative; istituzionali e sociali, per orientare le prestazioni e le aspettative mantenendo livelli sufficienti di ordine e prevedibilità. Tale modello di responsabilità considera almeno tre livelli nelle loro interazioni: ecologico, che sottolinea la circolarità e la reciprocità delle responsabilità all’interno del contesto o ecosistema; di ruolo, riferito ad aspettative, risposte, effetti legati ai ruoli assunti, da cui è possibile ricavare la qualità dei posizionamenti di responsabilità attraverso le loro implicazioni concrete, sociali e simboliche; personale, riferito a come l’individuo interpreta e agisce la responsabilità, come si sente tenuto/tenuta a rispondere alle aspettative di ruolo nel contesto e con quali competenze cognitive, affettive e relazionali. In questa prospettiva la responsabilità rappresenta un requisito basilare della soggettività[34].

 

Figura 6 Il modello ecologico della responsabilità (De Leo, 1996)

Secondo De Leo la responsabilità presiede i processi di differenziazione sociale poiché l’attribuzione di responsabilità nelle dinamiche sociali appare direttamente proporzionale al potere, all’autorità e allo status dei soggetti e dei gruppi e inversamente proporzionale alla loro emarginazione ed esclusione. Da qui l’importanza che tutti gli attori sociali, incluse le persone minorenni, fragili o svantaggiate, non siano mai del tutto private di responsabilità, ovvero della possibilità e capacità di rispondere delle proprie azioni; al contrario, è necessario che vengano supportate a esprimerla all’interno di «formati di responsabilità»[35] e microcosmi di rapporti caratterizzati da specifici confini e forme relazionali. In qualsiasi rapporto e lungo l’intero percorso evolutivo, le persone sperimentano l’attribuzione a sé delle proprie azioni, anche se i modi con cui sono chiamate a risponderne cambiano a seconda del livello di sviluppo, delle capacità possedute e delle cornici regolative. La responsabilità può essere valutata disfunzionale o di cattiva qualità, ma non può essere mai totalmente assente. Non chiedere la responsabilità o chiederla in modo parziale significa sottrarre alle persone, o ad alcune categorie di persone, potere e rilevanza sociale, nonché opportunità di sviluppare abilità, competenze, interazioni, ruoli, sistemi di aspettative e risposte responsabilizzanti. L’implicazione evidente è il passaggio da un’ottica di attribuzione a una di promozione della responsabilità in quanto funzione generativa che «non precede necessariamente l’azione; fra responsabilità, azione e risposta degli altri vi è una circolarità costruttiva che produce e riproduce quelle funzioni mentre il processo è in atto»[36]. Le capacità individuali di rispondere alle norme, agli altri, alle istituzioni sono strettamente collegate alle richieste, alle aspettative e alle risposte delle stesse istituzioni e degli altri[37].

 

4.3. – Autoefficacia percepita ed efficacia collettiva

 

L’autoefficacia percepita è per Bandura una “capacità generativa”[38] in grado di coordinare e orientare le competenze cognitive, sociali, emozionali e comportamentali per far fronte a compiti e responsabilità. Diversamente dall’autostima, che implica soltanto una buona immagine di sé, l’autoefficacia percepita richiede una valutazione soggettiva realistica dei propri punti di forza e dei propri limiti e un sistema coerente di convinzioni e credenze su di sé e sulla propria capacità di gestire positivamente e con successo determinate situazioni.

L’efficacia collettiva sta a indicare una valutazione positiva sovra-individuale che accomuna i membri di gruppi/sistemi. Non è, quindi, la somma delle singole valutazioni personali, ma un sistema di credenze condivise rispetto alle quali il singolo cerca una mediazione fra le valutazioni e le scelte proprie, quelle altrui e il più ampio sistema normativo. Un esempio è la cosiddetta “autoefficacia regolativa” ovvero la gestione della propria autoefficacia tra norme e pressioni trasgressive, come quando si è chiamati ad agire in modo etico o legale laddove le norme informali premono per fare «come di solito si fanno le cose in questo ambiente»[39].

In tempi di profonde mutazioni e metamorfosi economiche e sociali, per dirla con Bonomi, una comunità che voglia anche farsi riparativa e relazionale non può che raccogliere fino in fondo la sfida contemporanea a contrastare il progressivo e sempre più marcato indebolimento dei legami sociali che non di rado arriva a minare anche le reti dei rapporti interpersonali e familiari culturalmente più consolidate. Reti sociali impoverite, assenti o inefficaci che disegnano solitudini disperanti, non caratterizzano più solo le aree di marginalità sociale facilmente riconoscibile. Appaiono oramai trasversali a ben più ampie e impreparate fasce sociali, prima protette, che sempre più si scoprono vulnerabili e vulnerate con le prevedibili e non di rado drammatiche implicazioni per le biografie personali.

