Contributo-2018

 

 

Poli-Pier-Francesco-fotoLA COLPA GRAVE QUALE LIMITE ALLA RESPONSABILITÀ PENALE PER COLPA:

UNO SGUARDO AL PASSATO

 

PIER FRANCESCO POLI

Assegnista di ricerca in Diritto penale

Università di Milano

 

 

SOMMARIO: 1. La ragione di uno “sguardo al passato” sulla colpa grave. – 2. Trapassato remoto. – 2.1. Diritto penale romano. – 2.2. Diritto penale barbarico. – 2.3. Diritto comune. – 3 Passato remoto: i codici preunitari. – 3.1. I testi di legge. – 3.2. Le opinioni dottrinali e la giurisprudenza. – 4. Passato prossimo: il codice Zanardelli del 1889. – 4.1. L’art. 371 c.p. Zanardelli e la relazione ministeriale. – 4.2. La posizione della dottrina. – 4.3. Gli orientamenti giurisprudenziali. – 5. L’eredità della plurisecolare elaborazione in tema di colpa grave agli albori del codice Rocco. – 6. Riflessioni conclusive e prospettive di ulteriore indagine.Abstract.

 

 

1. – La ragione di uno “sguardo al passato” sulla colpa grave

 

Nel nostro ordinamento penale, come noto, attraverso i reati colposi si sanzionano indiscriminatamente sia condotte tenute con colpa lievissima, sia condotte realizzate con colpa estremamente grave, giacché il grado della colpa di regola assume rilievo solo ai fini del quantum della pena, ai sensi dell’art. 133 c.p., ma non già ai fini dell’an della punizione.

Le uniche eccezioni all’indiscriminata incriminazione di qualsiasi grado di colpa sono rappresentate, a livello legislativo:

i) dall’art. 64 del codice di procedura civile, in cui si limita la responsabilità penale del consulente tecnico all’interno del processo civile alla sola ipotesi di “colpa grave”;

ii) dall’art. 217 comma 1, n. 4) l. fall., che prevede la responsabilità dell’imprenditore che abbia aggravato il proprio dissesto, astenendosi dal richiedere la dichiarazione del proprio fallimento o “con altra grave colpa”;

iii) dall’art. 217 comma 1, n. 3) l. fall., che statuisce la responsabilità dell’imprenditore nel caso in cui questi abbia compiuto operazioni di “grave imprudenza” al fine di ritardare il fallimento;

iv) dall’art. 217 comma 1, n. 2) l. fall., che prevede la responsabilità dell’imprenditore qualora il medesimo abbia consumato una notevole parte del suo patrimonio in operazioni “manifestamente imprudenti[1].

Una quinta eccezione era rappresentata dall’art. 3 comma 1 della l. 189 del 2012, di conversione del c.d. D.L. Balduzzi, il quale prevedeva una irresponsabilità in sede penale per colpa lieve del sanitario che si fosse attenuto a linee guida e buone pratiche nello svolgimento delle proprie attività. Tale disposizione, tuttavia, è stata recentemente eliminata dal legislatore con un intervento riformatore (la c.d. Legge Gelli – Bianco, introduttiva dell’art. 590 sexies c.p.) non privo di criticità[2]. Interpretando la nuova disciplina, peraltro, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione sono giunte a reintrodurre, in via pretoria, il limite della colpa grave per la responsabilità del sanitario in presenza di determinati presupposti[3].

Allo stato attuale, quindi, nel nostro sistema penale[4], salvo marginali eccezioni e controverse interpretazioni giurisprudenziali, in presenza di una previsione incriminatrice di un reato colposo si sanzionano tutte le condotte commesse con colpa, indipendentemente dalla gravità della medesima.

L’obiettivo del presente contributo è verificare – posto che attualmente l’impiego del grado della colpa con funzione di limite alla responsabilità penale risulta estremamente ridotto – se siffatta situazione corrisponda alla tradizione giuridico-penale italiana, ovvero rappresenti un fenomeno relativamente recente[5].

L’idea dell’opportunità di una tale indagine preliminare è scaturita, oltre che dalla considerazione generale che per studiare un fenomeno giuridico è senz’altro utile indagarne l’evoluzione storica[6], dalla lettura di alcuni passaggi, sulla colpa e sulla colpa grave, di Francesco Carrara. L’Autore, nel suo Programma del corso di diritto criminale[7] – opera che sarebbe diventata un punto di riferimento per la scienza penalistica moderna e contemporanea – scriveva, infatti, che la ragione di una regola che limiti la responsabilità penale alla sola colpa connotata da gravità

“è evidente. La pubblica opinione in siffatte contingenze [fatti commessi senza colpa grave] si muove alla pietà, non al timore. Ciascuno, portando l’esame sopra se stesso, ripete nel suo cuore, che ciò sarebbe avvenuto a tutti; e tale coscienza non è compatibile con la coscienza della necessità di una punizione. L’opinione della sicurezza non si commuove per il fatto, e poiché ognuno sente che a sua volta potrebbe trovarsi nel caso uguale di essere causa inconsapevole dell’altrui morte, quell’allarme, che non ha eccitato il fatto, non eccita invece la punizione, ed il fine della tranquillità non è manomesso. Non v’è bisogno di fare un esempio agli scioperati dove non v’è stata scioperataggine, non v’è bisogno di calmare i sospetti dei buoni dove i buoni non sentono timore. La ragione politica dell’imputabilità per colpa scomparisce affatto. Un omicidio, commesso per colpa lievissima, non è niente di più che una sventura, e le sventure domandano lagrime e conforti, non pene”.

L’interrogativo che sorge, dunque, spontaneo è se il grado della colpa, in passato, abbia avuto un qualche ruolo nel nostro sistema in funzione di limite alla responsabilità penale e per quale ragione esso abbia perso, in tempi più recenti, tale ruolo. Per rispondere a tale domanda intraprenderemo, pertanto, nelle seguenti pagine, un’analisi retrospettiva, sia pur limitandoci a considerazioni sintetiche.

 

 

2. – Trapassato remoto

 

Alcuni brevi cenni sull’utilizzo della colpa grave in un arco temporale particolarmente lungo – che muove dalla nascita del diritto romano nell’ottavo secolo a.C.[8], anno di formazione della civitas, per giungere alla fine del diritto comune[9], coincidente con la comparsa delle codificazioni di fine Settecento – paiono utili al fine di iniziare l’excursus che ci proponiamo di compiere per l’inquadramento della tradizione giuridica che ha condotto alla configurazione dell’elemento soggettivo del reato come lo si conosce oggi.

 

2.1. – Diritto penale romano

 

In relazione all’ordinamento giuridico romano va anzitutto premesso che, mentre il diritto privato aveva costituito oggetto di una profonda e accurata elaborazione, mancava del tutto uno studio analogo sul diritto penale al punto che, nei testi antichi, non si rinviene una parte generale di tale branca del diritto[10] e i giuristi dell’epoca procedevano alla descrizione dei relativi istituti con metodologia essenzialmente casistica[11]. La ragione di tale assenza di approfondimento è stata individuata nella circostanza che lo ius puniendi costituiva, con le precisazioni che tra breve faremo, emanazione diretta delle autorità cittadine e statuali, con la conseguenza che gli iuris prudentes non svolgevano, in tale ambito, l’attività di consulenza interpretativa che ha, invece, contribuito all’enorme sviluppo del diritto privato[12].

Nel tentativo di verificare quali contenuti e quale ruolo abbia assunto, nel diritto penale romano, l’elemento soggettivo del reato – e, per quel che interessa in questa sede, in particolare la colpa e i suoi gradi – si procederà quindi guardando soprattutto all’evoluzione delle sanzioni per il reato di omicidio che, come intuibile, rappresenta una delle poche fattispecie la cui repressione per colpa è stata oggetto di riflessione lungo tutti i secoli[13].

Nel diritto penale romano più antico – epoca in cui la Lex Numae affidava l’esecuzione materiale della pena non all’autorità statuale, ma ai parenti della vittima – l’omicidio volontario era punito con la morte, inflitta dai congiunti della persona offesa, mentre per l’omicidio involontario era prescritto che l’autore del reato offrisse ai predetti un ariete da sacrificare al proprio posto[14], davanti al popolo riunito in assemblea[15].

Il reato di omicidio involontario veniva peraltro ritenuto sussistente in tutti i casi di causazione non voluta della morte, in adesione ad un’ottica materiale ed oggettivistica propria di quell’epoca arcaica[16]. Ciò che dava luogo a responsabilità era il solo fatto di aver materialmente cagionato l’evento mortale, senza alcuna considerazione per gli elementi soggettivi che oggi fondano il rimprovero a titolo di colpa.

L’impostazione sopra descritta che non conferisce rilevanza all’elemento soggettivo nell’omicidio involontario si rinviene anche in età repubblicana[17] con l’adozione, nel V secolo a.c., delle XII tavole[18], che rimasero legislazione vigente per almeno due secoli e mezzo, ossia sino alla formazione dei tribunali permanenti. Questi ultimi furono istituiti con leggi disciplinanti tanto i crimini quanto le modalità di svolgimento dei processi diretti ad accertarli, le così dette quaestiones[19].

In tale periodo si generò la distinzione tra due tipologie di illeciti che, nell’ottica del giurista romano dell’epoca, erano entrambi afferenti alla materia penale, nel senso che davano luogo ad un provvedimento pregiudizievole per il reo[20]. Da un lato, infatti, vi erano i crimina publica, la cui repressione era di interesse generale e avveniva pubblicamente su iniziativa di funzionari a ciò delegati che irrogavano sanzioni quali, ad esempio, la morte o il confino. Dall’altro, invece, esistevano i delicta privata, che interessavano esclusivamente i privati cittadini che intendessero ottenere un risarcimento per un danno patito, il cui accertamento scaturiva da un processo celebrato, su iniziativa di parte, davanti ad un magistrato[21]; esso si concludeva, in caso di affermazione di responsabilità, con il ristoro economico del danno patito[22].

Accanto a crimina e delicta si svilupparono, poi, le così dette castigationes, quali ad esempio la frusta o il carcere. Esse sono ritenute dalla dottrina sanzioni “di polizia”, in quanto venivano adottate direttamente da funzionari deputati a tale scopo – i Tresviri capitales[23] – in presenza di determinate situazioni e senza alcun accertamento processuale.

Nel quadro sopra delineato, l’elemento soggettivo della colpa non determinava mai un’azione per crimen publicum, ma solamente un procedimento volto ad ottenere un risarcimento del danno, ovvero una sanzione di polizia[24]. Per il crimen publicum, invece, era necessaria la presenza del dolo dell’agente[25].

Per quanto concerne, invece, i delitti privati, il fatto commesso per negligenza, secondo quanto previsto dalla Lex Aquilia, poteva sicuramente dare luogo ad una riparazione di tipo risarcitorio[26]. All’epoca, in ogni caso, il concetto di “culpa” era ben lontano dall’assumere il significato odierno, traducendosi, in realtà, in una sorta di responsabilità oggettiva, poiché essa veniva ritenuta sussistente sulla base del solo nesso causale tra la violazione della diligenza ed il danno patito[27]. Esisteva, pertanto, una netta separazione tra la rilevanza della negligenza in ambito pubblicistico ed in quello privatistico.

Come ha rilevato la dottrina, infatti, nell’ambito del diritto privato risultava comprensibile che “il comportarsi con una negligenza così grave nell’adempimento di un’obbligazione” – anche della generale obbligazione del neminem laedere da cui discende il danno da illecito – significasse in buona sostanza non volersi curare della predetta obbligazione”[28] con la conseguente generazione dell’obbligo di restitutorio.

Nel diritto penale, invece, era “proprio la visione di quel danno e la positiva volontà di recarlo che rappresentano il pericolo sociale e quella massima infrazione della norma che richiede la reazione della pena”[29] con conseguente espunzione delle condotte meramente negligenti da quelle sanzionabili con la sanzione di carattere pubblicistico.

Con l’avvento dell’Impero a partire dal 27 a. C[30], tuttavia, si ebbe una progressiva attrazione di illeciti che in età repubblicana erano qualificati come delicta privata all’interno dei crimina perseguiti pubblicamente[31]. Tra questi, per quanto di nostro interesse, anche l’omicidio commesso per colpa grave, qualificato come crimine all’epoca dell’imperatore Adriano – il quale regnò dal 117 al 138 d. c. – per essere nuovamente eliminato dagli illeciti di interesse pubblico in epoca giustinianea[32]. Secondo quanto riporta il Ferrini[33], infatti, la reintroduzione della pena pubblica per l’omicidio colposo fu dovuta alla morte del bambino Claudio, cagionata da un amico del padre che lo aveva preso e fatto saltare su un tappeto. Il proconsole Taurino Ignazio, operante nel territorio della Betica, una parte dell’attuale Spagna, ricevette da Adriano uno scritto in cui l’Imperatore si congratulava per non aver applicato la Lex Cornelia, riservata ai casi di volontà omicidiaria, ma ordinava l’applicazione di una pena più mite, ossia l’interdizione dal territorio della Betica per un quinquennio.

In alcuni passaggi, riportati nell’opera del Ferrini[34], delle Sententiae del giurista romano Giulio Paolo, vissuto tra il secondo ed il terzo secolo dopo Cristo, egli pure evidenzia come anche se l’omicidio colposo per colpa grave non rientra tra i crimina originariamente stabiliti dalla Lex Cornelia, casi di colpa grave potevano dare luogo alla pena, comunque pubblica, della damnatio ad metalla, ossia la condanna ai lavori forzati, per gli humiliores, ovvero della relegatio ad insulam, ossia l’esilio temporaneo, per gli honestiores. Sempre da Giulio Paolo, questa volta nel Titolo II, Ad legem Aquiliam, del Digesto, (31.9.2.), si apprende invece che la colpa lievissima non dava luogo ad alcun tipo di responsabilità. Il caso riportato dal giurista romano concerneva un potatore che aveva ucciso un uomo potando un albero, senza guardare di sotto, all’interno di un fondo dove non vi erano strade. Il Giureconsulto romano ritiene che in tal caso il potatore non possa essere comunque punito per colpa “quod si nullum iter erit, dolum dumtax praestare debet, ne immittat in eum, quem vidiri transeuntem: nam culpa ab eo exigenda non est, cum divinare non potuerit, an per locum aliquis transiturum sit”.

