Monografie-2017

 

 

 

Si pubblica, col consenso dell’Autrice e dell’Editore,  il Capitolo secondo (Dalla prima alla seconda modernità: verso nuovi modelli di giustizia – pp. 35-66) della monografia di MARIA ANTONIETTA FODDAI, Dalla decisione alla partecipazione: giustizia, conflitti e diritti, Napoli, Jovene editore, 2017, pp. X-240. ISBN  978-88-243-2510-3

 

Indice del volume

 

 

 

foddai-2012-aMaria Antonietta Foddai

Università di Sassari

 

Dalla prima alla seconda modernità: verso nuovi modelli di giustizia

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Sommario: 2.1. Trasformazioni del diritto. – 2.2. Trasformazioni della giustizia. – 2.2.1. Giove, Ercole, Mercurio: i tre giudici. – 2.2.2. Modelli di giustizia dalla prima alla seconda modernità. – 2.2.3. Risolvere le controversie e «dire il diritto». – 2.3. Giustizia del diritto e senso di giustizia. – 2.4. Il movimento di accesso alla giustizia. – 2.4.1. Florence Project on Access to Justice. – 2.4.2. La «terza ondata»: gli strumenti alternative di risoluzione delle controversie.

 

 

 

2.1. – Trasformazioni del diritto

 

«Il diritto sta cambiando e noi continuiamo a parlarne con categorie vuote e desuete che non colgono i problemi»[1]. Queste parole di Tecla Mazzarese rappresentano un tema ricorrente nei discorsi sul diritto, che denuncia l’inadeguatezza delle categorie giuridiche a rappresentare le sue trasformazioni e annuncia una nuova «crisi del diritto»[2]. Crisi paradossale, potremmo dire, perché l’esperienza ci mostra un diritto in crescita, con una pluralità di attori e istituzioni che ne ridefiniscono i contenuti, le pratiche e i confini. Il pluralismo delle fonti del diritto, degli organismi nazionali e internazionali, il nuovo ruolo creativo assunto dai giudici mostrano un diritto vitale e in continua trasformazione[3]. La crisi riguarda piuttosto la rappresentazione del diritto, indicato come un modello razionale di ordine fondato sullo Stato sovrano e sulla sua legge[4].

Per questa ragione alcuni studiosi hanno annunciato una rinnovata espansione del diritto, segnalata dall’abbandono del carattere statuale e da una nuova dimensione sociale che inaugura la ricerca di forme di partecipazione e pluralismo giuridico[5].

Per spiegare le complesse dinamiche del mutamento in atto, Ost ricorre alla nota teoria di Kuhn, secondo la quale l’evoluzione del progresso scientifico non avviene in modo progressivo e graduale, ma attraverso bruschi cambiamenti che portano alla sostituzione di un paradigma con un altro che offra un modello più adeguato di spiegazione e regolazione della realtà[6]. Il paradigma, com’è noto, esprime una cornice di teorie e principi, intorno alla quale si forma il consenso della comunità scientifica, perché rappresenta un valido modello esplicativo della realtà e offre ai ricercatori le soluzioni ai problemi che si presentano[7]. Quando il paradigma non è più in grado di contenere e spiegare determinati fenomeni, né di offrire soluzioni adeguate ai problemi che da questi derivano, entra in crisi, fino a quando non verrà sostituito da un nuovo e più adeguato modello.

Secondo Ost, ci troviamo nella fase di passaggio dal paradigma giuridico dominante, rappresentato dall’immagine kelseniana della piramide che illustra il modello gerarchico stato-centrico e positivista, a un nuovo paradigma concorrente, raffigurato dall’immagine della rete, che coesiste col precedente[8]. Quella rappresentazione familiare e ordinata del diritto, che illustra un sistema caratterizzato da coerenza, completezza e unità, si sfalda di fronte al nuovo policentrismo delle fonti e alle nuove gerarchie mobili, definite dall’attività interpretativa dei giuristi e dei giudici[9]. Alla logica gerarchica che prevede l’integrazione o l’esclusione, la rete oppone la logica orizzontale della regolazione, fondata sulla negoziazione e la continua ridefinizione degli equilibri tra i centri di produzione giuridica[10].

Nel modello giuridico emergente, «lo Stato cessa di essere la fonte esclusiva della sovranità; la volontà del legislatore non è più assunta come un dogma; le frontiere del fatto e del diritto si confondono; i poteri interagiscono; i sistemi giuridici s’ingarbugliano; la conoscenza del diritto, che ieri rivendicava la sua purezza metodologica, si apre all’interdisciplinarità; la giustizia, infine, che il modello piramidale si proponeva di ancorare a gerarchie assiologiche fissate dalla legge, si coglie oggi in termini di bilanciamento di interessi e valori tanto diversi quanto variabili»[11]. Abbandonata la dogmatica giuridica della modernità, il diritto si fa plurale, negoziato, flessibile, mostrando la ricerca di nuovi spazi e nuove forme, legittime ed efficaci, per l’azione politica[12].

Queste osservazioni, tuttavia, non segnalano l’abbandono del modello piramidale a vantaggio di un nuovo, e indeterminato, modello reticolare; quanto piuttosto il necessario processo di elaborazione di un nuovo quadro teorico, in cui si valorizzano alcuni elementi del modello giuridico kelseniano, come ad esempio la dimensione verticale e multilivello del diritto, e si formulano buoni argomenti teorici per spiegare e giustificare le trasformazioni in atto.

 

 

2.2. – Trasformazioni della giustizia

 

Anche la giustizia, intesa come strumento di realizzazione dei diritti attraverso la risoluzione delle controversie, rivela una serie di contraddizioni derivanti dalla crisi del modello stato-centrico e legalista. La più macroscopica – per la nostra indagine - è quella che riguarda lo sviluppo incoerente della giurisdizione. Con essa i giudici esplicano la duplice funzione di risolvere le controversie e ‘dire il diritto’. Nelle attuali trasformazioni della giustizia queste due attività, che nel modello dominante appaiono indisgiungibili, conoscono un differente e contraddittorio sviluppo.

Da un lato assistiamo a una rinnovata espansione del ruolo giurisdizionale: al diritto legislativo, eroso nella sua centralità dalla crisi della sovranità statale, si va affiancando e sostituendo il «diritto giudiziario», che ridisegna lo scenario del diritto globale contemporaneo[13]. I giudici infatti hanno assunto un ruolo centrale nel processo di produzione del diritto, sia in ambito nazionale con il controllo di costituzionalità delle leggi, e la ricomposizione della gerarchia delle fonti, sia soprattutto in ambito internazionale, per la funzione svolta dalle corti a cui è ormai affidata la costruzione del diritto[14].   

Dall’altro lato si constata l’eclissi del processo giurisdizionale, che non risponde alle aspettative sociali e si manifesta con la denuncia della crisi dei sistemi di amministrazione della giustizia che attraversa, in misura differente, Stati di diritto occidentali. Mentre la crisi del sistema processuale mostra un’involuzione della funzione di risoluzione delle dispute, il ruolo della giurisdizione rivela un accresciuto potere nella produzione del diritto. La funzione di risoluzione dei conflitti e la funzione di «dire il diritto», attraverso l’applicazione delle norme dello Stato, corrispondono ad attività differenti, che nel modello giuridico della modernità nascono in stretta relazione[15]. Questa è espressa dal requisito dell’imparzialità che impone che i conflitti fra i cittadini vengano risolti attraverso norme derivanti da leggi generali e astratte che garantiscono che casi uguali vengano trattati in modo uguale[16]. Le due funzioni, come vedremo, appaiono suscettibili di una lettura disgiunta che apre nuove e interessanti prospettive di analisi. È in base a questa distinzione che si potrebbe affermare che i giudici oggi sembrano rispondere più alla domanda di diritto, che alla domanda di giustizia.

Se questo dinamismo illustra la crisi dall’alto della piramide, dal versante dei ‘produttori’ del diritto, non dobbiamo trascurare l’altro versante, quello che corrisponde alla base della piramide e rappresenta la domanda di giustizia. In questa prospettiva, la crisi della giustizia si manifesta con un sentimento crescente di disaffezione e sfiducia verso il sistema giudiziale, caratterizzato da lentezza, eccessiva onerosità e inadeguatezza nella tutela dei diritti e interessi. In questo scenario complesso, negli ultimi trent’anni si registra un fenomeno imponente di dimensioni transnazionali, della diffusione di pratiche di giustizia che escludono il ricorso al giudice e orientano la soluzione della disputa verso un accordo raggiunto dalle parti con l’aiuto di un terzo imparziale che media la disputa.

In base alla teoria dei paradigmi, descriveremo questi modi alternativi di giustizia – che d’ora in avanti chiameremo ADR – come le anomalie che mettono in discussione il paradigma dominante. E infatti, proprio come avviene nell’ambito della comunità scientifica di fronte a un fenomeno che il modello non è in grado di comprendere (nel senso di contenere e spiegare), di fronte agli ADR, la comunità giuridica ha registrato reazioni di segno opposto, tendenti a bandire gli ADR dal sistema di giustizia o a ricondurli, al prezzo di forzature concettuali, all’interno delle categorie del paradigma. Fino a quando – continua la teoria di Kuhn – il moltiplicarsi delle anomalie non provoca la crisi del paradigma dominante e segnala la nascita di un nuovo modello che è in grado di ricomprendere e regolare, secondo un diverso ordine di principi, i nuovi fenomeni.

Come si vedrà nei prossimi capitoli, il modo in cui gli ordinamenti giuridici hanno risposto alla diffusione dei metodi alternativi di risoluzione delle dispute appare quindi molto significativo per interpretare la crisi dell’attuale modello giurisdizionale e i caratteri emergenti del nuovo, segnalati dalle politiche elaborate dagli Stati per definire un’offerta di giustizia adeguata alle mutate esigenze dei cittadini.