Inclusione e coesione sociale tornano così a essere individuate come priorità da promuovere, rafforzare e tutelare pur rivedendone in profondità la strumentazione concettuale e operativa.

È in questa cornice che riproponiamo all’attenzione alcuni costrutti teorici utili per stare dentro i cambiamenti senza esserne travolti o trasformati in sudditi arrendevoli: responsabilità, fiducia, coinvolgimento nelle relazioni interpersonali sono elementi fondamentali che favoriscono la creazione di una reciprocità generalizzata. Afferma Putnam:

 

«la fiducia è un lubrificante della vita sociale. Interazioni frequenti tra vari gruppi di persone tendono a produrre una norma di reciprocità generalizzata. L’impegno civico e il capitale sociale comportano obblighi reciproci e responsabilità per l’azione. […] i reticoli sociali e le norme di reciprocità possono facilitare la cooperazione in vista del bene comune. Quando i rapporti economici e politici sono incorporati in fitte reti di interazioni sociali gli incentivi ad adottare un comportamento opportunistico e scorretto si riducono»[40].

 

4.4. – Capitale sociale, valore di legame, rispondenza fiduciaria

 

Bonomi[41] propone il concetto di valore di legame per sottolineare le funzioni svolte dalla qualità dei legami sociali nello sviluppo, anche economico, di una comunità locale che sarebbe così maggiormente in grado di ridurre l’agire opportunistico a favore di quello cooperativo. Precursore è il capitale sociale di Putnam: un “bene” di cui persone e gruppi possono disporre, costituito da indicatori immateriali quali il grado di fiducia, le valutazioni positive o negative, il credito sociale, il sostegno, l’influenza e le aspettative di impegno reciproco, concetto spesso avvicinato ad altri quali la “reputazione” sociale e le virtù civiche. Putnam stesso ha sottolineato come l’appartenenza a un gruppo, un’associazione, una comunità, favorisca nell’individuo un orientamento positivo, collaborativo, eticamente impegnato e responsabilizzato verso gli altri a cui viene riconosciuta la stessa appartenenza. La possibilità di contribuire alla e al contempo giovarsi della positività delle relazioni instaurate può svolgere una funzione preventiva anche nei confronti della criminalità[42]. Tuttavia, come evidenzia Pelligra[43], la responsabilizzazione della singola persona non è di per sé premessa per una sua reciprocazione da parte degli altri e ugualmente non sempre dare fiducia consente di riceverne. Per questo l’autore introduce il concetto di rispondenza fiduciaria ovvero l’idea secondo cui i comportamenti affidabili, conformi alle norme e alle aspettative sociali generano fiducia sarebbe speculare a quella secondo cui anche l’attribuzione di fiducia genera affidabilità. Alcuni risultati sperimentali in trust game gratuiti confermano che il desiderio di essere considerati degni di fiducia appare uno scopo rilevante e capace di orientare scelte affidabili. La fiducia intesa come “responsiva” promuove dunque il passaggio da un modello di persona economica a un modello di persona sociale, interattiva e in relazione con altri che, proprio perché diversi da sé, appaiono tanto rischiosi quanto necessari. Proprio laddove la fiducia offerta all’altro non garantisce di per sé la reciprocità, il concetto di rispondenza fiduciaria lascia spazio all’aspettativa che essa possa essere reciprocata, ma perché ciò avvenga è necessario che il sistema sociale costruisca canali e forme di relazione che non solo non ostacolino o danneggino, ma promuovano i processi di rispondenza fiduciaria.

Nell’ambito della prevenzione del crimine ciò può avvenire passando da sistemi deviant-centered a sistemi complier-centered[44]. Il modello centrato sulla devianza persegue infatti il rispetto della norma attraverso le sanzioni che aumentano il costo della devianza o gli incentivi materiali, con il rischio paradossale, tra gli altri, di generare un aumento dei comportamenti che intende scoraggiare in quanto favorisce l’apprendimento di comportamenti opportunistici e inaffidabili in soggetti potenzialmente cooperativi e capaci di scegliere di agire in modo affidabile. È noto anche come incentivi e sanzioni percepite e valutate come ingiuste possano produrre “solidarietà inversa”, ovvero facilitare processi di omertà e reticenza individuale e gruppale, che rendono inefficaci le sanzioni aggirando la capacità del controllo sociale di intercettare le trasgressioni. Il modello centrato sull’adesione appare il più adatto a promuovere la rispondenza fiduciaria, in quanto persegue l’adesione alla norma mantenendo residuale il sistema sanzioni/incentivi e optando per la promozione delle motivazioni intrinseche o estrinseche. La promozione di comportamenti cooperativi e di adesione alle norme passa attraverso la condivisione, il confronto e il dialogo, piuttosto che attraverso la punizione di opportunismi e trasgressioni. Nel modello della rispondenza fiduciaria è richiesta la trasparenza comunicativa, pubblica e condivisa tra tutti i partecipanti all’interazione, una chiara attribuzione di intenzioni alle loro azioni che tenga conto degli spazi di possibilità e di scelta di ognuno, la considerazione di tutte le azioni possibili, incluse quelle scartate, valutate diversamente a seconda che siano state dettate da rinuncia o impossibilità ad agire. Il modello dell’adesione prevede sanzioni, coercizioni e interdizioni sulla base di un sistema piramidale che poggia sulla promozione di interventi impostati sul dialogo, sulla persuasione e sulla rispondenza fiduciaria.