E’ nel periodo imperiale quindi che, secondo buona parte della dottrina, in particolare tedesca[35], nacque la celebre massima culpa lata dolo aequiparatur, in quanto la sanzione per condotte connotate da colpa grave era ritenuta un necessario complemento di quelle cagionate con dolo per la – ritenuta – prossimità ad esso. Essa, definita anche come lascivia o luxuria, veniva ritenuta sussistente quando l’agente agiva con coscienza e volontà, ma senza ostilità verso il diritto. Come ricostruito dalla dottrina moderna, il ragionamento alla base della sanzione penale della colpa grave, per i romani del tardo impero, era il seguente: “noi crediamo che tu non hai agito per uccidere e pertanto senza dolus malus, ma tu hai mostrato piena indifferenza per il buono o cattivo esito della tua azione e quindi sei stato in culpa lata[36].

Ai fini della nostra indagine, va quindi evidenziato che l’interesse pubblicistico alla repressione dell’omicidio colposo – nel lunghissimo arco temporale preso in considerazione – emerse, nel diritto penale romano, solo per brevi periodi e, comunque, unicamente in presenza di colpa grave[37]. A parte questi brevi periodi, la commissione di un omicidio colposo dava, invece, luogo a rimedi di tipo risarcitorio, i quali, per le concezioni dell’epoca, costituivano comunque una sanzione penale, mentre per il giurista contemporaneo hanno chiaramente natura di tipo restitutorio e, quindi, privatistico.

 

2.2. – Diritto penale barbarico

 

Un cambiamento nell’approccio punitivo si registrò con la caduta dell’Impero romano e con l’avvento sul territorio italiano delle popolazioni germaniche e, in particolare, prima dei Longobardi[38] – che iniziarono l’invasione dell’Italia nel 568 d.c. – e, poi, dei Franchi[39]. Poiché la capacità di elaborazione giuridica di tali popolazioni era nettamente inferiore ai livelli raggiunti in epoca romana, si assistette ad una prima fase in cui la potestà punitiva, totalmente accentrata nelle mani dell’autorità statuale, assunse le forme più arcaiche, in cui i concetti di volontarietà ed involontarietà del fatto di reato non venivano tenuti distinti[40]. Solo successivamente, nel diritto penale di alcune delle singole popolazioni stanziatesi sul territorio italiano[41], si differenziarono le ipotesi di commissione volontaria e commissione involontaria, ma all’interno di questa seconda ipotesi non si diversificò ulteriormente a seconda che il fatto fosse avvenuto per negligenza ovvero per caso fortuito[42].

Ciò che caratterizzava il diritto penale barbarico, per quanto attiene all’elemento soggettivo del reato, era una concezione dell’illecito penale estremamente materialistica[43], all’interno della quale non si separava l’attribuzione oggettiva di un fatto dalla valutazione della colpevolezza dell’individuo, ed in particolare non si concepiva l’irresponsabilità penale di un soggetto che avesse arrecato – materialmente e oggettivamente – un danno[44].

In questa concezione, rozza e primitiva[45], all’attribuzione oggettiva di un fatto ad un soggetto doveva necessariamente conseguire la reazione punitiva dell’ordinamento, a prescindere dal suo atteggiamento psicologico[46]. In tale ambito, quindi, vigeva uno schema logico che non sembra azzardato paragonare, mutatis mutandis, all’incriminazione per responsabilità oggettiva che ancora oggi, nonostante secoli di elaborazione giuridica, fatica ad essere completamente estirpata dal nostro sistema penale[47].

Ne rari casi in cui veniva operata una distinzione sul piano dell’elemento soggettivo[48], poi, la rilevanza connessa all’aver commesso un fatto volontariamente o meno era per lo più relegata al piano sanzionatorio.

Le condotte poste in essere senza volontà erano, difatti, punite meno gravemente rispetto a quelle commesse volontariamente[49]. Va tuttavia rilevato che in alcune delle leggi delle popolazioni barbariche più recenti si rinvengono distinzioni tra colpa e caso fortuito, con quest’ultimo che esentava da pena[50] e che in casi isolati era prevista l’impunità per l’omicidio involontario[51].

Salvo le eccezioni appena accennate, quindi, il diritto barbarico lasciava poco spazio per l’elaborazione intorno all’elemento soggettivo, in generale, e per il grado della colpa, in particolare.

 

2.3. – Diritto comune

 

Una ripresa della elaborazione intorno al concetto di colpevolezza, per come lo intendiamo oggi, si ebbe solo con l’avvento del diritto comune e della scuola dei glossatori, influenzati tanto dal diritto romano, ed in particolare dal Digesto giustinianeo, quanto da quello canonico[52], ancorché nemmeno nelle loro opere si rinvengono precise distinzioni tra i concetti di colpa, caso fortuito ed errore, così come non risultano riferimenti ad un grado di negligenza rilevante per l’inflizione della sanzione penale[53]. Secondo la concezione prevalente tra i glossatori, infatti, la colpa rappresentava solo la deviazione dal precetto legislativo che tutti erano tenuti a conoscere ed osservare e coloro i quali non lo rispettavano dovevano ritenersi in colpa[54], senza che fosse attribuito alcun rilievo ai suoi gradi[55].

Da un punto di vista normativo, poi, nella quasi totalità dei casi gli Statuti dei Comuni che andavano formandosi dagli inizi dell’XI secolo non sembrano contenere specifiche previsioni in materia di colpa[56], essendo, anzi, la medesima talvolta parificata da un punto di vista sanzionatorio al dolo[57].

Un’eccezione è rappresentata dal Costituto del Comune di Siena del 1309 - 1310 in cui si escludeva che il soggetto che avesse commesso lesioni o percosse senza dolo o colpa “evidente” potesse essere assoggettato a pena. Nel paragrafo “Di coloro e’ quali non debbono essere puniti per malefici da loro commessi, se non secondo che di sotto si contiene”, si prevedeva, infatti, che “excettiamo le ferite et percossioni le quali avenissero overo fare incappassero in caso di misaventura, cioè in esso caso ‘ve malitia overo evidente colpa deprendere non si possa; de le quali neuna pena si possa imponere overo dare”[58]. La colpa “evidente” costituiva, quindi, il limite estremo per l’attribuzione ad un soggetto di un fatto di penale rilevanza.

Più in generale, va segnalato che la nozione di colpa solo con Bartolomeo da Saliceto, a cavallo tra il XIV ed il XV secolo, assunse connotati prossimi a quelli odierni. Egli definì, infatti, la colpa come l’agire in modo diverso da quello raccomandato dalla ragione, ovvero l’agire o l’omettere di agire per negligenza, ed individuò il parametro di riferimento per valutarne la sussistenza nel vir prudens, ossia nell’uomo mediamente prudente e diligente[59].

Dopo tale Autore, i postglossatori svilupparono ulteriormente concetto di colpa[60], contribuendo a delinearne i connotati in maniera sempre più simile all’istituto odierno[61], ricominciando a riflettere – in particolare grazie a Bartolo da Sassoferrato ed alla sua opera fondamentale che pur occupandosi della responsabilità colposa nell’inadempimento contrattuale contribuì in maniera estremamente significativa all’elaborazione generale del concetto – sui suoi gradi[62].

Nel campo penale, in particolare, venne ripresa l’antica idea secondo cui i gradi più tenui della colpa non fossero in genere meritevoli di sanzione penale. Così si esprimeva Giulio Claro:

“hoc homicidium licet sine dolo commissum, potest nihilominus puniri criminaliter, non quidam poena ordinaria, et sic poena mortis, sed debetur puniri poena pecuniaria vel esilio et pro modo culpae […] sed si non fuerit lata culpa, sed levis aut levissima, tunc non debet criminaliter puniri”[63].

Operava analoghe distinzioni basate sul grado della colpa anche Sebastiano Guazzini, secondo il quale la colpa si divideva in tre gradi: la grave, che tuttavia non poteva mai dare luogo ad una pena di tipo corporale; la lieve, che era punibile solamente in presenza di querela ed a condizione che la condotta tenuta dall’agente non fosse stata meramente omissiva e la lievissima, che era punibile anche in questo caso solamente in presenza di querela e a condizione che il danno non fosse stato riparato:

“Culpa triplex est, lata, levis et levissima. Culpa lata in poenis corporalibus non aequiparatur dolus et mitius punitur sed an probit puniri poena corporali. Culpa levis, ubi non datur accusator, non punitur, ubi datur accusator, si consistat in omittendo non punitur, si vera consistat in committenda, leviter punitur. Culpa levissima, ubi non datur accusator, non punitur, et ubi datur accusator, si reficiatur damna parti laesa nec etiam puniatur“[64].

Nel diritto comune, quindi, la rilevanza del grado della colpa in ambito penale era assolutamente rilevante. Nel lungo periodo preso in considerazione, quindi – ad eccezione delle dominazioni barbariche – l’esclusione della sanzione penale per i gradi più lievi della colpa rappresenta, a livello generale, un concetto ben presente nell’elaborazione giuridica degli interpreti.

 

 

3. – Passato remoto: i codici preunitari

 

3.1. – I testi di legge

 

I codici ed i progetti di codice realizzati nei decenni precedenti all’Unità d’Italia[65] forniscono ulteriori utili indicazioni in ordine all’impiego della colpa grave, ancorché, per alcuni di essi l’importanza del grado della colpa sia derivata dall’interpretazione delle norme realizzata dalla giurisprudenza, come di esporrà nei paragrafi che seguono.

Tra la fine del ‘700 ed i primi anni dell’800, in un’Italia ancora divisa, si erano infatti succeduti vari tentativi di porre in essere una legislazione organica in materia penale. Alcuni di essi, in particolare, contenevano disposizioni che conferivano rilievo al grado della colpa ai fini dell’an della pena.

Tra quelli portati a termine, una delle opere più importanti fu la riforma penale di Pietro Leopoldo, Granduca di Toscana, del 1786[66].

In tale Legge di riforma, l’articolo LXVIII, dopo aver fornito indicazioni ai giudici per una diminuzione di pena degli omicidi commessi in rissa o a seguito di provocazione, rimetteva alla “disposizione di ragione” gli omicidi “meramente colposi, e fuori dell’intenzione”[67], con ciò lasciando, come meglio si vedrà infra, alla discrezionalità del giudice la valutazione sulla rilevanza del grado della colpa.

Tra i progetti di codice, poi, appaiono sicuramente interessanti due progetti di codice – il primo per l’allora Repubblica Italiana intorno ed il secondo per il nascente Regno d’Italia – realizzati dall’allora Giudice e Ministro della Giustizia Giuseppe Luosi su incarico di Napoleone Bonaparte a cavallo tra il ‘700 e l’800.

Nel primo, il par. 14 prevedeva che “se manchi l’intenzione maliziosa, o la colpa non sia altrimenti grave, la trasgressione non si potrà punire criminalmente, meno poi ove il male fosse proceduto da mero caso” [68].

  Ancora più chiaramente, poi, nel Progetto di codice penale per il Regno d’Italia[69] del 1806[70], l’articolo 7 disponeva chiaramente che:

“la colposa violazione della legge è punibile soltanto in via correzionale. La pena però non percuote che gli avvenimenti derivati da colpa grave”.

Su tale norma la riflessione fu assai ampia. In particolare, la Corte di Cassazione – incaricata quale istituzione del Regno di formulare il proprio parere – propose, anzitutto, di punire la colpa più severamente rispetto alle pene correzionali allora previste, ed inoltre di sanzionare qualsiasi grado dell’elemento soggettivo in questione[71].

A tali considerazioni, il Ministro della Giustizia replicò:

“Le pene di alto criminale sono le pene principali della punitiva Giustizia, e quindi corrispondenti al vero delitto il cui essenziale carattere è il dolo. Gli avvenimenti colposi, i quali hanno un rapporto immediato al vizio dell’intelletto piucchè al vizio della volontà, non altre pene reclamano che le emendatorie. Il celebre Giureconsulto napolitano de Ferrante ha dimostrato nelle sue osservazioni all’ opera criminale del professore Renazzi, che questa massima era pure sacra nel diritto romano. Se per qualche assai funesto avvenimento fosse punita la colpa con pene riservate alle azioni dolose, verrebbe misurata la pena dalla sola quantità del danno avvenuto, e trascurato quel riguardo principale che si deve avere al concorso della volontà: In maleficiis voluntas spectatur, non exitus. E negli oggetti civili, ove trattasi della sola riparazione di esclusiva utilità del danneggiato, elle non si deve distinguere fra il maggiore o minor grado di colpa: Lex aquilia coercet damnum etiain culpa levissima datum. Ma negli oggetti criminali, essendo punibile la colpa per il facile passaggio dalla medesima al dolo, parve alla Commissione, che il solo maggior grado di colpa potesse essere suscettibile di pena , e che nella colpa grave soltanto potessero verificarsi le ragioni giustificanti il gastigo. Nè ai principj in tal guisa stabiliti poteva, come parve al Tribunale di Cassazione, rimarcarsi una contraddizione, perché nell’art 8 delle disposizioni generali sia riputato doloso l’avvenimento derivato al simultaneo concorso di colpa grave, e di proibizione della Legge. Anche nel diritto romano non è generalmente equiparata la colpa lata al dolo: In Lege Cornelia de sicariis , dice il testo , neque lata culpa dolo aequiparatur. Vi è però qualche caso in cui l’avvenimento è punito come vero delitto, quando sia stato la conseguenza di altro delitto voluto (V. la L. 5. C. ad Leg. Jul. de vi pub. et pria.), onde insegnavano i Prammatici che chi dà opera a cosa illecita, deve considerarsi colpevole delle conseguenze. La Commissione modificando tale insegnamento propose, che allora soltanto come doloso debba riguardarsi l’avvenimento, quando nell’autore dell’azione premessa vi fosse la maggiore facilità di prevederlo, ed altronde nell’atto volutovi concorresse la proibizione della Legge. Un canone relativo ad un caso singolare non distrugge giammai per gli altri casi la regola generale. Tuttavia l’art. 8 potrebbe rischiararsi con la seguente leggerissima riforma. «L’ avvenimento deve sempre riputarsi derivato da colpa grave, se l’azione direttamente voluta sia per sé stessa illecita o dalla Legge vietata» e deve considerarsi doloso quanto alla pena, ogni qualvolta nella medesima azione con la proibizione della Legge concorra il maggior grado della colpa”.

