Tradizione Romana-2017

 

 

Grillone-foto rivista - CopiaALESSANDRO GRILLONE

Università di Pisa

 

Brevi note per una conciliazione delle fonti sui fatti del 494 a.C.: alle radici del potere tribunizio

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SOMMARIO: 1. Premessa sul metodo. – 2. Composizione sociale della civitas ed antefatti storici della crisi. – 3. Alle radici della secessio. Una questione di metodo: la strategia della plebe per la fissazione di un punto d’incontro. – 4. I tribuni rivoluzionari della plebe: elezione e potere. – 5. Ius iurandum plebis, ius iurandum populi. L’egida divina sulle leggi sacrate. – 6. Per una possibile ricostruzione conservativa del ψφος patrizio di Dionysius 6.90.2. – Abstract

 

 

1. – Premessa sul metodo

 

Credo che una premessa sia assolutamente necessaria a questo breve lavoro. L’idea che lo guida non è, anzitutto, quella di inserirsi nello sterminato dibattito che grandi Maestri del passato[1] hanno condotto sull’interpretazione storiografica dell’emersione tranciante del contropotere plebeo nel corso del primo secolo di vita della res publica; non potrebbe essere quella, onde evitare di perdersi a ritroso nei meandri dell’analisi leggendaria dell’età arcaica, di discutere delle cause prime dei fenomeni analizzati: che, del resto, la storia sia un flusso inscindibile di cause ed effetti razionalmente congiunti è circostanza tutta da meditare e di cui, in ogni caso, chi scrive, costretto da un tempo umanamente limitato, non deve pagare il fio. Lo scopo di questa indagine sarà, allora, quello di valorizzare la coerenza sistematica delle fonti antiche piuttosto che di adagiarsi sull’una o sull’altra mediazione ideologica delle stesse.

Quello che qui si vuole prendere in considerazione è un breve arco di storia romana che si apre, secondo il computo dei «Fasti consolari capitolini», nel 509 a.C., data natale del sistema repubblicano, chiudendosi nel 449 a.C., con l’approvazione delle leges Valeriae Horatiae. Di questo lasso temporale interessa, tuttavia, precipuamente, l’anno 494 e, in particolare, secondo la narrazione dionisiana - che, si sa, non segue la sopra adottata convenzione temporale[2] - le poche ore dal dialogo tra Bruto e Agrippa al misterioso voto patrizio di ratifica all’elezione dei tribuni.

In assenza di ulteriori riscontri, pur consapevoli del divario temporale tra la ricostruzione narrativa delle fonti e gli eventi storici considerati, l’accettazione, non acritica, dei dati da queste provenienti pare, a chi scrive, la via più opportuna da percorrere. E, del resto, i fatti narrati sono, a mio avviso, nelle linee di fondo concordanti, molte volte non espressi in una terminologia giuridica coerente, ma ciò, mi pare, si debba porre in relazione con le contingenze temporali di un momento storico caratterizzato da fermenti para-rivoluzionari e costituzionalmente fluido, che, se, da un lato, impone una lettura giuridicamente orientata degli atti normativi, politici e religiosi posti in essere dalle due opposte fazioni sociali, allo stesso tempo consiglia di valorizzarne la portata pratica, più dell’aspetto formale. Siamo, in altri termini, di fronte al diritto pubblico embrionale della civitas, alla sua genesi fattuale: in larga misura essa determinerà, non lo si può negare, le forme della legalità repubblicana matura, e, pur tuttavia, resta uno iato, che non può essere eliminato, tra procedimento politico di creazione ordinamentale e sua cristallizzazione legale, che sconsiglia, a mio avviso, mi pare opportuno premetterlo sin da ora, di applicare agli strumenti di superamento della crisi sovrastrutturale del 494 a.C. le rigide categorizzazioni normative di epoca post-decemvirale[3].

 

 

2. – Composizione sociale della civitas ed antefatti storici della crisi

 

Giacché poi, per evitare quel regressus ad infinitum di cui poc’anzi si rammentava il pericolo, si dovranno porre solide fondamenta, credo che esse si possano individuare nella composizione sociale della civitas della fine del VI secolo a.C., nella divisione tra patricii, discendenti delle antiche gentes, che avevano partecipato alla fondazione dell’Urbs o che da tempo immemore s’erano aggregate, ramificazioni genealogiche successive ai patres consiglieri dei re, facenti parte del più risalente senato cittadino[4], e plebs, moltitudine variegata di stirpi[5] di mutevole consistenza economica e origine etnica, coagulatesi, per ragioni di convenienza, intorno all’ordinamento della civitas quiritaria, cui originariamente non appartenevano[6], e che, pure, nel seno della nuova costituzione centuriata dovettero assumere un ruolo rilevante nella difesa di quella struttura comunitaria, che, tuttavia, non più che saprofiti le considerava[7].

Dell’ordine plebeo la componente più ricca, afferente al grande commercio, aveva risentito della contrazione economica seguente alla caduta dei Tarquini, ma si poneva per lo più il problema di come conquistare un ruolo politico, stretta come era dalla posizione minoritaria all’interno del senato e, soprattutto, nel comizio centuriato, dal quale venivano eletti i praetores, titolari collegiali di quell’imperium, prima indiviso, che era stato del rex[8], e dalla propria incapacità di mettere a frutto politicamente i numeri della plebe più povera, massa amorfa, spesso succube dei propri soggioganti; gli strati inferiori, piccoli artigiani, commercianti al dettaglio e prestatori retribuiti di lavoro manuale, nonché contadini assegnatari regi di infimi lotti di terra, vennero in senso stretto travolti dal tracollo dell’economia regionale e, logorati dalla continua necessità di abbandonare i campi per prendere parte a spedizioni militari, dovettero, prima, cedere i propri terreni agricoli, poi, la propria forza lavoro al vicino più forte, asservendosi, in contropartita delle somme necessarie al mantenimento della propria famiglia, ai feneratores[9].

Ancora, nel 495 e nei primi mesi del 494 a.C. ragioni belliche favorivano i patricii, che sfruttavano la paura di nemici esterni per posticipare ogni trattativa con l’ordine plebeo: prima i Volsci (Livius 2.23.1), poi, i Sabini e gli Aurunci (Livius 2.26.1 ss.), infine, insieme, gli Equi, gli Ernici, i Sabini e i Volsci (cfr. Livius 23.30.3 e Dionysius 6.50.2), tenevano lontane dal dibattito politico cittadino le difficoltà economiche e le rivendicazioni politiche della plebe. Eppure, con l’elezione dei nuovi consoli del 494, Virginio e Vetusio, e l’uscita di carica dell’acerrimo nemico Appio Claudio la plebe aveva ormai preso quel coraggio e quella coscienza di classe che precedentemente le erano sempre mancati, impediva ai consoli il normale svolgimento dell’attività di giudizio e si riuniva con il calare della notte in consultazione informale, fissando una linea comune d’azione per ogni questione da discutersi nel foro (Livius 2.27.1 ss.; 2.28.1)[10]. Con il ritiro volontario del gradito dittatore Manio Valerio, a cui era stato impedito di rispettare le promesse a tempo fatte al popolo riguardo alla cancellazione dei debiti, e tentando i consoli, di nuovo, la via di disgregare i propositi interni della plebe, mercé la conservazione dell’esercito in armi con il pretesto di una ripresa delle ostilità contro gli Equi, la pazienza della vexata pars venne meno: C. Sicinio Belluto guidava la componente plebea dell’exercitus sul Monte Sacro e dava inizio alla prima secessione, Livius 2.32.1-3 [11]:

 

…Itaque quamquam per dictatorem dilectus habitus esset, tamen quoniam in consulum verba iurasset sacramento teneri militem rati, per causam renovati ab Aequis belli educi ex urbe legiones iussere. Quo facto maturata est seditio. Et primo agitatum dicitur de consulum caede, ut soluerentur sacramento; doctos deinde nullam scelere religionem exsolui, Sicinio quodam auctore iniussu consulum in Sacrum montem secessisse.  

 

 

3. – Alle radici della secessio. Una questione di metodo: la strategia della plebe per la fissazione di un punto d’incontro

 

Non moto di popolo minuto, questa secessio, ma opposizione ferma della parte non gentile dell’exercitus centuriatus, che portava a compimento le minacce palesate già prima dell’ultima ripresa delle ostilità con i popoli confinanti: «libertatem unicuique prius reddendam esse quam arma danda, ut pro patria ciuibusque, non pro dominis pugnent» (Livius 2.28.7).

Mi pare anzitutto significativo, da questo punto di vista, che la classe plebea, non avendo mai trovato animo di accendere la scintilla rivoluzionaria nei precedenti numerosi tentativi di resistenza dei debitori all’aggressione da parte degli usurai (cfr. Livius 2.27.8 ss.), insorga in armi di fronte all’ennesimo tentativo del patriziato di rimandare l’apertura di una trattativa sulle nuove condizioni della convivenza tra gli ordini nella sua componente titolare di reddito, prescindendo completamente dalla massa inurbata dei nullatenenti.

E i capite censi, del resto, così come i clientes e i debitori in ceppi rappresenteranno un pericolo per la buona riuscita dell’ascesa sociale plebea, se, come a me sembra, c’è da prestar fede, se non alle parole di Appio, alla circostanza, espressa in Dionysius 6.63.3-4, per cui la corruttibilità di questa massa la teneva vincolata al patriziato, che con misere concessioni avrebbe potuto assoggettarla ad una leva irregolare.

Lo scontro, allora, diviene immediatamente politico, prima di tutto politico.

La richiesta di liberare i debitori asserviti mediante nexum o aggiudicati al creditore (subito accolta dagli emissari senatori, Dionysius 6.83.4), è ormai superata, è divenuta solamente un ponte per allargare il favore alla secessio presso la plebe più povera e riuscire a riscuotere ciò che, invece, davvero interessa: il diritto di eleggere propri rappresentanti (Dionysius 6.87.3)[12].

C’è, a tal punto, un fisiologico impasse della spinta rivoluzionaria, le trattative si protraggono; di certo, v’è la paura di aggressioni nemiche, ma anche la volontà dell’aristocrazia patrizia di non pagare un prezzo troppo alto, c’è che la creatività rivoluzionaria, che aveva escogitato un così potente strumento di lotta, la secessio, ora doveva mettere a punto non solo un novero di richieste politiche funzionali al proprio scopo, ma pure meccanismi di guarentigia e forme di autotutela, i quali assicurassero stabilità alle conquiste sociali, economiche, politiche ed eventualmente costituzionali, che dalla conclusione vittoriosa della lotta si attendevano[13].

E qui, mi pare, si debba mettere in luce un interessante dato: lo ius è un monopolio patrizio, di conseguenza, ha natura classista[14]; non è tramite esso che la plebe avrà securtà delle sue conquiste: ciò a cui il senato può vincolarsi conformemente allo ius, nello stesso ius può essere sciolto[15]. Con il diritto ‘umano’ come avversario, le uniche chance di non vedere revocate in breve le concessioni fatte vengono ai plebei dalla protezione divina dei patti e da un po’ di sano terrore che la moltitudine in ogni epoca può far calare sulla classe dirigente[16]. Per questo non è opportuno, a mio avviso, cercare forzosamente di associare una qualifica perfetta sotto il profilo giuridico a tutti i fatti del 494 a.C. che pure possano ambire ad una tale rilevanza[17]. Ciò che la plebe è scrupolosa nel seguire è, se esiste, la norma giuridico-religiosa preesistente[18], tuttavia, l’opposizione alla sovrastruttura cittadina, che ella percepisce come estranea e patrizia, è per il resto totale. L’idea diffusa è che solo attraverso i fatti e l’azione rivoluzionaria la plebe potrà fissare le fondamenta di una comunità alternativa, nuova ed autosufficiente, capace di interloquire politicamente con i preesistenti organi della civitas[19].

Proprio in quanto non appare possibile fissare regole comuni di convivenza[20], bisogna affidare la tutela della plebe a dei campioni della rivoluzione, che veglino sul rispetto della sua posizione sociale, con coscienza, non tanto giuridica, quanto politica, il cui potere, oltre che posto sotto l’egida divina, sia auto-consistente, puntellato, cioè, dalla forza della moltitudine.    

Ad onore del vero, neppure deve essersi trattato di una scelta strategica spontanea della plebs, quella di mantenere i propri rappresentanti fuori dall’ordinamento della civitas, rinunciando alla partecipazione in nome della rivoluzione[21]; del resto, pur non prevalendo in senato l’impostazione reazionaria di Appio Claudio circa la repressione di quella che egli riteneva una deliberata seditio, il suo monito, nelle parole forse leggendarie attribuitegli dall’Alicarnassense, a non mutare le istituzioni dei padri e a non concedere pari diritti politici ad una classe così infima di persone avrebbe fatto illo tempore argine all’ardire plebeo (Dionysius 6.61.1-2), favorendo, nondimeno, alla distanza, le successive conquiste istituzionali degli appartenenti a quell’ordine.