In sintesi, al fine di promuovere benessere individuale e collettivo, inclusione, coesione, cooperazione, agire pro-sociale e riduzione dei conflitti tra attori plurali, la progettazione istituzionale dovrà tenere conto tanto dei rischi e degli effetti perversi del modello centrato sulla devianza quanto, e soprattutto, delle potenzialità contenute nel modello centrato sull’adesione, sulla rispondenza fiduciaria, sulle motivazioni intrinseche e sul crowding in dell’autostima, degli effetti di contesto e del potere espressivo delle norme legali. Un tale risultato non è raggiungibile attraverso processi eterodiretti, ma solo promuovendo la responsabilizzazione personale e collettiva, nella consapevolezza che i processi fiduciari sono costitutivamente fragili e vulnerabili, non garantiti e non garantibili e qualsiasi «tentativo di rifiutare questa vulnerabilità rischia di minare il funzionamento della rispondenza fiduciaria e di ottenere una riduzione dell’affidabilità e non un suo incremento»[45]. Se l’interazione con l’altro, rischiosa quanto necessaria, si caratterizza come trasparente, leggibile nelle sue intenzioni e capace di comunicare fiducia, allora essa può promuovere la “respons-abilità”, vale a dire la capacitazione dell’altro di rispondere nell’interazione con l’affidabilità interpellata. Un contesto sociale impoverito sul piano della comunicazione, opaco nelle sue intenzioni, anonimo, mascherato e diffidente non riuscirà a responsabilizzare i suoi abitanti, né a promuoverne l’affidabilità. «Agire in modo affidabile senza che qualcuno si fidi di me - aggiunge Pelligra - sarebbe come nuotare in una piscina senz’acqua. Le relazioni interpersonali sono il mezzo nel quale fiducia e affidabilità prendono vita e distendono i loro effetti. […] Ma alla base di tutto […] sta la logica della responsività, che è non autointeressata, relazionale e generativa»[46] a testimoniare il primato della socialità dell’essere umano.

 

4.5. – Il modello Co.Re. – Comunità di Relazioni riparative

 

Il modello Co.Re. (v. fig. 7)[47] rappresenta una possibile apertura in quanto ha caratteristiche che ne consentono l’utilizzo in diversi ambiti e contiene una visione in cui la promozione della persona passa attraverso quella della comunità e il benessere collettivo si reciproca attraverso quello di ogni parte del sistema, individuale e gruppale.

 

Figura 7 Il modello Co.Re. (Patrizi, Lepri, 2014; 2015; Patrizi, Lepri, Lodi, Dighera, 2016)

 

Nella parte centrale della figura sono riconoscibili alcuni dei costrutti che abbiamo discusso in questo lavoro – responsabilità, capacitazione, partecipazione, reciprocità e obbligazione – ed è rappresentato l’orientamento della psicologia positiva attraverso alcune delle sue principali dimensioni costitutive: resilienza, coraggio, speranza, ottimismo. Il sistema relazionale integrato, rappresentato al centro della figura, costituisce la visione di comunità che si fonda sulla capacità/volontà di interconnessione da parte di individui, gruppi, istituzioni. Il margine superiore e quello inferiore contengono alcuni fondamentali strumenti affinché quella interconnessione possa realizzarsi. La linea centrale tratteggiata unisce due costrutti che rappresentano un dato importante nell’evoluzione dei modelli di prevenzione del crimine: inclusione e benessere. Sono collocati agli estremi del modello Co.Re. per indicare l’importante spostamento, in accordo con la visione riparativa, da una logica re-attiva di contrasto ai fenomeni della devianza e della criminalità a una pro-attiva (human agency e generatività) che ispira le azioni preventive e promozionali (v. la concezione trasformativa della giustizia riparativa richiamata in apertura di questo scritto). L'inclusione è un'azione contro l'emarginazione, una risposta per avversare l'esclusione sociale: una buona risposta, tesa a integrare e riabilitare, ma comunque un'azione che parte da condizioni negative che essa intende contrastare. Il benessere è la nuova prospettiva verso la quale tendere in quanto è di interesse per tutti e di tutti; una dimensione in grado di generare modelli virtuosi di cambiamento in una prospettiva di sostenibilità per tutte le componenti della società[48].

