D & Innovazione

 

 

Convegno

prigione e territorio

percorsi di integrazione dentro e fuori le carceri

Università di Sassari – 26-27 maggio 2017

(Aula Segni di Giurisprudenza / Aula Magna)

 

Formazione universitaria come opportunità di trattamento: l’esperienza dei poli universitari

(e le prospettive di sviluppo)

print in pdf

ANTONIO VALLINI

Professore ordinario di Diritto penale

Università di Pisa

già delegato del Rettore dell’Università di Firenze

per il Polo Universitario Penitenziario della Toscana

 

 

Between the idea

And the reality

Between the motion

And the act

Falls the Shadow

 

[T.S. ELIOT, The Hollow Men]

 

 

SOMMARIO: 1. I poli universitari penitenziari: dallo spontaneismo frammentario, al coordinamento nazionale. – 2. L’Università come “anticarcere”. – 3. Alla ricerca di un modello. – 4. Una architettura impossibile?

 

 

1. – I poli universitari penitenziari: dallo spontaneismo frammentario, al coordinamento nazionale

 

Quella dei poli universitari penitenziari italiani è un’esperienza risalente e ricca, eppure in larga misura sottotraccia. Essa difficilmente – non si comprende per quale pudore – è emersa all’attenzione di soggetti diversi da quelli direttamente coinvolti. Per lungo tempo, i singoli poli hanno operato ciascuno in una sorta di splendida solitudine, senza contatti qualificati con analoghe realtà presenti in altre sedi, e in mancanza di fonti di conoscenza complessiva aggiornata circa la distribuzione sul territorio nazionale, i referenti, le diverse caratteristiche. Una situazione che riflette uno spontaneismo episodico, posto che, in effetti, ogni polo nasce in ragione di contingenze e sollecitazioni locali, solitamente su impulso di singole personalità, dotate di particolare coraggio e lungimiranza. In tal modo sono andate disperse conoscenze e buone prassi meritevoli di una condivisione che avrebbe accelerato la soluzione di problematiche comuni, e sono mancate le premesse di un “sistema” nazionale, capace di offrire una proposta razionale, quanto a distribuzione e possibilità di accesso. La frammentazione ha inoltre indebolito la capacità di contrattazione con le istituzioni centrali.

A questo inconveniente si è cercato in un primo momento di porre rimedio attivando, presso l’Università di Padova[1], un coordinamento dei poli universitari penitenziari, al quale hanno inizialmente lavorato i rappresentanti delle realtà più strutturate e di tradizione più risalente (Padova, Torino, Polo della Toscana). Questa prima occasione di confronto reciproco ha prodotto delle Linee guida sull’istituzione e la gestione dei poli carcerari per lo studio universitario: uno sforzo già proteso verso l’armonizzazione e l’incremento, qualitativo e quantitativo, dei progetti di didattica a favore di soggetti in esecuzione penale, e corroborato dal successivo Convegno Nazionale “I Poli universitari in carcere. L’istruzione universitaria nelle strutture penitenziarie” (Padova, 20 giugno 2014).

Il coordinamento è adesso in fase di ulteriore sviluppo. Si è compiuto un sondaggio presso tutti gli atenei italiani, per intercettare ogni possibile e comparabile esperienza, anche in fase embrionale, e sono previsti altri incontri di lavoro e si è tenuto un primo, importante Convegno Nazionale dei Poli Universitari Penitenziari a Firenze nei giorni 1° e 2 dicembre 2017. L’intento è quello di perfezionare lo studio e il confronto, di elaborare statistiche e indicatori di performance, di scambiare best practices, ma soprattutto di garantire la massima rappresentatività del coordinamento in vista di una sua prossima istituzionalizzazione. La prospettiva è quella di istituzionalizzare il coordinamento mediante una affiliazione alla Conferenza dei Rettori delle Università Italiane (CRUI).