Infatti, il risultato della trattativa, condotta attraverso le misurate parole di L. Giunio Bruto e Menenio Agrippa, fu, anzitutto, un patto, assimilabile ad un foedus[22], con cui, oltre ad impegnarsi alla rimessione dei debiti, i patres concedevano ai plebei di eleggere propri rappresentanti con il diritto di difendere (auxilium ferre) i membri del loro ordine, che fossero stati privati arbitrariamente dei propri diritti o assoggettati ad atti di coercitio dai magistrati della civitas (Dionysius 6.87.3 e 6.89.1 e Livius 2.33.1 e 4.6.7)[23]. I patres ottenevano di mantenere intatte le istituzioni cittadine, riconoscendo una comunità alternativa alla civitas, quella plebea, dotata di propri magistrati, con funzione meramente garantista[24]. La vaghezza delle facoltà di questi difensori della plebe e una sostanziale assenza di guarentigie terrene sembrava, di certo, far gioco a favore dei patrizi, ma proprio quella genericità, orientata nei decenni immediatamente successivi in senso onnicomprensivo[25], associata alla geniale conversione dell’antica sanzione criminale della sacertà[26] in strumento di lotta di classe, in considerazione della sua immediata applicabilità e dell’inesistenza di qualsiasi vincolo procedurale[27], imprimerà una decisiva accelerazione al percorso per la partecipazione dei plebei al governo della res publica.

 

 

4. – I tribuni rivoluzionari della plebe: elezione e potere

 

Nel quadro incerto delle fonti si pone, in primo luogo, il problema di stabilire chi abbia eletto i primi tribuni, non potendosi qui prestar fede all’opinione di Dionigi, che riteneva vi avesse provveduto il comizio curiato[28]. La contingenza rivoluzionaria mi suggerisce di intendere che l’elezione debba essere stata compiuta, senza particolare ossequio delle forme, da un’assemblea che è difficile perfino denominare ‘concilio della plebe’: si trattava, infatti, con buona probabilità, di un consesso composto dalla sola plebe in armi e da quella che l’aveva via via raggiunta sul Monte Sacro durante la secessio[29].

È dopo questa elezione che Bruto, secondo il racconto di Dionigi, 6.89.2, arguendo la fragilità della conquista politica, consiglia alla plebe presente sul monte di rendere sacra e inviolabile la magistratura appena creata[30]. Il testo della rogatio è tranciante: chiunque attenti all’incolumità fisica del tribuno o ne coarti la volontà, sia sacer e i suoi beni consacrati alle divinità plebee, chiunque uccida l’uomo sacer non venga considerato assassino (Dionysius 6.89.3 e Festus, De verb. sign., v. Sacer mons, p. 424 L[31]). Al solo scopo di estendere il precetto sanzionatorio e il conseguente impegno anche a quella plebe non presente sul Monte Sacro, dando alla delibera, attraverso una forma di coercizione diffusa, la forza di una vera lex nel neonato ordinamento rivoluzionario, si consolidava la sua inderogabilità con un giuramento di tutti gli individui appartenenti alle stirpi plebee[32] e, in assenza di una base giuridico-costituzionale della comminatoria di pena, si colmava questa debolezza religione, qualificando come atto gradito agli dei la consacrazione del capo del contravventore, in modo da porre un tale iussum plebis sotto l’egida protettiva della più antica e stringente sanctio (interna) della storia giuridica romana[33].

L’intangibilità della magistratura tribunizia si impone a tutto il populus per effetto dell’approvazione del testo del primigenio plebiscito da parte della plebe riunita sul Monte Sacro e la sua coercibilità è rimessa al potere massivo dell’intero ordine mercé il giuramento di imporne il rispetto al patriziato[34]. La speranza dei patres di aver dato alla plebe una mera forma di rappresentanza “sindacale” si era infranta, non avevano che in minima parte contribuito a plasmare i poteri del tribuno, concedendo soltanto l’illusione libertaria del ‘diritto di ausilio’, e, adesso, si trovavano a fronteggiare un soggetto dotato di una forza politica e giuridica potenzialmente sconfinata, almeno pari alla capacità materiale ed effettiva della plebe di garantirne l’intangibilità. Per questo, e qui mi pare di dover mettere bene in risalto un aspetto spesso sottovalutato, il tribuno in realtà può fare, avverso il potere di governo dei consoli e anche a livello propositivo, tutto ciò che la forza rivoluzionaria della plebe è in grado di consentirgli[35]. Mi sembra che una simile idea possa desumersi da Livius 2.54.5-6, attraverso le lamentele dei consoli Lucio Furio e Caio Manlio, posti sotto accusa dal tribuno Gaio Genucio nel 473 a.C.:

 

…quod si consulatus tanta dulcedo sit, iam nunc ita in animum inducant consulatum captum et oppressum ab tribunicia potestate esse; consuli, velut apparitori tribunicio, omnia ad nutum imperiumque tribuni agenda esse; si se commoverit, si respexerit patres, si aliud quam plebem esse in re publica crediderit, exilium Cn. Marci, Meneni damnationem et mortem sibi proponant ante oculos.

 

Nel passo il consolato viene descritto come una magistratura sotto scacco, l’imperium risulta nella sostanza prigioniero del potere di azione dei tribuni: o una volta assunta la carica si rinuncia ad esercitarlo od ogni gesto in difesa dei patres potrà condurre ad una condanna all’esilio o, peggio, alla morte. Il console nulla può proporre al popolo e nulla può impedire ai tribuni se ciò non è conforme all’interesse della plebs, assiste impotente all’espansione autoritaria della tribunicia potestas e riesce a contrapporvisi solo abbandonando la propria veste legale[36].

Il tribuno può, nella sua fase di vita extra-costituzionale (anche tramite gli edili o i suoi viatores), esercitare una forma di coercitio rivoluzionaria al fine di garantire il rispetto delle prerogative e delle decisioni politiche della plebe[37], nonché far approvare al concilium plebis testi normativi capaci di vincolare pure la componente patrizia del populus: se, del resto, gli fosse stato impedito, ciò avrebbe comportato una violazione della lex tribunicia prima, nel 492 ulteriormente rafforzata[38].

Mi pare che uno scorcio della trattazione liviana condensi e testimoni tutto quanto fin qui affermato:

 

Livius 2.56.6-14: Principio statim anni nihil prius quam de lege agebatur. Sed ut inuentor legis Volero, sic Laetorius, collega eius, auctor cum recentior tum acrior erat. Ferocem faciebat belli gloria ingens, quod aetatis eius haud quisquam manu promptior erat. Is, cum Volero nihil praeterquam de lege loqueretur … itaque deficiente oratione, "quando quidem non facile loquor" inquit, "Quirites, quam quod locutus sum praesto, crastino die adeste; ego hic aut in conspectu uestro moriar aut perferam legem". Occupant tribuni templum postero die; consules nobilitasque ad impediendam legem in contione consistunt. Summoueri Laetorius iubet, praeterquam qui suffragium ineant. Adulescentes nobiles stabant nihil cedentes uiatori. Tum ex his prendi quosdam Laetorius iubet. Consul Appius negare ius esse tribuno in quemquam nisi in plebeium; non enim populi sed plebis eum magistratum esse; nec illam ipsam submouere pro imperio posse more maiorum, quia ita dicatur: "si uobis uidetur, discedite, Quirites". Facile contemptim de iure disserendo perturbare Laetorium poterat. Ardens igitur ira tribunus uiatorem mittit ad consulem, consul lictorem ad tribunum, priuatum esse clamitans, sine imperio, sine magistratu; uiolatusque esset tribunus, ni et contio omnis atrox coorta pro tribuno in consulem esset, et concursus hominum in forum ex tota urbe concitatae multitudinis fieret.

 

Siamo nel 470 a.C., Publilio Volerone aveva reso nota l’anno precedente, durante il suo primo incarico, la propria intenzione di rimettere al comizio tributo, epurato dagli elementi patrizi del populus (Livius 2.56.2 e 2.60.5, cfr. nt. 28), l’elezione dei tribuni, per garantire, escludendo i clientes delle famiglie patrizie, che solo i plebei titolari di proprietà terriere potessero parteciparvi. Il collega Letorio, uomo di scarsa eloquenza, ma di ferma risoluzione, raccoglie questa proposta e la presenta davanti alla plebe riunita in assemblea. Il giorno della riunione il foro è gremito e i tribuni pronti a parlare; l’iniziativa, però, provoca la reazione immediata dei consoli e di tutto il patriziato, poiché mutando la competenza e la composizione stessa del collegio votante andava ad incidere, eradicandola, sulla possibilità dei patrizi di controllare quell’elezione, lì privava di quello che essi ritenevano un diritto acquisito, di far pesare il voto dei propri clienti su questa scelta, plasmando, inoltre, un consesso nuovo, mai oggetto di trattativa durante la secessione. Di fronte al tentativo patrizio di intromettersi nell’assemblea, il tribuno non esita a far arrestare gli intervenuti, il console Appio più volte minaccia Letorio, rammentandogli la sua totale mancanza di potere, d’essere per la civitas un semplice privato, di non poter pertanto ordinare ai patrizi di ritirarsi dall’assemblea e di come l’imperium sia, a ogni effetto, l’unica legittima fonte di coercizione, ma il tribuno non arretra: non sarà forse neppure un magistrato, come sostiene Appio, e, tuttavia, gli si contrappone con un’identica forza, consolidata dalla minaccia dell’insurrezione dei plebei riuniti nel foro. Poco importa che, infine, gli animi si plachino e la discussione venga rimessa all’assemblea senatoria e al comizio (questo organo, infatti, approverà tutto quanto proposto in quella sede dal tribuno): il potere tribunizio esiste in via di fatto e, a maggior ragione, come forma di pressione politica sugli organi legali della comunità.

Quello che mi pare precipuamente significativo del lungo episodio narrato da Livio è il fatto che sia palesata la possibilità per il tribuno, a pochi anni dalla conclusione dell’estenuante trattativa per il rientro della secessione, di plasmare liberamente in via legislativa, cioè tramite plebiscito, non soltanto l’ordinamento plebeo, incidendo sulle “regole del gioco costituzionale” fissate dal sopra ricordato foedus, ma, a prestar fede alla narrazione liviana (Livius 2.60.5: «Plus enim dignitatis comitiis ipsis detractum est patres ex concilio submovendo…»), pure la composizione per tribù di un’assemblea cittadina, forgiando un quid novi di difficile collocazione ordinamentale, anche grazie all’esercizio di un illimitato potere di coercizione rivoluzionaria[39].

Oltre a questo, ogni tribuno avrebbe potuto trascinare in giudizio i contravventori dei precetti imposti dalla plebe a tutti i Romani o punire i magistrati patrizi che fossero andati, nella loro azione di governo, contro gli interessi dell’ordine plebeo, irrogando, a seguito di un giudizio assembleare del concilio, attraverso un potere, solo in via di fatto acquisito[40], sanzioni laiche e non sacrali[41], seppur sotto la minaccia che qualsiasi tentativo di ostacolarlo sarebbe stato considerato come aggressione nei suoi confronti, implicando l’automatica conversione del colpevole in homo sacer[42].

È una situazione, questa, che perdurerà tra il 494 e il 451 a.C., imponendo, poi, una riflessione in fase di redazione della legge delle XII Tavole, nonché al momento della restaurazione post-decemvirale. Nel primo corpo normativo, infatti, fu assegnata la competenza per tutti i procedimenti criminali che potevano portare alla messa a morte di un cittadino al comizio centuriato[43], mentre una delle leggi Valerie-Orazie fisserà il principio in base al quale ai plebisciti sia consentito dettare regole vincolanti per tutto il populus con il consenso del senato[44].