Anche nella giustizia assistiamo quindi alla progressiva erosione di un modello, basato sul monopolio statale del diritto e sul giudizio e alla emersione di un nuovo modello, ancora da definire, ma già distinguibile in alcuni tratti, che si presenta fondato sul pluralismo giuridico e su modalità consensuali di risoluzione delle dispute che si affiancano al giudizio[17].

 

 

2.2.1. – Giove, Ercole, Mercurio: i tre giudici

 

In un brillante scritto del 1991, Ost interpreta i cambiamenti dell’istituzione giudiziaria contemporanea attraverso il ruolo dei giudici ed elabora tre modelli di riferimento.

Il primo è il giudice jupiteriano, che corrisponde al modello piramidale incentrato sulla legge e sul codice e che «continua ad essere insegnato nelle Facoltà di diritto»[18]. La sua immagine quasi sacrale, della bocca che pronuncia le parole della legge, è rafforzata dai simboli del rito, che consiste in una rappresentazione pubblica e si ripete secondo rigide forme prestabilite[19], dell’abbigliamento, che esprime la distanza con i ‘laici’ che vi assistono, del luogo, il Palazzo di giustizia, che deve essere differenziato e separato dal mondo ordinario, e ha un ruolo fondamentale nel rafforzare e veicolare i significati della giustizia[20]. A questa immagine della giustizia amministrata corrisponde il modello giuridico classico, incentrato sul codice e strutturato in forma gerarchica, dal quale derivano quattro corollari: il monismo giuridico, che identifica il diritto con la legge[21], il monismo politico che identifica la sovranità con lo Stato, una razionalità deduttiva e lineare, che identifica l’interpretazione con la scoperta del significato della disposizione, e una particolare concezione del tempo, che identifica il futuro con l’idea di progresso[22].

Al «giudice jupiteriano» succede il «giudice erculeo» che, oltre a svolgere il ruolo giudicante come il suo predecessore, assume su di sé una molteplicità di nuovi compiti in relazione alle rivendicazioni e ai cambiamenti sociali: egli esercita una funzione di filtro, garantendo la produzione continua di nuovo diritto, accogliendo nuove istanze e componendo gli interessi dei cittadini. L’immagine che illustra il passaggio dallo Stato liberale ottocentesco a quello dello Stato sociale del XX secolo in cui opera il giudice Ercole, è quella dell’imbuto che canalizza le nuove istanze sociali nelle aule del Tribunale. Come mostra la reazione del mondo giuridico statunitense all’ipertrofia giuridica delle corti nella seconda metà del Novecento, il giudice comincia a svolgere un ruolo di politica del diritto, che ridefinisce gli equilibri sociali e incrina il mito del legislatore (più in ambito europeo che statunitense). Al monismo legislativo si contrappone un sistema delle fonti del diritto «che tende a destrutturarsi e a disarticolarsi» nel pluralismo delle decisioni, a quello politico, rappresentato dallo stato sovrano, si affianca la pluralità dei nuovi centri di potere. Alla catena logico-deduttiva della razionalità giuridica, si affianca il tessuto dell’argomentazione. «Se il giudice jupiteriano era un uomo di legge, Ercole si sdoppia in un ingegnere sociale», conclude Ost[23]; ma né l’uno né l’altro dei modelli riescono a dar conto del cambiamento giuridico in atto e del ruolo che il giudice è chiamato a svolgere. Il modello che più gli si avvicina è quello di una divinità più modesta, che si limita a favorire la comunicazione, portando i messaggi degli dei, Mercurio, il comunicatore, il mediatore universale. La sua virtù non sta tanto nella capacità di risolvere la controversia assumendo delle decisioni, quanto nella sua capacità di stare nel conflitto, incanalando le ragioni e le emozioni delle parti nelle vie della discussione razionale. Mercurio rappresenta una giustizia ansiosa di avere una presa più energica sul reale, che comincia a sbarazzarsi dei rituali del processo e della forma per avvicinarsi alle istanze sociali[24]. Lo stesso ruolo giudiziario ne risulta stravolto: invece di decidere la lite al termine del dibattimento, come insegnano ancora i manuali di diritto processuale e come continuiamo a immaginare secondo il modello del giudice jupiteriano, il giudice viene spinto ad adottare decisioni «dallo statuto giuridico incerto», come l’invio in mediazione delle parti in una causa di separazione, o la nomina del consulente tecnico che avrà il compito di formulare una proposta di conciliazione. Sono quelle decisioni, che Garapon definisce «sans dire droit»,[25] in cui il compito del giudice sembra progressivamente venir meno a vantaggio della delega alle parti e agli esperti della risoluzione della disputa. L’elemento della decisione viene stemperato a vantaggio della ricerca comune di una soluzione: «Il giudice cede inevitabilmente alla tentazione di occultare il proprio imperium agli occhi degli utenti della giustizia, inducendo questi ultimi a vedere nella decisione definitiva non già un atto coercitivo, bensì, soprattutto, un atto di buon senso»[26]. Ost non nega la difficoltà di tratteggiare il ruolo che il giudice assume nelle attuali e inedite modalità di azione giuridica; a differenza del giudice immaginato da Dworkin[27], quello di Ost rappresenta ogni attore giuridico, quindi arbitro, mediatore, avvocato che nella sua attività ermeneutica non privilegia la volontà del legislatore, ma integra con altre fonti normative, come le convenzioni internazionali, la giurisprudenza, i principi generali del diritto e la dottrina. Una pluralità di attori giuridici, e una molteplicità dei livelli di potere contribuiscono a disegnare il quadro contemporaneo della pratica della giustizia.

Così come per il diritto, in cui il paradigma emergente della rete non determina la sparizione di quello stato-centrico, ma tratteggia un sistema complesso, composto da elementi contraddittori, anche per la giustizia possiamo pensare a un quadro in cui i tre modelli coesistono senza disegnare un ordine armonico, in cui i ruoli siano ben definiti e correlati alle funzioni istituzionali, ma piuttosto un sistema in cui nessuno dei modelli di azione giudiziaria prevale sull’altro.

È possibile, quindi, ipotizzare il declino del modello ottocentesco, mostrato dal giudice che impone una decisione fondata sulla legge, per rilevare l’emergere di quello contemporaneo, raffigurato dal giudice «comunicatore» che media tra istanze plurime, e che concepisce il processo giudiziario come un mezzo, tra gli altri, per realizzare la giustizia.

Privato della sua funzione esclusiva di interprete del diritto, il giudice contemporaneo, sottolinea Macdonald, è diventato il garante degli accordi e delle decisioni assunte da altri operatori giuridici, come gli arbitri e i conciliatori: egli non è più colui che «dice il diritto», ma piuttosto colui che garantisce e gestisce i «dits» risultanti da altri processi, più o meno formali[28].

Sebbene non sia realistico ipotizzare una forma di evoluzione lineare nella successione dei modelli, né tantomeno proporre un’interpretazione univoca del fenomeno dell’amministrazione della giustizia, secondo alcuni autori è possibile cogliere un modello «emergente» di giustizia che corrisponde al cambiamento culturale in atto e può essere designato come quello «modernità avanzata»[29].

 

 

2.2.2. – Modelli di giustizia dalla prima alla seconda modernità

 

Belley distingue tra un modello di giustizia della prima modernità, nato col processo di unificazione delle giustizie particolari alla fine del XIX secolo, dal modello della seconda modernità, o modernità avanzata.

Il primo, definito anche come modello «trionfante», presenta alcuni elementi che delineano il sistema tradizionale di giustizia: innanzitutto il carattere aggiudicativo della giustizia, incentrata sul processo e sul contraddittorio delle parti a cui segue una decisione del giudice, assunta sulla base di norme di diritto; un meccanismo di rappresentazione professionale, che vede le parti rappresentate dagli avvocati e lo Stato rappresentato dal giudice; il carattere statale dell’offerta di giustizia, che appare come una responsabilità esclusiva dello Stato sovrano, sia in materia civile che penale. Infine il modello dominante di giustizia presenta il carattere della differenziazione, espresso dalla forza dei simboli: la giustizia si esercita in un luogo speciale, come il palazzo di giustizia; secondo tempi propri, rappresentati dal calendario giudiziario; secondo un preciso rituale, illustrato dal codice di procedura[30].

In maggiore o minore misura, ciascuno di questi elementi viene messo in discussione nella pratica giuridica contemporanea, che rivela i tratti del modello di giustizia della seconda modernità, che viene definito anche come il modello «emergente».

Sia il giudizio, come strumento adeguato di risoluzione delle controversie[31], sia il ruolo degli avvocati e degli operatori giuridici[32], sia la statualità della giustizia[33], sia infine l’apparato simbolico e tecnico che la distanzia dalla società civile, hanno perso il loro vigore esplicativo di fronte alla domanda sociale di giustizia. «Come la società in generale – scrive Jean Guy Belley – anche la giustizia civile è giunta allo stadio della modernità avanzata, o seconda modernità. Questa richiede nuovi principi fondamentali che deriveranno da una teoria generale ispirata da un diritto sociale e riflessivo, in rottura col diritto statale e sovrano della prima modernità»[34].

La difficoltà di ricondurre un fenomeno estremamente fluido e differenziato in base ai differenti sistemi nazionali all’interno di uno schema esplicativo, non impedisce agli studiosi di cogliere alcuni aspetti significativi e ricorrenti nella pratica contemporanea della risoluzione delle controversie[35].