Ancora, il Procuratore Generale dell’alto Po – parimenti incaricato in ragione della propria funzione di formulare osservazioni – si chiese[72]

“se solamente colposo, come atto di volontà indiretta sia un delitto, la di cui conseguenza era facilmente previsibile anche nelle circostanze di una libera ed intelligente volontà. Ritrovando in astratto giusto che si debba punire la sola colpa grave, non crede però che siasi abbastanza provveduto alla privata sicurezza, discendendo alla specialità di quelle azioni, da cui ne può derivare l’omicidio e la grave lesione della persona”.

In ordine a tale parere, il Ministro rilevò

“il dubbio è sciolto colla distinzione espressa nello stesso articolo, ritenuta però la correzione da noi proposta nei Rilievi alle Osservazioni generali num. 20. Del resto, essendo sempre eguale ed inconcusso il principio, non deve esso soffrire alterazione, quando venga applicato piuttosto ad una specie di delitto che all’ altra, nè vi può essere l’inconveniente temuto dal Regio Procuratore dell’Alto Po, tutta volta che in alcuni casi speciali l’avvenimento, quanto alla pena , è riputato doloso”.

Tale progetto non venne poi adottato, sia per la scelta di Napoleone di estendere ai territori italiani il Codice penale già in vigore per la Francia[73], sia per il disfacimento del Regno a seguito della sconfitta di Napoleone nel 1815.

Appare controverso se vi sia una valorizzazione del grado della colpa nel senso di escludere la rilevanza penale della colpa lievissima nei Regolamenti penali adottati da Papa Gregorio XVI nel 1832 per lo Stato Pontificio[74].

Nel relativo Titolo XIX, rubricato “Degli Omicidj”, si prevedeva, infatti, che l’omicidio colposo dovesse essere sanzionato come segue:

“289. Se l’omicidio è accaduto per colpa lieve, è punito colla detenzione dai due mesi ad un anno;

291. Se con colpa grave, è punito coll’opera pubblica, da un anno ai tre;

292. Se con colpa gravissima, è punito coll’opera pubblica dai tre anni ai cinque”

La circostanza la norma in questione preveda un livello di colpa superiore alla colpa grave – la colpa gravissima – potrebbe far pensare all’esistenza di un grado minimo di colpa – la colpa lievissima – la cui rilevanza penale era esclusa. Tale conclusione parrebbe avallata dalle posizioni della dottrina e della giurisprudenza coeva ovvero immediatamente successiva che si esporranno di seguito.

In altri, testi, il grado della colpa era valorizzato ai fini della decisione sul quantum e sulla tipologia di pena. Così, ad esempio, il Codice penale austriaco del 1803, adottato nel Regno Lombardo Veneto[75], come in tutti gli altri territori austriaci, dalle cui disposizioni emergeva che il reato colposo non era considerato un delitto.

L’art. I, paragrafo 2, del Capo Primo, intitolato “Dei delitti in generale” prevedeva infatti:

 “non sono da imputarsi a delitto le azioni, od omissioni […] g) quando il male è derivato dal caso, da negligenza, o dall’inscienza delle conseguenze dell’azione”.

La colpa assumeva, invece, rilevanza penale esclusivamente nella seconda parte del codice, intitolata “Delle gravi sanzioni di polizia”, cui era soggetto il reato colposo con commisurazione della sanzione rapportata alla gravità della colpa. Il par. 89 prevedeva infatti che

“le gravi trasgressioni di polizia contro la sicurezza della vita si riducono a due classi: a) o si contravviene ai doveri naturali, generali dell’uomo, o all’espresso comando della legge; b) o si omette ciò, ch’è prescritto espressamente dalla legge, o ciò, che da sé risulta come dovere dello stato, del mestiere, della professione, o di qualche altro rapporto. Siccome è impossibile di specificare tutti i casi, nei quali siffatte azioni, od omissioni recano pericolo alla sicurezza della vita, così ogni qual volta in caso di morte, o di grave ferimento si scoprisse nell’inquisizione una colpa di tal natura, quegli, che n’è aggravato, è punito secondo la gravezza della colpa medesima coll’arresto semplice, o rigoroso da uno a sei mesi; che secondo le circostanze può essere anche esacerbato”.

Non parrebbe, invece, esservi, almeno stando alla lettera della legge, una valorizzazione del grado della colpa in altre raccolte normative preunitarie, quali ad esempio il Code des délits et des peines del 1795, ossia il Codice adottato nel corso della Rivoluzione francese, che venne esteso ad alcune province italiane durante la dominazione napoleonica, il Codice penale per il Principato di Piombino del 1808[76], la Legislazione penale adottata da Giuseppe Bonaparte per il Regno di Napoli sempre nel 1808[77], il Code pénal adottato anche per il Regno d’Italia da Napoleone Bonaparte nel 1811 in seguito al fallimento del progetto codicistico del Ministro Luosi sopra menzionato[78], il Codice penale per il Regno delle due Sicilie del 1819[79], il Codice penale per gli Stati di Parma Piacenza e Guastalla del 1820[80], il Codice penale del Granducato di Toscana del 1853[81], il Codice criminale per gli Stati estensi del 1855[82] ed il Codice penale sardo del 1859[83], corpus, quest’ultimo, che venne esteso al momento dell’Unità d’Italia all’intera penisola, ad eccezione della Toscana.

 

3.2. – Le opinioni dottrinali e la giurisprudenza

 

Da un esame della dottrina e della giurisprudenza dell’Ottocento si scopre, inoltre che anche l’assenza di riferimenti testuali al grado della colpa presente nella maggioranza dei codici preunitari sopra menzionati non era univocamente indicativa dell’assenza di una sua valorizzazione. L’irrilevanza penale dei gradi più lievi della colpa era infatti talvolta considerata, in buona sostanza, implicita, perché derivante dalla tradizione giuridica cui si è fatto cenno nei precedenti paragrafi.

Sul punto è interessante notare, anzitutto, l’opinione della dottrina dei primissimi anni del 1800, a commento del Code des délits et des peines del 1795[84], esteso al territorio italiano nei primi anni della dominazione napoleonica. Quanto all’omicidio colposo, in tale codificazione come nel successivo Code Napoleon del 1811, non era previsto a livello esplicito alcun rilievo per il grado della colpa.

L’art. 15 del Titolo Secondo della Seconda Parte del Codice prescriveva, infatti, che in caso di omicidio, denunciato come involontario o riconosciuto tale in seguito alla dichiarazione del Giudice, qualora esso fosse la conseguenza di imprudenza o negligenza, l’autore doveva essere condannato ad un’ammenda o al carcere non superiore ad un anno.

Nel commentare tale disposizione, tuttavia, Antonio De Simoni, uno dei più importanti giureconsulti dell’epoca, rilevava quanto segue:

“Si fa nelle scuole, per maggiore chiarezza di dottrina, la distinzione di colpa lata, leggiera e leggierissima, che non sono già diverse specie di colpa, come hanno sognato molti prammatici, della scuola massime di Bartolo (ne’ quali non è cosa nuova il veder tolto ed alterato persino il senso proprio delle parole e dei vocaboli), ma diversi gradi di essa, essendo certo che il più ed il meno in cui sono differenti questi gradi, non può costituire diverse specie […] fra gli accennati tre gradi di colpa, cioè di lata, leggiera e leggerissima, quella solamente che colpa lata è detta, costituisce il grado suscettibile del giudizio criminale, e quindi capace di pena, poiché è quel solo grado il quale possa accostarsi, come si è già detto, all’indole e alla natura del dolo, e a questo in qualche maniera paragonarsi, in quanto, o v’interviene di fatto qualche vizio della volontà, o la ragion civile ha motivo di presumerlo. Gli altri due gradi della colpa non possono essere soggetto delle leggi criminali, perché, incapaci per sé di ogni vizio di volontà, tolgono ogni ragionevole motivo di presumerlo, partecipando più del mero caso, dell’errore e degli accidenti della fortuna, che di alcuna influenza morale dell’agente”[85].

Tale opinione fu condivisa da quasi tutta la dottrina dell’Ottocento, anche da parte di Autori che commentavano le leggi e i codici in cui non compariva un esplicito rilievo al grado della colpa. Siffatta posizione dottrinale non si modificò, salvo rare eccezioni, lungo tutto il corso del 1800 e per tutte le citate codificazioni, le quali non contenevano a livello testuale riferimenti all’irrilevanza penale delle più tenui gradazioni di colpa.

Il Carmignani, nella sua celebre opera, la cui prima edizione risale al 1832, nel medesimo senso rilevava

“l’imputazione della colpa appartiene più al grado che non alla qualità dei delitti; la ragione dell’ordine richiede pertanto che ne sieno qui esposte le regole. Il fondamento della politica imputabilità della colpa è riposto in ciò che la legge, dove tale intenzione esista, ha sospetto di dolo. Ma il sospetto non può mai parificarsi alla certezza: e di qui la regola che la colpa, a parità di circostanze, non è mai imputabile quanto il dolo. Siccome poi questo sospetto della legge nasce dalle circostanze del fatto, che rendono probabile il dolo; e siccome siffatta probabilità non può esistere che nella colpa lata: così si ha quest’altra regola che la sola colpa lata può ammettere una criminale imputazione, e ancora d’infimo grado”[86].

Con riferimento al Codice penale del Granducato di Toscana del 1853, poi, Francesco Antonio Mori, che era stato tra i giuristi incaricati di redigerlo, pubblicò l’anno successivo alla sua emanazione, un’opera[87] nella quale evidenziava:

“niente impedisce per altro di seguitare a distinguere la colpa in lata e leve anche nel foro criminale. Quello che importa si è, che la colpa sia valutata dai Tribunali secondo la più o meno stretta connessione fisica fra l’atto voluto e il suo giusto risultamento, e secondo la maggiore o minore capacità dell’agente ad antivedere la connessione. Quando è stata usata l’attenzione e la diligenza ordinariamente richiesta, sembra doversi ascrivere piuttosto al caso, che alla colpa, il successo illegale, per avventura derivato dal fatto, che fu eseguito con animo innocente. Imperocché la colpa si punisce per causa del demerito, implicitamente volontario, dell’agente trascurato ed incauto, e per premunire la società da altre offese inconsiderate, tanto di quel medesimo agente, quanto di altri, che avessero una simile propensione alla negligenza. Ma è più degno di compassione, che di rimprovero chi produsse, come conseguenza di un azione innocente, un fatto illegale, quando usò l’attenzione e la diligenza ordinariamente richiesta; e col punirlo, si confiderebbe invano la pubblica giustizia di conseguire, che una suprema accuratezza divenisse comune abitudine di tutti i cittadini; dunque bisogna badarsi da una soverchia esigenza nella imputazione delle violazioni colpose della legge penale” [88].

In senso del tutto conforme furono anche le opinioni dottrinali espresse sotto la vigenza del Codice penale Sardo del 1859.

Tancredi Canonico, insigne giurisperito dell’epoca, testualmente scriveva in una delle sue opere fondamentali[89]:

“Per lo stesso motivo si vede esser del pari graduabile la colpa; poiché la negligenza nel prevedere le conseguenze prevedibili dell’atto voluto (nel che consiste la colpa) essendo un atto, benché negativo, della volontà, è, come tutti gli atti che dalla volontà direttamente od indirettamente dipendono, suscettiva di gradi. Ora, essendo tanto maggiore la negligenza quanto maggiore era la facilità di prevedere ciò che non si previde, può dirsi che il criterio per misurare il grado della colpa sta nella maggiore o minore prevedibilità della violazione di legge che fu conseguenza dell’atto voluto. E questa violazione di legge sarà politicamente imputabile in ragion composta della prevedibilità e della riparabilità dell’offesa che ne seguì al diritto. Per modo che, se l’offesa al diritto sia difficilmente prevedibile o facilmente riparabile, la colpa deve andar esente da pena”;

e ancora:

“diciamo che questo danno è prodotto dalla forza morale del reato, benché non possa aver luogo senza che vi concorra inoltre la forza fisica: perché quando manca questa forza morale (risultante dal dolo o dalla colpa grave), come, p. es., nell’omicidio casuale, sebbene vi sia e forza fisica e danno materiale, il danno pubblico, il timore sociale e la diminuzione del sentimento della propria sicurezza non si produce. I principii testè accennati in ordine al dolo ed alla colpa sono riconosciuti dal codice penale del 1859, come può vedersi, p. es., quanto al dolo, dagli articoli 88, 89, 90; e dagli art. 522, 534 confrontati cogli art. 526 e seg., e cogli art. 564 e seg. Non che coll’art. 569: quanto alla colpa, dagli art. 554 e seguenti”.

La riflessione maggiormente completa e dogmaticamente argomentata, come anticipato all’inizio di questo capitolo, è tuttavia di Francesco Carrara, il quale, nella sua opera, risalente al 1863, sviscerava, anzitutto, la distinzione tra colpa lieve e caso, che aveva costituito sino ad allora uno dei punti su cui la dottrina aveva fatto maggiore confusione, talvolta sovrapponendo i piani:

“E’ qui a ripetersi che deve esservi un grado infimo di colpa il quale sfugga ad ogni politica imputabilità. E’ quasi impossibile immaginare una disgrazia qualunque, che non si fosse potuta antivenire con maggiore previdenza. La forma pura del caso fortuito stando in questo, che nulla humana prudentia paecaveri possit; che sia assolutamente o imprevenibile o imprevedibile: ne consegue che là dove il fatto dell’uomo si intromise o immediatamente, o mediatamente nell’evento, il caso nel vero suo senso è un concetto iperbolico della vita umana. A me (per quanto vi abbia meditato) mai riuscì concepire una ipotesi di caso fortuito dove per poco la mano dell’uomo si era intromessa. Io ho spesso invitato i miei oppositori a farmi una ipotesi di un caso fortuito, in cui abbia in qualunque guisa il braccio umano, il quale non si fosse potuto con una prudenza maggiore antivenire: né ancora me lo udii proporre. Ma quando tale prevedibilità o prevenibilità era così difficile, così fuori dall’ordinario corso degli umani calcoli, che la maggior parte degli uomini non vi avrebbe posto mente, si avranno i termini ontologici della colpa, ma sarà colpa tanto lieve, che per gli effetti giuridici dovrà equipararsi al caso”[90].