 

4.6. – Il progetto pilota di Nuchis-Tempio Pausania

 

In questa prospettiva si colloca il progetto[49] realizzato a Tempio Pausania, una città italiana nel nord Sardegna, in accordo con i principi di inclusione e coesione sociale raccomandati dalla strategia Europa 2020. L’obiettivo è stato quello di sperimentare la costruzione di una città ad approccio riparativo sul modello delle restorative city anglosassoni di Hull e Leeds, ovviamente rivisitato e riorganizzato in funzione del tessuto culturale, sociale ed economico.

A premessa del progetto sta la convinzione che sia compito delle istituzioni moderne sollecitare e generare il benessere e la speranza attraverso la ricostruzione dei legami relazionali di cittadine e cittadini nella comunità in cui vivono[50]. Questa posizione riconduce a un filone di studio, di ricerche e di interventi sviluppato dal nostro gruppo nel corso degli ultimi 20 anni in materia di prevenzione della criminalità, valutazione di efficacia delle forme codificate di risposta al crimine, giustizia riparativa e promozione di comunità orientate al benessere.

L'idea del progetto è emersa a partire dal conflitto sociale sorto nel 2013, in risposta all’apertura del nuovo penitenziario di Tempio Pausania-Nuchis: un istituto di alta sicurezza destinato a ospitare condannati per reati di mafia provenienti da altre regioni italiane, principalmente Campania, Sicilia, Calabria. Si è così generato una sorta di doppio malessere: il timore di infiltrazioni mafiose da parte della cittadinanza tempiese; la sofferenza per la lontananza dalla famiglia da parte dei detenuti. La comunità locale tutta, pertanto, stava attraversando una fase critica di conflitto.

Così è iniziata la nostra collaborazione con le istituzioni e gli organismi direttamente interessati: la Direzione della Casa di reclusione di Nuchis, la Magistratura di sorveglianza, l’Amministrazione comunale. Insieme abbiamo concordato sull’opportunità di accogliere il malessere e individuare un canale per trasformare quel conflitto in un’occasione di condivisione di soluzioni possibili. Tale progetto, dunque, si è posto degli obiettivi specifici e ben precisi, quali la costruzione di un modello di comunità riparativa applicabile al contesto sardo con gli attori sociali e istituzionali coinvolti, in accordo con gli indicatori che ne valutano la fattibilità e l'efficacia; la rilevazione, divulgazione e promozione di buone pratiche a livello locale, nazionale ed europeo in relazione ai programmi di giustizia riparativa; l’analisi dello stato delle pratiche riparative avviate in altri contesti e la loro fattibilità in chiave di governance; l’esplorazione dei punti di forza e degli elementi critici nell’implementazione di un modello di comunità riparativa sviluppato attraverso il coinvolgimento dei soggetti chiave; infine, l’entrata in contatto con i vari enti coinvolti, al fine di condividere esperienze e pratiche finalizzate alla realizzazione del modello.

Abbiamo così avviato un percorso di conferenze riparative che ha visto il coinvolgimento di istituzioni e cittadinanza, focus group e seminari specialistici condotti in un quadro di approccio comunitario. Tutte le attività che si sono svolte durante il progetto hanno avuto l'obiettivo principale di sensibilizzare e “impegnare” rispetto alle pratiche riparative.

In particolare, le conferenze riparative hanno costituito l’opportunità di collegare la comunità penitenziaria alla comunità territoriale di cui il penitenziario stesso è parte. Abbiamo, pertanto, incoraggiato le/i partecipanti a visualizzare il carcere non in isolamento dalla comunità, ma piuttosto come una rete di persone e relazioni che possono esistere tra detenuti, operatrici e operatori, liberi cittadini e cittadine, professioniste e professionisti esterni. È stato questo il nostro primo passo per costruire una comunità basata sulle pratiche riparative.

Abbiamo utilizzato un approccio che considera il reato principalmente nei termini di danni causati ad altri e di "fratture" nelle relazioni che si verificano all'interno di una comunità come conseguenza dell’offesa. Il focus del nostro modello non è su reo, reato e punizione, ma sui modi per “curare” il danno[51] oltre la mera compensazione finanziaria alla vittima. La prospettiva scelta privilegia un orientamento alla generazione/rigenerazione di armonia tra le parti sociali attraverso ricerca del consenso, condivisione e pace sociale[52].

Dal momento che la giustizia riparativa ha un potenziale immediato per coniugare le esigenze di riabilitazione e di sicurezza sociale attraverso il coinvolgimento attivo della comunità e la gestione partecipata dei conflitti, abbiamo cercato di costruire a Tempio Pausania l'occasione per avviare un cambiamento culturale.

La letteratura sulla giustizia riparativa contiene un complesso dibattito internazionale[53] sullo sviluppo di misure e protocolli operativi nel sistema giudiziario, atti a promuovere il benessere individuale e collettivo, attraverso il contrasto della recidiva e l’incremento di sicurezza sociale. Viene, in particolare, evidenziata la necessità di riesaminare i sistemi penali con il supporto della ricerca scientifica e delle considerazioni operative[54].