Se quindi appare azzardato, se non a prezzo di evidenti forzature, individuare i caratteri di un nuovo modello di giustizia, più adeguato ai nuovi fenomeni che segnano la postmodernità, tuttavia si possono osservare alcune tendenze nel funzionamento attuale della giustizia. Tra queste emerge con chiarezza l’affermarsi di procedure negoziali e conciliative, sia esterne al sistema statale di amministrazione della giustizia, sia interne[36].

Stati Uniti, Canada, Australia, così come la maggior parte degli Stati dell’Unione Europea[37], hanno mostrato una tendenza allo sviluppo e alla diffusione di modi consensuali di risoluzione delle controversie che hanno modificato radicalmente l’offerta di giustizia, introducendo modi cooperativi di gestione delle dispute, nuovi principi regolativi e competenze professionali.

 

 

2.2.3. – Risolvere le controversie e «dire il diritto»

 

Per interpretare i nuovi fenomeni della giustizia e le contraddizioni che derivano dalla coesistenza dei due modelli, Belley offre una chiave di lettura dei nuovi sistemi ibridi della giustizia che consentono di superare le dicotomie giudiziale/extragiudiziale e pubblico/privato nelle quali si è inceppato il dibattito giuridico e politico. Egli distingue e separa, ai fini dell’analisi, le due funzioni che vengono ascritte alla giurisdizione: quella di risoluzione dei conflitti e quella di «dire il diritto»[38], che possiamo chiamare anche di «orientamento sociale»[39].

In ogni decisione giudiziale vi è un dispositivo e una motivazione. Generalmente, le parti e i loro avvocati si interessano al primo, i giuristi e la società si interessano al secondo, perché vogliono conoscere i significati e le scelte impiegati in quella decisione. Con il primo si risolve il conflitto, col secondo si legittima, in fatto e in diritto, la sua soluzione[40].

Nell’atto della decisione possiamo cogliere quindi due distinte funzioni: prescrivendo determinate azioni, il giudice «inserisce il suo intervento nella logica strumentale di risoluzione dei conflitti»; motivando giuridicamente la sua decisione, il giudice «esercita la funzione simbolica di “dire il diritto”, di “precisare la comprensione pubblica di norme e valori ufficiali”»[41].

La funzione «strumentale» di risoluzione dei conflitti e quella «simbolica» dell’esplicazione pubblica di significati, sebbene si presentino strettamente connesse, sono logicamente indipendenti, e possono essere analizzate in modo del tutto separato.[42] Le due funzioni rispondono a distinti bisogni sociali che non vengono soddisfatti in egual misura dalle istituzioni che compongono il sistema della giustizia[43]. È noto infatti che le competenze delle magistrature inferiori e superiori, così come l’impiego di riti abbreviati o processi ordinari, rispondono a logiche differenti e a un’implicita gerarchizzazione degli obiettivi della giustizia.

Considerando la funzione di risoluzione dei conflitti, la distinzione fondamentale appare quella tra metodi cooperativi, il cui principio è quello di una ricerca consensuale della soluzione della disputa, e metodi competitivi, basati sulla vittoria di una parte a danno dell’altra. Per usare le parole di Deutsch, tra i primi ad impiegare questa terminologia in materia di risoluzione delle dispute, «in una situazione cooperativa, gli obiettivi sono talmente legati che le parti nuotano o annegano insieme, mentre in una situazione competitiva, se uno dei due nuota, l’altro annega»[44].

 La distinzione non può giustapporsi a quella tra strumenti giudiziali ed extragiudiziali. Dei metodi competitivi fanno parte infatti strumenti come l’arbitrato, ascritto alla famiglia dei metodi extragiurisdizionali, mentre tra i sistemi cooperativi possiamo annoverare una serie di procedure conciliative inserite nel sistema giurisdizionale.

Allo stesso modo andrebbe superata l’erronea credenza che associa la giustizia statale al processo giudiziario e quella privata a pratiche consensuali: volgendo un rapido sguardo al panorama internazionale della giustizia, si può osservare la tendenza a incrementare l’impiego di servizi consensuali di risoluzione dei conflitti sia al di fuori del sistema giurisdizionale, sia al suo interno, adottando pratiche di conciliazione affidate agli stessi giudici, o da questi delegate attraverso la nomina di mediatori[45] Altra anomalia che sfugge alla classificazione in uso è quella riguardante il massiccio ricorso all’arbitrato in materia commerciale, che rappresenta l’esempio più diffuso di una giurisdizione privata.

Opporre il modello giudiziale a quello extragiudiziale insomma, falsa la rappresentazione dell’attuale fenomeno degli strumenti di risoluzione delle controversie. Lo stesso «formante giudiziario», nota Ferrarese, sembra riprodursi in una serie di forme «atipiche e differenziate», che lo allontanano dalla ordinaria configurazione del giudizio, per mostrarcelo diluito in forme ibride, «quasi-judicial», in cui si passa dalla formula conciliativa a quella decisoria, senza soluzione di continuità, secondo un processo graduale che non permette più di rappresentare il giudizio e l’accordo come due distinte modalità di risoluzione delle controversie. È così che si verificano «forme di annessione e inglobamento, in cui le procedure informali non nascono in alternativa al percorso formale delle corti»[46], ma si intrecciano con questo, come ad esempio è accaduto in Canada.

Il sistema giustizia si rivela dunque molto più complesso e variegato di quanto non appaia dalle interpretazioni dottrinali, poiché si avvale sia di strumenti cooperativi che di pratiche processuali competitive per rispondere alla domanda sociale di risoluzione delle controversie.

Adottando l’analisi di Belley, la crisi della giustizia offre interessanti spunti di riflessione: questa infatti si manifesta in modi e con logiche differenti a seconda che riguardi la funzione risolutiva o quella di orientamento sociale: la prima mostra la diversificazione degli strumenti e l’abbandono dell’ideologia giudiziale, la seconda segnala l’abbandono di una lunga tradizione dogmatica dell’Occidente che ci induce ancora a credere che «le procedure di decisione autoritaria, basate o meno su una forma di contraddittorio come quella del processo, siano i vettori più efficaci della funzione simbolica perché dispongono degli attributi del potere»[47]. Questa rappresentazione autoritaria dei sistemi normativi si sfalda a contatto con i cambiamenti delle società contemporanee, in cui assistiamo alla crisi di tutte le forme decisionali fondate sull’autorità e alla crescente rivendicazione di autonomia e partecipazione alle scelte pubbliche da parte dei cittadini[48].

 

 

2.3. – Giustizia del diritto e senso di giustizia

 

Questo fenomeno suggerisce di affrontare il tema della giustizia con uno sguardo differente, che passa dai titolari della decisione delle dispute ai suoi destinatari. Come sottolinea Rocher, esiste una concezione giuridica e una concezione sociale della giustizia, che egli definisce come «cultura popolare della giustizia». Mentre la prima corrisponde a quella elaborata dai giuristi e dai filosofi, la seconda deriva dalle idee, aspirazioni e rappresentazioni della giustizia prodotte dall’opinione pubblica, o coscienza collettiva[49]. Sebbene questa cultura della giustizia sia in stretta relazione con quella elaborata dai giuristi ed espressa dal diritto, tuttavia presenta caratteri diversi: è infatti una cultura plurale, che sarebbe più appropriato definire come «cultura delle giustizie», che non viene ricondotta, a differenza da quella elaborata dal diritto, a un’idea unitaria[50].

Questo pluralismo riguarda un insieme di principi che sono in contraddizione – come il riconoscimento dei meriti, la risposta ai bisogni, la tutela dell’eguaglianza e il rispetto delle differenze – senza che vi sia alcun tentativo di sistematizzazione secondo un ordine normativo. La ragione deriva dal secondo dei caratteri di questa concezione sociale della giustizia, che viene elaborata senza fare ricorso al principio di autorità, dal basso, attraverso lo scontro tra le pretese dei gruppi e dei singoli, attraverso il confronto tra le denunce d’ingiustizia e le risposte che a queste vengono offerte.

Le due giustizie esistono dalla notte dei tempi: storicamente non vi è niente di nuovo in una concezione popolare della giustizia differente da quella elaborata dal diritto e dallo Stato: nella prima il senso di ingiustizia, personale e collettivo, ha un ruolo determinante nel ridefinire cosa sia giusto, nella seconda, lo sforzo di costruzione teorica della giustizia e di ciò che è giusto non lascia spazio alla considerazione dell’ingiustizia e la allontana inevitabilmente dalla realtà. Ma è in età contemporanea, con la democratizzazione del sapere e l’accessibilità dell’informazione, che la cultura popolare della giustizia ha acquistato una forza e razionalità tali da influenzare il diritto, che si apre a nuove forme di conoscenza e normatività[51].

Non vi è quindi niente di casuale nella fiducia sociale diffusa verso le pratiche di giustizia informale, verso i metodi consensuali di risoluzione delle dispute come la mediazione, che si rivelano coerenti con una ricerca di giustizia aperta a nuovi valori, che viene definita dall’intervento diretto delle parti e appare più rispondente ai loro interessi.

L’incidenza di queste istanze sociali sulla concezione giuridica della giustizia si manifesta nel dibattito intorno all’accesso alla giustizia, che mette in relazione la definizione sociale della giustizia con quella giuridica. Il tema dell’accesso, generalmente ricondotto al diritto di agire in giudizio per la tutela dei propri diritti, assume una portata più ampia che si avvicina alla concezione sociale della giustizia, in cui ‘rendere giustizia’ e ‘ottenere giustizia’ non rappresentano due differenti aspetti del medesimo fenomeno giudiziario, ma modalità potenzialmente diverse attraverso le quali si risolvono le dispute e riaffermano i diritti.