 

 

5. – Ius iurandum plebis, ius iurandum populi. L’egida divina sulle leggi sacrate

 

Già la cogenza del foedus, quale accordo giuridicamente vincolante per entrambe le parti, riposava, in effetti, su un impegno solenne assunto davanti agli dei mediante un sacramentum: esso aveva per oggetto la remissione dei debiti e la concessione ai plebei della possibilità di eleggere propri capi dotati del potere di ius auxilii. Ancora, era corroborata da un giuramento l’imperatività della lex sacrata; proprio perché essa era stata votata in un contesto sedizioso, da un organo di parte, per impegnarsi a farne osservare le statuizioni, la plebe aveva avvertito la necessità di vincolare a ciò i propri membri di fronte alle divinità. Essendo la sacertà un automatismo sanzionatorio ad esecuzione diffusa, il sacramentum serviva ad imporre ad ogni singolo membro della comunità plebea di farsi portatore materiale della pena sacrale, quando le circostanze lo avessero reso necessario. In altri termini, nel contesto del neonato ordinamento plebeo lo ius iurandum plebis si limitava a far nascere religione un dovere, quello di consacrare agli dei il capo del contravventore, che non esisteva iure[45].

È quanto con chiarezza apprendiamo da Livius 3.55.7-10. Lo storico augusteo, infatti, dopo aver sorvolato sulla difesa sacrale dell’inviolabilità tribunizia narrando i fatti del 494, si sofferma indirettamente sul contenuto del giuramento solo al momento di descrivere il restauro dell’istituto da parte dei consoli del 449 a.C., Valerio Potito e Orazio Barbato. Con una delle proprie rogationes, infatti, essi vollero che fosse sancita, non più solo religione, ma per legge, l’intangibilità di questi magistrati e che la medesima forma di tutela valesse per gli edili e per gli iudices decemviri:

 

…et cum religione inuiolatos eos, tum lege etiam fecerunt, sanciendo ut qui tribunis plebis aedilibus iudicibus decemuiris nocuisset, eius caput Ioui sacrum esset, familia ad aedem Cereris Liberi Liberaeque uenum iret, … aedilem prendi ducique a maioribus magistratibus, quod, etsi non iure fiat…

 

In base a questa norma, dunque, la consacrazione a Giove del capo del profanatore tutelava i “difensori della plebe”; essa, tuttavia, non avrebbe minacciato l’incolumità del magistrato maggiore che avesse arrestato, o coercito in altro modo, un edile plebeo;

 

…tamen argumentum esse non haberi pro sacro sanctoque aedilem; tribunos uetere iure iurando plebis, cum primum eam potestatem creauit, sacrosanctos esse.

 

Pertanto, secondo le parole di Livio, la legge non aveva potuto conferire quell’aura piena di intangibilità agli edili e ai giudici delle cause sui debiti: non sarebbero stati sacrosanti e avrebbero comunque dovuto soccombere al potere dei magistrati cum imperio. Il meccanismo sanzionatorio era identico a quello del plebiscito sacrato del 494, di cui la legge del 449 riprendeva fedelmente i termini, e, nondimeno, la sacrosanctitas restava fisiologicamente fuori dello schema costituzionale repubblicano, sovvertendone la gerarchia, senza modificarla. Per questo essa rimaneva prerogativa esclusiva del tribuno, derivando a costui, non tanto dal dettato della disposizione normativa del 449, quanto dal richiamo all’antico giuramento rivoluzionario[46].

Questo atto, dunque, da parte sua, aveva assolto alla funzione di rendere efficace la sanctio insita alla prima lex sacrata, eppure, ancora qualcosa mancava sotto il profilo della stabilità della conquista ottenuta: a ciò avrebbe posto rimedio un secondo impegno solenne. La mia personale opinione è, infatti, che questo ius iurandum plebis, contestuale o immediatamente successivo all’approvazione della rogatio di Bruto (su cui cfr. Dionysius 6.89.2 e Livius 3.55.10), debba essere tenuto distinto dall’altro giuramento, descritto in Dionysius 6.89.4. Da un lato, del resto, in base alle fonti citate, ne sono diversi gli oggetti: il primo inerendo all’osservanza dei precetti fissati con la legge sacrata, il secondo all’impossibilità di abrogarla[47], dall’altro, pure i soggetti, essendo il primo atto della sola plebs e il successivo di tutti i Romani[48]. Afferma infatti lo storico greco in quest’ultimo passo:

 

Dionysius 6.89.4: κα να μηδ τ λοιπν τ δήμ ξουσία γένηται καταπασαι τόνδε τν νόμον, …, πάντας τάχϑη Ρωμαίους μόσαι καϑ῏ ερν μν χρήσεσϑαι τ νόμ

 

L’idea alla base dell’imposizione a tutto il popolo del secondo giuramento mi pare chiara: c’è, da parte della plebe, l’intenzione di sfruttare a pieno il momento di forza, evitando che la ripresa del patriziato, l’indebolimento dei propri capi o il venir meno della spinta rivoluzionaria possa nel futuro portare i consoli a proporre l’abrogazione della norma sull’inviolabilità tribunizia con la conseguenza di rimettere il tribuno all’arbitrio del potere d’imperium.

Siamo, come già si è detto, alle origini dell’elaborazione romana del concetto di lex, così, anche la sua struttura è embrionale. Il rispetto del precetto contenuto nelle leges sacratae era garantito dalla minaccia della consecratio capitis et bonorum, che ne costituiva la sanctio; il giuramento di tutti i Romani suppliva alla necessità di dotarla di un apparato protettore tale da assicurarne la stabilità nel tempo, impedendone pro futuro la messa in discussione, una sanctio anche questa, dunque, ma esterna[49], che si imponeva mediante l’invocazione rivolta alle divinità di colpire come sacrilego colui che fosse risultato spergiuro[50].

C’è, è innegabile, un complesso rapporto di consolidamento tra questo giuramento e la lex sacrata del 494, che va oltre la dichiarazione della sua sempiternità. La sacertà, da tempo immemore irrogata per comportamenti contrari allo ius sacrum, era stata, in quella convulsa fase sediziosa, estrapolata dal suo contesto ed applicata a condotte di rilevanza tutta umana. La sacrosanctitas tribunizia, del resto, altro non era che una forma “celata” di intangibilità politica: attraverso questo giuramento, imposto, giova ricordarlo, in un momento di evidente debolezza dell’altra parte, la plebe otteneva immediatamente di sanare questa forzatura, in quanto, dal compimento di quell’atto, la disapplicazione dei precetti della legge sacrata sarebbe certo equivalsa agli occhi degli dei ad un’abrogazione tacita della stessa, travolgendo Roma intera sotto la loro ira. Il tentativo di ledere la figura dei tribuni diveniva, per questa via, il presupposto, sebbene meramente potenziale (dovendo legarsi ad una condotta negligente sul piano sanzionatorio), della compromissione dei rapporti tra i Romani e il proprio Olimpo e la sacertà rivoluzionaria recuperava la sua originaria natura di sanzione associata a comportamenti che, per lo meno in modo indiretto, recavano offesa alla divinità[51].

 

 

6. – Per una possibile ricostruzione conservativa del ψφος patrizio di Dionysius 6.90.2

 

Alcune brevi riflessioni conclusive, infine, mi pare si debbano dedicare alla notizia, invero abbastanza isolata nel quadro delle fonti, per cui l’Alicarnassense alluderebbe ad un voto patrizio intervenuto a ratificare la magistratura plebea.

Per sua natura una testimonianza così priva di termini di confronto pone senza dubbio il sospetto circa la sua veridicità e, tuttavia, convinzione di chi scrive è che il racconto degli antichi si possa emendare e mettere in discussione solo in presenza di vizi logici o di incoerenze insanabili emergenti dal raffronto testuale delle divergenti tradizioni. Pertanto, è utile sottoporre la notizia ad un attento vaglio critico, fosse pure per decretarne la totale inattendibilità. Afferma lo storico greco:

 

Dionysius 6.90.2: ποδντες δ κα τος ν τ πόλει θεος καριστήρια, κα τος πατρικους πεσαντες πικυρσαι τν ρχν ψφον πενέγκαντας…

 

Dopo alcune celebrazioni religiose di ringraziamento agli dei protettori della Città, i plebei chiesero ai patrizi di convalidare con decreto la magistratura.

Stante l’essenza tipica del foedus, perfezionato tra la comunità patrizia e quella plebea ed avente ad oggetto la creazione della magistratura tribunizia ed il conferimento alla stessa dello ius auxilii, quale accordo idoneo a far nascere in capo alle parti reciproci obblighi giuridici sanzionati di fronte agli dei, mi pare, anzitutto, che, in via logica, si debba pervenire, sotto il profilo oggettivo, a distinguerne il riconoscimento senatorio di cui in Dionysius 6.90.2, trattandosi, altrimenti, di un’insensata replica del placet già consolidato al momento del perfezionamento di quella conventio. Conseguentemente, accorta dottrina[52] è partita dall’assunto che il voto del patriziato, nell’economia della narrazione dionisiana, dovesse riguardare l’inviolabilità tribunizia riconosciuta dalla prima lex sacrata, e che esso non dovesse consistere in una legislazione comiziale in cui fosse stato versato il contenuto di tale plebiscito, anzitutto, in ragione del fatto che, secondo il racconto di Dionigi di Alicarnasso, soggetti attivi di questa delibera sarebbero stati solo i patrizi e non tutto il populus, poi, per una motivazione precipuamente terminologica: in quanto il verbo πικυρόω rimanda all’idea di una ratifica, infine, perché, altrimenti, si porrebbe un problema d’identità con la terza delle leggi Valerie-Orazie, con il risultato di anticipare a tale momento storico la costituzionalizzazione dei tribuni della plebe. Anche intendendo questa delibera come senatoconsulto, la sua esistenza non meriterebbe credito. Essa sarebbe stata in primo luogo inutile, nella misura in cui avesse avuto la finalità di vincolare i patrizi, infatti, ciò, come detto, risultava già garantito, per lo meno indirettamente, dal giuramento di tutti i cittadini e, in ogni caso, dalla capacità della plebe di imporre anche con la forza l’ossequio alla propria unilaterale statuizione[53], e, di più, anacronistica, perché avrebbe anticipato il meccanismo di parificazione dei plebiscita alle leges disciplinato dalla lex Valeria-Horatia de plebiscitis[54].

Condivido pienamente la sopraesposta pars destruens, e, nondimeno, il senso delle parole di Dionigi, a mio avviso, potrebbe essere ancora diverso. Lungi dal palesare l’esistenza di una ratifica senatoria alle leggi sacrate, lettura che a me pare certamente non credibile, non tanto e non solo per le esposte ragioni di diritto, ma soprattutto per il contesto politico di quell’arco di sessant’anni che vanno dal mutamento di regime costituzionale, fino all’entrata in vigore della legislazione decemvirale[55], il racconto dello storiografo greco forse reca l’eco di un passaggio confermativo dei tribuni eletti davanti al senato.

L’idea, che mi sento di avanzare in forma del tutto congetturale, mi è suggerita, oltreché dal dato testuale del passo dionisiano[56], cui certamente è più vicina rispetto alle decostruite altre possibili interpretazioni, dalle indicazioni, numerosissime nelle fonti antiche, di un’estrema risalenza dell’auctoritas patrum, che esse, in particolare per quanto concerne la ratifica dell’elezione dei titolari di imperium e le decisioni di politica estera, vorrebbero addirittura operante nell’epoca monarchica[57]. In ogni caso, pur non essendo qui la sede per dissertare sull’attendibilità di quest’ultima ricorrente attestazione, tale potere informa senza dubbio l’apparato costituzionale repubblicano nell’epoca immediatamente successiva alla cacciata dei Tarquini, come mette in luce, tra gli altri, Cicerone: «vehementer id retinebatur, populi comitia ne essent rata nisi ea patrum adprobavisset auctoritas» (De rep. 2.32.56)[58]. Pertanto, mi pare che, di fronte alla creazione di una nuova magistratura, prudenza avrebbe suggerito ai plebei di seguire rigorosamente la procedura elettiva di cui ci si avvaleva per l’elezione comiziale dei praetores, richiedendo al senato, tramite la propria auctoritas, di colmare il congenito ‘difetto di capacità’ di un’assemblea[59], quella plebea, che, al più, poteva aspirare ad esser pari a quella centuriata, ma non certo, realisticamente, più competente di questa in fatto di elezioni magistratuali[60].

 

 

Abstract

 

In the doctrine of the last century the use of the literary sources on the birth of the plebeian power in the early roman republic has been often object of ideological mystification: this article is an attempt to exploit the coherence of those sources in their own purity, starting, in particular, from the narration of Livius and Dionysius on the facts of 494 B.C. These Authors describe clearly the revolutionary atteinement of tribunes’ power: the menace of a military mutiny determinates patrician’s decision to give to plebs the right of choosing their own political delegates with restricted faculty (primarily, the ius auxilii), but the crucial and ingenious invention of the plebs secluded on the Sacer mons is to make untouchable the person of tribun voting in favour of leges sacratae. The hypothesis underlined in this paper is that this tribunes’ inviolability (named sacrosanctitas) decreed by leges sacratae and defended by the revolutionary power of the secluded plebs makes the plebeians magistrates able to do everything against the faculty of praetores and other urbans delegates, also before a lex publica gives the tribunes wider constitutional powers.