E ancora,

“Giuliani e Puccioni aderirono alla regola generale della non imputabilità della colpa levissima; ma parve loro doversi fare a codesta regola una eccezione speciale nel caso di omicidio. La gravità della forza fisica in questo titolo ha fatto loro dimenticare la considerazione della deficienza, o per lo meno insignificanza della forza morale così soggettiva come oggettiva; che è la ragione per cui (indipendentemente dal riguardo alla forza fisica) noi crediamo che manchi ogni elemento politico per ispingere oltre la sola responsabilità civile il debito di chi nocque per colpa levissima. Salva dunque la reverenza che portiamo a tanti nomi, e fermi sempre nella convinzione che un problema di odierno giure penale non possa risolversi col criterio di un frammento del giure romano noi rigettiamo ogni distinzione desunta dal maggiore o minore resultato. La questione non è del danno maggiore o minore derivato dal fatto. Ciò influirà sulla quantità naturale del delitto, qualora esista. Ciò influirà sulla quantità della pena, se giustizia vorrà che si infligga. Ma prima di scendere ai criterii misuratori, bisogna stabilire e vi siano i criterii essenziali di un delitto sotto il rapporto della sua forza morale. Condotta la questione su questo che ci sembra il suo vero terreno, noi persistiamo a pensare che non si abbiano dei termini proposti gli elementi di politica imputabilità: - 1.° perché lo aver fatto o il non aver fatto ciò che la massima parte dei cittadini farebbe o non farebbe in pari caso, non presenta elementi bastevoli di forza morale soggettiva per esser ascritto a reato: - 2° sicuramente poi non presenta forza morale oggettiva veruna, non essendo in cotesti casi richiesta la pena né per acquietare lo allarme dei buoni, che hanno pianto ma non temuto; né per frenare la scioperataggine degl’imprudenti, perché scioperataggine non vi fu”[91], ritenendo quindi che vi sia colpa lata “quando l’evento si sarebbe potuto prevedere da tutti gli uomini”, leve “quando si sarebbe potuto prevedere solo dagli uomini diligenti” e levissima “quando si sarebbe potuto prevedere soltanto mercé l’uso di una diligenza straordinaria e non comune”.

In senso similare, pochi anni prima dell’emanazione del Codice Zanardelli, il Pessina il quale, ancorché perseverasse, da un punto di vista formale, nell’equiparazione tra colpa lieve e caso, rilevava che:

“L’essenza della colpa componesi di due note. L’una è quella della mancanza di volere, la quale apparisce limpidissima nella mancanza di prevedimento delle conseguenze del proprio operare, non potendosi mai ritenere che sia voluta quello evento che non si è appresentato alla cosienza dell’essere operante, prima di operare, come una conseguenza certa o almeno probabile del suo movimento; e per anto la colpa non altrimenti che il caso si differenzia dal dolo. Ma l’altra nota caratteristica della colpa sta in ciò che l’uomo, se non ha preveduto gli eventi possibili a derivare da un suo fatto volontario, potea prevederli. Or vi ha egli un criterio per discernere questa nota e così distinguer la colpa dal caso? Questo criterio pare che rinvengasi in ciò che taluni fatti sogliono facilmente nel corso ordinario delle cose produrre taluni effetti. Così per esempio il gettar dall’alto una mole in un luogo frequentato può facilmente esser cagione di danno alle persone; il gettare una materia accesa in un luogo pieno di materia combustibile può facilissimamente produrre l’incendio; ed un incendio in un luogo abitato può del pari facilissimamente esser cagione di conseguenze sinistre per la vita delle persone. Insomma secondo che più facile è ad avverarsi un evento il suo avveramento è meglio prevedibile; e secondo che un evento è più difficile ad avverarsi cresce la difficoltà di prevedere il suo apparire. Di qui seguita un altro pronunciato, cioè che se le conseguenze ordinarie e dirette sono sempre prevedibili, tutte le conseguenze che escono dall’ordinario movimento delle cose o sorgono per concomitanza di altre cagioni, stanno fuori della cerchia delle conseguenze prevedibili, e quando si avverano costituiscono il puro caso, sebbene siano conseguenze di fatti volontarii”[92].

Una parziale eccezione alle posizioni sin qui espresse è costituita dall’autorevole opinione del Filangieri che riteneva punibili tutti i gradi della colpa pur sottolineando la necessità di prevedere una opportuna graduazione delle pene in ragione della prossimità della colpa grave al dolo e della colpa lievissima al mero caso:

“se la colpa è meno imputabile del dolo, perché nel dolo vi è la volontà di violare la legge, e nella colpa non vi è che la volontà di esporsi al rischio di violarla; la pena della colpa non dovrà mai dunque nell’istessa azione uguagliare quella del dolo. Se a misura che la cognizione della possibilità dell’effetto che l’azione ha prodotto, è maggiore, cresce il valore della colpa, e si avvicina più al dolo; e se, a misura che la cognizione di questa possibilità è minore, minore è anche il valore della colpa, e si avvicina più al caso; vi saranno dunque varj gradi di colpa; e le leggi vi dovranno dunque destinare diversi gradi di pena. Se non è possibile determinare tutt’i varj gradi di colpa; e se al contrario è perniciosa, ed ingiusta cosa di lasciare nell’arbitrio de giudici la scelta e destinazione della pena; le leggi dovranno dunque fissare tre diversi gradi di colpa, a’ quali tutti gli altri possano riferirsi; la massima, la media, e l’infima: dovranno stabilire una regola, un canone generale per indicare a’ giudici a quale di questi tre gradi debba riferirsi la colpa. Dovranno stabilire che, quando le circostanze che accompagnano l’azione mostrano che, nell’animo di colui che agisce, la possibilità dell’effetto alle leggi contrario che l’azione ha prodotto, è uguale, o maggiore alla possibilità dell’effetto che si era proposto di conseguire, la colpa sarà massima; quando è minore, ma non è molto remota, la colpa sarà media; quando è rimotissima, la colpa sarà infima: dovranno finalmente, nel determinare la sanzion penale, distinguere in ciaschedun delitto, oltre la pena del dolo, quella della massima, quella della media e quella dell’infima colpa”[93]

A fronte di posizioni dottrinali sostanzialmente uniformi, la giurisprudenza risultava, invece, decisamente ondivaga.

Tra le sentenze di quegli anni se ne ritrovano, infatti, alcune in cui viene stabilita la rilevanza penale di qualsiasi livello della colpa, mentre altre che - indipendentemente dal tenore letterale delle norme che sovente, come detto, non davano esplicito rilievo al grado della colpa - escludono la rilevanza penale dei suoi gradi più lievi.

A tale proposito si riscontrano vari orientamenti.

Secondo un primo orientamento la colpa penalmente rilevante era solo quella connotata da un certo grado di gravità. In questo senso, ad esempio, si pronuncia la Cassazione penale di Firenze, 31 agosto 1841:

“Considerando che le patrie Leggi dei 30 Novembre 1786 e de’ 30 agosto 1795, agli articoli 68 e 14, lasciarono alla disposizione di ragione gli omicidii meramente colposi e la ragione comune ha stabilito che ove si tratti d’azioni informate da colpa , la sola colpa lata, che in certo modo si confonde col dolo, rende queste azioni criminalmente imputabili e punibili perloché quando le giudiziali dissero punibili negli omicidj anche la colpa levissima, è manifesto che introducessero un principio nuovo contrario alle leggi vigenti, quindi esorbitante. Considerando però che questo esorbitante principio fu dalla pratica di giudicare stabilito espressamente, ed unicamente nel caso di omicidio avvenuto per fatto dell’uomo, e non mai nell’altro distintissimo caso di omicidio avvenuto per fatto di un quadrupede per sua natura mansueto e senza cooperazione del padrone, o del custode del quadrupede stesso; d’onde consegue che la massima addotta nel primo caso non può estendersi al secondo, perocché nelle materie penali non è permessa alcuna estensione al di là della lettera della legge o della consuetudine. Considerando quindi che la denunziata sentenza tostochè dopo aver dichiarato in fatto che alla morte della M. avvenuta pel cozzo di un montone, aveva dato causa la colpa levissima del custode del gregge, condannò questo custode alla pena afflittiva, violò le leggi soprannunziate e falsamente applicò le osservanze giudiciali, cassa la sentenza proferita dal Tribunale prima istanza di Livorno”[94].

Nel medesimo senso, nella giurisprudenza di merito, la Pretura di Castiglione delle Stiviere, sent. 16 giugno 1885:

“Maria Azzini confessò all’udienza come nella notte del 25 aprile 1885 la sua bambina Adalgisa, di mesi cinque, dormiva in una culla nella stessa stanza ove pur dormiva essa Azzini con suo marito. La madre svegliata dal pianto della creatura la tolse dalla culla portandola nel proprio letto matrimoniale ed attaccandosela al seno perché poppasse. In tale posa la madre, vinta dal sonno, riaddormentossi, e dappoi svegliatasi verso le ore 3 antimeridiane trovossi morta fra le braccia la bambina […] Per la responsabilità penale in materia occorre la vera colpa, non la leggera inavvertenza. Vuole la legge che il cittadino sia diligente, ma non esige poi un’antiveggenza tanto scrupolosa e raffinata da essere sempre ed in ogni evento infallibile; e la romana sapienza negli omicidi per leggera inavvertenza insegnava, doversi gli stessi considerare accidentali, anziché colposi: ea que ex improviso casu potius quam fraude acciduntur […] E’ certo che in specie non abbiamo un omicidio colposo derivato da atto per sua natura illecito. Abbiamo invece l’omicidio derivato da atto indifferente, anzi naturale, cioè l’invincibilità del sonno; non già la culpa levis, sed levissima, che fa considerare appunto, come insegnavano i romani, l’omicidio anziché colposo, casuale”[95].

Si rinviene traccia di decisioni di segno conforme alle due pronunce menzionate anche in alcune sentenze della Suprema Corte del Regno di Napoli, ricordate da Niccola Nicolini[96], Professore Universitario, Avvocato e, da ultimo, Primo Presidente della Corte Suprema partenopea, vissuto tra la fine del Settecento e la metà dell’Ottocento.

Tale Autore ha, infatti, trascritto alcuni dei discorsi svolti nel corso della sua carriera da Giudice della Corte di ultima istanza nonché gli esiti di tali decisioni.

In molte di esse si ritrovano argomentazioni fondate sul grado della colpa.

In particolare, una pronuncia era stata assunta all’esito di un ricorso avverso una condanna per omicidio di un uomo che, contravvenendo ad alcuni regolamenti dell’epoca, aveva offerto ad un altro, già ebbro, del vino, cagionandone così il decesso per un’apoplessia vinosa. Il Nicolini osservava in ordine a tale condanna[97]:

delle tre classi di omicidii ed altri danni non imputabili, la prima, quella cioè in cui l’uomo, strumento materiale del fatto, non ne ha alcuna intelligienza e conscienza, non può confondersi con altra indole diversa: è assai facile riconoscerne i caratteri. Tale è pure il secondo, quello cioè in cui l’uomo intende e sa quello ch’è astretto a fare, ma non ha forza sufficiente a fare altrimenti e la sua volontà contraria è inefficace: egli ubbidisce ad una necessità superiore alle sue forze. L’una e l’altro caso riguardano azioni assolutamente involontarie; quelle cioè che procedono o da ignoranza o da violenza: che l’ignoranza relativamente all’azione, è lo stato dell’uomo che non ne conosce il fine né le circostanze; la violenza è l’urto di una forza che ci trascina verso la sua direzione, mal grado la nostra volontà. Il terzo caso procede pure da ignoranza: tale è questa però, che il fatto opera dell’agente, è per sè lecito e dipendente e voluto dall’uomo, del quale però ei non può prevedere alcune lontane conseguenze. Se agendo col consiglio ordinario degli uomini egli avrebbe potuto prevederle, allora è in colpa”, postulando quindi l’irrilevanza dei gradi più bassi della colpa ed osservando che “i giureconsulti romani facevano la distinzion medesima e dicevan forse lo stesso con altre parole. La colpa lievissima, quella che credevan prossima al caso, era nella improvidenza di cui solo i diligentissimi padri di famiglia sono esenti: la lieve è nella improvidenza contraria alla prudenza ordinaria: la grave, magna, nimia, dissoluta, supina, lata, latior, dolo proxima è nel non intendere quod omnes intelligunt”[98].

La condanna venne quindi cassata dalla Suprema Corte.

In altra decisione, concernente la causazione di un incendio conseguente ad una improvvisa folata di vento in una giornata apparentemente non ventosa, si rileva che

“[…] quando si parla di prudenza, che la legge abbandona alla semplice estimazione dell’altrui buonsenso, non è giusto precipitare una condanna senza ben pesare ed estimare tutte le circostanze della persona e del fatto. Non perché una medicina ha fatto peggiorare l’infermo, il medico è reo di colpa: perché può stare che l’impeto del male e le apparenze avessero potuto ingannare qualunque uomo più esperto. Il giudizio in questi casi si risolve in vedere se l’ordinario consiglio umano potea prevedere in quell’istante quel danno”[99].

Anche in questo caso, la condanna venne cassata, conformemente alla richiesta del giurista partenopeo.

All’orientamento illustrato, se ne opponeva, tuttavia, uno di segno diametralmente opposto, in cui, invece, si propendeva per la rilevanza penale di ogni grado della colpa.

In questo senso, ad esempio, si esprime la Cassazione penale di Torino, nella sentenza 14 ottobre 1887:

“L’art. 554, a cui si riferisce il 555 [100], dice: ‘chiunque per inavvertenza, disattenzione, imprudenza, negligenza, o per imperizia dell’arte o della professione che esercita, o per inosservanza dei regolamenti avrà volontariamente commesso un omicidio o vi avrà dato causa…’. Come si scorge, il legislatore ha bensì accennato alle varie cause da cui avrebbe potuto derivare il reato involontario di omicidio o di lesioni corporali, e codeste cause sono certamente altrettanti elementi di colpa; ma di colpa grave o leggiera non ha parlato, e tanto meno poi ha segnato dei limiti della colpa oltre ai quali si dovesse arrestare l’azione penale. E’ quindi a ritenersi che qualunque colpa, anche di lieve apparenza, purché radicata in qualcuna delle indicate cause, possa essere redarguita in via penale, salvo solo al prudente ed illuminato criterio del giudice di apprezzarla secondo il suo giusto valore e punirla con proporzionata misura. Questa opinione è poi confortata dalla stessa latitudine e varietà della pena sanzionata in quelle disposizioni, imperocché se in caso di omicidio trovasi comminata una pena massima di due anni di carcere e da questa si può discendere, a senso dell’art. 556, fino all’infimo grado della multa, e se, in caso di lesioni, dalla pena massima di sei mesi di carcere si può venire fino a semplice pena di polizia, egli è nell’intendimento che il giudice, nell’infinita varietà e difformità dei casi in cui si presentano i reati colposi, avesse agio di equamente proporzionare la pena, non solo alla maggiore gravità del danno, vale a dire alla maggiore o minore quantità materiale del reato, ma ben anche alla maggiore o minore responsabilità dell’imputato, cioè alla maggiore o minore entità della colpa”[101].