Nella cultura popolare della giustizia, ‘accesso’ non significa solo poter usufruire degli strumenti che lo Stato mette a disposizione dei suoi cittadini che intendono risolvere i loro conflitti, significa anche ridefinire cosa essi intendano per giustizia, e quali rimedi effettivi le istituzioni offrano per eliminare o ridurre l’ingiustizia. Insomma, l’accesso alla giustizia indica il modo in cui le persone costruiscono, con l’aiuto del diritto, il loro, personale, senso di giustizia.

 

 

2.4. – Il movimento di accesso alla giustizia

 

Per questo appare opportuno soffermarsi sul movimento di accesso alla giustizia che rappresenta una delle risposte più rilevanti alla crisi del diritto e della giustizia in età contemporanea. In tal senso l’espressione «accesso alla giustizia» indica un movimento di pensiero e di riforme che, a partire dalla seconda metà del secolo scorso, ha attraversato il mondo occidentale per la rivendicazione e la tutela effettiva dei diritti[52]. Tra i suoi fautori non figurano solo giuristi, ma anche sociologi, antropologi, psicologi che hanno teorizzato un approccio metodologico antidogmatico e interdisciplinare ai temi della giustizia, intesa come possibilità, offerta a tutti, di godere dei propri diritti. Piuttosto che soffermarsi sul contenuto dei diritti e indagarne gli aspetti sostanziali, il movimento si è concentrato sul ‘diritto ai diritti’, cioè su quelle condizioni di possibilità dei diritti legate alla loro tutela e attuazione[53]. Il termine ‘accesso’ sta dunque ad indicare quelle condizioni preliminari di equità che devono essere garantite a ciascuno perché possa formulare la domanda di giustizia. Il termine ‘giustizia’ ha assunto diversi significati nel corso dell’evoluzione del movimento, passando da quello giurisdizionale di applicazione del diritto, a quello, come vedremo nei prossimi paragrafi, di risoluzione del conflitto attraverso il diritto[54]. La giustizia non viene intesa solo come una pratica giudiziale di risoluzione dei conflitti, volta all’attuazione e al riconoscimento dei diritti, ma come una pratica sociale finalizzata alla loro efficacia, volta a ottenere un reale miglioramento della vita delle persone attraverso il diritto. Riprendendo la distinzione di Amartya Sen, possiamo dire che è la giustizia nyaya l’oggetto delle ricerche, degli studi e delle iniziative di accesso alla giustizia. Secondo Mauro Cappelletti, la sua importanza sta nel fatto che ha prodotto una «rivoluzione copernicana» nella concezione del diritto. Si è passati da una concezione tradizionale «tolemaica» in cui il diritto viene visto dal punto di vista dei suoi «produttori» e del loro prodotto, come il legislatore e la legge, la pubblica amministrazione e l’atto, il giudice e la sentenza, alla prospettiva dei suoi destinatari, quelli che vengono chiamati, utilizzando la metafora mercantile, i «consumatori del diritto e della giustizia», ovvero i cittadini, i gruppi e la società nel suo insieme[55].

L’attenzione dei giuristi si è soffermata sui meccanismi processuali e giurisdizionali che rappresentano una condizione essenziale per l’effettivo godimento dei diritti[56]. Tutti quegli ostacoli di ordine economico, organizzativo e sociale che non permettono di accedere alle forme di tutela, generando diseguaglianze sociali, sono divenuti, nell’arco di cinquant’anni, oggetto di studi, analisi e riforme che hanno riguardato principalmente gli aspetti processuali del diritto in numerosi paesi[57].

I significati che l’espressione racchiude possono essere incanalati in due grandi ambiti tematici: il primo riguarda la concezione del diritto espressa, anche se non esplicitamente teorizzata, dai teorici dell’accesso. Essi rifiutano il dogmatismo derivato dal giuspositivismo formalista che, identificando il diritto con le norme e esasperandone gli aspetti formali, ne ha abbandonato la dimensione sociale; il secondo a quell’insieme di riforme che, in misura e con intensità differente, hanno riguardato il diritto processuale della maggior parte degli Stati occidentali.

La concezione teorica da cui il movimento prende le mosse è quella espressa dalle teorie antiformaliste che segnano il grande cambiamento nella cultura giuridica europea e statunitense del secolo scorso. Sia il movimento del Diritto libero, che rivendica il nuovo ruolo creativo dell’interprete e la dimensione sociale del diritto[58], sia le dottrine del realismo giuridico americano che considerano l’efficacia del diritto, piuttosto che la sua validità formale, il criterio della sua vigenza, forniscono ai teorici dell’accesso alla giustizia la premessa per formulare la loro proposta teorica[59]. Mentre le teorie giusrealiste esplorano l’ambito istituzionale del diritto, indagando il ruolo del giudice nella sua funzione creativa di nuovo diritto[60], il movimento estende la sua analisi da una prospettiva istituzionale a una sociale del diritto, considerando tutti quegli elementi che fanno del diritto una pratica sociale, inserita in una fitta rete di persone, istituzioni e processi, attraverso i quali si sviluppa e si impone. I suoi teorici affermano una concezione «contestuale» del diritto[61], che ne considera l’efficacia in una triplice dimensione: quella dell’istanza sociale a cui il diritto intende dare una risposta, quella della soluzione giuridica individuata, sia dal punto di vista normativo, sia istituzionale, e infine quella dei risultati sociali ottenuti[62]. L’analisi del giurista diventa più complessa, perché acquista una dimensione realistica, come scrive Cappelletti, «[…] essa non si limita più ad accertare, ad esempio, che per promuovere l’inizio di un processo, o per sollevare un’impugnazione, si devono osservare certi precetti formali, ma implica altresì un’analisi dei tempi richiesti per ottenere il risultato voluto, dei costi da affrontare, delle difficoltà anche psicologiche da superare, dei benefici ottenibili, ecc. A sua volta, l’analisi del diritto sostanziale non può più limitarsi a prendere atto, ad esempio, del fatto che certe norme, magari a livello costituzionale, proclamano l’esistenza di determinati obblighi o diritti, o la protezione dell’ambiente o dei consumatori, o della salute, ma deve estendersi a una visione critica degli strumenti offerti agli individui e ai gruppi per rendere effettiva tale protezione»[63].

Da ciò deriva il secondo dei grandi ambiti tematici dell’accesso alla giustizia, quello delle riforme, volte a ridurre le diseguaglianze sociali nascenti da ostacoli economici – che riducono l’accesso alla giurisdizione delle fasce sociali disagiate – organizzativi – che impediscono la tutela di interessi collettivi – e infine processuali – che impediscono un’adeguata tutela dei diritti ricorrendo al solo strumento giurisdizionale.

 

 

2.4.1. – Florence Project on Access to Justice

 

Il movimento trova la sua definizione e consacrazione, nella ricerca coordinata da Mauro Cappelletti, dal titolo Florence Project on Access to Justice, pubblicata nel 1978 e nota come la più ampia indagine svolta sul tema dell’accesso alla giustizia[64]. Oltre a fornire un’imponente massa di dati empirici, relativi al panorama mondiale dei sistemi di giustizia, l’opera definisce l’impianto teorico del movimento attraverso un metodo interdisciplinare e l’analisi comparatista[65].

Nell’introduzione generale, Cappelletti e Garth individuano nel concetto di «accesso alla giustizia» una chiave di lettura della salute delle democrazie contemporanee. L’espressione «accesso alla giustizia», indica due scopi essenziali dei sistemi giuridici, attraverso i quali le persone possono rivendicare i diritti e risolvere le controversie sotto gli auspici dello Stato: per il primo il sistema deve essere ugualmente accessibile a tutti, per il secondo deve essere finalizzato a risultati che siano individualmente e socialmente giusti. Sebbene gli autori precisino che la ricerca si concentra sul primo dei due scopi, sottolineano la stretta relazione tra i due: in un sistema orientato alla giustizia sociale, come richiesto dalle democrazie contemporanee, vi deve essere un’eguale possibilità, per tutti i cittadini, di rivendicare e tutelare i propri diritti[66].

Partendo dall’idea che le regole e le tecniche processuali hanno una funzione sociale e che il processo non deve essere concepito solo nella sua veste strutturale e formale, ma anche come una pratica che ha un rilevante impatto sociale[67], gli autori individuano tre «ondate», in successione cronologica, nel movimento per l’accesso alla giustizia che segnalano il progressivo allontanamento dal modello giudiziale e stato-centrico, enucleato dalla teoria generale del diritto novecentesca.

La prima, collocabile nel secondo dopoguerra fino agli anni Settanta, riguarda la possibilità di fornire assistenza legale anche ai cittadini non abbienti. A questa segue, a partire dai primi anni Settanta, una seconda ondata di riforme, che riguarda la tutela degli interessi diffusi, la cui rappresentazione in giudizio introduce una vera e propria «metamorfosi» nella procedura civile[68], tradizionalmente improntata ad uno schema individualistico: dalla tutela individuale dei diritti si è passati al riconoscimento delle azioni collettive, dall’idea di diritti individuali si è giunti al riconoscimento di diritti appartenenti a gruppi e parti della società, per la tutela dei quali interi gruppi, o classi di persone, sono legittimati ad agire in giudizio; tra gli strumenti individuati, la class action rappresenta uno dei più diffusi ed efficaci[69].

La terza ondata infine, collocabile sul finire degli anni Settanta, consiste in un «access-to-justice approach», che si concentra su quell’insieme di istituzioni e metodi, giudiziali ed extragiudiziali, pubblici e privati, usati per regolare le controversie nelle società contemporanee, che migliorano l’accesso alla giustizia[70]. In questa terza fase l’attenzione si sposta dal processo alla controversia, dalle barriere che impediscono l’accesso alle Corti, ai limiti, propri anche dello strumento processuale, che impediscono una reale tutela dei diritti e una soddisfacente composizione degli interessi delle parti.