Più in generale, gli approcci riparativi possono sostenere strumenti educativi e socializzativi atti a sostenere reciprocità e responsabilità nei rapporti con gli altri. Uno specifico contributo, in questa direzione, proviene dalla psicologia positiva e da specifici programmi diretti a rafforzare abilità e competenze con cui le persone possano presidiare la realtà in cui vivono, gestendone nella maniera più adeguata la complessità[55]. Costrutti centrali in questa prospettiva sono: la speranza, quale capacità di stabilire obiettivi e individuare le strategie necessarie per raggiungerli[56]; l’ottimismo, quale propensione ad apprendere dall’esperienza[57]; la resilienza (la capacità di impegnarsi e persistere, ristabilendo equilibrio a fronte di fallimenti ed eventi negativi[58]); il coraggio, attraverso il quale affrontare le sfide per l’equità e il benessere sociale[59], incluso il cambiamento delle norme attuali, delle barriere e degli ostacoli per il perseguimento del maggiore benessere della comunità[60]. Riteniamo che le pratiche riparative siano il modo migliore per attivare risorse positive nelle persone e nei loro ambienti (famiglia, amici, lavoro, scuola, servizi, comunità ecc.).

Il senso di comunità è un'altra parte importante delle pratiche riparative. Si riferisce alla somiglianza con gli altri, un’interdipendenza riconosciuta; a un desiderio di mantenere questa interdipendenza offrendo agli altri o facendo per gli altri ciò che ci si aspetta da loro; è il senso di appartenenza a una struttura completamente stabile e affidabile[61]. Lo sviluppo di tale senso di comunità comporta: presa di coscienza dei limiti che definiscono chi è (e non è) parte di una comunità; un senso di legame emotivo e la sicurezza di legami significativi con la gente e con un luogo; investimento personale nella comunità attraverso contributi materiali e immateriali; la qualità del rapporto e la condivisione di una storia comune; avere voce nel processo decisionale che aumenta il senso di influenza su come la comunità si è formata e si sviluppa[62].

Lo strumento principale per costruire senso di comunità a Tempio Pausania è stato quello delle conferenze riparative: una serie di incontri in cui le diverse parti del sistema si riuniscono per individuare risorse e canali per la definizione/sollecitazione di approcci pacifici per la risoluzione dei conflitti[63]. L'obiettivo è quello di incoraggiare tutte le persone presenti, nei diversi ruoli e posizioni, a riflettere su significato e potenzialità di una comunità relazionale. Le conferenze riparative offrono, ai detenuti e alla comunità intera, la possibilità di pensare ai legami tra territorio e penitenziario. Così, l'incontro tra coloro che vivono in carcere (come detenuti e operatrici/operatori), istituzioni e cittadine/i è uno dei principali passaggi per costruire una comunità basata sulle pratiche riparative.

Lo scopo del progetto, avviato a Tempio Pausania nel 2014, è quello di collaborare con la comunità, e costruire capacità al suo interno, per sviluppare nuovi modi di rispondere al danno (causato da un crimine o da altri tipi di azione), che sappiano rispettare i diritti e promuovere il benessere di tutte le parti coinvolte.

Uno dei principali risultati è stata una recente riunione del consiglio comunale tenutosi all'interno dell’istituto penitenziario di Nuchis, fortemente sostenuta dal sindaco e dall'amministrazione comunale, per istituire la figura garante dei diritti delle persone private della libertà personale. Evidenziamo che premesse e considerata, di tale documento istitutivo del/della garante, fanno riferimento alla giustizia riparativa, alle sue pratiche, al progetto attivato a Nuchis-Tempio Pausania. Questo segna un importante cambiamento nella tradizionale visione del carcere come “esterno/estraneo” alla comunità locale e indica un importante passaggio verso un senso di condivisione comunitaria, superando le visioni stereotipate di edifici e persone (soprattutto per il carcere e i detenuti), verso un nuovo punto di vista orientato all’integrazione.

Per raggiungere il nostro obiettivo, abbiamo evidenziato l'importanza di ascoltare tutte le parti, nel tentativo di ricostruire le strutture sociali che possono essere minacciate e danneggiate da azioni problematiche. Insieme possiamo costruire una comunità riparativa: una comunità basata sulla fiducia, fondata sui rapporti e sul rispetto reciproco; una società basata sul benessere di tutte le sue parti. Tempio Pausania come comunità riparativa intende affrontare i problemi insieme, senza deleghe; si aspetta che i problemi siano gestiti in modi più pacifici e positivi per tutti e tutte.