 

 



 

[Per la pubblicazione degli articoli della sezione “Tradizione Romana” si è applicato, in maniera rigorosa, il procedimento di peer review. Ogni articolo è stato valutato positivamente da due referees, che hanno operato con il sistema del double-blind]

 

[1] Il dibattito sulla natura e sul fondamento del potere plebeo, concretatosi costituzionalmente con la creazione dei primi tribuni, era polarizzato fino alla metà del secolo appena trascorso dalla contrapposizione tra due impostazioni antitetiche: l’ipotesi federativa e quella legislativa, in entrambe, ideazione e statalizzazione di tale contropotere finivano per coincidere. A titolo esemplificativo, la prima era sostenuta dai capostipiti G.B. NIEBUHR, Histoire romaine, trd. fr., Bruxelles 1830, 570 ss. e L. LANGE, De sacrosanctae potestatis tribuniciae natura eiusque origine commentatio, Leipzig 1883, 40 ss.; in Italia da P. BONFANTE, Storia del diritto romano, 4a ed., Milano 1958, 104-115; E. COSTA, Storia del diritto romano, 2a ed., Firenze 1920, 170 ss.; la seconda, invece, è l’ipotesi di T. MOMMSEN, Das römische Staatsrecht, 3a ed., Berlin 1887; E. HERZOG, Die lex sacrata und das sacrosanctum, in Neue Jahrbücher für Philologie, 1876, 139 ss., in Italia di F.E. VASSALLI, La plebe nella funzione legislativa, in Studi senesi 24, 1906, 1-5 e G. NICCOLINI, Il tribunato della plebe, Milano 1923, 46 ss. Per una rassegna completa di questo straordinario dibattito G. LOBRANO, Fondamento e natura del potere tribunizio nella storiografia giuridica contemporanea, in Index, 3, 1972, 233 ss.

 

[2] Dionigi di Alicarnasso, infatti, adotta la convenzione di computo del tempo propria del mondo greco, cioè quella fondata sugli anni olimpici. La conversione nel sistema varroniano è tuttavia agevole stante che la data del primo evento olimpico è nota e risale al 776 a.C. In Dionysius 7.1-2 si racconta che i consoli Tito Geganio Macerino e Publio Minucio, appena insediati, dovettero fronteggiare una grave carestia di grano originatasi dalla sedizione della plebe. Il senato inviò ambasciatori presso Etruschi e Campani, oltreché in Sicilia per comprarlo. Quelli diretti in Sicilia presero il mare nel secondo anno della 72a olimpiade, 17 anni dopo la cacciata dei re (Dionysius 7.1.5: κατ τν δεύτερον νιαυτν τς βδομηκοστς κα δευτέρας λυμπιάδος … ρχοντος θήνησιν βριλίδου, πτακαίδεκα διελθόντων τν μετ τν κβολν τν βασιλέων…). Di conseguenza, secondo l’Alicarnassense la secessione avvenne in a.Ol. 72.1=492/491 a.C., essendo la plebe insorta sul finire di un anno, essa è normalmente collocata negli ultimi mesi del 492. Sulla cronologia romana ricostruita da Dionigi si veda diffusamente F. MORA, Il pensiero storico-religioso antico: autori greci e Roma. I: Dionigi di Alicarnasso, Roma 1995, 159 ss.

 

[3] Cfr. infra nt. 17.

 

[4] Livius 1.8.7; Dionysius 2.8.1-3; Cicero, De rep. 2.12.23; è del resto nativa, sia nel suo sviluppo in senso normativo che nella sua genesi consultiva, di questa sola parte del populus l’auctoritas (G. LOBRANO, Il potere dei tribuni della plebe, Milano 1992, 137 ss.), seppur, poi, di certo, successivamente al 367 a.C., essa diviene prerogativa di tutti i senatori, anche quelli di origine plebea (V. MANNINO, L’auctoritas patrum, Milano 1979, 132 ss.).

 

[5] A. GUARINO, La rivoluzione della plebe, Napoli 1975, 158: l’Autore, pur considerando superati i dubbi circa l’organizzazione patriarcale della plebe, metteva in luce come il vincolo di parentela, indicato da un identico nomen, andasse sotto la denominazione, corrispondente alla gens, ma significativamente difforme, di stirps. 

 

[6] Per i meccanismi di permeazione all’interno della civitas di quelle genti che costituiranno il nucleo primo della plebe rimando all’interessante contributo di M. TORELLI, Dalle aristocrazie gentilizie alla nascita della plebe, in Storia di Roma, 1. Roma in Italia, a cura di A. Schiavone, Torino 1988, 243-247 e 257 ss. La nota massima per cui plebeii gentes non habent (cfr. Livius 10.8.9 ss.), che, dopotutto, si giustificava perfettamente in base alla composizione multietnica di tale ordine, teneva esclusa la plebs da ogni istituzione cittadina: dal senato e dal comizio curiato, che sull’ordinamento delle antiche gens erano modulati: «se si era inquadrati in una gens, si era Quirites, patres, patricii. Mentre, se non si era [...] si era non Quirites, cioè moltitudine estranea alla civitas quiritaria» (A. GUARINO, La rivoluzione, cit., 159; esplicito anche Livius 2.23.8); che equivale a dire che se si era legati alla Città lo si era solo per ragioni economiche, perché si viveva di artigianato, di lavori manuali o dei commerci, ai margini dell’economia quiritaria, solo con la costituzione centuriata, infatti, come corrispettivo per la fruizione della linfa vitale cittadina, sarà preteso dal rex un contributo di anime plebee all’exercitus, compensato sotto i Tarquini da modeste assegnazioni regie di terre anche alle famiglie di questo ordine. La ‘rivoluzione oplitica’ e queste assegnazioni per la prima volta attribuiscono una rilevanza non clientelare (e dunque non ancillare) alle famiglie plebee, che assumono un ruolo equilibratore del potere patrizio, funzionale alla stabilità di governo (e all’esercizio del neonato potere di imperium) del rex, non più mero fiduciario dei gruppi gentilizi (del resto, la quantomeno formale ratifica legislativa del potere monarchico, mediante la lex curiata de imperio, aveva imposto, secondo la romanistica prevalente, l’integrazione del comizio curiato con componenti plebee, cfr. F. SERRAO, La «Legge», in Classi, partiti e legge nella repubblica romana, Pisa 1975, 22). Qui, si potrebbe dire, nasce la plebe come ordine in positivo, non individuabile solo per esclusione, portatrice di valori in parte eterogenei, nonché di una forza innovatrice sovrastrutturale (G. LOBRANO, Il potere dei tribuni, cit., 163 ss.) dalla quale nascerà il “potere negativo” dei tribuni, gendarme della costituzione perfetta, nata dalla frattura tra l’ordine senatorio e la plebe (cfr. P. CATALANO, Sovranità della multitudo e potere negativo: un aggiornamento, in Studi in onore di Gianni Ferrara, I, Torino 2005, 646 s.).

 

[7] Livius 2.23.1-2.

 

[8] Livius 1.60.3: «...Duo consules inde comitiis centuriatis a praefecto urbis creati sunt» e Livius 2.1.10-11: «Deinde quo plus virium in senatu frequentia etiam ordinis faceret, caedibus regis deminutum patrum numerum primoribus equestris gradus lectis ad trecentorum summam expleuit»; i due notissimi passi liviani offrono l’occasione di un’ulteriore precisazione metodologica: l’impostazione dichiarata di chi scrive, fallace o inutile che possa essere, è quella di ricostruire e valorizzare i tratti comuni delle fonti antiche, pertanto, non ci si potrà soffermare su quelle letture, pur di straordinario valore scientifico, che partono dal presupposto di negare, sulla base di argomenti, anche, certo, verosimili, le indicazioni dalle stesse provenienti. Impossibile, per esempio, come già evidenziava F. SERRAO, Secessione e giuramento della plebe al monte sacro, in Index, 35, 2007, 24, interloquire con il complessivo impianto costituzionale delineato da A. GUARINO, La rivoluzione, cit., 13 ss., la sua ricostruzione, pur coerente in stessa ed espressa in modo suadente, si svolge totalmente a margine delle fonti a nostra disposizione.

 

[9] Dionysius 6.22.1; Livius 2.23.3-7; F. SERRAO, Secessione e giuramento, cit., 13 ss. e ID., Diritto privato economia e società nella storia di Roma. 1. Dalla società gentilizia alle origini dell’economia schiavistica, Napoli 2006, 84. Dal punto di vista economico tutto è riassunto, condensato, da Livio nella narrazione di un esemplificativo episodio: Magno natu quidam cum omnium malorum suorum insignibus se in forum proiecit. Obsita erat squalore vestis, foedior corporis habitus pallore ac macie perempti; ad hoc promissa barba et capilli efferaverant speciem oris. Noscitabatur tamen in tanta deformitate, et ordines duxisse aiebant, aliaque militiae decora volgo miserantes eum iactabant; ipse testes honestarum aliquot locis pugnarum cicatrices adverso pectore ostentabat. Sciscitantibus unde ille habitus, unde deformitas, cum circumfusa turba esset prope in contionis modum, Sabino bello ait se militantem, quia propter populationes agri non fructu modo caruerit, sed villa incensa fuerit, direpta omnia, pecora abacta, tributum iniquo suo tempore imperatum, aes alienum fecisse. Id cumulatum usuris primo se agro paterno avitoque exuisse, deinde fortunis aliis; postremo velut tabem pervenisse ad corpus; ductum se ab creditore non in servitium, sed in ergastulum et carnificinam esse. Inde ostentare tergum foedum recentibus vestigiis verberum. Ad haec visa auditaque clamor ingens oritur. Non iam foro se tumultus tenet, sed passim totam urbem pervadit. Sul passo in esame e, più in generale, sulla natura dell’indebitamento movente delle rivolte plebee del secolo V a.C. cfr. anche il contributo di C. GABRIELLI, Debiti e secessione della plebe al Monte Sacro, in Diritto @ Storia 7, 2008, (http://www.dirittoestoria.it/7/Memorie/Gabrielli-Debito-secessione-plebe-Monte-Sacro.htm).

 

[10] Sottolinea l’importanza organizzativa di queste riunioni, che, evidentemente, avranno avuto la funzione di fissare la linea di condotta plebea e di renderla stabile, duratura, incrollabile di fronte alle resistenze patrizie, F. SERRAO, Secessione e giuramento, cit., 16. Certo, prima di questi eventi non si dovrà pensare alla plebe come ad una massa amorfa, che non si rendesse conto del proprio comune destino e della necessità di un cambiamento volto alla costituzione di un ordine alternativo rispetto a quello della civitas quiritaria, e, però, il progressivo, rapido coagularsi dei propositi innovatori di questa classe è pacificamente inserito dalle fonti in questo, determinato, breve arco di tempo (cfr. G. LOBRANO, Il potere dei tribuni, cit., 191 ss.): la plebe si auto-individua per la prima volta e, perseguendo finalmente coesa la propria libertà, diventa il motore del perfezionamento istituzionale. Non vedo la ragione di ignorare questa circostanza, non sarei, di conseguenza, per ammettere con tanta leggerezza, in contrasto con il racconto di Livio, 2.23.4: «Ibi sine ullo duce», come invece M.A. LEVI, Il valore strumentale del tribunato della plebe sino alla tribunicia potestas imperiale, in Il tribunato della plebe e altri scritti su istituzioni pubbliche romane, Milano 1978, 10, che, già prima del 494 a.C., la plebe si fosse data propri ordinamenti e capi, cui fosse legata da un vincolo di giuramento, e che anche il tribuno fosse, nella prassi, operativo e sacrosanto ben prima della secessione.

 

[11] Per le origini di questa tradizione e dell’opposta, che trasferisce sull’Aventino la secessione, si rimanda a R. FIORI, Homo Sacer. Dinamica politico-costituzionale di una sanzione giuridico-religiosa, Napoli 1996, 293 e nt. 1-2.