Basandosi sull’argomento secondo cui i metodi di risoluzione devono differenziarsi in relazione alle differenti tipologie di dispute[71], Cappelletti e Garth individuano nei metodi alternativi di risoluzione delle controversie, come ad esempio l’arbitrato, la mediazione e la conciliazione delle parti, uno degli strumenti per migliorare l’accesso alla giustizia.

Mentre nelle prime due ondate vi era un implicito orientamento normativo e giurisdizionale, visibile sia negli strumenti individuati per l’assistenza legale, sia negli aspetti tecnico-giuridici delle riforme per la tutela degli interessi collettivi, nella terza ondata si coglie una diversa prospettiva giuridica, proprio in relazione ai differenti metodi di composizione delle dispute, presentati come alternativi al processo, e a un nuovo significato di giustizia, che Cappelletti definisce «coesistenziale». «Essa può portare al riavvicinamento delle posizioni, a soluzioni in cui non vi sono necessariamente un perdente ed un vincitore, ma piuttosto una reciproca comprensione, una modificazione bilaterale dei comportamenti»[72].

Per riferirci all’ipotesi formulata da Ost, è proprio nella terza ondata che cominciano a manifestarsi quelle ‘anomalie’, rappresentate dal ricorso agli strumenti extragiurisdizionali, che il modello giuridico dominante non è in grado di spiegare e integrare nei suoi principi. Ed è qui, nella terza ondata, che possiamo cogliere il cambiamento del significato di ‘accesso alla giustizia’, intesa non più come possibilità offerta a tutti di accedere alla tutela giurisdizionale dei diritti, ma come possibilità, offerta a tutti, di risolvere le controversie attraverso il diritto[73].

 

 

2.4.2. – La terza ondata: gli strumenti alternativi di risoluzione delle controversie

 

Negli stessi anni in cui si sviluppava il progetto di accesso alla giustizia dell’Università di Firenze, maturava negli Stati Uniti il grande movimento di riforma della giustizia, le cui linee programmatiche vennero discusse e illustrate nel 1976, durante la Pound Conference dedicata all’analisi delle «Cause dell’insoddisfazione popolare nei confronti dell’amministrazione della giustizia»[74]. Fu in quell’occasione che Frank Sander, professore di diritto all’università di Harvard, illustrò una proposta per migliorare la qualità del sistema giurisdizionale, destinata ad incidere profondamente sulle future riforme del sistema processuale americano. Considerando che ogni controversia è differente e pertanto anche i metodi di risoluzione delle dispute debbono esserlo, Sander propose di alleggerire il carico delle Corti ricorrendo a sistemi alternativi al processo ordinario, come la mediazione o l’arbitrato[75]. Da qui nacque l’espressione «Alternative Dispute Resolution Method», per indicare un sistema alternativo alla giurisdizione dello stato che consentisse soluzioni soddisfacenti, rapide e poco costose delle controversie[76]. Da quando Frank Sander la pronunciò, la dottrina ha lavorato sulla parola «Alternative», per sostenere che i metodi consensuali, e tra questi in particolare la mediazione, non devono essere considerati strumenti alternativi al processo, che si pongono in contraddizione con i suoi principi, ma come metodi adeguati a regolare determinate controversie, che si integrano con gli altri strumenti giuridici, formando un sistema armonioso e complesso di gestione delle dispute[77]. La «A» di «Alternative» è stata interpretata quindi come «Appropriate», per indicare un modello integrato di metodi di risoluzione delle controversie, in luogo di uno bipolare, fondato sull’opposizione tra la giurisdizione dello stato e meccanismi privati e informali[78].

Ma non tutti gli autori condividono questa ipotesi interpretativa: «Appare per lo meno strano parlare di “modi appropriati” – scrive Lafond – per designare le vie alternative»[79]. Sono i caratteri del conflitto, la situazione delle parti e le loro disponibilità economiche che determineranno il carattere appropriato o meno del modo di gestione della disputa. Né la mediazione, né il processo possono infatti essere correttamente definiti come modi appropriati, prescindendo dalla natura del conflitto: in alcuni casi la mediazione sarà appropriata, in altri lo sarà il processo. Trasformare l’alternatività in adeguatezza equivale a spogliare i modi consensuali dei propri caratteri distintivi, eliminandone la specificità. Ma, come vedremo, nel prossimo capitolo, è proprio la loro ‘adeguatezza’ che permetterà di inglobare questi metodi nel sistema della giustizia tradizionale.

In questi ultimi quarant’anni, l’espressione «Alternative Dispute Resolution» è stata impiegata sia per descrivere un insieme di metodi di composizione delle controversie[80], sia per alludere a un modello di giustizia più flessibile dei rigidi meccanismi processuali e adeguato ai bisogni dei cittadini, sia infine per denotare un fenomeno di proporzioni mondiali, che investe, in maniera più o meno omogenea, America, Europa, Australia e Asia[81]. L’analisi comparatistica sul tema ne ha messo in luce elementi e obiettivi, che permettono di avvicinare ordinamenti di common law e di civil law in una comune prospettiva di riforma dell’offerta di giustizia[82]. Ma, proprio perché si tratta di pratiche sociali che s’inseriscono in un contesto di istituzioni, credenze e cultura, ciascuna si declina in modo differente nei diversi sistemi giuridici. Accanto all’universalità, dobbiamo dunque considerarne le differenze che suggeriscono grande cautela nella riproduzione acritica di modelli e pratiche di mediazione da un luogo ad un altro[83].

Sotto l’etichetta di ADR, troviamo pratiche molto diverse, che talvolta gli stessi esperti accostano con difficoltà[84]; si va da sistemi eteronomi, come l'arbitrato, in cui un terzo, scelto dalle parti, esprime una decisione vincolante sulla base di norme giuridiche, a sistemi autonomi, come la conciliazione e la mediazione, in cui sono le parti, aiutate da un terzo imparziale, a trovare la soluzione al conflitto che le divide[85].

Tuttavia vi sono alcuni caratteri che ricorrono, in gradi diversi, in queste pratiche di gestione dei conflitti: l’extragiurisdizionalità, l’informalismo delle pratiche[86] la presenza di un terzo imparziale, che facilita o propone un accordo fra le parti, la riservatezza che caratterizza gli incontri tra le parti e il mediatore.

Ma non tutti i metodi condividono questi caratteri: infatti non tutti sono informali, l’arbitrato ne è il massimo esempio, e non tutti sono extragiurisdizionali, come mostrano le forme definite court-annexed, o endoprocessuali, che si sono sviluppate nell’ambito dell’attività delle corti[87]. Essi presentano piuttosto fra loro delle affinità o, per usare la celebre espressione di Wittgenstein, ‘somiglianze di famiglia’[88]. Così, quando parliamo di ADR, non stiamo indicando un gruppo omogeneo in cui tutti i membri presentano le stesse proprietà, ma piuttosto una famiglia di metodi che ne mostrano, tutti in diversa misura, solo alcune e non altre.

A questi elementi, che ne designano la struttura, dobbiamo aggiungere quelli che ne definiscono gli obiettivi. Mentre il sistema processuale di risoluzione delle controversie segue una logica binaria e competitiva, basata sull’idea di ragione e torto, di vittoria e sconfitta, i metodi ADR seguono una logica cooperativa, che privilegia la ricerca di soluzioni soddisfacenti per entrambe le parti, basate sulla comunicazione e sul confronto degli interessi. Come ha notato Adler, «nonostante l’ampia varietà di situazioni, c’è una somiglianza di base nella struttura e ideologia di molte forme di ADR. Esse condividono un interesse verso modi consensuali e non violenti di raggiungere gli accordi, in opposizione a un metodo formale e avversariale di trattare i conflitti»[89].

In questi ultimi venti anni la progressiva formalizzazione dell’arbitrato e il suo carattere ‘giudiziale’ lo hanno ulteriormente differenziato dai metodi ADR, tanto da indurre gli studiosi e la stessa Unione Europea, come vedremo, a escluderlo dalla categoria[90]. Tra gli ADR la mediazione occupa un posto centrale, sia per la maggiore flessibilità delle sue pratiche, sia per la sua adattabilità a contesti e ordinamenti giuridici diversi, sia infine per il modello di giustizia e di ordine sociale che veicola. Possiamo definirla come «un procedimento in cui le parti e i loro avvocati si incontrano con un mediatore neutrale, che ha il compito di assisterle nella ricerca di una soluzione della controversia. Il mediatore migliora la comunicazione tra le parti, le aiuta a manifestare più chiaramente i propri interessi e a capire quelli dell’altra parte; saggia i punti di forza e quelli di debolezza delle rispettive posizioni giuridiche, identifica aree di possibile accordo e aiuta le parti a formulare ipotesi di soluzione su cui ambedue possano concordare»[91].

La rapida diffusione della mediazione ha suscitato un ampio e vivace dibattito che ha diviso il mondo giuridico, sia negli Sati Uniti, sia in Europa. Oltre a coloro che ne hanno sostenuto la validità giuridica[92] e a quelli che ne hanno valutato positivamente la portata sociale[93], sono numerosi gli studiosi che hanno guardato con diffidenza e sfavore all’avvento dei metodi non giudiziali di risoluzione delle controversie. Negli Sati Uniti, dove il fenomeno si è sviluppato fin dagli anni settanta, i metodi ADR sono stati interpretati dai sociologi come uno strumento per creare nuovi equilibri politici al di fuori delle garanzie costituzionali[94] e dai giuristi come una palese violazione del principio di legalità[95]. Questi sistemi sono stati guardati come alternativi alla giustizia, più che al processo: ‘corpi estranei’, inseriti nell’ordinamento allo scopo di alleggerire il carico dei tribunali[96]. A tali critiche si è replicato in vari modi, che hanno privilegiato gli argomenti dell’opportunità, dell’efficienza e della soddisfazione sociale, senza tuttavia rivendicare per queste forme cooperative una vera e propria dignità giuridica, giustificata dai principi dell’ordinamento.