In aggiunta ai due orientamenti menzionati, ve ne furono, poi, altri che valorizzavano questo o quell’elemento della situazione concreta con la finalità di mitigare i risultati troppo estremi dei due precedenti.

L’irrilevanza penale dei gradi più bassi della colpa è stata, ad esempio, stabilita nel caso di reati commessi da minorenni.

Così Cassazione penale di Firenze, sentenza 11 gennaio 1842:

“dalla idea di colpa non è separabile quella delle sue gradazioni e che la imperfetta età e quindi la imperfezione dell’intelligenza non abbastanza sviluppata dall’esperimento della vita, mentre dà ben ragione, che non ogni diligenza, quale e quanta dal majorenne si può esigere, egualmente si esiga dal minore, autorizzerebbe a inferirne, tutto al più che la omissione della massima e squisita diligenza corrispondente al grado infimo della colpa non gli faccia debito, non già, che non gli faccia debito la omissione della comune, ordinaria e ovvia diligenza, ossia la negligenza crassa, cui corrisponde la colpa lata, e nella quale si ravvisa qualche cosa di volontario, almeno indirettamente, cosicché dicesi fraternizzante col dolo”[102].

In altre pronunce, invece, si assumeva l’irrilevanza penale della colpa lieve per tutti i reati ad eccezione dell’omicidio, in ragione dell’importanza del bene giuridico – la vita umana – tutelato da tale fattispecie.

In tal senso, ad esempio, nella giurisprudenza di merito, il Tribunale di Firenze, sentenza 8 gennaio 1840:

 “Atteso che per regola generale la colpa lata è quella sola che criminalmente può imputarsi […] meno il caso dell’omicidio, nel quale la pratica anche per la leve e per la levissima autorizza la pena. Atteso che consultando le leggi romane […] potrebbe dubitarsi che la limitazione introdotta per gli omicidj fosse da ritenersi anche nel giudicare delle azioni eseguite dagli impiegati nel disimpegno delle loro attribuzioni, e più specificamente pei carcerieri […] Atteso che da questi principii resultando che la colpa criminalmente imputabile ai carcerieri, quando ancora fosse stata congiunta a qualche mancanza nell’uffizio loro, non avrebbe potuto ritenersi criminalmente, se lata non fosse comparsa, e se non avesse potuto dagli imputati. Attesochè considerata l’altezza della finestra dalla quale N. potè dal pavimento con particolare artifizio ascendere; la larghezza della esterna muraglia che i custodi presumer dovevano di corrispondente solidità e non di facilissima decomposizione, come è resultato che fosse; il Tribunale ha creduto non potersi ritenere verificato il concorso della lata colpa a carico dei carcerieri nella evasione consumata da N.”[103].

In taluni casi, ancora, la colpa lata aveva l’effetto, nel delitto di lesioni, di rendere procedibili d’ufficio contegni che, ove commessi con colpa lieve, sarebbero stati punibili unicamente in presenza di querela:

“[…]laddove la imprudenza dell’autore del fatto, da cui sia derivata lesione di membra alle persone, si verifichi e sia formalmente riconosciuta al grado di lata colpa; e la circostanza dell’eventual resultato di simil fatto in lieve ed anche lievissimo ferimento, non deve, né può tenersi in calcolo e conto all’effetto di risolvere la causa coll’assoluzione dell’imputato, motivata sul difetto di querela del privato rimasto offeso, quasi l’intervento di quella fosse per l’antedetta circostanza necessaria condizione della legittima instaurazione del giudizio penale […] poiché nella colpa spinta all’estremo dei noti suoi gradi rappresentasi l’incuranza e lo spregio di quella prudenza e di quella diligenza che dal comune degli uomini anche meno prudenti e diligenti sogliono per quasi istintivo suggerimento, e debbono tenersi per guida nell’esercizio della vita, onde le proprie azioni non riescano altrui di danno, facilmente si comprende come la verificazione di simili fatti colposi tale sia per naturale incriticabile effetto, da diminuire fra gli uomini l’opinione della individuale sicurezza; nel che consiste quel danno mediato o sociale che nelle loro sanzioni le leggi criminali prendono principalmente di mira […]”[104].

Da ultimo, vi erano sentenze in cui il grado della colpa non incideva sull’an della sanzione penale, bensì sulla tipologia di pena da applicarsi all’interno della cornice edittale stabilita a livello legislativo. Secondo tale posizione giurisprudenziale, in particolare, la colpa lieve poteva dare luogo unicamente ad una sanzione di tipo pecuniario:

“considerando che la sentenza ha dichiarato che il condannato è colpevole di offese con frattura informate da colpa leve e che le più recenti osservanze giudiciali non sottopongono a pena afflittiva coloro che si rendono debitori delle offese surriferite, onde la sentenza denunziata ha male ritenute ed applicate le osservanze giudiciali, quando ha pronunziata a carico del ricorrente una pena afflittiva, cassa la sentenza […]”[105].

In conclusione, dunque, la colpa grave sembra essere stata sovente utilizzata nelle codificazioni antecedenti all’unità d’Italia quale criterio minimo per l’attribuzione della responsabilità penale secondo due distinte modalità:  i) in alcuni casi – una minoranza – in quanto vi era la previsione espressa dell’irrilevanza penale dei gradi più bassi della colpa a livello testuale e ii) in altri – la maggioranza – in ragione di una interpretazione della nozione di colpa penalmente rilevante che poggiava sulla discrepanza tra la condotta tenuta dall’agente nel caso concreto e quella che sarebbe stata ordinariamente tenuta in un’ipotesi analoga. Tale comparazione lasciava fuori eventi che non erano normalmente prevedibili dall’agente del caso concreto, con conseguente esclusione dei gradi più bassi della colpa.

I giuristi dell’Ottocento, quindi, riconoscevano l’utilità del grado della colpa con funzione di limite della responsabilità penale e impiegavano tale categoria con discreta frequenza.

 

 

4. – Passato prossimo: il codice Zanardelli del 1889

 

Considerazioni non dissimili a quelle sviluppate nei precedenti paragrafi paiono poter essere compiute anche con riguardo alle norme del codice Zanardelli del 1889[106], antecedente immediato del codice penale vigente (c.d. codice Rocco, dal nome dell’allora Ministro della Giustizia). In tale codice mancava una definizione di colpa nella parte generale, tuttavia le indicazioni sul contenuto della colpa erano fornite dalle singole norme incriminatrici di reati colposi.

 

4.1. – L’art. 371 c.p. Zanardelli e la relazione ministeriale

 

Esaminando il delitto di omicidio colposo quale paradigma della responsabilità penale per colpa va rilevato che l’articolo 371 prevedeva al primo comma:

 “Chiunque, per imprudenza, negligenza, ovvero per imperizia nella propria arte o professione, o per inosservanza di regolamenti, ordini o discipline, cagiona la morte di alcuno è punito con la detenzione da tre mesi a cinque anni e con una multa da lire cento a tremila”.

Al secondo comma, poi, veniva previsto

“Se dal fatto derivi la morte di più persone o anche la morte di una sola e la lesione di una o più, la quale abbia prodotto gli effetti indicati nel primo capoverso dell’articolo 372, la pena è della detenzione da uno a otto anni e della multa non inferiore a lire duemila”.

Il tenore letterale della norma potrebbe far pensare, stante l’interpretazione odierna relativa alla similare disposizione contenuta nell’art. 43 c.p., che fosse escluso qualsiasi rilievo del grado della colpa in funzione di limite della responsabilità penale.

Dalla Relazione al Codice del Ministro, tuttavia, si apprende che il dibattito sulla rilevanza penale dei gradi più lievi della colpa era tutt’altro che sopito. Nella stessa, difatti, si evidenzia anzitutto che non è stabilito “ancora con sicurezza di criteri scientifici in che cosa consistesse la colpa in diritto penale”[107] ed inoltre che “il concetto della prevedibilità dell’evento, in addietro pacificamente ricevuto dalla dottrina, è oggidì scosso dalle nuove indagini e viene giudicato empirico e fallace”[108].

Ancora, il Guardasigilli osservava, con riguardo ai concetti di negligenza, imprudenza o imperizia, che

“se poi ciascuna delle espressioni che vi sono contenute può lasciare adito a qualche perplessità, ravvicinate tra di loro, esse si completano e chiariscono scambievolmente, per guisa che né per inavvertenza, imprudenza o negligenza debba ritenersi imputabile qualunque fatto dell’uomo, nel quale non siano osservate le più sottili cautele del vivere civile, né per imperizia dell’arte o professione o per inosservanza di regolamenti, discipline o doveri del proprio stato s’intenda ogni e qualunque deviazione delle norme particolari o generali, che incombono al professionista o a qualsiasi cittadino”[109].

In tale documento, quindi, pare escludersi che da condotte implicanti una tenue violazione della regola cautelare possa discendere responsabilità penale.

 

4.2. – La posizione della dottrina

 

Conferma di quanto appena rilevato si ricava dalla dottrina dell’epoca[110].

Augusto Setti, membro della Commissione che aveva collaborato alla stesura del Codice Zanardelli, rilevava:

“Comunque non fu disconosciuta l’utilità dell’antica divisione in lata, levis, levissima, ammettendo implicitamente nella formola legislativa, esplicitamente nella relazione, che la colpa lievissima non è d’ordinario punibile, non potendosi pretendere dagli uomini una previdenza od una perizia od una conoscenza del dovere straordinario, cioè non comune alla media fra gli uomini[111].

Similmente si esprimeva Giovanni Battista Impallomeni il quale, dopo avere evidenziato le ragioni che giustificavano l’imputabilità del reato colposo, osservava

“in coerenza all’anzidetto, la colpa levissima o minima non forma oggetto della legge penale, secondo che è comune insegnamento, per quegli eventi, cioè che una straordinaria solerzia e una esperienza speciale potrebbero evitare. E se qualche eccezione del passato si è da alcuno creduta necessaria per l’omicidio, in considerazione dell’estrema gravità del danno, ciò contraddice ai principi del giure punitivo. Basta considerare che la legge penale è norma di condotta, che deve essere pertanto una regola di tal natura da poter essere obbedita dalla generalità degli uomini, non rivolgendosi essa a questo o quell’altro singolarmente ma all’universalità dei cittadini. Or ciò che dalla generalità degli uomini può esigersi è la diligenza compatibile con la media capacità presunta in una popolazione. La legge penale non può esigere una straordinaria oculatezza, appunto perché essa è straordinaria, è la dote delle persone eccezionalmente illuminate dall’ingegno e dall’esperienza”;

l’Autore, inoltre, riprendendo il pensiero di F. Carrara, evidenziava che

“questo stesso, del resto, è il precetto del codice, poiché il medesimo raffigura la colpa nella negligenza, imprudenza e imperizia nella propria arte o professione; e imprudente è colui che non è prudente, non chi non è prudentissimo; negligente chi non è diligente, non diligentissimo; imperito chi non è perito, non chi non è peritissimo: occorrerebbero appunto tutti questi superlativi per la imputabilità della colpa lievissima[112].

Riprendendo, poi, la posizione dell’Autore citato, anche Luigi Majno:

“Si deve adunque ritenere come principio generale che non tutti i gradi di colpa diano luogo a responsabilità penale. Così vogliono in principi razionali: così richiedono autorevoli esempi legislativi così ha già ritenuto anche la pratica giurisprudenza in applicazione dell’art. 371 del codice italiano”[113].

Ugualmente l’Alimena:

“Se la colpa ha, come confini, l’imprevedibile – cioè il fortuito – da una parte, e il previsto – cioè il dolo – dall’altra, è naturale che essa, nei suoi territori estremi, senta l’influenza dei suoi vicini. Quindi – e non ne dicemmo le ragioni – come vi è una colpa lievissima, che non può imputarsi, così vi è una colpa gravissima, che suol dirsi prossima al dolo e, specialmente, al dolo eventuale. Tra questi due limiti, vi sono tanti stadi di gravità sempre crescente, e meritevoli, quindi, di pena sempre maggiore”[114].

Nella stessa linea di pensiero, Alfredo Tosti, che scriveva in una sua opera dedicata integralmente al tema della colpa[115]:

“Se adunque razionalmente nessuna limitazione comporta il principio non potersi esigere dai cittadini una cura straordinaria nelle loro azioni, è presumibile che nelle leggi positive si sia voluto adottare una regola contraria, pretendendosi, per ragioni di opportunità, quello che umanamente non è giusto pretendere?”,

richiamando il contenuto della relazione sopra menzionato e concludendo

“in qualsiasi ipotesi è sempre alla media degli uomini che bisogna aver riguardo, ed il giudice, nell’emettere la sua sentenza, non potrà mai fare a meno di rivolgersi, sia per i principi assoluti di giustizia, sia per le testuali nostre disposizioni di legge, la seguente domanda: dato l’insieme delle circostanze, che hanno spinto l’imputato ad agire, si presenta egli come un individuo normale od anormale? Ha egli cioè fatto quello che nel caso concreto la media degli uomini avrebbe operato, oppure s’è messo in opposizioni con i sentimenti o con le idee d’un determinato popolo in un dato momento storico di progresso civile? Di talchè è da escludersi sempre dalla cerchia delle azioni punibili tutto quanto non è in armonia con ciò che comunemente si pratica ed a nessun magistrato è permesso violare questo principio, senza calpestare la legge scritta”[116].