In una fase intermedia, rispetto a questo processo, si collocano gli Stati Generali dell’Esecuzione Penale[2], convocati dal Ministro della Giustizia nel 2015 al fine di approntare una sorta di grande “istruttoria” preliminare alla riforma del sistema dell’esecuzione penale. Si chiedeva, in particolare, un riepilogo ragionato di norme, tecniche e prassi, grazie all’apporto di studiosi delle diverse discipline e di operatori dell’esecuzione penale, considerata nelle sue varie implicazioni (non solo giuridiche e amministrative ma anche, ad es., architettoniche, culturali, ecc.), così da focalizzare tanto le virtualità positive, quanto le molte criticità, e quindi tradurre l’analisi in una serie di meditati suggerimenti per la riforma. Il tavolo nono degli Stati Generali, coordinato dal prof. Mauro Palma – poi divenuto Garante nazionale dei diritti delle persone detenute – si è segnatamente occupato di “Istruzione, cultura e sport”, e dunque anche dell’istruzione universitaria. La relazione finale del tavolo nono[3] già contiene un interessante sguardo di insieme sui diversi poli italiani, e avanza altresì un’ampia serie di indicazioni costruttive, ampliando la proposta già condensata nelle “linee guida” patavine.

 

 

2. – L’Università come “anticarcere”

 

In tutte queste occasioni di approfondimento, sui cui dettagli non è possibile in questa sede soffermarsi, è emersa nitidamente una peculiarità di fondo dei progetti in questione, a prescindere dalle differenze di storia e impostazione, e al di là di una tendenza riduttiva a intendere la formazione universitaria come un “elemento del trattamento rieducativo”, tra gli altri. Si tratta di interventi che, in realtà, tendono a contrapporsi in termini naturalmente antagonistici all’orientamento istituzionale dell’esecuzione penale, alla quale dunque sottraggono spazi (fisici, ideali) nel momento stesso in cui tentano una coabitazione. Parafraso quanto mi disse, una volta, uno studente del polo fiorentino dall’intelligenza davvero particolare: l’università, con le sue pretese elevate, costringe lo studente in una sorta di rigida gabbia fatta di metodo e impegno; ma per lo studente detenuto, quella più angusta gabbia opera come protezione dall’ambiente più esterno del carcere. In essa, dunque, si sperimenta la libertà. L’Università come “anticarcere”, il polo universitario come luogo chiuso in cui si nega una negazione della libertà, e dentro il quale perciò, paradossalmente, si evade. Un’architettura impossibile.

Fuor di metafora. In termini giuridico-istituzionali, un polo universitario penitenziario non è pensato per contribuire (anche se di fatto può contribuire: v. infra) all’attuazione di funzioni insite negli orizzonti finalistici dell’esecuzione penale, bensì è volto a rendere effettivo un diritto alla formazione superiore (art. 34, co. 3, Cost.) che – così come altri diritti (ad es. quello alla salute, o all’affettività) – preesiste e permane nonostante la pena, in quanto non limitato dalla sentenza di condanna[4]. Un diritto che non è necessariamente correlato a quel “reinserimento sociale” verso il quale invece dovrebbe orientarsi il “trattamento rieducativo” (artt. 27, 3° co., Cost. e 1 l. 26 luglio 1975, n. 354); che non trova il suo scopo caratteristico nel garantire una qualche “utilità” sociale (lavoro, guadagno); ma che ben può valere, in sé e per sé, come arricchimento individuale e occasione di libero sviluppo della personalità del “singolo” (art. 2 Cost.). Un diritto che, insieme ad altri strettamente personalistici, si pone quasi su di un piano superiore rispetto al diritto alla rieducazione (con i suoi inevitabili connotati paternalistici). Un diritto la cui soddisfazione è affidata a una istituzione “altra”, esterna per collocazione e ispirazione finalistica, cui l’art. 33, ult. comma, riconosce uno spazio intangibile di autonomia (e, dunque, una non subordinazione agli scopi propri di altre istituzioni). Una esternalità ingombrante, che esercita una “attrazione” centrifuga, sollecitando evasioni mentali.