 

Abstract

 

The article illustrates the paradigm of Restorative Justice and presents a model called Co.Re. (Community of Restorative Relationships) developed by the research group in psychology and law and restorative practices at the University of Sassari. The model is in progress, it is developed through an action research in Tempio Pausania (Sardinia, Italy) that involves representatives of various institutions (prison, school, university, labour etc.), voluntary citizen, prisoners that together participating in the construction of new forms of community welfare based on restorative approaches. In this model, the community is the place where it is possible to promote lifestyles and relationships oriented to person's and community's wellbeing and to a peaceful environment.

 

L’articolo illustra il paradigma della giustizia riparativa e presenta un modello denominato Co.Re (Comunità di Relazioni Riparative ) elaborato dal gruppo di ricerca in psicologia giuridica e giustizia riparativa dell’Università di Sassari, cui afferiscono allieve e allievi della Scuola romana di psicologia giuridica, recentemente costituitisi nell’Associazione PsicoIus. Si tratta di un modello in progress, in via di sperimentazione a Tempio Pausania con il coinvolgimento dei rappresentanti di diverse istituzioni, cittadine e cittadini, volontari e volontarie e detenuti che insieme partecipano alla costruzione di nuove forme di welfare comunitario ad approccio riparativo. In questo modello la comunità è il luogo nel quale si possono promuovere stili di vita e di relazione orientati al benessere della persona e della collettività, e alla pace.

 

 



 

[Un evento culturale, in quanto ampiamente pubblicizzato in precedenza, rende impossibile qualsiasi valutazione veramente anonima dei contributi ivi presentati. Per questa ragione, gli scritti di questa parte della sezione “D & Innovazione” sono stati valutati “in chiaro” dai promotori del Convegno “Prigione e territorio. Percorsi di integrazione dentro e fuori le carceri”, dal curatore della pubblicazione e dalla direzione di Diritto @ Storia]

 

[1] I ragionamenti qui esposti sono il risultato di un lavoro di condivisione con il Team delle pratiche riparative dell’Università di Sassari, composto dalla scrivente quale responsabile scientifica, dal dott. Gian Luigi Lepri, coordinatore e facilitatore delle conferenze riparative, il dott. Ernesto Lodi, referente per la psicologia del benessere e la ricerca, la dott.ssa Maria Luisa Scarpa, referente per il counseling. Per la stesura di questo articolo, si ringrazia la dott.ssa Federica Avenoso, tirocinante presso l’Associazione PsicoIus. Scuola romana di psicologia giuridica, che ha lavorato sulla trascrizione dell’intervento ed effettuato la raccolta e la sistematizzazione delle fonti bibliografiche.

 

[2] B. HOPKINS, Just Schools: A Whole School Approach to Restorative Justice, London 2003; ID., Just Care Restorative Justice Approaches to Working with Children in Public Care, London 2009.

 

[3] H. ZEHR, Changing Lenses: A New Focus on Crime and Justice, Scottdale (PA) 1990.

 

[4] G. DE LEO, Psicologia della responsabilità, Bari-Roma 1996; P. PATRIZI, E. DE GREGORIO, Fondamenti di psicologia giuridica, Bologna 2009; P. PATRIZI, G.L. LEPRI, Le prospettive della giustizia riparativa, in Psicologia della devianza e della criminalità. Teorie e modelli di intervento, a cura di P. Patrizi, Roma 2011; P. PATRIZI, G.L. LEPRI, Vittime, autrici e autori di reato: i percorsi della giustizia riparativa, in Manuale di psicologia giuridica minorile, a cura di P. Patrizi, Roma 2012; P. PATRIZI, G.L. LEPRI, E. LODI, B. DIGHERA, Comunità territoriali riparative e relazionali: dall’inclusione al benessere, in Minorigiustizia 1, 2016, 81-92.

 

[5] N. CHRISTIE, Conflicts as Property, in British Journal of Criminology 17, 1997, 1-8.

 

[6] P. PATRIZI, Psicologia della devianza e della criminalità. Teorie e modelli di intervento, cit.

 

[7] Y. DANDURAND, C.T. GRIFFITHS, Handbook on Restorative Justice Programmes, United Nations Office on Drugs and Crime, New York 2006.

 

[8] Y. DANDURAND, C.T. GRIFFITHS, Handbook on Restorative Justice Programmes, ibidem, 103-104.

 

[9] Y. DANDURAND, C.T. GRIFFITHS, Handbook on Restorative Justice Programmes, cit., 104.

 

[10] Y. DANDURAND, C.T. GRIFFITHS, Handbook on Restorative Justice Programmes, cit., 105.

 

[11] T. WACHTEL, The Next Step: Developing Restorative Communities, Paper presented at the Seventh International Conference on Conferencing, Circles and other Restorative Practices, Manchester (UK) 2005, 86.

 

[12] Basic principles on the use of restorative justice programmes in criminal matters adottati dalle Nazioni Unite il 24 luglio 2002, § 1 (2).