 

[12] Ribalterei, pertanto, sul punto, l’impostazione di M.A. LEVI, Il valore strumentale del tribunato, cit., 4 ss. (coerente, del resto, all’altro assunto dell’Autore, cioè che la plebe avesse già in epoca più risalente propri rappresentanti sacrosanti, in occasione della secessione del 494 a.C., soltanto riconosciuti dal patriziato), per il quale non vi sarebbe potuto essere nulla di più centrale per la componente plebea del populus dell’ottenere parità economica, attraverso la liberazione dal debito, e uguaglianza di fronte alla giustizia cittadina. Non che una simile affermazione sia infondata, ma l’impostazione cade in fallo, a mio avviso, sotto il profilo della stabilità delle conquiste ottenute: senza una propria rappresentanza politica (cfr. supra nt. 10), infatti, la plebe sarebbe rimasta alla mercé di ogni tentativo di restaurazione patrizio, ostacolata dalla difficoltà di canalizzare la forza della moltitudine, verso il perseguimento di una linea programmatica comune. Che, inoltre, in epoca così prossima alla caduta della monarchia etrusca, la quale tanto aveva favorito l’arricchimento della plebe, la debolezza economica non dovesse essere intesa come un carattere qualificante dell’intera classe plebea è chiarito dallo stesso Autore, e ciò, a mio avviso, dice molto sulle priorità della lotta, quando correttamente si leghi questo dato alla natura militare della secessio e quindi alla consistenza patrimoniale dei suoi artefici (cfr. l’illuminate quadro socio-economico tracciato da E. GABBA, Proposta per un quadro storico di Roma nel V sec. a.C., in Le Dodici Tavole. Dai Decemviri agli Umanisti, a cura di M. Humbert, Pavia 2005, 117-119, come esso abbia determinato l’improvvisa accelerazione del processo d’integrazione politica della plebe è, tra gli altri, messo in chiara luce da S. Tondo, Profilo di storia costituzionale romana, I, Milano 1981, 164). La «direzione dello Stato repubblicano» è il centro del conflitto anche per L. CAPOGROSSI COLOGNESI, Lezioni di Storia del diritto romano. Monarchia e repubblica, Napoli 2004, 88 ss.

 

[13] Dionysius 6.78.1 ss.

 

[14] F. SERRAO, La «Legge», cit., 28.

 

[15] Dionysius 6.73.1 e 6.78.3.

 

[16] Che questa potente miscela tra la protezione divina delle leggi, il cui rispetto fosse giurato davanti agli dei, e la minaccia capitale potesse essere nota alla plebe di Roma come strumento utile a garantire stabilità ad una riforma costituzionale in buona parte imposta, risulta da quanto Gellio tramanda circa la legislazione ateniese di Solone, Noct. Att. 2.12.1: «...ut sempiternae maneret, poenis et religionibus sanxerunt». Sul valore dei giuramenti fatti davanti agli dei, unica possibile forma di garanzia per chi non partecipa ai meccanismi di creazione e distruzione del diritto, si era anche soffermato lungamente Bruto, secondo il racconto di Dionysius 6.78.3.

 

[17] In altri termini, la mia personale convinzione è che si debba approcciare ai fatti del 494, come suggeriva il Serrao, con riguardo al noto processo ai consoli del 474 a.C. (cfr. F. SERRAO, Lotte per la terra e per la casa a Roma dal 485 al 441 a.C., in Legge e società nella repubblica romana, I, Napoli 1981, 79 s.), nella consapevolezza che, pur nella loro indubbia rilevanza giuridica, siamo di fronte ad istituti e procedimenti la cui cogenza è sostenuta dalla plebe con la propria forza rivoluzionaria (cfr. A. MOMIGLIANO, Manuale di storia romana, 1a ed. a cura di A. Mastrocinque, Torino 2011, 30), sia pure nel tentativo di restare entro la cornice religiosa del sistema giuridico romano (secondo l’appunto a suo tempo rivolto alla trattazione serraiana da G. LOBRANO, Il potere dei tribuni, cit., 121 ss., e recepito, mi pare, in buona misura, in F. SERRAO, Secessione e giuramento, cit., 17 ss., sul punto, cfr. la precedente impostazione dell’Autore in ID., La «Legge», cit., 26 ss.): pertanto, se è assurdo, nel momento stesso del loro primo rivelarsi, misurarne la costituzionalità, è parimenti infruttuoso lo sforzo di rintracciarvi gli elementi esatti di un qualche schema giuridico tipico. 

 

[18] G. LOBRANO, Fondamento e natura, cit., 247-249.

 

[19] F. SERRAO, La «Legge», cit., 26 ss.; G. LOBRANO, Il potere dei tribuni, cit., 196 ss. e R. FIORI, Homo Sacer, cit., 304.

 

[20] Sul punto mi pare valga la pena soffermarsi: è nella stessa origine del ius, nella genesi gentilizia dei mores, nella sua interpretazione ed applicazione appannaggio del collegio dei pontefici e dei praetores, come organi giurisdizionali, oltreché nell’impossibilità di innovarlo attraverso l’azione di un comizio centuriato, ancora saldamente in mano patrizia, che sta la scelta plebea di combattere, in questa fase, esclusivamente per avere propri rappresentanti, capi e guide di un ordinamento separato e rivoluzionario (cfr. F. SERRAO, La «Legge», cit., 26 s.), il cui potere “extra-ordinem” porrà le basi delle future conquiste normative, altrimenti rimesse all’arbitrio della classe avversa, in grado di abrogarle così come erano state concesse (un «potere negativo», quello dei tribuni, come forma di opposizione al potere positivo di creazione ed applicazione del diritto, cfr. G. LOBRANO, Fondamento e natura, cit., 249 e P. CATALANO, «Potere negativo» e sovranità popolare, in I cattolici italiani nei tempi nuovi della cristianità, Roma 1967, 5, ma, tuttavia, a parere di chi scrive, anche capace di guidarlo, incanalandone le forze propositive, verso indirizzi normativi il più possibile graditi alla plebe).

 

[21] ‘Partecipazione’ qui intesa nel senso di acquisizione di una parte del potere di governo della civitas, di un ruolo politico interno alla comunità. Che, però, l’affermazione stessa del contropotere plebeo sia l’incipit di una lotta per la ‘partecipazione’, la quale, tuttavia, fino al decemvirato legislativo, avrà la sola veste di un momento di confronto esterno, nel senso di un suo confinamento alla facoltà di «opposizione all’aristocrazia dominante», è idea che, in toto, mi sento di condividere e per la cui messa a fuoco rimando a G. LOBRANO, Il potere dei tribuni, cit., 191-203. Un’aspirazione ad essere particeps, i cui contorni in dottrina ben sono stati definiti dal richiamo, contenuto in P. CATALANO, Tribunato e resistenza, Torino 1971, 23 s., alla posizione del lavoratore salariato, rispetto alle scelte imprenditoriali del datore di lavoro, in una fase storica antecedente al riconoscimento del diritto di sciopero.

 

[22] Il primo vincolo evocato da Bruto, quello di fronte alle divinità, era stretto; il foedus sottoponeva la parte manchevole alla fides alla vendetta degli dei. Si noti in proposito come già R. FIORI, Homo Sacer, cit., 298 e nt. 25 considerasse definitivamente sopite le perplessità, sollevate in dottrina, circa la non internazionalità dei soggetti coinvolti in un simile patto, alla luce delle riflessioni a tempo compiute da P. CATALANO, Linee del sistema sovrannazionale romano, I, Torino 1965, 30 ss. Nello stesso senso, da ultimo, T. LANFRANCHI, Les tribuns de la plèbe et la formation de la république romaine. 494-287 avant J.-C., Roma 2015, 265.

 

[23] Mi pare si possa affermare, in effetti, che lo ius auxilii sia l’unico istituto, emerso dagli eventi del 494 a.C., dotato di una propria connaturata rilevanza giuridica sul piano del diritto pubblico romano, facoltà ottriata dai patrizi, che, tuttavia, così come posta negli accordi tra i due ordini (in condiciones, cfr. Livius 2.33.1-2), sarebbe stata completamente inutile alla causa plebea, per il semplice fatto che una qualsiasi prerogativa conferita senza coercizione né sanzione legale nulla può contro il potere costituito; cfr. M.A. LEVI, Il valore strumentale del tribunato, cit., 11 s. e B. ALBANESE, Sacer esto, in Bullettino dell’Istituto di diritto romano «Vittorio Scialoja», 91, 1988 (1992), 161 s.

 

[24] L. CAPOGROSSI COLOGNESI, Lezioni di Storia, cit., 89 s.

 

[25] Cfr. F. SERRAO, Diritto privato economia e società, cit., 86 s. e B. SANTALUCIA, La giustizia penale in Roma antica, Bologna 2013, 33 ss.

 

[26] Per le cui origini e la cui natura non può qui che rimandarsi all’opera miliare di R. FIORI, Homo Sacer, cit., 25 ss.

 

[27] Si veda in proposito B. SANTALUCIA, Sacertà e processi rivoluzionari plebei. A proposito di un libro recente, in Studi per Giovanni Nicosia, VII, Milano 2007, 258 e 280 s.; è, del resto, il tenore letterale della lex sacrata, come riportata da Dionigi in 6.89.3 a suggerirlo, lezione, questa, che, a differenza di quanto sostenuto da R. PESARESI, Studi sul processo penale in età repubblicana. Dai tribunali rivoluzionari alla difesa della legalità democratica, Napoli 2005, 68, non collide con Festus, De verb. sign., v. Sacer mons, p. 424 L: ...at homo sacer is est, quem populus iudicavit ob maleficium; neque fas est eum immolari, sed qui occidit, parricidii non damnatur; nam lege tribunicia prima cavetur: «si quis eum, qui eo plebei scito sacer sit occiderit, parricida ne sit». Le parole della lex tribunicia prima: «se taluno abbia ucciso… non sia considerato omicida», confermano come la qualifica di sacer scatti automaticamente per il solo fatto della compiuta violazione del tribuno (cfr. B. ALBANESE, Sacer esto, cit., 168 s.) e che, come sottolineato da Santalucia, quel «quem popolus iudicavit» sia da riferire alla necessità di una delibera centuriata di accertamento della violazione in epoca successiva all’entrata in vigore della norma de capite civis decemvirale.

 

[28] Cfr. F. SERRAO, Secessione e giuramento, cit., 18, il quale considerava ab origine l’elezione dei tribuni prerogativa del concilio tributo, posizione, questa, che a dire il vero cozza con la rogatio di Volerone del 471 a.C., con cui si sarebbe stabilito che, per evitare le ingerenze patrizie attraverso il voto dei clientes (privi di ricchezza immobiliare), da quel momento la plebe avrebbe scelto i propri magistrati, sulla base delle preferenze accordate dalle tribù territoriali (Livius 2.56.1-4, in particolare, ʃ. 2: «rogationem tulit ad populum et plebeii magistratus tributis comitiis fierent»), epurate a questo scopo dagli adsidui di origine patrizia (Livius 2.60.5: «Plus enim dignitatis comitiis ipsis detractum est patres ex concilio submovendo»; irrilevante, in ogni caso, ai nostri fini, se si sia trattato di un provvedimento creativo o solo modificativo della composizione di questa assemblea; sulle origini del comizio tributo, per una datazione addirittura anteriore al 494 a.C., cfr. l’opinione di S. TONDO, Profilo di storia, cit., 153 s. e nt. 88 e 166 ss., secondo il quale una tale notizia si desumerebbe da Livius 2.21.7 e dal racconto di Dionigi in 7.15-17; questo stesso Autore, per altro, riteneva attendibile il riferimento dell’Alicarnassense all’elezione dei primi tribuni, pur correggendolo avventurosamente: per costui, infatti, Dionigi avrebbe inteso alludere ad una forma speciale di convocazione dei comizi curiati, limitata alla sola componente plebea del populus). La medesima idea del Serrao veniva suggerita in L. CAPOGROSSI COLOGNESI - F. CÀSSOLA, Le vicende repubblicane sino alle XII Tavole, in Lineamenti di storia del diritto romano, a cura di M. Talamanca, 2a ed., Milano 1989, 84, e, tuttavia, risultava subito dopo emendata, nello stesso manuale, coerentemente alla più tarda normativa, da F. CÀSSOLA - G. LABRUNA, I ‘concilia plebis’ e l’equiparazione dei ‘plebiscita’ alle ‘leges, in Lineamenti di storia del diritto romano, a cura di M. Talamanca, 2a ed., Milano 1989, 216. In ogni caso, anche ammettendo che dei comizi curiati, durante la monarchia etrusca, fossero venuti a far parte tutti i plebei (e non solo i clientes delle genetiche famiglie gentilizie, come è stato sostenuto da A. GUARINO, La rivoluzione, cit., 68 ss.), conformemente all’ipotesi, tra gli altri, creduta da F. DE MARTINO, Storia della costituzione romana, I, 2a ed., Napoli 1972, 159 s. e da F. SERRAO, La «Legge», cit., 22, l’idea che la scelta dei tribuni fosse compiuta (nel 494 e negli anni immediatamente successivi) dall’assemblea curiata, oltreché inverosimile da un punto di vista politico, collide anch’essa con il racconto liviano che si sofferma sulla capacità dei patrizi di influenzare l’elezione per mezzo dei propri sodali plebei (cfr. Livius 2.56.3: «sed quae patriciis omnem potestatem per clientium suffragia creandi quos vellent tribunos auferret») e non fa alcun cenno ad un loro coinvolgimento diretto nella decisione assembleare. Inoltre, per una ragione logica si deve escludere, concordando con l’opinione di M.A. LEVI, Il valore strumentale del tribunato, cit., 11, che la confusione di Dionigi sia quella tra curiae e centurie, dato che altrimenti i tribuni sarebbero stati scelti tra la plebe (Livius 2.33.1) dai patrizi, largamente prevalenti in questo consesso. Più di recente, A. PETRUCCI, Corso di diritto pubblico romano, Torino 2012, 12 s. e 30, ha ritenuto che i primi tribuni fossero stati eletti dal ‘concilium plebis’, senza che se ne possa specificare il modo di disposizione. In G. CRIFÒ, Lezioni di storia del diritto romano, 5a ed., Parma 2010, 56 s. e 87 s., invece si è proposta l’idea, che salva solo in parte la soluzione dell’Alicarnassense, per cui vi sarebbe stata una votazione di due tribuni da parte della plebe riunita sul Monte Sacro, poi, una cooptazione di altri tre, secondo la tradizione preferita da Livius 2.33.2 e, infine, l’assemblea del populus, curiata o centuriata, avrebbe approvato l’elezione.