Uno sguardo alla storia degli Alternative Dispute Resolution ci permette di capire che le aspre divisioni suscitate da questo strumento così ‘mite’ derivano da un’ambiguità iniziale insita nelle funzioni che gli sono state assegnate e nel relativo programma di giustizia che annuncia.

 

 

 



 

[1] T. Mazzarese, La giustizia del diritto, Relazione presentata al XXX Congresso della Società Italiana di Filosofia del diritto, «Limiti del diritto», Lecce, 15-17 luglio 2016. Cfr. F. Viola, che parla delle «numerose res novae, che si presentano come istanze emergenti all’interno del mondo giuridico e attendono di essere adeguatamente metabolizzate dalla cultura giuridica contemporanea», Il futuro del diritto, Lectio magistralis, Università di Palermo, 26 novembre 2012 (p. 1).

 

[2] Tra l’ampia letteratura sul tema, cfr. T. Hagan, The End of Law?, Oxford, Basil Blackwell, 1984; B. De Sousa Santos, Law: a Map of Misreading. Towards a Postmodern Conception of Law, in Journal of Law and Society, 14, 3, 1987, pp. 279-302; N. Irti, Nichilismo giuridico, Roma-Bari, Laterza, 2005; P. Rossi (a cura di), Fine del diritto?, Bologna, Il Mulino, 2009; M. Vogliotti (a cura di), Il tramonto della modernità giuridica, Torino, Giappichelli, 2008.

 

[3] S. Cassese, Eclissi o rinascita del diritto, in P. Rossi (a cura di), Fine del diritto?, cit., pp. 29-36.

 

[4] F. Ost - M. Van de Kerchove, De la pyramide au réseau. Pour une théorie dialectique du droit, Bruxelles, Publications des Facultés Universitaires Saint-Louis, 2002. Ma si vedano le riflessioni di P. Prodi, Una storia della giustizia, Bologna, Il Mulino, 2000.

 

[5] M. La Torre, Cittadinanza e ordine politico. Diritti, crisi della sovranità e sfera pubblica: una prospettiva europea, Torino, Giappichelli, 2004, p. 83 ss.; F. Viola, Il Rule of Law e il pluralismo giuridico contemporaneo, in M. Vogliotti (a cura di), Il tramonto della modernità giuridica, cit., 95-125; P. Grossi, Ritorno al diritto, Roma-Bari, Laterza, 2015, 29.

 

[6] T. Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Torino, Einaudi, 1978.

 

[7] Ivi, p. 43.

 

[8] Ost chiarisce l’uso improprio della teoria nell’ambito delle scienze umane, in cui non esiste «quel consenso forte e diffuso intorno a un paradigma che caratterizza, invece, le scienze empiriche», tuttavia ne rivendica l’efficacia in relazione al modello giuridico moderno, i cui caratteri sono universalmente riconosciuti, F. Ost, Dalla piramide alla rete: un nuovo paradigma per la scienza giuridica?, in M. Vogliotti, (a cura di), Il tramonto della modernità giuridica, Torino, Giappichelli, 2008, 29-48. (p. 32.)

 

[9] Cfr. B. Pastore, che riprende il paradigma della piramide e della rete proposto da Ost, Interpreti e fonti nell’esperienza giuridica contemporanea, Torino, Giappichelli, 2014, p. XII; 25 ss. Si veda inoltre G. Pino, La gerarchia delle fonti del diritto. Costruzione, decostruzione, ricostruzione, in Ars Interpretandi, 2011, n. 16, 19-56.

 

[10] Si vedano le riflessioni di M. Barberis, Europa del diritto, Bologna, Il Mulino, 2008, sull’impiego del paradigma della rete nella letteratura giuridica, che si presta meglio di quello piramidale a definire alcuni aspetti del diritto comunitario. «[…] vi sarebbero molte ragioni per abbandonare il modello piramidale a favore di un modello a rete: se non fosse che il secondo è orizzontale, e tende ad appiattire i rapporti fra norme giuridiche a un solo piano, mentre il primo è verticale, e dunque si presta meglio a spiegare il carattere multilivello di diritto statale, internazionale e comunitario» (p. 256). Per questo conclude per un rovesciamento del modello piramidale che esclude l’idea di un modello ordinato, ma permette di conservare una prospettiva verticale, esclusa dalla rete (p. 297).

 

[11] F. Ost, Dalla piramide alla rete: un nuovo paradigma per la scienza giuridica?, cit., 32.

 

[12] Cfr. A. J. Arnaud, Le sfide della globalizzazione alla modernità giuridica, in M. Vogliotti (a cura di), Il tramonto della modernità giuridica, cit., 77-94 (p. 79).

 

[13] M.R. Ferrarese, La globalizzazione del diritto: dalla «Teologia politica» al «diritto utile», in M. Vogliotti (a cura di), Il tramonto della modernità giuridica, cit., pp. 49-76 (p. 59). Si veda inoltre per un’analisi politica della centralità del giudiziario, Id., Magistratura, virtù passive e stato attivo, in Democrazia e diritto, 1997, n.1, 111-132.

 

[14] M. Delmas-Marty, Les forces imaginantes du droit (III). La refondation des pouvoirs, Paris, Éditions du Seuil, 2007, 42 ss. B. Pastore, Il diritto internazionale in un mondo in trasformazione: verso un diritto giurisprudenziale?, in Ars Interpretandi, 2001, n. 6, 157-193. Cfr. V. Ferrari, La giustizia come servizio. Centralità della giurisdizione e forme alternative di tutela, in Studi di diritto processuale in onore di Giuseppe Tarzia, Tomo I, Milano, Giuffrè, 2005, 47-66.

 

[15] La funzione di risoluzione dei conflitti e la funzione simbolica di «dire il diritto» sono due attività diverse: la prima non è esclusiva del giudice, ma viene svolta anche da altre figure, come l’arbitro e il conciliatore, la seconda riguarda l’applicazione delle norme, anch’essa non esclusiva del giudice, ma condivisa con il ruolo amministrativo, sul punto E. Castrucci, Il problema dell’indipendenza e dell’imparzialità della magistratura, in Studi senesi, 2011, n. 2, pp. 214-239.

 

[16] Cfr. sul punto le osservazioni di I. Trujillo, sulla relazione tra imparzialità e giustizia, Imparzialità, cit., 29 ss.; sulla giurisdizione B. Pastore, Decisioni e controlli tra potere e ragione, Torino, Giappichelli, 2013, 61 ss.

 

[17] Cfr. S. Romano, L’ordinamento giuridico. Studi sul concetto, le fonti e i caratteri del diritto, Firenze, Sansoni, 1946; R. Macdonald, L’hypothèse du pluralisme juridique dans les sociétés démocratiques avancées, in Revue de Droit Université de Sherbrooke (R.D.U.S.), 2003, vol. 33, n.1-2, 135-152. Sul rinnovato interesse per la teoria del pluralismo giuridico cfr. J. Vanderlinden, Return to Legal Pluralism: Twenty Years Later, in The Journal of Legal Pluralism and Unofficial Law, 21, 1989, 149-157; F. Viola, Il Rule of Law e il pluralismo giuridico contemporaneo, in M. Vogliotti (a cura di), Il tramonto della modernità giuridica, cit., 96-128; cfr. inoltre i saggi raccolti in V. Ferrari - P. Ronfani - S. Stabile (a cura di), Conflitti e diritti nella società transnazionale, Milano, FrancoAngeli, 2001.

 

[18] F. Ost, Jupiter, Hercule, Hermès: trois modèles du juge», in P. Bouretz (sous la direction de), La force du droit. Panorama des débats contemporaines, Paris, Éditions Esprit, 1991, 242.

 

[19] D. Kertzer, Riti e simboli del potere, Roma-Bari, Laterza, 1989, che definisce il rito «un comportamento simbolico ripetitivo e socialmente standardizzato […] esso segue delle sequenze uniformi e notevolmente strutturate e si svolge in determinati luoghi e in determinate occasioni, a loro volta dotati di uno speciale significato simbolico», 9.

 

[20] A. Garapon, Del giudicare, Milano, Raffaello Cortina, 2007 (Bien juger. Essai sur le rituel judiciaire, Paris, 2001), 201 ss. in particolare il cap. I, dedicato a «Lo spazio giudiziario»; si veda inoltre il volume di J. Resnik - D. Curtis, interamente dedicato alla rappresentazione iconografica e architettonica della giustizia, Representing Justice. Inventions, Controversy, and Rights in City-States and Democratic Courtrooms, New Haven and London, Yale University Press, 2011.

 

[21] Sul concetto di legalismo e logicismo, cfr. L. Lombardi Vallauri, Saggio sul diritto giurisprudenziale, Milano, Giuffrè, 1975, 201 ss.

 

[22] F. Ost, Jupiter, Hercule, Hermès: trois modèles du juge, cit., 247-249.

 

[23] Ivi, 250.

 

[24] A. Garapon, Del giudicare, cit., 209.

 

[25] Ivi, 210.

 

[26] Ibidem.

 

[27] R. Dworkin, L’impero del diritto, Milano, Il Saggiatore, 1989 (Law’s Empire, 1986), p. 294 ss. Ost precisa che il giudice Hermes richiamato da Dworkin si differenzia dal proprio per almeno due caratteri: il primo è che si tratta di un giudice; il secondo è che risponde a un’ideologia legalista, perché giudice interpreta la legge in funzione della volontà del legislatore, Jupiter, Hercule, Hermès: trois modèles du juge, cit., 244.