Intendiamoci: alcune norme dell’ordinamento penitenziario riconoscono l’importanza della formazione universitaria. In alcuni casi (v. ad es. art. 15 l. 26 luglio 1975, n. 354) essa parrebbe presa in considerazione implicitamente, quale elemento di un “trattamento” piuttosto indefinito, e parificata, in quest’ottica, ad ogni altra attività “culturale”, di “intrattenimento” o di “istruzione”. Si tratta però di disposizioni appunto vaghe e indistinte, che trascurano la specificità di quella particolarissima forma di istruzione, aliunde desumibile; e, in effetti, non accompagnano questo equivoco riferimento con la previsione di competenze e procedure utili a davvero “assimilare” la formazione universitaria tra gli elementi rieducativi istituzionali[5]. In altri casi (v. in specie l’art. 44 del regolamento di esecuzione, d.p.r. 30 giugno 2000, n. 230) lo studio universitario è espressamente evocato, ma appunto come un limite “esterno”, e “dall’esterno”, che aspira a trovare accoglienza, pretendendo a tal fine correzioni eccezionali a normali logiche penitenziarie; correzioni subordinate, peraltro, a una clausola di “fattibilità” e discrezionalità non vincolata che, di per sé, lascia presagire frequenti ombre «tra la mozione e l’atto» (gli studenti possono essere esonerati dal lavoro, possono essere autorizzati «a tenere nella propria camera e negli altri locali di studio, i libri, le pubblicazioni e tutti gli strumenti didattici necessari», e «sono assegnati, ove possibile, in camere e reparti adeguati allo svolgimento dello studio»). La legge riconosce, infine, che quel tipo di intervento può essere praticato solo in virtù di apposite “intese” (non predeterminate nei contenuti) con soggetti alieni, quali le università.

Andando ad osservare le concrete dinamiche psicologiche, sociali e comunicative, che la frequentazione di un polo universitario penitenziario nei fatti attiva, quel che si scopre è un antidoto effettivo ai processi di carcerizzazione (infantilizzazione, anonimizzazione, standardizzazione, spersonalizzazione, alienazione), ineludibile componente di quella istituzione totale. Meglio di altre esperienze culturali (lo sport, la scuola superiore), che pure è assai riduttivo parificare a forme di “intrattenimento”, lo studio universitario valorizza il talento, impone responsabilità e libertà di pensiero, insegna il metodo del confronto nella diversità delle opinioni, produce partecipazione, induce a superare atteggiamenti vittimistici e passivi per guadagnarsi le mete ambite, fa scoprire predilezioni e virtualità che segnano e distinguono le identità, offre strumenti concettuali, e di esperienza, per un profondo e spontaneo ripensamento critico di se stessi[6]. Più di ogni altra pratica formativa, poi, lo studio universitario arricchisce il catalogo delle parole e dei concetti e trasmette la logica del metodo scientifico, che è una logica profondamente democratica, fatta di rinuncia a verità assiomatiche, abitudine alla problematicità, al confronto critico reciprocamente rispettoso e costruttivo. In breve, lo studio universitario, se ben impostato, può fornire già dentro il carcere le competenze di un “bravo cittadino”, che è tutt’altro rispetto al “bravo detenuto”, al “detenuto disciplinato”, che il carcere per sua stessa natura mira a modellare[7]. Il polo universitario penitenziario, inoltre, inteso nel suo significato proprio di università che “entra” nel penitenziario – con i suoi docenti, i suoi funzionari, i suoi tutor, i suoi libri e i suoi strumenti – e là si ricava un proprio ambiente (v. infra), offre l’occasione di frequentazioni assai più appaganti di quelle in quei luoghi normalmente consentite, dà motivo di “trattare” e di “essere trattati” secondo modalità e codici innovativi, attenti alle potenzialità intellettive dell’altro, e fornisce contenuti pregnanti emotivamente a un tempo destinato, altrimenti, a trascorrere uguale e senza senso. Ebbene, è dimostrato che queste frequentazioni siano di per sé premessa di riuscite avventure di “reinserimento sociale” – al di là del fatto che, poi, una laurea venga effettivamente conseguita, o comunque di quella laurea si abbia modo di fare uso[8]. Un reinserimento sociale, merita però riaffermare, attuato non mediante agenzie presenti nel carcere, e non con le tecniche proprie di quelle agenzie, bensì nonostante il carcere e in virtù di meccanismi affatto differenti.

 

 

3. – Alla ricerca di un modello

 

Aver focalizzato questa strutturale dimensione anticarceraria è la chiave per condurre nel miglior modo tanto l’analisi, quanto la proposta.