 

[29] Per ciò che concerne invece le successive procedure elettive (condividendo la posizione di F. CÀSSOLA - G. LABRUNA, I ‘concilia plebis, cit., 216 ss.) sarei per seguire le fonti: in un primo momento, tra il 494 e il 471, mi sembra plausibile che la plebe votasse i suoi rappresentanti per teste all’interno del concilium plebis, divenuto poi tributo, per difendersi dalle intromissioni patrizie, favorite dal legame di clientela, su iniziativa di Publilio Volerone.

 

[30] Lo scopo della delibera emerge anche dalle affini parole di Livio in 2.33.1 e 3.55.8-10.

 

[31] Qui mi pare di dover seguire il filone dottrinario prevalente che identifica la lex tribunicia prima del passo di Festo con il plebiscito del 494 a.C.; cfr. G. DE SANCTIS, Lex tribunicia prima, in Miscellanea G. Mercanti, V, Città del Vaticano 1946, 543 = in Scritti minori, V, Roma 1983, 486; F. SERRAO, Lotte per la terra, cit., 168 nt. 288; B. ALBANESE, Sacer esto, cit., 168; R. FIORI, Homo Sacer, cit., 297 e R. PESARESI, Studi sul processo, cit., 2 nt. 1; contra P. MAROTTIOLI, Leges Sacratae, Roma 1979, 124, da ultimo, T. LANFRANCHI, Les tribuns de la plèbe, cit., 263 ss., nega l’attendibilità della qualifica di questa delibera in termini di plebiscito, poiché nessun plebiscito avrebbe potuto mutare le regole del diritto criminale romano in un tale periodo storico; secondo questa impostazione, pertanto, si sarebbe dovuto attendere fino al 449 per trovare un atto degno di essere qualificato come lex e regolante la materia (in senso diametralmente opposto, ma nemmeno considerato da Lanfranchi, il contributo alla definizione di legge nel diritto romano di F. SERRAO, La «Legge», cit., 28, a cui, sul punto, rimando). Nel 494 a.C., secondo questo Autore, la natura di ordinamento di parte dell’organizzazione plebea renderebbe impossibile qualificare come atto normativo una statuizione della plebe, di conseguenza, in questo anno e fino al suo recepimento da parte della legge comiziale del 449 a.C., soltanto un giuramento rivoluzionario avrebbe garantito la posizione dei tribuni. Oltre a tradire l’antico pregiudizio statualista - ne sia prova l’idea, suggerita dal Lanfranchi, che solo una legge comiziale potesse intervenire a mutare il diritto criminale preesistente - le pagine di questo Autore hanno l’effetto distrofico di cancellare la lotta plebea per la conquista del potere di autonormazione. Siamo di fronte, se non alla prima in assoluto (cfr. A. GUARINO, La rivoluzione, cit., 31, secondo il quale proprio la rivoluzione plebea avrebbe portato a Roma l’idea nuova «dell’elevazione del populus ad assemblea deliberante») ad una delle prime forme attive di partecipazione del popolo romano, o di parte di esso almeno, al procedimento di produzione normativa (R. ORESTANO, I Fatti di normazione nell’esperienza romana arcaica, Torino 1967, 268), alla testimonianza tangibile che la lex, come atto normativo avente un contenuto sostanziale, nasce dalla spinta innovatrice del movimento plebeo (cfr. F. SERRAO, loc. cit., 28), ma l’Autore lo nega; non rileva le incongruenze di un istituto pubblicistico al suo stato embrionale, ma lo relega nella sfera della mera rilevanza politica e religiosa: ne fa discendere un impegno politico pro futuro e non un vincolo giuridico. Impostazione che, a parere di chi scrive, si deve rigettare in toto. Accoglierla, intanto, significa reputare completamente inattendibile la tradizione storiografica antica: il dato normativo, infatti, è per essa posto attraverso la rogatio di Bruto e la delibera di una primordiale struttura conciliare, la sua cogenza è garantita dall’interazione tra sacrosanctitas e giuramento, che sostituisce sul piano giuridico-religioso il fondamento auspicale del potere dei magistrati patrizi, assumendo così la stessa imperatività di una lex nell’ordinamento separato della plebe e aspirando ad imporsi alla generalità del populus, attraverso la minaccia rappresentata dal sacer esto, brandito contro il patriziato come letale arma rivoluzionaria.

 

[32] È il ius iurandum plebis a cui allude Livio in 3.55.10.

 

[33] F. SERRAO, Secessione e giuramento, cit., 18-19 e R. PESARESI, Studi sul processo penale, cit., 2 nt. 1.

 

[34] Concorderei, pertanto, con la visione di F. SERRAO, La «Legge», cit., 27 s. e B. ALBANESE, Sacer esto, cit., 164: se da un punto di vista strettamente giuridico una delibera della sola plebe è idonea a vincolare essa soltanto, tuttavia, il plebiscito giurato di per sé irroga ad ogni offensore (dunque, sia patrizio che plebeo) la sacertas (così pure, più recentemente, cfr. B. SANTALUCIA, Sacertà e processi rivoluzionari, cit., 257-259), impegnando in via esclusiva gli appartenenti alla classe plebea a garantire l’esecuzione del sacrificio. Non mi persuade, invece, la ricostruzione di R. FIORI, Homo Sacer, cit., 314, il quale ritiene che il giuramento plebeo associato alla lex sacrata potesse avere l’unica funzione di sottoporre alla minaccia della pena sacrale gli appartenenti alla componente plebea del populus, e che, per altro, questa sia l’unica ragione plausibile per cui, di seguito, il giuramento sarebbe stato reiterato e imposto a tutto il popolo (Dionysius 6.89.4), cfr. infra nt. 50. Da ultimo, pur togliendo ogni dignità storica al concetto di ‘lex sacrata’, quale plebiscito sorretto da ius iurandum plebis (sulle criticità di questa impostazione già si è detto supra, cfr. nt. 31), concorda con i primi due Autori sull’esistenza e sul valore del giuramento sacrale, anche T. LANFRANCHI, Les tribuns de la plèbe, cit., 271 ss.: nell’ottica rivoluzionaria di un atto normativo propriamente detto non si potrebbe neppure parlare, pertanto, il precetto verrebbe imposto dalla plebe all’atto stesso del sacramentum e protetto, oltre che dalla sua forza politica, pure religione.

 

[35] I magistrati plebei acquisiscono in breve tempo facoltà non scritte, in ordine alla possibilità di bloccare le iniziative dei consoli, presentare proposte di legge all’assemblea della plebe e anche in campo giudiziario, poiché la plebe ha la forza materiale di imporle (cfr. F. SERRAO, La «Legge», cit., 28), di ciò è sintomo non trascurabile anche il fatto che la successiva legge sacrata, del 492, non sia sottoposta ad alcuna approvazione senatoria (Dionysius 7.17.5 e si veda F. SERRAO, Diritto privato economia e società, cit., 85 ss.). Maggiore ponderazione merita il proseguo della trattazione del Serrao: laddove sostiene che in relazione ai «processi rivoluzionari dinanzi all’assemblea della plebe, si andò facendo strada un’interpretazione evolutiva per cui si ritenne che ogni offesa alla plebe o ai suoi interessi costituisse violazione delle due leggi sacratae del 494 e del 492». La mia impressione è che l’opinione del Maestro sul punto vada precisata tenendo conto delle osservazioni di B. SANTALUCIA, Sacertà e processi rivoluzionari, cit., 259 ss., al, comunque approfondito, lavoro di R. PESARESI, Studi sul processo, cit., 10 ss.: questa estensione di competenze è determinata dall’approccio rivoluzionario della plebe, ma non si fonda direttamente sul carattere sacrato “acquisito” di tutte le delibere della stessa, non ogni plebiscito è sacrato nel senso di comminare al contravventore la qualifica di sacer, ma il tribuno in ogni aspetto della sua attività politica e legislativa non può essere violato o interrotto, per l’essere questi protetto dalle leggi del 494 e 492, pertanto, ogni suo atto legislativo, coercitivo o giurisdizionale sarà compiuto sotto la minaccia che qualsiasi reazione al suo potere (aggressione o turbativa che sia) verrà valutata alla luce di quelle disposizioni.

 

[36] Su questa inarrestabile espansione della potestas tribunizia e sul suo rapporto di paradossale predominanza sull’imperium consolare in questa fase storica doveva pure essersi intrattenuto Dione Cassio: sotto il primo profilo è rivelatrice la trattazione epitomata delle sua “Storia” in Zonara, 7.15, mentre l’altra notizia si offre a noi nella versione originale contenuta nella parte finale del frammento Dion Cassius 17.15, ove il potere negativo viene descritto come fisiologicamente prevalente su quello di coloro che si dovevano cimentare nel proporre qualcosa di nuovo (sul punto, G. URSO, Cassio Dione e i magistrati: le origini della repubblica nei frammenti della Storia romana, Milano 2005, 52 ss. e 72). Il dato, per altro, emerge in tutta la sua nettezza dal seguito della narrazione liviana circa i fatti del 473 a.C., in 2.54.1 ss., in particolare, al ʃ. 9: …tandem qui obversati vestibulo tribuni fuerant nuntiant domi mortuum esse inventum. Quod ubi in totam contionem pertulit rumor, sicut acies funditur duce occiso, ita dilapsi passim alii alio. Praecipuus pavor tribunos inuaserat, quam nihil auxilii sacratae leges haberent morte collegae monitos. Il processo tribunizio intentato da Genucio contro i consoli dell’anno precedente per aver agito contro gli interessi della plebe porta ad emersione un problema che è in re ipsa al rapporto tra potere rivoluzionario e potere costituito: il secondo soccombe al primo ogniqualvolta resta nell’osservanza, che tuttavia lo caratterizza, dello schema di legge, il primo vacilla in tutti i casi in cui manchi della forza di autoimporsi. Il tribuno accusa Lucio Furio e Caio Manlio di aver ignorato le richieste della plebe riguardo all’approvazione della legge agraria, portandoli in giudizio per una ragione prettamente politica, ma non ne ha alcun diritto, non v’è nessuna normativa preposta, neppure rivoluzionaria, che lo autorizzi a fare ciò: eppure la plebe percepisce, non la sua azione, ma il suo assassinio, come atto illegittimo e torna a temere per la propria incolumità, dubitando della perdurante validità ed efficacia delle leges sacratae. Tutto ciò, ai fini della nostra trattazione, conferma l’idea che qualsiasi iniziativa del tribuno è congrua al suo potere se egli ha da sé solo o attraverso l’ausilio degli altri plebeii magistratus la forza di esercitare la coercizione, di promuovere il procedimento giudiziario, piuttosto che di proporre una certa rogatio e se la plebe, in relazione a queste sue risoluzioni, è in grado di imporne l’inviolabilità attraverso lo schema della sacertas (anche cfr. quanto detto nel testo a riguardo di Livius 2.56.6-14).