 

[28] R. Macdonald - A. Law, Le juge et le citoyen: une conversation continue, in A. Riendeau (sous la direction de), Dire le droit: pour qui et à quel prix?, Montréal (Québec), Wilson & Lafleur, 2005, 5-21 (12-13).

 

[29] J. G. Belley, Une justice de la seconde modernité: proposition des principes généraux pour le prochain code de procédure civile, in McGill Law Journal, 2001, n. 46, 317-372 (336-337); 336.

 

[30] J. G. Belley, Une justice de la seconde modernité: proposition des principes généraux pour le prochain code de procédure civile, cit., 336-337. Sulla funzione simbolica svolta dal processo, A. Garapon, Del giudicare, cit.; O. Chase, Gestire i conflitti. Diritto, cultura, rituale, Roma-Bari, Laterza, 2009, (Law, Culture and Ritual: Disputing Systems in Cross-Cultural Context, New York, 2007), 136-148.

 

[31] Macdonald, R., L’Hypothèse du pluralisme juridique dans les sociétés démocratiques avancés, cit., 135-153.

 

[32] Macfarlane J., The New Lawyer: How Settlement is Transforming the Practice of Law, Vancouver, University British Columbia Press, 2008.

 

[33]Auerbach J. S. Justice Without Law?, New York-Oxford, Oxford University Press, 1983; P. Noreau, La justice est-elle soluble dans la procédure? Repères sociologiques pour une réforme de la justice civile, in Les Cahiers de droit, 1999, vol. 40, 33-56.

 

[34] J. G. Belley, Une justice de la seconde modernité, cit., 317.

 

[35] M. Taruffo, Sui confini. Scritti sulla giustizia civile, Bologna, Il Mulino, 2002, 11-23.

 

[36] In tal senso si esprimono OST e VAN DE KWERCHOVE, De la pyramide au réseau. Pour une théorie dialectique du droit, cit., 106.

 

[37] Cfr. per una visione d’insieme, N. Alexander (ed.), Global Trends in Mediation, second edition, Alphen an der Rijn (NL), Kluwer Law International, 2006.

Anche gli Stati asiatici presentano sistemi consensuali di risoluzione delle controversie molto radicati e diffusi, tuttavia le radici culturali che ne giustificano la grande diffusioni ed efficacia sono differenti e meritano una trattazione specifica, sul punto si veda M. Taruffo, Dimensioni transculturali della giustizia civile, in Rivista di diritto e procedura civile, 2000, n. 4, 1047-1084, ora in Id., Sui confini, Bologna, Il Mulino, 2002, 11-52; G. Cosi, Modelli culturali e sistemi di gestione dei conflitti, in Id., Scritti sulla mediazione, Milano, Giuffrè, 2007, 148 ss.

 

[38] J.G. Belley, Une justice de la seconde modernité, cit., 325-326.

 

[39] V. Ferrari, Funzioni del diritto, cit., 91.

 

[40] P. Comanducci, Ragionamento giuridico, in M. Bessone - E. Silvestri - M. Taruffo (a cura di), I metodi della giustizia civile, Padova, Cedam, 2000, 79-136; D. Canale, Il ragionamento giuridico, in G. Pino - A. Schiavello - V. Villa (a cura di), Filosofia del diritto, Torino, Giappichelli, 2013, 316-351.

 

[41] J.G. Belley, Une justice de la seconde modernité, cit., 325-326; si vedano le riflessioni di E. Castrucci, Il problema dell’indipendenza e dell’imparzialità della magistratura, cit., 220 ss.

 

[42] È quello che propongono W. M. Landes e R. A. Posner, interpretando la giustizia secondo il paradigma del mercato e ipotizzando l’industria privata dei servizi giudiziari, Adjudication as a Private Good, in Journal of Legal Studies, 1979, n. 8, 235-284.

 

[43] Cfr. M.R. Damaška, I volti della giustizia e del potere. Analisi comparatistica del processo, Bologna, Il Mulino, 1991.

 

[44] M. Deutsch, The Resolution of Conflict, New Haven and London, Yale University Press, 1973, 20.

 

[45] V. Varano, L’altra giustizia: i metodi alternativi di soluzione delle controversie nel diritto comparato, Milano, Giuffrè, 2007.

 

[46] M.R. Ferrarese, Formante Giudiziario e mediazione. Confluenze e differenze, in N. Trocker - A. De Luca (a cura di), La mediazione civile alla luce della Direttiva 2008/52/CE, cit., 1-11 (5).

 

[47] J.G. Belley, Une justice de la seconde modernité, cit., 333.

 

[48] «Il diritto sta evolvendo da un diritto “imposto” verso un ordine “negoziato”: la produzione delle norme giuridiche assume un carattere sempre più “partecipativo”, discostandosi dalla natura autoritaria che caratterizzava la modernità giuridica», così A. J. Arnaud, Le sfide della globalizzazione alla modernità giuridica, in M. Vogliotti (a cura di), Il tramonto della modernità giuridica, cit., 77-94.  (79).

 

[49] G. Rocher, Le droit et la justice: un certain regard sociologique, in Cahiers du Droit, 2001, vol. 42, n. 3, 873-882 (877-878).

 

[50] Cfr. l’analisi di C. Perelman, La giustizia, cit., che, nell’elaborazione del concetto di giustizia, considera l’esistenza di almeno sei formule che corrispondono alle concezioni più usuali della nozione di giustizia, rilevando che «queste formule sono inconciliabili», p. 28. Cfr. inoltre sull’analisi di Perelman e la contraddittorietà del concetto di giustizia L. Lombardi Vallauri, Corso di filosofia del diritto, Padova, Cedam, 1981, 213 ss.

 

[51] G. Rocher, Le droit et la justice: un certain regard sociologique, cit., 879.

 

[52] Cfr. per un approccio istituzionale al tema, che illustra lo sviluppo delle riforme negli Stati Uniti e l’attuale «shameful gap between our rethorical committment and daily practices concerning access to justice», D.L. Rhode, Access to Justice, Oxford, Oxford University Press, 2004, 5.

 

[53] Per un’analisi dei diritti fondamentali sull’applicazione giudiziale del diritto, si veda T. Mazzarese, Diritti fondamentali e neocostituzionalismo. Un inventario di problemi, in Id. (a cura di), Neocostituzionalismo e tutela (sovra)nazionale dei diritti fondamentali, Torino, Giappichelli, 2002, 1-69. Si veda ivi, M. Taruffo, Diritti fondamentali, tutela giurisdizionale e alternative, in T. Mazzarese (a cura di), Neocostituzionalismo e tutela (sovra)nazionale dei diritti fondamentali, cit., 189-205, che distingue, dal punto di vista del processualista, tra diritti sostanziali e diritti processuali, 189.

 

[54] Cfr. A. Osti, Teoria e pratica dell’accesso alla giustizia. Un raffronto tra ordinamento nazionale e ordinamenti esteri, Milano, Giuffrè, 2016, che definisce l’accesso alla giustizia come «la possibilità per ogni essere umano di accedere agli strumenti, generalmente giurisdizionali, predisposti dall’ordinamento, posti a tutela dei propri diritti e/o interessi». In tale accezione potrebbe essere configurato come un diritto fondamentale «funzionale», il cui scopo è quello di garantire altri diritti, anche fondamentali, 11.

 

[55] M. Cappelletti, Dimensioni della giustizia nelle società contemporanee, Bologna, Il Mulino, 1994, 100.

 

[56] M. Cappelletti, voce Accesso alla giustizia, in Enciclopedia delle scienze sociali, Treccani, 1988, http://www.treccani.it/enciclopedia/accesso-alla-giustizia_(Enciclopedia_delle_scienze_sociali)/ .

 

[57] M. Cappelletti - B. Garth, Access to Justice: the Worldwide Movement to Make Rights Effective. A General Report, in M. Cappelletti (ed.), Access to Justice. A World Survey, Milano-Alphen aan der Rijn, Giuffrè-Sijthoff, 1978, vol. I, book 1, 6.

 

[58] L. Lombardi Vallauri, Saggio sul diritto giurisprudenziale, cit.; si veda inoltre Id., voce Diritto libero, in Digesto delle Discipline Privatistiche, Sez. Civile, VI, Torino, Utet, 1990.

 

[59] K. Lewellyn, nel saggio considerato come il manifesto programmatico del realismo giuridico americano, Some Realism about Realism, in Harvard Law Review, 1931, vol. 44, n. 8, 1222-1264, tenta una sistematizzazione delle tesi del realismo, in nove punti. Tra questi segnaliamo il punto otto, che si sofferma sugli effetti del diritto, particolarmente rilevante per i teorici dell’accesso alla giustizia «An insistence on evaluation of any part of law in terms of its effects, and an insistence on the worthwhileness of trying to find these effects», 1237.

 

[60] G. Tarello, Il realismo giuridico americano, Milano, Giuffrè, 1962; S. Castignone - M. Ripoli - C. Faralli (a cura di), Il diritto come profezia. Il realismo americano: antologia di scritti, Torino, Giappichelli, 2002.

 

[61] M. Cappelletti, Dimensioni della giustizia nelle società contemporanee, cit., 78.

 

[62] Ivi, 77.

 

[63] Ivi, 78-79.

 

[64] M. Cappelletti (ed.), Access to Justice. A World Survey, cit.

 

[65] V. Denti nel suo commento all’opera, la definì un «disegno illuministico», per la spinta progettuale e il dichiarato intento riformatore che caratterizzano le analisi giuridiche, Accesso alla giustizia e Welfare State (a proposito del Florence Access to Justice Project), in Rivista trimestrale di diritto e procedura civile, 1982, 618-626.

 

[66] M. Cappelletti - B. Garth, Access to Justice: the Worldwide Movement to Make Rights Effective. A General Report, in M. Cappelletti (ed.), Access to Justice. A World Survey, cit., vol. I, book 1, 6.