Sul piano delle analisi, emerge che gran parte delle criticità comuni alle diverse esperienze dei poli universitari penitenziari sono sintomatiche di una crisi di rigetto che le istituzioni dell’esecuzione penale istintivamente soffrono al contatto con simili “corpi estranei”. Si badi: non è un problema di cattiva volontà di singoli, o di categorie – che pure può talora riscontrarsi, così come sovente emergono, invece, atti di generosa collaborazione. E’, piuttosto, una questione fisiologica. La sanzione penale, il carcere, l’amministrazione penitenziaria (al di là delle, peraltro timide, declamazioni legislative) non sono finalisticamente concepiti per simili esperimenti, nemmeno nelle loro componenti trattamentali e rieducative. E così, non a caso, si sconta una mancanza di competenze specialistiche – tra gli “educatori”, la polizia – adatte a sostenere “dall’interno” quel che lo studio universitario comporta. Si lamenta la mancanza di architetture e spazi adeguati. Ci si confronta con una organizzazione dei tempi intrinsecamente incompatibile con quella della didattica e dello studio universitari. Si inciampa nell’inadeguatezza delle strumentazioni, e nella refrattarietà ad aggiornarsi tecnologicamente (il grande problema dei collegamenti telematici). Si nota il difetto di una visione complessiva “accogliente” e integrata da parte dell’amministrazione penitenziaria centrale: i progetti di polo avanzano tutt’al più, e disordinatamente, in sede locale, grazie al coraggio di singoli provveditori e direttori, a sensibilità che stentano a trovare complicità non occasionali in luoghi più elevati, e che possono venir meno in un attimo, con l’avvicendarsi di uomini differenti negli stessi ruoli.

Passando al piano della proposta, quella maggiormente elaborata, avanzata dal tavolo nono degli Stati Generali, si confronta in effetti con tale connaturata contrapposizione di scopi e mezzi.

Secondo una prospettiva più immediata, detta contrapposizione dovrebbe essere addirittura enfatizzata, per scongiurare il rischio di una assimilazione che snaturerebbe la missione universitaria indebolendo le sinergie virtuose che essa è in grado di attivare. Secondo una prospettiva più ambiziosa, quell’antagonismo meriterebbe d’essere calmierato concordando tregue e momenti di armonizzazione (effettivi, non solo dichiarati). Le due prospettive non si escludono a vicenda, anzi si completano l’un l’altra.

Secondo il primo approccio, la didattica universitaria, per davvero funzionare, deve bellicosamente (per così dire) conquistare spazi e tempi al carcere. Bisogna si traduca in un intervento positivo (rispondente alla logica dell’art. 3, 2° co., Cost., perché volto a contrastare una condizione fattuale che ostacola l’effettiva fruizione di un diritto in condizioni di uguaglianza), dotato di particolare vigore e forza, per vincere le resistenze. Necessita dunque, prima di tutto, un impegno collettivo e integrato di ogni componente dell’Università (rappresentanti delle cariche istituzionali, docenti – eventualmente motivati dalla possibilità di computare la loro attività tra i compiti d’ufficio –, delegati delle segreterie, delle biblioteche, dei centri informatici e linguistici, tutor per garantire la continuità dell’intervento). L’Università deve poi colonizzare il carcere senza farsi addomesticare; ricavarsi “microclimi” sperimentali – vere e proprie sezioni-polo universitario – entro le quali vigano finché possibile le sue regole (favorite da forme di sorveglianza attenuata); pretendere un ripensamento, localizzato, circoscritto, di architetture, strutture, mezzi e tempi, secondo criteri differenti da quelli correlati agli scopi dichiarati o impliciti della pena. Un altro elemento utile a rendere efficace questo intervento positivo deve essere il sostegno economico – borse di studio, riduzioni delle tasse – utile a puntellare quelle ambizioni dei “meritevoli” di cui parla l’art. 34 Cost., affette da una peculiare fragilità e volatilità in contesti che facilmente smorzano gli entusiasmi e dirigono le attenzioni verso necessità più impellenti. Infine, si impone elasticità metodologica: si devono tentare forme anche sperimentali di didattica, per adeguar quest’ultima al particolarissimo ambiente e ai particolarissimi destinatari[9], così da trovare nuovi equilibri tra rigore ed efficacia.