Così anche il Mosca:

“che della colpa levissima non si risponda penalmente è ormai fuori contestazione […]. Tutto è prevedibile dall’uomo eccessivamente cauto e meticoloso; ma se nella vita umana dovesse procedersi con codesto grado di cautela non si farebbe mai niente”[117];

ed ugualmente il Crivellari:

“su questa norma della prevedibilità si regola la distinzione della colpa in lata, levis, levissima. L’omissione della più ordinaria e comune diligenza, di quella che dettata quasi dal senso comune suol essere adoperata da ogni uomo nelle cose proprie, costituisce la colpa lata. L’omissione di quella diligenza che suol essere impiegata nelle cose proprie delle persone più diligenti e prudenti è una colpa levis. L’omissione finalmente della più esatta diligenza solita usarsi dalle persone più diligenti ed accortissime costituisce la colpa levissima. Siccome la legge umana non può mai spingersi fino ad imporre ai cittadini cose insolite e straordinarie, così è indubitato che la colpa levissima non è imputabile per principio di giustizia. Non lo è poi anche per principio di politica, poiché dall’omissione di una straordinaria diligenza non possono i cittadini essere intimiditi se dalla comune di loro generalmente non è usata e se ciascuno sente che non la adopererebbe egli stesso al verificarsi di un caso simigliante”[118].

Conferme della circostanza che la colpa punibile, nel codice Zanardelli, non fosse quella lievissima, provengono dalla lettura di ulteriori contributi dottrinali del tempo.

L’Antolisei, ad esempio, osservava che per ascrivere ad un soggetto un reato a titolo di colpa occorresse accertare se questi, con il proprio comportamento, avesse dimostrato qualità antisociali e dunque difetto di quella diligenza, attenzione e perizia indispensabili nei rapporti della società, concludendo che solamente una tale indagine poteva restringere nei limiti dovuti la responsabilità per colpa e portare ad una sua graduazione[119].

 

4.3. – Gli orientamenti giurisprudenziali

 

Da un’analisi della giurisprudenza formatasi sotto la vigenza del Codice Zanardelli, inoltre, si rinvengono alcune pronunce che paiono muovere nel senso di un riconoscimento della irrilevanza penale di contegni caratterizzati da un basso grado di negligenza, imprudenza e imperizia ancorché tale esclusione sia ottenuta per lo più non mediante la formale esclusione della colpa lieve ma attraverso la creazione di un tertium comparationis su cui valutare la condotta dell’agente plasmato sul comportamento ordinario dei consociati.

Ne sono un esempio le decisioni che seguono:

Cassazione penale, sentenza 2 luglio 1913[120], in cui la Corte precisa i parametri per l’ascrizione del reato colposo:

“nel concetto di colpa è insita la mancanza di quella diligenza e prudenza che la comune esperienza della vita insegna di usare nell’adempimento di alcuni atti, e specialmente nell’esercizio di alcuni mestieri o nell’uso di alcune cose”;

Cassazione penale, sentenza 29 maggio 1916, nella quale la Corte rilevava che:

“non è dubbio adunque che codesta maniera tenuta dalla levatrice di operare senza necessità, senza praticare disinfezioni, e contro la volontà della puerpera e della madre, mette capo al concetto della imperizia sanitaria. La quale consiste nella ignoranza di ciò che nell’esercizio dell’arte o della professione deve essere saputo dall’esercente, onde il non praticare per inscienza ciò che è praticato normalmente, e che la comune perizia insegna, induce indubbiamente la colpa punibile[121].

Cassazione penale, sentenza 19 novembre 1928, in cui la Corte, a fronte di un ricorso presentato dalla Procura contro la sentenza assolutoria di un imputato di omicidio colposo, stimava

“immeritevole di censura [...] la sentenza per i concetti espressi in ordine al contenuto della colpa punibile, dovendosi con essa consentire che questa presuppone la violazione dei doveri di diligenza e di previdenza che normalmente si osservano nell’ordinaria vita sociale, e specificamente nell’esercizio delle attività, arti, mestieri, professioni. Tutto ciò che è fuori di questi limiti, può essere oggetto di cura minuziosa di persone eccezionali, ma non può essere preso a fondamento di penale responsabilità”[122].

Similmente, Cassazione penale, sentenza 26 marzo 1928, in cui la Corte osservava:

“nel delimitare i limiti della diligenza generica, per tutti i cittadini, e della diligenza specifica per coloro che appartengono a categorie di persone che assumono od esercitano alcuni incarichi o professioni o mestieri, non si può pretendere di più di quanto nella pratica ordinaria della vita, per i primi, e nella pratica della loro specifica attività, per gli altri, la logica (attingendo dagli elementi dell’id quod plerumque accidit) ritiene doveroso”[123].

Da ultimo, Cassazione penale, sentenza 16 maggio 1930, ove si annullava una sentenza di condanna per omicidio colposo di un dipendente di una società che aveva malamente coperto una buca all’esito di alcuni lavori effettuati, così cagionando la morte di un soggetto per caduta del medesimo all’interno della buca stessa

“questa Suprema Corte ha già avuto occasione di notare in proposito come non sia facile la determinazione dei limiti della diligenza specifica per quelle categorie di persone che esercitano determinati mestieri o professioni; e che debbasi riconoscere che non sia lecito pretendere, oltre quello che nella pratica singolare della specifica attività, per costoro, la logica può ritenere doveroso attingendo agli elementi dell’id quod plerumque accidit[124].

Non mancavano, poi, sentenze in cui si ritenevano penalmente punibili solo i gradi più elevati di colpa.     

Così ad esempio Cassazione penale, sentenza 27 settembre 1906[125], in materia di errore professionale del medico, nella quale la Suprema Corte sottolineava:

 “per ritenere responsabile un medico si richiede un errore evidentissimo e imperdonabile, per modo da rendere scusabili tutti quegli errori che non dipendono da incapacità manifesta e di trascuranza di obblighi o precetti indiscutibili”

e, quindi, confermava la condanna del sanitario sottoposto a giudizio in quanto l’omissione di una manovra con il forcipe

“che era unicamente indicata, non dipese da sua imperizia, giacché egli, col preparare e sterilizzare quell’instrumento, dimostrò di avere piena e sicura coscienza dell’indicazione ostetrica, ma dipese dall’audace lusinga di potere riparare con una manovra manuale all’imprudente e orgogliosa affermazione precedente non esservi bisogno d’operazione con ferri né d’aiuto di altri sanitari per l’estrazione del feto, ma solo dell’uso della sua mano. Quell’orgoglio e quella lusinga lo resero colpevole di grave imprudenza, per avere tentato l’estrazione del feto con una manovra manuale, mentre egli stesso conosceva esser l’operazione del forcipe la sola indicata nel caso. Ora, se il magistrato di merito, con apprezzamento di fatto incensurabile in questa sede, si convinse che il medico, non per imperizia, ma per malsano orgoglio, si spinse a tentare un’operazione audace e imprudente, omettendo quell’operazione che egli stesso giudicava indicata nel caso, manifestamente insussistente è l’accusa che si fa nella sentenza. Non si tratta di errore professionale più o meno sanabile, ma d’una gravissima imprudenza di un professionista, che, pur sapendo che una via facile e piana gli era aperta, per salvare la vita di una infelice signora, che in lui aveva riposto piena fiducia, per appagare la sua vanità, ne segue un’altra più difficile e perigliosa, onde veramente può dirsi che si verifica quella colpa lata quae dolo aequiparatur”;

Questa impostazione[126] venne sovente seguita anche dalla giurisprudenza di merito.

La Corte d’Appello di Milano[127], ad esempio, aveva rilevato in una propria sentenza che non potesse assurgere a delitto colposo l’omissione di “qualche cautela straordinaria e inusitata” e tanto meno “il costituirebbe qualsiasi leggiera inavvertenza”. La legge, osservavano i giudici milanesi, “con ragione pretende che il cittadino sia diligente nelle sue azioni onde queste non siano dirette a danno altrui”, ma “non può esigere in lui una antiveggenza così scrupolosa e raffinata che porti ad un’infallibilità dei suoi atti”, in quanto “il fatto stesso si elevi a colpa delittuosa necessita il concorso d’una indiscutibile, palese, evidente, negligenza o imprudenza o imperizia” [128].

Dall’analisi della dottrina e della giurisprudenza sviluppatasi sotto la vigenza del codice Zanardelli emerge quindi che anche in tale periodo la dottrina ed una significativa parte della giurisprudenza continuavano a ritenere che la colpa penalmente dovesse essere connotata da un certo grado di gravità e, nell’assenza di indicazioni legislative, l’irresponsabilità per i gradi più lievi della colpa era sovente ottenuta, come già avvenuto per i codici preunitari, anche grazie al tertium comparationis – plasmato sul comportamento ordinario, comune dei consociaticon cui si paragonava la condotta tenuta dall’agente concreto[129].

 

 

5. – L’eredità della plurisecolare elaborazione in tema di colpa grave agli albori del codice Rocco

 

Nei precedenti paragrafi si è cercato di fornire un quadro sintetico delle riflessioni sul grado della colpa prima dell’adozione dell’attuale codice penale.

Ci pare utile chiudere questa ricostruzione storica dando conto della posizione della dottrina che scriveva all’indomani della promulgazione del codice Rocco, avvenuta il 19 ottobre 1930.

Benché né nel testo, né nella relazione finale si faccia cenno alcuno al grado della colpa[130] in funzione di esclusione della responsabilità penale, parte della dottrina coeva sembrava non avere dubbi sulla circostanza che il requisito psicologico della colpa, per dare luogo a sanzione penale, dovesse connotarsi di un certo grado di intensità[131].

Così l’Altavilla:

 “E’ possibile, in diritto penale, l’antica distinzione romanistica tra culpa levissima, levis e lata? Merita di essere ricordata una sentenza civile della Corte di Appello di Roma: ‘Tra la colpa perseguibile penalmente e quella extracontrattuale civile esiste una notevole differenza potendo questa essere anche lievissima per grado, mentre l’altra deve turbare in modo più profondo l’ordine giuridico, sì da eccitare il potere politico della repressione, comune ad entrambe è l’elemento della prevedibilità, senza cui si rientrerebbe nel concetto del fortuito o della forza maggiore, ma la misura è diversa, perché, in tema di diritto penale, non potendo incriminarsi la colpa lievissima, bisogna ragguagliarla alla comune mentalità umana, e non si può pretendere dal soggetto attivo una riflessione straordinaria, estensibile cioè ad un evento anormale, laddove nella configurazione del quasi delitto civile si può tener conto di ogni negligenza, imprudenza, imperizia e inosservanza di ordine e di disciplina che al responsabile del fatto debbano ascriversi’. Deve cioè la colpa, per essere penalmente punibile, avere una certa intensità[132].

Ugualmente il Frosali:

“A nostro modo di vedere, è opportuno, e risponde alla pratica quotidiana, distinguere, fra colpa penale e colpa civile, una differenza di grado, constatando che al di sotto del grado minimo necessario per integrare la colpa penale vi è ancora un grado di colpa sufficiente a determinare la responsabilità soltanto civile. Infatti, la individuazione della colpa penale e la individuazione della colpa civile rispondono a fini diversi: per la prima, si tratta di individuare una personalità criminalmente pericolosa, per la seconda, si tratta di accertare quel tanto di imputabilità morale – secondo il generale sistema civilistico vigente – che stacchi l’azione umana dal caso fortuito, e consenta di addossare l’onere (prevalentemente patrimoniale) del danno a chi lo ha adeguatamente recato piuttosto che a chi lo ha sofferto”[133].

Particolare, poi, la posizione del Battaglini, il quale riteneva che la colpa lievissima fosse sanzionata penalmente solo nelle ipotesi di responsabilità oggettiva previste dal Codice del 1930:

“La ‘responsabilità oggettiva’ sarebbe effettivamente compresa nell’art. 42, solo se l’‘altrimenti’ del secondo capoverso si riferisse veramente a ipotesi, nelle quali non c’è neppure la volontà della causa. […] E allora, se non siamo fuori dalla volontà in causa (ossia della volontà indiretta dell’evento), nel secondo capoverso dell’art. 42 non può trattarsi che di un grado di volontà minore di quello che si richiede nella figura del delitto, che si denomina ‘colposo’. In questo non rientra tutta la colpa, anche quella minima; perché un illecito di carattere così grave, com’è il reato, non può essere costituito – ove il legislatore ritenga di incriminare la colpa in senso stretto: il che in penale è già un’eccezione – dalla omissione di cautele che esorbitano dalla capacità dell’uomo medio. In certi casi, però, il legislatore può ritenere sufficiente una colpa estremamente leggera, anche in penale. E’ a queste figure eccezionali, di volontarietà minima in ordine alla causa, che si riferisce appunto l’avverbio ‘altrimenti’. Vale a dire che, nei casi a cui quell’altrimenti allude, è sufficiente anche la colpa levissima. È la categoria, che segna il limite estremo della colpa, oltre il quale è il fortuito. Non è che si tratti in realtà di responsabilità senza colpa, ad ogni costo ed erroneamente battezzata come responsabilità per colpa”[134].

Opinioni similari a quelle appena riportate provenivano anche da Autori che avevano ricoperto il ruolo di Segretario della Commissione per la riforma del codice penale – Carlo Saltelli ed Enrico Romano-Di Falco –  i quali sottolineavano, riprendendo quasi alla lettera il pensiero di autori precedenti quali Impallomeni e Carrara[135]:

“è da osservare ancora che se la colpa è costituita dalla negligenza, imprudenza, imperizia o inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline, il non osservare le più sottili cautele del vivere civile o le più raffinate consuetudini della convivenza sociale, o il semplice deviamento delle norme che regolano l’esercizio professionale non costituisce affatto colpa. Negligente è chi non sia diligente, e non chi non sia diligentissimo; imprudente è chi non è prudente, e non chi non è prudentissimo; imperito è chi non è esperto e non chi non è espertissimo” [136].

Aderivano a questa posizione dottrinale anche sentenze di pochi anni successive all’adozione del Codice Rocco che escludevano la rilevanza penale della colpa lievissima e che oggi non possono che stupire il giurista contemporaneo, considerato che esse erano fondate sulle medesime norme in tema di colpa oggi vigenti.