 

[37] È stato pure sostenuto (M.A. LEVI, Il valore strumentale del tribunato, cit., 12), in base ad una ragione essenzialmente logica, che lo ius coercendi dovesse essere riconosciuto ai tribuni dagli stessi patres insieme allo ius auxilii: senza di esso, del resto, il diritto di soccorrere i cittadini plebei vessati da atti dei magistrati patrizi sarebbe rimasto lettera morta. Mi limito a rilevare, sul punto, che la constatazione, per quanto ovvia, non presuppone che questo potere dovesse essere assicurato costituzionalmente; inoltre, nessuna allusione ad un simile riconoscimento è presente nel quadro delle fonti: né il foedus (Dionysius 6.89.1), che autorizzava i plebei all’elezione di propri rappresentanti, né il successivo giuramento di tutti i Romani (Dionysius 6.89.4, su cui infra § 5 e nt. 47), che aveva ad oggetto il divieto di abrogare le leggi sacrate, né il voto senatorio di ratifica all’elezione dei tribuni (Dionysius 6.90.2, su cui infra § 6) conferivano ai magistrati plebei un simile potere.

 

[38] La lex Sicinia (o Icilia) contra verba atque interfationem stabiliva che nessuno avrebbe potuto impedire al tribuno di parlare all’assemblea plebea contrapponendosi a lui anche solo verbalmente (cfr. Cicero, Pro Sest. 37.79: «Itaque fretus sanctitate tribunatus, cum se non modo contra vim et ferrum sed etiam contra verba atque interfationem legibus sacratis esse armatum putaret»): colui che avesse violato tale precetto avrebbe dovuto impegnarsi mediante vades a pagare una multa, se non lo avesse fatto, avrebbe potuto essere punito con la morte; tra gli altri, si veda F. SERRAO, Diritto privato economia e società, cit., 85 s. Ancor oggi non è sopito in dottrina il dibattito circa il significato dell’espressione «θανάτ ζημιούσθω», impiegata da Dionigi in 7.17.5: se indichi la consecratio capitis o altra forma di pena capitale; recentemente, nella prima direzione si è pronunciato R. PESARESI, Studi sul processo, cit., 4 e 37, nell’opposta, invece, si è mosso B. SANTALUCIA, Sacertà e processi rivoluzionari, cit., 259 e nt. 12. 

 

[39] Cfr. supra nt. 35 e 37.

 

[40] B. SANTALUCIA, Sulla legge decemvirale de capite civis, in Le Dodici Tavole. Dai Decemviri agli umanisti, a cura di M. Humbert, Pavia 2005, 402 s.

 

[41] Mi sembra sul punto da condividere la posizione e nei dettagli l’argomentazione di B. SANTALUCIA, Sacertà e processi rivoluzionari, cit., 260 ss.; i processi istituiti dai tribuni davanti all’assemblea della plebe in epoca predecemvirale rispondono a due schemi: secondo il primo, il concilio colpisce i componenti dell’altro ordine con condanne pecuniarie e capitali per aver compiuto atti di aggressione o comunque pregiudizievoli alla plebe, in alternativa, sottopone al giudizio popolare soggetti che, passibili di consecratio capitis ai sensi della legge sacrata del 494 a.C., per ragioni di opportunità politica, si decide di processare pubblicamente. In entrambi i casi le fonti non fanno cenno all’accertamento della sacertà, nel primo caso, del resto, ne sarebbe mancato in toto il presupposto, non essendo ravvisabile una violazione dell’integrità o della libertà tribunizia (nel 476, Tito Menenio veniva processato per la perdita di un importante avamposto militare, una battaglia persa è pure causa dell’accusa a Spurio Servilio Prisco nel 475, nel 473 è generica l’accusa di atti ostili alla plebe rivolta da Genucio ai consoli di quell’anno, poi, ancora, Cesone Quinzio, nel 461, viene accusato per l’uccisione di un plebeo non protetto dall’inviolabilità tribunizia), nel secondo, l’attivazione del processo è utile proprio a non esasperare lo scontro politico, attraverso l’esecuzione sommaria dell’automatismo sacrale nei confronti di membri dell’ordine patrizio particolarmente in vista (è il caso dei processi del 491 a Cneo Marcio Coriolano, per aver chiesto la consegna dei tribuni in cambio dell’elargizione a basso costo di grano alla plebe, e del 470 ad Appio Claudio Sabino, per i tentativi di violenza contro il tribuno Laetorio, durante il suo sforzo per far approvare, mediante plebiscito, il trasferimento della competenza per l’elezione dei tribuni al concilio tributo, in nessuno dei due episodi, in ogni caso, si fa luogo alla dichiarazione della sacertà).

 

[42] Cfr. supra nt. 35.

 

[43] Cfr. Tab. 9.1-2, 6; Cicero, De leg. 3.4.11: «de capite civis nisi per maximum comitiatum ne ferunto» e 3.19.44; De rep. 2.36.61 e Pro Sest. 30.65: «cum XII tabulis sanctum esset ut ne liceret, neve de capite nisi comitiis centuriatis rogari»; la legislazione decemvirale recava in sé un compromesso politico: la plebe otteneva di essere giudicata di fronte alle centurie a seguito dell’invocazione della provocatio contro la coercitio consolare, mentre il patriziato, dalla sua, metteva al bando i processi capitali rivoluzionari davanti ai concilia plebis, cfr. l’originale impostazione di J. BLEICKEN, Ursprung und Bedeutung der Provocation, in Zeitschrift der Savigny-Stiftung für Rechtsgeschichte. Romanistische Abteilung 76, 1959, 348 ss., C. VENTURINI, Lo Strafrecht mommseniano ad un secolo di distanza, in Processo Penale e società politica nella Roma repubblicana, Pisa 1996, 55 ss. e 81 s., ed ancora B. SANTALUCIA, Dalla vendetta alla pena, in Storia di Roma, 1. Roma in Italia, a cura di A. Schiavone, Torino 1988, 442 e ID., La giustizia penale, cit., 36. In senso contrario cfr. R. PESARESI, Studi sul processo, cit., 105 ss., per il quale la legge non avrebbe riguardato l’accertamento della sacertà davanti ai concili della plebe, ma soltanto la regolazione dell’esercizio del potere d’imperium dei magistrati patrizi; del resto, secondo questo Autore, nemmeno avrebbe potuto, in quanto la non abrogazione delle disposizioni sacrate era stata oggetto di specifica trattativa in epoca predecemvirale. Mi limito sul punto a segnalare che la norma in questione non possa leggersi come tentativo di smantellamento della disciplina introdotta dalle leges sacratae, ma, al più, come procedimentalizzazione del meccanismo di irrogazione della sanzione da queste stabilito; sugli altri argomenti adotti non mi pare utile qui indugiare a fronte della critica già compiuta da B. SANTALUCIA, Sacertà e processi rivoluzionari, cit., 269 ss., la cui impostazione in pieno condivido. Non si ignora, per altro, come pure vi sia stato un dibattito non troppo risalente sulla correttezza della lettura ciceroniana della norma decemvirale. Secondo l’interpretazione di E. GABBA, Maximus comitiatus, in Athenaeum, 65, 1987, 203 e ss., l’aggettivo maximus doveva fare riferimento semplicemente ad una convocazione plenaria del comizio competente, sul punto, mi limito a richiamare le osservazioni a suo tempo compiute da B. ALBANESE, Maximus comitiatus, in Scritti giuridici, II, Palermo 1991, 1689 ss. e da B. SANTALUCIA, Sulla legge decemvirale, cit., 402 ss. Come anche è testimoniato da Festus, De verb. sign., v. Sacer mons, p. 424 L (cfr. supra nt. 27), da questo momento la qualità di sacer del profanatore dell’inviolabilità tribunizia per esonerare l’uccisore da sanzione criminale avrebbe dovuto essere dichiarata giudizialmente da tutto il popolo riunito per centurie, in tema, conformemente alla tradizione ciceroniana, cfr. ID., loc. ult. cit., 411 e ID., loc. cit., 269-272 e 275 s.; contra L. GAROFALO, Opinioni recenti in tema di sacertà, in Sacertà e repressione criminale in Roma arcaica, Napoli 2013, 13 ss., il quale ritiene non applicabile all’homo sacer per violazione del precetto della lex sacrata del 494 a.C. la norma delle XII Tavole, in quanto essa avrebbe come presupposto per la sua applicazione lo status civitatis, che il contravventore perderebbe al momento della commissione del fatto contrario all’inviolabilità (così più diffusamente anche C. PELLOSO, Sacertà e garanzie processuali in età regia e proto-repubblicana, in Sacertà e repressione criminale in Roma arcaica, Napoli 2013, 110 ss.). E, tuttavia, questa seconda impostazione non mi persuade: secondo l’idea di Santalucia, infatti, davanti al comizio centuriato si sarebbe dovuto svolgere un processo teso all’accertamento giudiziale della violazione della lex sacrata, seguito, poi, dalla dichiarazione pubblica di sacertà (cfr. L. PEPPE, Note minime di metodo intorno alla nozione di homo sacer, in Studia et Documenta Historiae et Iuris 73, 2007, 431 e P. CARAFA - M. FIORENTINI - U. FUSCO, La città, i re e il diritto, in La Leggenda di Roma. III. La costituzione, a cura di A. Carandini, Milano 2011, 355 s.). Il momento dell’accertamento interno a questa procedura segnava il passaggio dalla condizione di civis a quella di reietto dalla comunità, pertanto, fintanto che la violazione non fosse stata verificata di fronte al populus, l’imputato non si sarebbe dovuto considerare colpevole e quindi sacer, godendo, di conseguenza, dei pieni diritti del cittadino (recentemente, per altro, lo stesso L. GAROFALO ripubblicava un saggio, Homo liber e homo sacer due archetipi dell’appartenenza, in Fondamenti e svolgimento della scienza giuridica, Torino 2015, 26 s. e nt. 65, in cui aderiva alla ricostruzione qui prediletta).

 

[44] L’indicazione di Livius 3.55.3: «cum velut in controverso iure esset tenerenturne patres plebi scitis, legem centuriatis comitiis tulere ut quod tributim plebes iussisset populum teneret», è, a mio avviso, senza dubbio incompleta, non lo fosse, si dovrebbe credere alla sua natura di costruzione anticipatoria della lex Hortensia del 286 a.C. oppure a fenomeni intermedi di desuetudine normativa, a parere di chi scrive, non verosimili per una statuizione così fondamentale. Personalmente, ritengo più probabile che il capitolo della legge in questione sia da colmare sulla scorta della prassi che Dionigi, 2.14.3 e 6.66.3, ricorda, forse in questo caso anticipandola, in relazione alle delibere del comizio curiato prima, centuriato poi, di epoca monarchica e proto-repubblicana, la quale testimonia l’esistenza di un vaglio senatorio, difficile dire se preventivo o successivo, necessario all’acquisto di validità delle stesse. La rogatio, pertanto, andrebbe letta nella direzione di una equiparazione sul piano dell’efficacia tra plebisciti e leggi centuriate, come a suo tempo suggerito da S. TONDO, Profilo di storia, cit., 204, di conseguenza, mi pare si debba accogliere la lettura di F. SERRAO, La «Legge», cit., 39 ss., per il quale sarebbe da valorizzare la contrapposizione tra il termine patres, adoperato nel presentare la questione controversa, e quel populus della soluzione, nel senso che le risoluzioni della plebe sarebbero equiparate a quelle di tutto il popolo, non necessitando di essere versate in una sua delibera per vincolarlo, ma, al contrario, non sarebbero capaci di coartare il volere del senato, che, in rapporto ad esse, avrebbe comunque continuato a esprimersi, attraverso la prestazione dell’auctoritas. Il contenuto della disposizione mi pare comunque confermato anche da Livio, 6.42.9, che nel narrare il sofferto procedimento di approvazione delle leges Liciniae Sextiae, in epoca anteriore alle leges Publiliae Philonis (339 a.C.) e alla lex Hortensia, chiude il percorso normativo con l’accettazione delle tre rogationes da parte del dittatore e del senato. Nella manualistica recente, A. PETRUCCI, Corso di diritto pubblico, cit., 34, ha ritenuto che la legge prescrivesse, al fine di estendere l’efficacia dei plebisciti a tutto il popolo, la ratifica o il preliminare vaglio del senato e L. FASCIONE, Manuale di diritto pubblico romano, 2a ed., Torino 2013, 107, che dovesse ricorrere una preventiva concertazione della rogatio. C’è anche chi recentemente ha sostenuto, con acuta argomentazione, M. HUMBERT, I ‘plebiscita’ prima dell’equiparazione alle leggi, in Leges publicae. La legge nell’esperienza giuridica romana, a cura di J.L. Ferrary, Pavia 2012, 308-315, che il plebiscito debba essere inteso, prima del 287 a.C., come strumento volto alla fissazione delle rivendicazioni politiche della plebe, come ultimatum nei confronti della civitas, privo di qualsiasi cogenza normativa (ordinamentale o extra-ordinamentale, costituita o rivoluzionaria). La tesi, tuttavia, oltre a porsi in contrasto con la trattazione annalistica, emenda in larghe parti il pensiero liviano e dionisiano sulla base di argomentazioni logico-sistematiche che, pur seducenti, non scalfiscono, nelle sue linee di fondo, la coerenza della tradizione, inoltre, a mio avviso, l’Autore sottovaluta pregiudizialmente la forza impositiva della plebe e di conseguenza non vede il compromesso intrinseco all’integrazione ordinamentale dei plebiscita: la plebe, infatti, otteneva uno strumento di normazione diretta, ma il patriziato recuperava uno stringente controllo sui suoi contenuti.