 

[13] http://www.euforumrj.org/about-the-forum/restorative-justice/

 

[14] G. MOSCONI, La giustizia riparativa. Definizione del concetto e considerazioni sull'attuale interpretazione da parte della magistratura italiana, in Antigone. Quadrimestrale di critica al sistema penale e penitenziario 3, n. 2, 2008, 24.

 

[15] http://www.leedsinitiative.org/ChildFriendlyLeeds.aspx ; https://www.iirp.edu/news/1981-world-s-first-restorative-city-hull-uk-improves-outcomes-of-all-interventions-with-young-people-saves-resources .

 

[16] P. MCCOLD, 2005, citato in M. Wright, Towards a Restorative Society: a Problem-Solving Response to Harm, London 2010, 32.

 

[17] T. CHAPMAN, Facilitating Restorative Conferences in Northern Ireland, in Conferencing and Restorative Justice: Challenges, Developments and Debates, a cura di E. Zinsstag, I. Vanfraechem, Oxford 2012.

 

[18] M. WHITE, La terapia come narrazione, Roma 1992.

 

[19] P. MCCOLD, T. WACHTEL, In Pursuit of Paradigm: A Theory of Restorative Justice. Paper presented at the XIII World Congress of Criminology, 10-15 August 2003, Rio de Janeiro.

 

[20] G. DE LEO, Psicologia della responsabilità, cit.

 

[21] P. PATRIZI, G.L. LEPRI, Vittime, autrici e autori di reato: i percorsi della giustizia riparativa, cit., 283-295.

 

[22] T. WACHTEL, Dreaming of a New Reality. How restorative practices reduce crime and violence, improve relationships and strengthen civil society, Pennsylvania (USA) 2013, 8.

 

[23] T. WACHTEL, P. MCCOLD, Restorative Justice in Everyday Life, in Restorative Justice and Civil Society, a cura di H. Strang, J. Braithwaite, Cambridge 2001.

 

[24] T. WACHTEL, P. MCCOLD, Restorative Justice in Everyday Life, ibidem.

 

[25] H. CAMPBELL, T. CHAPMAN, S. MCCREDY, Practice Guidelines for the Youth Conference Service, Belfast 2002.

 

[26] T. CHAPMAN, Facilitating Restorative Conferences in Northern Ireland, cit., 65-82.

 

[27] T. CHAPMAN, Facilitating Restorative Conferences in Northern Ireland, ibidem.

 

[28] P. PATRIZI, G.L. LEPRI, Le prospettive della giustizia riparativa, cit., 83-96; P. PATRIZI, G.L. LEPRI, Vittime, autrici e autori di reato: i percorsi della giustizia riparativa, cit., 20.

 

[29] A. SEN, The Idea of Justice, Cambridge 2009.

 

[30] S.F. MAGNI, Capacità, libertà e diritti: Amartya Sen e Martha Nussbaum, in Filosofia politica 3, 2003, 497-506.

 

[31] CNEL, ISTAT, Benessere equo e sostenibile in Italia, Roma 2013.

 

[32] R.W. LENT, S.D. BROWN, Social Cognitive Career Theory and Subjective Well-Being in the Context of Work, in Journal of Career Assessment 16, 2008, 6–21.

 

[33] G. DE LEO, Psicologia della responsabilità, cit. A questo tema lo studioso ha dedicato ampia parte dei suoi impegni, alimentando il dibattito e la ricerca con notevoli ricadute anche sul piano delle riforme legislative: ricordiamo che il Prof. Gaetano De Leo, nel 1987, è stato chiamato a partecipare come unico docente di discipline non giuridiche alla Commissione nazionale che ha redatto le Disposizioni sul processo penale a carico di imputati minorenni (D.P.R. 448 del 22 settembre 1988).

 

[34] H.L.A. HART, Punishment and Responsibility, Oxford 1968.

 

[35] A partire dalle concettualizzazioni di Bruner sui formati di apprendimento e di Vygotskij sull’area di sviluppo prossimale, De Leo propone il concetto di “formati di responsabilità” per descrivere quegli ambienti relazionali all’interno dei quali l’individuo partecipa in modo diretto a esperienze di relazioni significative per mezzo delle quali sperimentare e, quindi, esercitare e sviluppare competenze di responsabilità: G. DE LEO, Psicologia della responsabilità, cit., 19.

 

[36] G. DE LEO, Psicologia della responsabilità, cit., 55.

 

[37] G. DE LEO, Psicologia della responsabilità, ibidem.

 

[38] A. BANDURA, Self-efficacy. The exercise of control, New York 1997.

 

[39] G. DE LEO, E. DE GREGORIO, A.E. GRASSO, La farfalla e la locomotiva. Modelli teorici e proposte operative per una formazione etica, Milano 2008.

 

[40] R. PUTNAM, Capitale sociale e individualismo. Crisi e rinascita della cultura civica, Bologna 2004, 18.

 

[41] A. BONOMI, Sotto la pelle dello Stato. Rancore, cura, operosità, Milano 2010.