Esempio di tale affermazione è Cassazione penale, sentenza 20 dicembre 1939 secondo cui:

“C’è invero una larga graduazione della responsabilità, anche ai fini del delitto colposo, e la legge non può giungere fino a comprendere il grado superlativo, cioè la mancanza delle più delicate cautele della più scrupolosa condotta della civile convivenza; colpisce chi non è diligente senza arrivare fino a chi non è diligentissimo, e potrà pertanto sempre esser colto il distacco della responsabilità civile ai sensi dell’art. 1151 C. civ., ove si prevede qualsiasi fatto dell’uomo che arreca danni ad altri sul fondamento della colpa extracontrattuale”[137].

In senso sostanzialmente conforme anche Cassazione penale, sentenza 26 aprile 1939 che, nell’annullare una sentenza di condanna per il proprietario di un muraglione che non aveva fatto eseguire dei lavori di restauro così cagionandone il crollo con conseguente morte di nove soggetti, così si esprimeva:

“La Corte d’appello considerò tale errore non immune da colpa e così testualmente ebbe ad esprimersi: ‘si può ammettere che la ricerca e la scoperta delle cause dei ricordati fenomeni fosse ardua e che richiedesse un tecnico espertissimo; ma è chiaro che un ingegnere chiamato a risolvere il problema ne avrebbe almeno riconosciuta la difficoltà di soluzione, e da ciò sarebbe stato indotto, se non fosse riuscito ad identificare la causa, a suggerire di ricorrere al parere di altri tecnici, astenendosi, nel dubbio, dall’escludere il pericolo di crollo, e l’ordinanza di sloggio non sarebbe stata revocata’. Non si può disconoscere che un tale argomentare, rispetto ad un punto così essenziale ai fini del decidere, rivela perplessità, contraddittorietà, e comunque non costituisce valida dimostrazione dell’esattezza dell’assunto. Rivela perplessità, perché quando il magistrato, di fronte ad un quesito di responsabilità per colpa, e per di più, come è nella specie, per decidere se ricorra imperizia, ammette che soltanto un tecnico espertissimo possa scoprire quanto sfuggirebbe alla media dei tecnici, dimostra incertezza, ben sapendosi che, invece, il criterio razionale e giuridico da adottare per ritenere o meno uno stato di imperizia è quello di far capo alla normale esperienza tecnica e professionale[138].

Vi era, tuttavia, altra parte della dottrina[139] che invece riteneva superato il problema, argomentando che il grado della colpa potesse avere rilievo esclusivamente ai fini della commisurazione della pena – in quanto ciò era stato espressamente stabilito nel nuovo codice dall’art. 133 c.p. – ma non avesse più alcuna utilità ai fini della decisione sull’an della sanzione penale.

Su tali posizioni si attestarono anche autori successivi[140] e dalla giurisprudenza maggioritaria che, in generale, non conferì più alcun rilievo – salvo un’eccezione concernente l’applicazione anche in ambito penale della previsione dell’art. 2236 del codice civile[141] – ai gradi della colpa al fine di escludere la responsabilità penale.

 

 

6. – Conclusioni interlocutorie e prospettive di ulteriore indagine

 

Riteniamo che l’excursus appena proposto, per quanto connotato da un’inevitabile sinteticità, abbia contribuito a chiarire una circostanza: l’esclusione dalla rilevanza penale dei gradi più lievi della colpa, per lo meno sino all’adozione del codice Rocco, risultava essere principio abbastanza consolidato nella cultura giuridica nostrana[142].

Vi sono almeno tre motivi per cui, invece, dopo il codice Rocco il dibattito sulla rilevanza dei gradi della colpa ai fini dell’an della pena si è assopito quasi del tutto.

Un primo argomento, già menzionato in precedenza, è di ordine sistematico – letterale: si ritiene che la graduazione della colpa prevista dall’art. 133 c.p. per la commisurazione della pena chiuderebbe qualsiasi discussione sulla rilevanza penale dei gradi della colpa. Esso, tuttavia, non pare da solo sufficiente a spiegare l’arrestarsi del dibattito, anche perché, come visto, salvo isolate eccezioni, l’esclusione dei gradi più bassi della colpa era in passato ottenuta sulla base di un’interpretazione di norme che in realtà non contenevano definizioni di colpa.

Un secondo argomento risiede nell’affinamento della dogmatica della colpa e nella conseguente individuazione dell’homo eiusdem condicions et professionis – già abbozzato in sede civile, come si è visto, da Bartolo da Sassoferrato – quale parametro di riferimento per la valutazione della sussistenza del reato colposo. Siffatta modifica del termine di paragone – fondato su ragioni già analiticamente descritte in dottrina[143] – potrebbe aver contribuito all’allargamento della responsabilità colposa anche a contegni percepiti come di lieve entità[144].

E’, difatti, abbastanza intuitivo che il parametro di riferimento con cui si compara la condotta[145] di un soggetto incide significativamente sulla determinazione dei comportamenti che sono oggetto di incriminazione.

Se ad esempio, in caso di incidente stradale, si valuta l’eventuale imprudenza di un soggetto – il quale, distratto per un istante dall’illuminazione del cellulare che segnalava la ricezione di un messaggio, non si è avveduto del repentino attraversamento di un bambino investendolo e cagionandone la morte – parametrando la sua condotta con il comportamento – notoriamente sciatto – ordinariamente tenuto dalle persone al volante, questi potrebbe essere ritenuto esente da responsabilità, responsabilità che al contrario potrebbe essergli attribuita, comparando il suo comportamento con quello che avrebbe tenuto l’homo eiusdem condicionis ed professionis, ossia un esponente coscienzioso ed avveduto del gruppo di persone di cui l’imputato è omologo[146].

Al tertium comparationis utilizzato al fine di stabilire l’an della responsabilità penale pare quindi immanente un quantum di pretesa di diligenza, prudenza e perizia che l’ordinamento ha nei confronti dei consociati nello svolgimento delle proprie attività.

Da ultimo, ulteriore argomento per spiegare la scomparsa – o l’estrema riduzione – del grado della colpa con funzione limite alla responsabilità penale risiede nella circostanza che rispetto ai periodi storici sopra descritti, quello che va dall’adozione del codice Rocco sino ai giorni nostri è stato caratterizzato da un aumento del progresso tecnologico che non trova confronti nel resto della storia dell’umanità. Conseguentemente, per far fronte ai pericoli che derivano da tale sviluppo tecnologico per l’uomo, una delle strade percorribili potrebbe essere l’espansione in misura sempre maggiore del diritto penale[147] ed in particolare del reato colposo. Tale espansione poggia sulla necessità di sfruttare la finalità preventiva del diritto penale poiché in particolare la sanzione per i reati colposi, un tempo previsti solo in via residuale, dovrebbe, in un’ottica di politica criminale, spingere i soggetti a comportamenti attenti, ad aumentare la diligenza, la prudenza, la perizia ed il rispetto delle leggi, regolamenti, ordini e discipline aventi finalità cautelare. Correlata a tale motivazione vi è altresì la considerazione che al giorno d’oggi e differentemente dal passato una colpa lievissima può avere delle conseguenze disastrose; il progresso ha quindi moltiplicato a dismisura il raggio d’azione e la potenzialità distruttiva dei comportamenti umani.

Il ragionamento esposto sembra concretizzare le istanze che presso la società contemporanea paiono avere assunto un peso sempre maggiore nel corso del tempo. La veloce trasformazione della società nell’epoca della post–industrializzazione e la novità degli strumenti di comunicazione hanno contribuito in maniera decisiva ad aumentare il senso di inadeguatezza dell’individuo a dominare gli eventi[148] e la conseguente necessità di individuare sempre e comunque, anche a fronte di eventi imprevedibili che altro non costituiscono se non quelle disgrazie[149] cui faceva riferimento il Carrara[150], un responsabile[151].

La pubblica opinione, cui Francesco Carrara attribuiva un peso determinante nell’identificazione della ratio giustificatrice dell’esclusione dei gradi più tenui della colpa – in quanto a fronte di condotte lievemente colpose essa si sarebbe mossa a compassione – sembra avere mutato il proprio atteggiamento.

Particolare risalto da questo punto di vista, con riguardo alle ragioni che hanno contribuito al cambiamento di atteggiamento nell’opinione pubblica, sembra avere assunto proprio la diffusione enorme, rispetto ad un tempo, degli strumenti di comunicazione di massa che giocano oggi un ruolo fondamentale[152], spingendo cittadini ad un bisogno continuo e indefettibile di sicurezza a prescindere dalla reale esistenza di pericoli[153].

Il ruolo dei mass media, rispetto al diritto penale, pare determinante nell’adozione dei provvedimenti legislativi poiché influenza i cittadini, elettori, rispetto a quelli che sono i loro bisogni; bisogni – tra i quali rientra l’esigenza di essere al sicuro da determinati pericoli – la cui realizzazione viene promessa dai politici in campagna elettorale e realizzata successivamente alle elezioni[154].

Le elaborazioni in questione lasciano aperto l’interrogativo se il totale abbandono del grado della colpa quale elemento limitativo dell’imputazione colposa – e quindi l’estensione della sanzione penale verso qualsiasi forma di colpa, anche la più leggera – sia un fatto giustificato o giustificabile dall’effettiva efficacia dell’intervento penale al fine di stimolare positivamente l’attenzione dei consociati verso l’assunzione di comportamenti virtuosi, ovvero non sembri piuttosto il prodotto dell’evoluzione della società contemporanea per cui “nessuna morte è naturale e […] se non è possibile attribuirla ad una volontà positiva, la si può sempre imputare ad una negligenza”[155].

Come è stato rilevato da Hassemer, infatti, un po’ di sicurezza in più può essere sempre aggiunto al sacco già ricolmo dei controlli e delle sanzioni e forse è proprio questo pezzo di sicurezza mancante che, domani, ci salverà. In particolare, se si concorda sull’ovvietà per cui è impossibile pensare ad un mondo in cui non vi siano dei rischi, quali e quanti rischi al giorno d’oggi siamo disposti a sostenere pur di conservare le tradizioni di libertà che hanno contraddistinto la nostra cultura dall’illuminismo in poi[156]?

 

 

Abstract

 

 

 

 

 

 



 

[Per la pubblicazione degli articoli della sezione “Contributi” si è applicato, in maniera rigorosa, il procedimento di peer review. Ogni articolo è stato valutato positivamente da due referees, che hanno operato con il sistema del double-blind]

 

[1] In dottrina, peraltro, l’individuazione della colpa grave quale elemento soggettivo richiesto per integrare le suddette ipotesi di bancarotta semplice è tutt’altro che pacifica: ritiene che tali ipotesi siano punibili a titolo di colpa S. Canestrari, “Rischio d’impresa” e imputazione soggettiva nel diritto penale, in Rivista trimestrale di diritto penale dell’economia, 2003, 554; secondo C. Pedrazzi, Reati commessi dal fallito. Reati commessi da persone diverse dal fallito, ora in C. Pedrazzi, Diritto penale, Vol. IV – Scritti di diritto penale dell’economia, Milano, Giuffrè, 2003, 602, invece, almeno le ipotesi di bancarotta semplice previste dai numeri 2) e 3) (oltre, ovviamente, all’ipotesi di cui al numero 1) dell’art. 217 comma 1 possono essere commesse anche con dolo eventuale; in senso ulteriormente difforme G. Cocco, Sub art. 217 l. fall., in F. Palazzo – C. E. Paliero (a cura di), Commentario breve alle leggi penali complementari, Padova, Cedam, 2007, 1209, ritiene che le condotte di bancarotta semplice siano esclusivamente dolose. In argomento, v. pure D. Micheletti, La colpa nella bancarotta semplice patrimoniale. Contributo allo studio della regola cautelare come criterio di delimitazione della tipicità colposa, in Rivista trimestrale di diritto penale dell’economia, 2000, 609 e ss. Ad ogni modo, il numero di sentenze di condanna per bancarotta semplice, soprattutto se raffrontato a quello di condanne per bancarotta fraudolenta, è estremamente esiguo, come la ricerca su una qualsiasi banca dati di giurisprudenza può dimostrare. Per tale rilievo, v. già U. Giuliani Balestrino, La colpa dell’imprenditore nella bancarotta semplice patrimoniale nell’evoluzione del reato colposo, in M. C. Biassiouni –A. R. Latagliata – A. M. Stile, Studi in onore di Giuliano Vassalli, Vol. I, Milano, Giuffrè, 1991, 680. Tra le sentenze emanate dalla Corte di Cassazione in materia di bancarotta semplice, in cui si dà rilievo alla colpa grave, particolarmente interessante è Cass. pen., sez. V, sent. 43414 del 2013, in CED 257533, in cui la Corte ha sottolineato l’attenzione che l’interprete dovrebbe riservare alla verifica della sussistenza della gravità della colpa nel comportamento tenuto dall’imprenditore.

[2] Sulla legge Balduzzi e sulla sua applicazione giurisprudenziale, v., per un quadro ricostruttivo, F. Basile, Un itinerario giurisprudenziale sulla responsabilità medica colposa tra art. 2236 cod. civ. e legge Balduzzi (aspettando la riforma della riforma), in Diritto penale contemporaneo, 23 febbraio 2017, nonché, volendo, P.F. Poli, Legge Balduzzi tra problemi aperti e possibili soluzioni interpretative: alcune considerazioni, in Diritto penale contemporaneo – Rivista trimestrale, n. 4/2013, 86 e ss.; sulla riforma del 2017, v. C. Cupelli, Alle porte la nuova responsabilità penale degli operatori sanitari. Buoni propositi, facili entusiasmi, prime perplessità, in Diritto penale contemporaneo, 16 gennaio 2017; C. Brusco, I riflessi della legge Gelli – Bianco sulla responsabilità penale, Relazione svolta al corso di aggiornamento “Responsabilità per colpa medica: nuovi strumenti e nuovi problemi dopo la recente modifica legislativa”, 13 giugno 2017, in http://www.distretto.torino.giustizia.it/Distretto/allegato_corsi.aspx?File_id_allegato=2896; G.M. Caletti – M.L. Mattheudakis, Una prima lettura della legge Gelli – Bianco nella prospettiva del diritto penale, in Diritto penale contemporaneo, 9 marzo 2017; G. Iadecola, Qualche riflessione sulla nuova disciplina della colpa medica per imperizia nella legge 8 marzo 2017 n. 24 (legge c.d. Gelli – Bianco), in Diritto penale contemporaneo, 13 giugno 2017; A. Roiati, La colpa medica dopo la legge “Gelli – Bianco”: contraddizioni irrisolte, nuove prospettive ed eterni ritorni, in Archivio penale, n. 2, 2017, 1 e ss.; O. Di Giovine, Colpa penale, “legge Balduzzi” e “disegno di legge Gelli-Bianco”: il matrimonio impossibile tra diritto penale e gestione del rischio clinico, in Cassazione penale, 2017, 389 e ss.; L. Risicato, Il nuovo statuto penale della colpa medica: un discutibile progresso nella valutazione della responsabilità del sanitario, in La Legislazione penale, 2017, 16 e ss., nonché, volendo, P.F. Poli, Il d.d.l. Gelli – Bianco: verso un’ennesima occasione persa di adeguamento della responsabilità penale del medico ai principi costituzionali?, in Diritto penale contemporaneo, 20 febbraio 2017.