In questa visuale, lo strumento primario per normare nei dettagli l’attività di un polo universitario rimane “l’intesa” tra amministrazione penitenziaria e atenei, atto che certifica una collaborazione sinallagmatica tra istituzioni tuttavia ben distinte. Un’eccessiva, o comunque poco meditata, considerazione della didattica universitaria da parte della legge penitenziaria rischierebbe di produrre equivoci e generare confusioni finalistiche; rischierebbe di “cancerizzare”, per così dire, la funzione dei poli, depotenziandone la portata emancipatrice. Al contrario, le differenze devono essere accentuate. Così, la relazione del citato tavolo IX suggerisce di collocare minime disposizioni che prendono in considerazione lo studio universitario (e le altre attività formative e culturali) in uno spazio normativo ben distinto da quelli dedicati ora alle attività meramente ricreative[10], ora alle attività più propriamente trattamentali e rieducative. I soggetti cui è (sarebbe) demandata l’individualizzazione del “trattamento” fin dall’inizio dell’esecuzione (art. 13 l. 354/1975) non possono allo stesso modo farsi carico dell’orientamento universitario, che richiede competenze e strategie totalmente distinte: le Università devono dunque confrontarsi con gli operatori pedagogici in un momento iniziale di orientamento motivazionale, mentre devono mantenere il monopolio del successivo orientamento più specialistico/disciplinare. Su altro fronte, si è discusso al tavolo nono, per esempio, se i “permessi premio” (art. 30 l. 354/1975) dovessero essere estesi a garantire esigenze di studio presso le ordinarie sedi universitarie. L’obiezione prevalente è stata che simile estensione snaturerebbe la ratio dell’istituto, e avallerebbe, in fondo, una logica di estromissione dell’università dai luoghi di detenzione, mentre quel che si deve garantire è, al contrario, che le università conquistino terreno nel carcere.

La parte di proposta che mira, invece, a una conciliazione, cerca nei limiti del possibile di rendere l’amministrazione penitenziaria più duttile e accogliente, così da favorire quella “colonizzazione” antagonistica auspicata dall’approccio di cui testé si è dato conto (per questo i due tipi di proposta si integrano, non sono alternativi).

Sul piano legislativo già esistono esili appigli: in specie il citato art. 44 del regolamento del 2000, che, tra l’altro, offre un avallo alla costituzione di vere e proprie sezioni di polo universitario. Secondo la relazione del tavolo nono, bisognerebbe però, in prospettiva, sancire in termini chiari non tanto un diritto “generico” allo studio universitario, già esistente e di rilievo costituzionale, né forme di “facilitazione” ad occasionali impegni universitari dei detenuti, bensì una sorta di interesse legittimo all’accesso ai poli universitari penitenziari (alle sedi ove operano le università, alle sezioni di polo). A tal fine si potrebbe, ad es., estendere chiaramente all’attività universitaria i contenuti dell’art. 41, comma 4, prima parte, d.p.r. 230/2000 [11]. Altre asperità potrebbero essere smussate lavorando soltanto sulla normativa subordinata, o interna. Una nuova circolare DAP, ad es., potrebbe forse bastare per aprire canali inediti ai collegamenti telematici, oggi elemento imprescindibile di qualsiasi alfabetizzazione[12]; anche se, a tal fine, si auspica una estensione alle comunicazioni telematiche di quanto prescritto dall’art. 18 l. 354/75 e dagli artt. 37, 38, 39, 40 del d.p.r. 230/2000. D’altronde, esperimenti di connessioni telematiche “sicure” già sono stati compiuti presso alcuni poli universitari penitenziari, e potrebbero essere presi ad esempio anche sul piano più strettamente “tecnico”. Bisognerebbe, infine, fosse ancor più chiaramente sancito che i trasferimenti devono operarsi il più possibile evitando il pregiudizio per carriere universitarie già attivate, dialogando con le Università coinvolte, e facendo in modo che, quando proprio inevitabile, la destinazione sia un’altra sede di polo[13].

Su di un piano che è al tempo stesso legislativo, formativo e organizzativo, sarebbe inoltre utile disporre, per così dire, di “agenti infiltrati”. Incontrare, tra gli operatori giuridico-pedagogici e di polizia, professionalità specificamente dedicate all’interazione con le università – pur nella distinzione necessaria dei ruoli – e capaci dunque di rilanciare i progetti dall’interno. Così come, per le stesse ragioni, sarebbe opportuno che le convenzioni prevedessero la figura di un referente per gli studi universitari operativo presso i gruppi di osservazione e trattamento, dotato a sua volta delle competenze necessarie a favorire un coordinamento tra scelte trattamentali, percorsi penitenziari e sviluppi della carriera universitaria (si pensi alla necessità, ad esempio, di coordinare nei tempi e nei modi l’accesso a permessi, lavoro all’esterno e misure alternative, e l’accesso a tirocini curriculari)[14].