 

[42] U. GATTI, H.M.A. SCHADEE, R.E. TREMBLAY, Capitale umano e criminalità. L’impatto a lungo termine dei servizi per l’infanzia sull’omicidio, in Polis 3, 2003, 375-395.

 

[43] V. PELLIGRA, I paradossi della fiducia. Scelte razionali e dinamiche interpersonali, Bologna 2007.

 

[44] P. PETTIT, Institutional Design and Rational Choice, in The Theory of Institutional Design, a cura di R. Goodin, Cambridge 1996, 213-219; ID., Republicanism: A Theory of Freedom and Government, Oxford 1997.

 

[45] V. PELLIGRA, I paradossi della fiducia. Scelte razionali e dinamiche interpersonali, cit., 265.

 

[46] V. PELLIGRA, I paradossi della fiducia. Scelte razionali e dinamiche interpersonali, cit., 266-267.

 

[47] P. PATRIZI, G.L. LEPRI, Co.Re. model – Community of Restorative Relationships, Sassari 2014; P. PATRIZI, G.L. LEPRI, E. LODI, A Relational and Restorative Community: A Restorative Bridge Between Community, School, University and Prison. Workshop at the 18° Europe Conference From dream to reality. Dawning of a new Social Science, IIRP - International Institute for Restorative Practice, Budapest 10-12 June 2015; P. PATRIZI, G.L. LEPRI, E. LODI, B. DIGHERA, Comunità territoriali riparative e relazionali: dall’inclusione al benessere, cit., 3.

 

[48] Ibidem.

 

[49] “Studio e analisi delle pratiche riparative per la creazione di un modello di città riparativa”, parte di un progetto regionale più ampio dal titolo “Sistema Informativo e governance delle politiche di intervento e contrasto del crimine” (Legge regionale 7 agosto 2007 n. 7 Regione Autonoma della Sardegna).

 

[50] T. WACHTEL, Dreaming of a New Reality. How restorative practices reduce crime and violence, improve relationships and strengthen civil society, cit.

 

[51] H. ZEHR, Changing Lenses: A New Focus on Crime and Justice, cit., 2.

 

[52] P. PATRIZI, G.L. LEPRI, Le prospettive della giustizia riparativa, cit., 3; P. PATRIZI, G.L. LEPRI, Vittime, autrici e autori di reato: i percorsi della giustizia riparativa, cit., 3; P. PATRIZI, G.L. LEPRI, E. LODI, B. DIGHERA, Comunità territoriali riparative e relazionali: dall’inclusione al benessere, cit., 3.

 

[53] D. MIERS, I. AERTSEN, Regulating Restorative Justice. A comparative study of legislative provision in European countries, Frankfurt am Main 2012; J. BRAITHWAITE, Crime, Shame and Reintegration, Cambridge 1989; T. CHAPMAN, Facilitating Restorative Conferences in Northern Ireland, cit., 16.

 

[54] Recentemente l'Italia ha introdotto nuove leggi che potrebbero andare in questa direzione: in particolare, L. 28 aprile 2014 n. 67 e D. L.vo 15 dicembre 2015 n. 212.

 

[55] R.F. CATALANO, M.L. BERGLUND, J.M. RYAN, H.S. LONCZAK, J.D. HAWKINS, Positive Youth Development in the United States: Research Findings on Evaluations of Positive Youth Development Programs, in Annals of the American Academy of Political and Social Science 59, 2004, 198-124.

 

[56] C.R. SNYDER, Handbook of Hope: Theory, Measures & Applications, San Diego (CA) 2000.

 

[57] M. SELIGMAN, Learned Optimism. How to Change Your Mind and Your Life, New York 1991, trad. it. Imparare l’ottimismo. Come cambiare la vita cambiando il pensiero, Firenze 2005.

 

[58] A.S. MASTEN, J.L. POWELL, A Resilience Framework for Research, Policy, and Practice, in Resilience and Vulnerability: Adaptation in the Context of Childhood Adversities, a cura di S.S. Luthar, New York 2003.

 

[59] C.R. SNYDER, S.J. LOPEZ, J.T. PEDROTTI, Positive Psychology The Scientific and Practical Explorations of Human Strengths, Thousand Oaks (CA) 2011.

 

[60] G.M. SPREITZER, S. SONENSHEIN, Positive Deviance and Extraordinary Organizing, in Positive Organizational Scholarship, a cura di K. Cameron, J. Dutton, R. Quinn, San Francisco 2003.

 

[61] S.B. SARASON, The Psychological Sense of Community: Prospects for a Community Psychology, San Francisco 1974 (Out of print. See American Psychology and Schools).

 

[62] D.W. MCMILLAN, D.M. CHAVIS, Sense of Community: A Definition and Theory, in Journal of Community Psychology 14, 1, 1986, 6-23.

 

[63] P. PATRIZI, G.L. LEPRI, Le prospettive della giustizia riparativa, cit.