 

[45] F. SERRAO, Secessione e giuramento, cit., 19; se si deve anzitutto premettere che il termine giuramento indica un impegno collettivamente assunto da una comunità nei confronti di un’altra (o da un gruppo coeso) davanti agli dei, il cui spregio comporta la rottura della pax deorum e la conseguente rovina della comunità o del gruppo contravventore, sicuramente, a seguito dello ius iurandum sull’inviolabilità dei tribuni nasceva un vincolo religioso, che avrebbe esposto all’ira divina l’intero ordine plebeo se questo non si fosse impegnato a far rispettare il contenuto precettivo della lex sacrata per mezzo dell’esecuzione della pena sacrale che ne costituiva la sanctio. In senso stretto, dunque, i patrizi non sarebbero stati vincolati al rispetto della norma, ma le avrebbero dovuto prestare ossequio in forza della minaccia su di loro gravante per effetto dell’obbligo assunto dai plebei di fronte alle divinità. A ciò, tuttavia, si deve aggiungere un’interessante considerazione, recentemente palesata da F. ZUCCOTTI, Giuramento collettivo e leges sacratae, in Studi per Giovanni Nicosia, VIII, Milano 2007, 526 s.: se, infatti, si pone mente alla ragione che aveva spinto i patrizi ad accettare la richiesta plebea di eleggere propri magistrati, cioè, precipuamente, la necessità di far rientrare la secessio, ponendo fine all’indebolimento dell’exercitus, non sfuggirà come il vincolo religioso assunto dalla plebs avrebbe finito, indirettamente, per premere pure sui patrizi, i quali, se avessero tentato di manovrare i plebei convincendoli a non prestar fede ai sacralizzati propositi, avrebbero esposto una parte rilevante delle proprie legioni all’ira divina.  

 

[46] Sul passo, F. SINI, Interpretazioni giurisprudenziali in tema di inviolabilità dei tribuni della plebe (a proposito di Tito Livio 3.55.6-12), in Diritto @ Storia 2, 2003, (http://www.dirittoestoria.it/tradizione2/Sini-Tribunato.htm), con il quale non posso che concordare sulle pregnanti conseguenze della fonte: «Dalla sententia degli iuris interpretes citati da Tito Livio emerge […] che era proprio la sacrosanctitas, fondata sul vetus ius iurandum plebis del494 a.C. e non sulla legge del 449 a.C., a stabilire la collocazione istituzionale del tribunato nel sistema giuridico-religioso romano. Di fronte alla chiarezza con cui gli iuris interpretes configurano il fondamento del potere tribunizio come “unilaterale imposizione della plebe”, risultano maggiormente incomprensibili le ragioni di fondo (ideologiche e metodologiche) che hanno impedito finora alla dottrina romanistica di orientarsi verso questa ipotesi».

 

[47] La distinzione emerge chiaramente dal confronto tra le parole di F. SERRAO, Secessione e giuramento, cit., 19, che in riferimento al primo atto parla di un «giuramento di osservare la legge e, principalmente, di farla osservare e, con ciò, di ritenere sacer chi avesse attentato alla libertà ed indipendenza dei tribuni…», che «proclama rivoluzionariamente la validità di un atto di parte», e quelle di R. FIORI, Homo Sacer, cit., 314, per cui «il secondo giuramento […] è quello di tutti i Romani durante le cerimoniae sacrificali: esso sancisce una fides che non riguarda più i soli plebei, ma anche i patrizi» e di F. ZUCCOTTI, Giuramento collettivo, cit., 526, ad avviso del quale questo secondo atto solenne «serve a far sì che non vi sia in futuro la possibilità di far cessare tale legge», ovvero la lex sacrata prima; si veda, infine, ancora lo stesso Serrao, in ID., Diritto privato economia e società, cit., 87, per il quale con esso tutti i cittadini «giurarono di non abrogarla o di non farla abrogare».

 

[48] Sul punto, mi stupiscono le incertezze avute anche da illustrissima dottrina, come B. ALBANESE, Sacer esto, cit., 164 s., il quale, inaspettatamente, identifica lo ius iurandum plebis di Livius 3.55.10 e il giuramento descritto da Dionysius 6.89.4, ignorandone prima di tutto l’alterità soggettiva concordemente tramandata dalle fonti («πάντας τάχϑη Ρωμαίους μόσαι καϑερν μν χρήσεσϑαι τ νόμ»). La distinzione, dopotutto, pur con i limiti derivanti dalla faticosa individuazione di un termine corrispondente a plebs nella terminologia greca, emerge (cfr. supra § 4) anche dal raffronto con Dionysius 6.89.2, se è il neoeletto Bruto a convocare l’assemblea votante e, poi, giurante la prima legge sacrata: « δ Βροτος κκλησίαν συναγαγν συνεβούλευε τος δημόταις ερν κα συλον ποδεξαι τν ρχν νόμ τε κα ρκ βεβαιώσαντας ατ τ σφαλές».

 

[49] F. SERRAO, Diritto privato economia e società, cit., 87.

 

[50] Significative perplessità ho sulle motivazioni che hanno spinto, inaspettatamente, R. FIORI, Homo Sacer, cit., 314 ss. a distaccarsi dal dettato delle fonti con riguardo ai rispettivi contenuti e, coerentemente, alla funzione dei menzionati giuramenti; secondo questo Autore, infatti, il primo giuramento, costituendo ex novo un ordinamento separato dalla civitas, avrebbe stabilito la sacratio capitis et bonorum solamente per i plebei che avessero nuociuto alla persona del tribuno, il secondo avrebbe invece esteso la medesima sanctio a tutti i Romani. La tesi, oltreché in palese contrasto con il racconto di Dionigi, mostra, a mio avviso, alcune altre criticità. Anzitutto, all’evidenza, dopo un decennio di lotte per l’ottenimento di una qualche forma di tutela in senso garantista, il primo giuramento sarebbe risultato del tutto superfluo: quale plebeo, mi chiedo, avrebbe aggredito deliberatamente un tribuno, cioè il frutto ultimo di tanti travagli? Forse, ma ciò non dissipa i miei personali dubbi sulla ricostruzione proposta, un cliens particolarmente ossequioso verso i desideri del proprio protettore o un uomo della plebe al soldo patrizio e, tuttavia, anche in questo caso, l’inutilità della statuizione si paleserebbe nella misura in cui, tagliata la mano, trascurerebbe inopinatamente di occuparsi della mente di una simile macchinazione. In secondo luogo, l’estensione di questa guarentigia giurata sarebbe stata troppo esigua, non risultando idonea a difendere il tribuno da deliberate aggressioni aristocratiche. In tema mi pare di poter concordare con l’opinione di F. ZUCCOTTI, Giuramento collettivo, cit., 514 ss. e non vedo perché si dovrebbe emendare la tradizione dionisiana: il giuramento di tutti i Romani assolveva una finalità completamente eterogenea rispetto al precedente, era utile, infatti, alla causa plebea nella misura in cui evitava che una disposizione unilateralmente imposta, come quella sacrata, alla prima debolezza delle forze rivoluzionarie fosse cancellata o svuotata di significato da un atto altrettanto unilaterale di segno opposto. Nel momento della sua maggior forza politica la plebe riusciva, con questo atto, a legare religione anche i componenti dell’avverso ordine ad un provvedimento che non avevano contribuito a plasmare, in vista, per così dire, dei futuri venti della reazione. Afferma quest’ultimo Autore: «la sacertà prevista […] per l’attentato al magistrato plebeo, si colloca su altri piani, che non hanno nulla a che vedere con il giuramento collettivo» di tutto il populus, «avente a specifico oggetto l’eterno rispetto di tali statuizioni in se stesse considerate», se così non fosse, del resto, saremmo di fronte ad un non senso: i patrizi si sarebbero vincolati davanti agli dei a rispettare una statuizione unilaterale della plebe, facendo propria la norma sull’inviolabilità dei tribuni tramite un giuramento, pur non avendola rogata come lex davanti al comizio centuriato. Difficoltà ricostruttive e sistematiche mi allontanano dall’argomentazione recentissimamente proposta sul punto da T. LANFRANCHI, Les tribuns de la plèbe, cit., 261 ss., anzitutto, anche questo Autore non presta fede al tenore letterale del secondo giuramento così come tramandatoci da Dionigi, egli infatti ritiene, nonostante ne riporti il testo in traduzione francese completa e corretta, che questa coniuratio avesse, nel racconto dello storico di Alicarnasso, la funzione di uno strumento di riconoscimento ordinamentale della pena della sacratio capitis per il profanatore dell’inviolabilità tribunizia. Così facendo, espone incolpevolmente la fonte alla critica di essere o anticipazione indebita delle leggi Valerie Orazie, circa il recepimento all’interno dell’ordinamento della civitas dell’inviolabilità tribunizia o del tutto incoerente con la possibilità per i patrizi di sottoporre l’intera legislazione all’approvazione comiziale, pervenendo, poi, per questa via, nelle pagine che seguono, ad espungere del tutto l’evento dalla sua trattazione.

 

[51] F. ZUCCOTTI, Giuramento collettivo, cit., 517.

 

[52] R. FIORI, Homo Sacer, cit., 295 ss.

 

[53] Cfr. supra nt. 48 e 50.

 

[54] Un senatoconsulto di ratifica che avrebbe convertito la statuizione unilaterale plebea in una lex publica era perfettamente ammissibile pure per questa epoca in base alla risalente opinione di W. SOLTAU, Die Gültigkeit der Plebiscite, Berlin 1884, 101.

 

[55] Cfr. R. FIORI, Homo Sacer, cit., 299; perfino come mero atto politico un senatoconsulto avente per oggetto i contenuti delle leges sacratae sarebbe assolutamente inopportuno, che senso avrebbe avuto, infatti, legittimare politicamente uno strumento di lotta ideato dalla controparte? Anche T. LANFRANCHI, Les tribuns de la plèbe, cit., 261 ss., del quale, come detto, non condivido la complessiva impostazione, reputa la notizia di un placet senatorio espresso sui contenuti del ius iurandum plebis assolutamente incoerente con i successivi sviluppi della lotta tra i due ordini.

 

[56] Ove si menziona la ratifica/conferma di una ρχή e non di una lex.

 

[57] Livius 1.17.9; 1.22.1; 1.47.10; 1.49.3 e Dionysius 2.14.3; 2.60.3.

 

[58] La manualistica è concorde, nella sostanza, su questo punto, dalla più risalente V. ARANGIO-RUIZ, Storia del diritto romano, 7a ed., Napoli 1977, 41, alle espressioni più recenti A. PETRUCCI, Corso di diritto pubblico, cit., 25.

 

[59] Mi pare interessante notare come tra i casi, tramandati dalle fonti, di auctoritas prestata dai patrizi, o meglio da quelli di loro parte del senato, F. DE MARTINO, Storia della costituzione romana, I, cit., 270 ss. e nt. 25, noto oppositore delle letture “concordatarie” dei fatti del 494 a.C., inserisca il passo di Dionigi, 6.90.2. Questa circostanza mi pare dia più di un elemento per ritenere che l’Autore, come chi scrive, la intendesse quale strumento di approvazione di una delibera elettiva e non normativa del concilium plebis, che, se così non fosse, se cioè si accettasse la notizia della ratifica senatoria delle leges sacratae, si negherebbe alla radice la complessiva impostazione dell’Autore, facendo rientrare dalla finestra quell’accordo che con lo screditamento del foedus si era cacciato dalla porta della storia romana proto-repubblicana.

 

[60] In proposito, cfr. le analoghe annotazioni sull’esercizio del potere legislativo da parte dell’assemblea della plebe, supra nt. 44.