Per ridurre le resistenze che fisiologicamente (e, ripeto, nonostante le migliori intenzioni) un polo universitario penitenziario può incontrare, sembra inoltre intelligente fare di esso l’occasione per incontri formativi a beneficio (anche) dei dipendenti dell’amministrazione penitenziaria, prevedere (anche) per loro l’accesso agevolato a corsi di laurea e post-laurea, progettare attività con loro condivise, che valorizzino, a beneficio di tutti, la qualità dell’apporto che quelle professionalità sono in grado di arrecare.

In questa prospettiva, nondimeno, è evidente che la prima strategia da portare a termine è quella cui si alludeva in apertura di queste riflessioni; e che è pure quella più facilmente perseguibile, dipendendo quasi interamente dalle stesse università. Si tratta di elevare finalmente a sistema nazionale gli interventi dei singoli poli universitari, attualmente diseguali e “a macchia di leopardo”; di monitorare, conoscersi, scambiare esperienze, metodi e soluzioni; moltiplicarsi, armonizzarsi, stringere accordi e consorziarsi, ad es. su di un piano regionale, coprendo gli spazi geografici in modo razionale (e stimolare il supporto degli enti territoriali); individuare rappresentanti comuni, così da poter dialogare con una voce unica con quegli organismi centrali – Dap, Ministeri, CRUI – ove spesso si trova il bandolo della matassa di problemi che, localmente, sembrano inestricabili. Nessun “interesse legittimo” per l’accesso ai Poli sarà mai effettivamente garantito, e l’impatto negativo dei trasferimenti non potrà mai essere realmente limitato, finché in interi settori del Paese difetteranno poli penitenziari universitari adeguatamente distribuiti e strutturati. Nessun governo razionale dei passaggi tra Atenei sarà d’altronde possibile finché non saranno armonizzate le regole sull’iscrizione e il sostegno economico all’iscrizione, sul riconoscimento di crediti formativi, e finché non saranno semplificati gli scambi di informazioni tra segreterie e non sarà dichiarata una disponibilità reciproca ad assistere soggetti provenienti da università differenti.

 

 

4. – Una architettura impossibile?

 

Un’architettura impossibile, si diceva.

Della rappresentazione di architetture impossibili fu maestro il grafico olandese Maurits Cornelis Escher. Nella sua litografia intitolata “Belvedere”, aperti panorami attirano i personaggi a salire per una struttura di balaustre disposte su più piani, alla ricerca del punto di vista più elevato. Questa tensione verso la liberazione dello sguardo quasi distrae dal fatto che quella salita è, però, impraticabile, perché passa da una scala a pioli che è al tempo stesso esterna e interna all’edificio: una struttura semplicemente inconcepibile. Sennonché, ai piedi di quella salita, un uomo sta concependo esattamente quell’impossibilità. Egli studia il disegno e il prototipo di un cubo che riproducono la medesima, illogica geometria[15]. Le architetture impossibili si possono dunque pensare e rappresentare: esse, allora, forse, impossibili non sono. È concesso aprire un “esterno” nell’“interno”, scambiare le priorità (il “davanti” con il “dietro”), elaborare scale concettuali verso panorami superiori a ogni ipotesi nota, tracciare percorsi verso l’emancipazione da limiti che sembrano ontologici ma che forse noi stessi ci imponiamo.

A chi progetta e pratica esperienze come quella dei poli universitari penitenziari non apparirà affatto sorprendente che, negli scantinati dell’edificio, la testa protesa per il desiderio di raggiungere anch’egli quei panorami liberatori attraverso percorsi controintuitivi, sia disegnato un uomo trattenuto soltanto dalla ferrea concretezza delle sbarre di una prigione.

 

 



 

[Un evento culturale, in quanto ampiamente pubblicizzato in precedenza, rende impossibile qualsiasi valutazione veramente anonima dei contributi ivi presentati. Per questa ragione, gli scritti di questa parte della sezione “D & Innovazione” sono stati valutati “in chiaro” dai promotori del Convegno “Prigione e territorio. Percorsi di integrazione dentro e fuori le carceri”, dal curatore della pubblicazione e dalla direzione di Diritto @ Storia]

 

[1] In virtù di una dichiarazione di intenti del 21 febbraio 2013 sottoscritta dall’Università degli Studi di Padova e dal Ministero della Giustizia.

 

[2] In rapporto ai quali, tra i tanti, si può vedere M. PELISSERO, Gli stati generali sull’esecuzione penale: i problemi noti messi a nudo e la necessità di risposte di sistema, in Diritto penale e processo 2016, 1125.