 

[67] Cfr. sul tema V. Denti, Sistematica e post-sistematica nella evoluzione delle dottrine del processo, in Rivista critica di diritto privato, 1986, IV, 1, 469-492.

 

[68] Cfr. M. Cappelletti, La protection d’intérêts collectifs et de groupe dans le procès civil (Métamorphoses de la procédure civile), in Revue internationale de droit comparé, 1975, 571-597.

 

[69] Per un’analisi della class action e la sua introduzione in Italia, si veda S. Patti, Class action e azione risarcitoria collettiva: analogie e differenze, in A. Bellelli (a cura di), Dall’azione inibitoria all’azione risarcitoria collettiva, Quaderni della rivista di diritto civile, Padova, Cedam, 2009, 11-19; E. Ferrante, La via italiana alla «class action» fra interesse di classe e regole ostruzionistiche per le adesioni (Nota a App. Torino 30 giugno 2016), in Giurisprudenza italiana, 2017, fasc. 1,  66-71.

 

[70] M. Cappelletti - B. Garth, Access to Justice: the Worldwide Movement to Make Rights Effective. A General Report, cit., 49.

 

[71] «This approach recognizes the need to relate and adapt the civil process to the type of dispute», così M. Cappelletti - B. Garth, Access to Justice, cit., 52; 65-87.

 

[72] M. Cappelletti, Dimensioni della giustizia, cit.,  91.

 

[73] Fortemente critica la tesi di U. Mattei, Access to Justice. A Renewed Global Issue?, in Electronic Journal of Comparative Law, vol. 11, n. 3 (December 2007), http://www.ejcl.org , 1-25, che ritiene che sia proprio il cambiamento di significato dell’espressione «Access to Justice» a nascondere un’operazione politica di riduzione delle tutele a vantaggio del rafforzamento del potere dei gruppi economicamente più influenti. In sostanza l’ampliamento dell’accesso ai metodi di risoluzione implica la limitazione dell’accesso al processo e alle sue garanzie: «The birth of the ADR industry, and the development of a professional class of mediators, not necessarily trained in the law and serving the interests of harmony and non-adversary social control, had transformed the issue of access to justice, by limiting as much as possible access to courts of law», 3.

 

[74] A. L. Levin - R. R. Wheeler, The Pound Conference: Perspectives on Justice in the Future. Proceedings of the National Conference on the Causes of Popular Dissatisfaction with the Administration of Justice, St. Paul, Minnesota, West Publishing Co., 1979.

 

[75] F. E. Sander, «A second way of reducing the judicial caseload is to explore alternative ways of resolving disputes outside the courts, and it is to this topic that I wish to devote my primary attention», Varieties of Dispute Processing, in A. L. Levin - R. R. Wheeler, The Pound Conference, cit.,  65-87 (66).

 

[76] S. Roberts - M. Palmer, Dispute Processes, ADR and the Primary Forms of Decision Making, Cambridge, Cambridge University Press, 2005, 46.

 

[77] Particolare interesse riveste la posizione critica di Laura Nader, secondo cui esiste «uno specifico raggruppamento di credenze che indico con il termine “ideologia dell’armonia” e che opera come sistema di controllo culturale, limitando il dibattito sulla legalità e sulle sue alternative». Le forze vive del diritto. Un’introduzione all’antropologia giuridica. Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane. 2003, 99.

 

[78] C. Menkel-Meadow, Mediation, Arbitration, and Alternative Dispute Resolution (ADR), in N. J. Smelser - P. B. Baltes (eds.), International Encyclopedia of the Social § Behavioral Sciences, Oxford, Elsevier Science Ltd., 2001,  9507-9512. «The term ‘appropriate’ dispute resolution is used to express the idea that different kinds of disputes require different kinds of processes» (9507). Cfr. P. Adler, The Future of Alternative Dispute Resolution: Reflection on ADR as a Social Movement, in S. Engle Merry - N. Milner (eds.), The Possibility of Popular Justice, A Case Study of Community Mediation in the Unites States, The University of Michigan Press, USA, 1993, 68.

 

[79] P. Lafond, L’accès à la justice civile au Québec. Portrait général, Cowansville (Québec), Éditions Yvon Blais, 2012, 172.

 

[80] A. J. Arnaud - J. P. Bonafé-Schmitt, Alternative (Droit) – Alternative (Justice), in Dictionnaire encyclopédique de théorie et de sociologie du droit, 2a ed., Paris, LGDJ, 1993, 13-15.

 

[81] R. Abel (ed.), The Politics of Informal Justice, vol. I, The American Experience, New York, Academic Press, 1982; J. S. Auerbach, Justice Without Law?, New York-Oxford, Oxford University Press, 1983. In prospettiva comparatistica cfr. N. Alexander (ed.), Global Trends in Mediation, cit.

 

[82] V. Varano (a cura di), L’altra giustizia, cit. Si veda inoltre M. Taruffo, Dimensioni transculturali della giustizia civile, in Rivista trimestrale di diritto e procedura civile, 2000, n. 4, 1047-1084, ora in Id., Sui confini, Bologna, Il Mulino, 2002, 11-52.

 

[83] N. Alexander, Global Trends in Mediation, cit., 3.

 

[84] Per questa ragione M. Palmer e S. Roberts hanno definito ADR come una «fugitive label», Dispute Processes, ADR and the Primary Forms of Decision Making, cit., 3.

 

[85] Sulla distinzione tra sistemi autonomi ed eteronomi di risoluzione delle controversie cfr. F. P. Luiso, La conciliazione nel quadro della tutela dei diritti, in Rivista trimestrale di diritto e procedura civile, 2005, vol. 58, 4, 1201-1220. Tra i metodi ADR, distinguiamo strumenti eteronomi, in cui la soluzione della controversia è decisa da un terzo imparziale scelto dalle parti, e strumenti autonomi, in cui sono le parti stesse, alla presenza del terzo, a risolvere la loro controversia. Ai due estremi di una scala ideale possiamo collocare l’arbitrato, che rappresenta il massimo grado di eteronomia, e la mediazione/conciliazione che esprime il massimo grado di autonomia. Nell’arco decrescente che va dall’arbitrato alla mediazione vengono convenzionalmente collocati numerosi metodi, tra cui l’Early Neutral Evaluation, il Mini Trial, la med-arb, solo per citarne alcuni. Per un’analisi ampia e dettagliata dei metodi ADR cfr. M. Cicogna - G. Di Rago, G. N. Giudice, La conciliazione commerciale, Santarcangelo di Romagna, Maggioli, 2005, 40 ss.

 

[86] Pone l’accento su questo aspetto F. P. Luiso, La conciliazione nel quadro della tutela dei diritti, cit., 1209: distinguendo tra conciliazione e arbitrato egli sottolinea come «il mancato rispetto delle regole nel procedimento conciliativo non possa costituire ragione di invalidità dell’accordo raggiunto dalle parti», a differenza dell’arbitrato in cui i vizi di forma costituiscono causa di impugnazione per nullità.

 

[87] G. De Palo - G. Guidi, Risoluzione alternativa delle controversie (ADR) nelle corti federali degli Stati Uniti, Milano, Giuffrè, 1999, 7.

 

[88] Per usare la celebre espressione di L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, a cura di M. Trichero, Torino, Einaudi, 1974 (Philosophische Untersuchungen, a cura di G.E.M. Anscombe e R. Rhees, Oxford 1953), §§ 65-67, 46-47.

 

[89] P.S. Adler, The Future of Alternative Dispute Resolution: Reflections on ADR as a Social Movement, cit., 67.

 

[90] Cfr. J. R. Sternlight, Is Binding Arbitration a Form of ADR: an Argument That the Term Has Begun to Outlive Its Usefulness, in Journal of Dispute Resolution, 2000, n. 1, 97; L. Cominelli, La risoluzione delle dispute, Milano, FrancoAngeli, 2012, 97-111.

 

[91] Si tratta della definizione fornita dalla Corte distrettuale federale di New York, Rule 83.11(a), Local Rules of the United States District Courts for the Southern and Eastern Districts of New York, cit. in O. Chase, Gestire i conflitti. Diritto, cultura rituali, Roma-Bari, Laterza, 2005, 112.

 

[92] Tra questi si segnala L. Fuller, Mediation: Its Forms and Functions, in Southern California Law Review, 1971, 44, 305-339; L. Fuller - K.I. Winston, The Forms and Limits of Adjudication, in Harvard Law Review, 1978, 92, 2, 353-409; F.P. Luiso, La conciliazione nel quadro della tutela dei diritti, cit.; R. Abel (ed.), The Politics of Informal Justice, vol. I, cit.

 

[93] R. Abel (ed.), The Politics of Informal Justice, vol. I, cit.; J. P. Bonafé-Schmitt, La médiation. Une justice douce, Paris, Syros Alternatives, 1992; J. Faget, Éloge du fluide. Une lecture socio-politique de la médiation, in C. Eberhard - G. Vernicos (sous la direction de), La quête anthropologique du droit, Paris, Éditions Karthala, 2006, 351-368.

 

[94] L. Nader, The A.D.R. Explosion – The Implications of Rhetoric in Legal Reform, in Windsor Yearbook of Access to Justice, 1988, vol. 8, 269-291. Vedi infra.

 

[95] O. M. Fiss, Against Settlement, in the Yale Law Journal, 1984, vol. 93, n. 6, 1073-1090.

 

[96] Si vedano per la situazione italiana le osservazioni di V. Ferrari, La giustizia come servizio, cit., 57; cfr. inoltre P. H. Lindblom, La risoluzione alternativa delle controversie. L’oppio del sistema giuridico?, in V. Varano (a cura di), L’altra giustizia, cit., 219-253.