 

[3] https://www.giustizia.it/giustizia/it/mg_2_19_1_9.page?previsiousPage=mg_2_19_1 .

 

[4] Sui diritti fondamentali quale “limite esterno” agli spazi della pena v. di recente, per tutti e tra gli altri, A. MARTUFI, Diritti dei detenuti e spazio penitenziario europeo, Napoli 2015, spec. 69 ss., 133, 163 ss.

 

[5] V. ad es. l’art. 19 l. 354/75, che sollecita «l'organizzazione de corsi della scuola d'obbligo e di corsi di addestramento professionale», nonché l’istituzione di «scuole di istruzione secondaria di secondo grado negli istituti penitenziari», mentre soltanto chiede, genericamente di “agevolare” «il compimento degli studi dei corsi universitari ed equiparati».

 

[6] Con riferimento agli interventi educativi in carcere in genere: P. FEDERIGHI, Il carcere come città educativa. La prevenzione educativa dei comportamenti criminali, in Il diritto al risarcimento educativo dei detenuti, a cura di F. Torlone, Firenze 2016, 19 ss., e v. spec., ibidem, F. TORLONE, Il diritto al risarcimento educativo dei detenuti, 6 ss.; A. MARGARA, Il carcere della legge e il carcere che c’è: tendenze, possibili derive, senso delle attività trattamentali, in S. MIGLIORI, Lo studio e la pena. L’Università di Firenze nel carcere di Prato: rapporto triennale 2000-2003, Firenze 2004, 15 ss.

 

[7] Sia consentito rinviare a A. VALLINI, Carcere, democrazia, università. L’esperienza dei poli universitari penitenziari, in Diritto penale e processo 2016, 1377 ss.

 

[8] S. MIGLIORI, Lo studio e la pena, cit., spec. 173 ss.; F. TORLONE, op. cit., 12 ss. (con riferimento agli interventi pedagogici in genere).

 

[9] C. CANTONE, La cultura in carcere in Italia, in Economia della cultura 2013, 425 s.

 

[10] V. invece attualmente l’art. 27 l. 26 luglio 1975, n. 354.

 

[11] Disposizione che attualmente recita: «Le direzioni degli istituti curano che venga data adeguata informazione ai detenuti e agli internati dello svolgimento dei corsi scolastici e ne favoriscono la più ampia partecipazione. Le direzioni curano che gli orari di svolgimento dei corsi siano compatibili con la partecipazione di persone già impegnate in attività lavorativa o in altre attività organizzate nell'istituto».

 

[12] Ancora troppo timida e ambigua, pur costituendo un passo avanti, appare la circolare DAP sulla “Possibilità di accesso ad Internet da parte dei detenuti” del 2 novembre 2015.

 

[13] Si potrebbe in tal senso estendere espressamente alla formazione universitaria la seconda parte dell’art. 41, co. 4, cit., che attualmente recita: «Sono evitati, in quanto possibile, i trasferimenti ad altri istituti, dei detenuti ed internati impegnati in attività scolastiche, anche se motivati da esigenze di sfollamento, e qualunque intervento che possa interrompere la partecipazione a tali attività. Le direzioni, quando ritengono opportuno proporre il trasferimento di detenuti o internati che frequentano i corsi, acquisiscono in proposito il parere degli operatori dell'osservazione e trattamento e quello delle autorità scolastiche, pareri che sono uniti alla proposta di trasferimento trasmessa agli organi competenti a decidere. Se viene deciso il trasferimento, lo stesso è attuato, in quanto possibile, in un istituto che assicuri alla persona trasferita la continuità didattica».

 

[14] Un supporto normativo per questo tipo di intervento già esiste: si tratta della circolare DAP 9 ottobre 2003 - Le aree educative degli Istituti - che concepisce appunto i GOT quali strutture differenti dalle équipe di osservazione, costituendo essi “gruppi allargati” ad esperti esterni che abbiano contatti qualificati con il detenuto; e non sarebbe sbagliato, forse, elevare a legge tale apertura, rendendo in tal senso esplicito il contenuto dell’art. 29 d.p.r. 230/2000.

 

[15] Si tratta, per la precisione, del c.d. “cubo di Necker”, in rapporto al quale cfr. ad es. J. KORNMEIER – M. BACH, The Necker cube - an ambiguous figure disambiguated in early visual processing, in Vision Research 45, 2005, 955 ss.