[3] Cass. pen., SS. UU., sent. 21 dicembre 2017, n. 8770. Per alcune considerazioni critiche su tale sentenza, la quale avrebbe operato un’interpretazione praeter legem del nuovo art. 590 sexies c.p., v. C. Cupelli, L'art. 590-sexies c.p. nelle motivazioni delle sezioni unite: un'interpretazione 'costituzionalmente conforme' dell'imperizia medica (ancora) punibile, in Diritto penale contemporaneo, 1 marzo 2018; P. Piras, Un distillato di nomofilachia: l’imperizia lieve intrinseca quale causa di non punibilità del medico, in Diritto penale contemporaneo, 9 aprile 2018; R. Bartoli, Riforma Gelli – Bianco e Sezioni Unite non placano il tormento: una proposta per limitare la colpa medica, in Diritto penale contemporaneo, 24 maggio 2018; R. Blaiotta, Niente resurrezioni, per favore. A proposito di S.U. Mariotti in tema di responsabilità medica, in Diritto penale contemporaneo, 28 maggio 2018.

[4] Per uno sguardo comparatistico sul rilievo del grado della colpa nel sistema spagnolo sia consentito rinviare a P.F. Poli, La rilevanza del grado della colpa in funzione incriminatrice nel sistema penale spagnolo: un modello da imitare?, in Rivista italiana di diritto e procedura penale, 2018, 903 e ss.

[5] Affronta un analogo quesito anche S. Delsignore, La colpa grave. Un’indagine di diritto comparato sui limiti di incriminazione dei fatti colposi, Parma, 2004 (stampa a cura dell’autore).

[6] Così G. Grosso, Lezioni di storia del diritto romano, V ed., Torino, Giappichelli, 1965, 2, il quale rileva che “l’apertura storica è essenziale al giurista per acquistare coscienza del suo stesso lavoro, e rendere questo più sensibile all’individualità degli elementi con cui opera”.

[7] F. Carrara, Programma del corso di diritto criminale – Parte speciale, vol. I, VI ed., Lucca, Tipografia Canovetti, 1891, 90 e ss.

[8] Cfr. F. Gnoli, Diritto penale nel diritto romano, in Digesto delle discipline penalistiche, vol. IV, Torino, Giuffrè, 1990, 46.

[9] Per una panoramica sul diritto comune cfr. A. Padoa Schioppa, Italia ed Europa nella storia del diritto, Bologna, Il mulino, 2003; E. Conte, Diritto comune. Storia e storiografia di un sistema dinamico, Bologna, Il mulino, 2009; M. Caravale, Diritto senza legge. Lezioni di diritto comune, Torino, Giappichelli, 2013.

[10] Così C. Ferrini, Esposizione storica e dottrinale del diritto penale romano, in E. Pessina (a cura di), Enciclopedia del diritto penale italiano, Vol. I, Milano, Società editrice libraria, 1905, 3; U. Brasiello, Note introduttive allo studio dei crimini romani, in Studia ed documenta historiae et iuris, 1946, 149 e ss.; F. Gnoli, Diritto penale nel diritto romano, cit., 46; G.P. Demuro, Alle origini del concetto di dolo: dall’etica di Aristotele al diritto penale romano, in http://dirittoestoria.it/5/Contributi/Demuro-Dolo-Etica-Aristotele-diritto-penale-romano.htm , 17.

[11] F. Zuccotti, “Furor” e “eterodossia” come categorie sistematiche della repressione criminale romana, in O. Diliberto (a cura di), Il problema della pena criminale tra filosofia greca e diritto romano, Napoli, Jovene, 1993, 276; C. Gioffredi, I principi del diritto penale romano, Torino, Giappichelli, 1970, 26 e ss.

[12] In questo senso G. Pugliese, Diritto penale romano, in V. Arangio Ruiz – A. Guarino – G. Pugliese, Guide allo studio della civiltà romana, Vol. VI (Il diritto romano. La costituzione. Caratteri, fonti. Diritto privato. Diritto criminale), Roma, Jouvence, 1980, 249. G.P. Demuro, Alle origini del concetto di dolo, cit., 17; F. Gnoli, Diritto penale nel diritto romano, cit., 46. Un tentativo di completa ricostruzione del diritto penale romano è stato intrapreso, in epoca moderna, da T. MommsenRömisches Strafrecht, Duncker & HumblotLeipzig 1899: come, infatti, lo stesso Autore attesta – nella traduzione riportata da T. Masiello, Mommsen e il diritto penale romano, Bari, Cacucci Editore, 1995, 36 – “Giuristi, storici, filologi sono d’accordo nel ritenere che la scienza manchi di un’opera sul diritto penale romano. Che il presente libro colmi la lacuna spesso avvertita è il mio desiderio e, in una certa misura, la mia speranza”. Altri significativi contributi sull’argomento sono stati offerti da A. LöfflerDie Schuldformen des Strafrechts. In vergleichend-historischer und dogmatische Darstellung, Duncker & Humblot, Leipzig, 1895 nonché da K. BindingDie Normen und ihre Übertretung. Eine Untersuchung über die rechtmäßige Handlung und die Arten des Delikts, II, Duncker & Humblot, Lipsia, 1916.

[13] Per una panoramica sul reato di omicidio nel diritto penale romano, cfr. L. Garofalo, Piccoli scritti di diritto penale romano, Padova, CEDAM, 2009; N. Scapini, Diritto e procedura penale nell’esperienza giuridica romana, Parma, Casanova, 1992. G. Ferruccio Falchi, L’omicidio in Alberto da Gandino e nella tradizione romana, Padova, R. Zannoni, 1927.

[14] Cfr. sul punto tra gli altri B. Santalucia, Studi di diritto penale romano, Roma, L'Erma di Bretschneider, 1994, 107 e ss.; E. Cantarella, Studi sull’omicidio in diritto greco e romano, Milano, Giuffrè, 1976, 77 e ss.; M.S. Porrello, Omicidio tra vendetta privata e punizione, in Diritto e questioni pubbliche, 2008, n. 8, 161 e ss.; C. A. Melis, “Arietem offerre”. Riflessioni attorno all’omicidio involontario in età arcaica, in Labeo, 1988, 135 e ss.

[15] F. Gnoli, Diritto penale nel diritto romano, cit., 48 nonché F. Arcaria – O Licandro, Diritto romano. Vol. 1. Storia costituzionale di Roma, Torino, Giappichelli, 2014, 112, in cui gli Autori riportano il seguente passaggio dei Commentarii in Vergilii Bucolica del giurista Servio Mario Onorato che attesta l’esistenza di tale disposizione “Sane in Numae legibus cautum est, ut si quis imprudens occidisset hominem, pro capite occisi agnatis eius in cautione offeret arietem. Ergo hic bene videtur arieti dignitatem dare dicendo ‘ipse’, qui oblatus homicidam crimine homicidii possit exsolvere”.

[16] Così C. Ferrini, Esposizione storica, cit., 38 e ss., il quale rileva che tale impostazione risulta essere la naturale conseguenza del principio della vendetta privata per la quale l’ira dell’offeso consegue direttamente dal male subito.

[17] Tale età ha inizio nel 509 a.c. – con il rovesciamento della monarchia avvenuto mediante la cacciata di Tarquinio il Superbo – e termina nel 27 a.c., con la nascita dell’impero romano. Per l’inquadramento storico del periodo si rinvia a W. Blösel, Roma: l’età repubblicana. Forum ed espansione del dominio, Bologna, Einaudi, 2016.

[18] F. Gnoli, Diritto penale nel diritto romano, cit., 51. Tale legge, come spiega l’Autore, fu adottata dal collegio magistratuale dei decemviri.

[19] Come osserva G.P. Demuro, Il dolo, Vol. I – Svolgimento storico del concetto, Milano, Giuffrè, 2007, 33, “il termine quaestio, che originariamente designa l’attività del magistrato investito del compito di indagare (quaerere), passa poi ad indicare, con l’introduzione delle corti permanenti, anche il procedimento davanti alla giuria, per contrassegnare infine lo stesso tribunale presieduto dal magistrato”.

[20] Cfr. su tale distinzione G. I. Luzzatto, Colpa penale II, a) Diritto Romano, in Enciclopedia del diritto, vol. VII, 1960, 614 e ss.; T. Masiello, Mommsen e il diritto penale, cit., 65; P. Voci, Risarcimento e pena privata nel diritto romano classico, Milano, Giuffrè, 1939, 93 e ss.; G.P. Demuro, Alle origini del concetto di dolo, cit., 20. Ben illustra, con ampi riferimenti ai testi dell’epoca, il motivo per cui anche il solo risarcimento era considerato una pena per i giuristi di quel periodo, C. Sanfilippo, Corso di diritto romano. Gli atti illeciti. Pena e risarcimento, Catania, Tipografia dell’Università, 1959, 31 e ss.

[21] Per una panoramica sulle modalità di svolgimento del processo privato in epoca romana cfr. B. Albanese, Il processo privato romano delle legis actiones, Palermo, Palumbo, 1987, 1 e ss.

[22] Cfr. F. Costabile, Temi e problemi dell’evoluzione storica del diritto pubblico romano, Torino, Giappichelli, 2016, 76, il quale evidenzia che tali illeciti “offendevano esclusivamente l’individuo titolare di un diritto soggettivo che veniva leso a suo esclusivo danno. Questo era risarcibile dalla multa pecuniaria nel iudicium privatum ad iniziativa della parte offesa, che dava inizio all’azione giudiziaria (actio) di fronte al magistrato, ed era perciò detta actor (attore), contro il convenuto che era detto reus in quanto accusato di essere responsabile di qualcosa (res=cosa). Nel processo privato non solo l’iniziativa spettava esclusivamente alla parte che si presumeva avesse subito un torto o un danno, ma esso non poteva aver luogo se il convenuto non accettava di sottoporvisi: in caso di rifiuto il magistrato poteva solo infliggere una multa di valore ben superiore alla causa, ma il processo non poteva aver luogo senza il consenso del reus. Oggi tale tipo di processo si usa chiamarlo “civile”, ma nella lingua latina soltanto in epoca molto tarda l’aggettivo civilis si trova in antitesi a criminalis, com’è proprio dell’uso moderno: quel iudicium era detto privato proprio perché rispondeva alla singulorum utilitas”.

[23] In argomento B. Santalucia, Studi, cit., 132, il quale rileva con riferimento a tali figure che “pur essendo sforniti, in quanto magistrati minori, della vera e propria coercitio, che trovava il suo fondamento nell’imperium, i tresviri possedevano, nelle materie connesse con l’ordine pubblico, un limitato potere di coercizione che consentiva loro di procedere contro i perturbatori della pace sociale con idonee misure afflittive. Come l’odierna polizia, essi costituivano per lo stato più basso della popolazione urbana l’espressione più concreta e immediata della pubblica autorità. Chi non aveva la coscienza tranquilla faceva bene a tenersi alla larga dai luoghi in cui passavano le loro ronde: c’era sempre il rischio di essere arrestati e puniti con una notte di prigione e con una buona dose di frustate”; A. Schiavone (a cura di), Storia giuridica di Roma, Torino, Giappichelli, 2016, 213; M. Pani, Il costituzionalismo di Roma antica, Roma, Laterza Editore, 40 e ss. Per una panoramica sui compiti di tali funzionari cfr. C. Cascione, Tresviri capitales. Storia di una magistratura minore, Napoli, Editoriale scientifica, 1999.

[24] Si veda in tema S. Delsignore, La colpa grave, cit., 7.

[25] G. I. Luzzatto, Colpa penale II, cit., 614 e ss. Sul tema si veda altresì l’ampia ricostruzione di P. Demuro, Il dolo, cit., 17 e ss.

[26] A tal proposito, come evidenziato da G. I. Luzzato in Colpa penale, cit., 615 nella Lex Aquilia il termine culpa impiegato in ambito risarcitorio stava generalmente ad indicare l’elemento subiettivo, ricomprendendo al suo interno anche il dolo. Nello stesso senso pure M. Talamanca, Istituzioni di diritto romano, Milano, 1990, 627 e ss.

[27] Così ancora G. I. Luzzato, Colpa penale, cit., 616.

[28] Cfr. C. Ferrini, Diritto penale romano, in P. Cogliolo (a cura di), Completo trattato teorico e pratico di diritto penale, Milano, Vallardi, 1889, 44.

[29] Si veda C. Ferrini, Esposizione storica, cit., 56.

[30] Per la ricostruzione storica del periodo si rinvia a K. Christ, Breve storia dell’impero romano, Bologna, Il Mulino, 2004.

[31] Cfr. sul punto F. Gnoli, Diritto penale nel diritto romano, cit., p. 58 e ss.

[32] Così C. Ferrini, Esposizione storica, cit., 52.

[33] Lo attesta C. Ferrini, in Diritto penale romano, cit., 49.

[34] Cfr. in particolare 52.

[35] Cfr. sul punto gli ampi richiami di G.P. Demuro, Il dolo, cit., 45 e ss.

[36] Così K. Binding, Die Normen und ihre Übertretung, cit. p. 640 ss., nella traduzione di G.P. Demuro, Il Dolo, cit., 45 e ss. Sul punto cfr. anche T. Delogu, L’importanza del delitto colposo nel diritto moderno (Testo della conferenza tenutasi ad Ankara il 6 aprile 1984), reperibile in http://dergiler.ankara.edu.tr/dergiler/38/303/2848.pdf, 1.

[37] Cfr. G. Maggiore, Principi di diritto penale, Bologna, Zanichelli, 1939, 377 e ss.

[38] Cfr. P. Del Giudice, Diritto penale germanico rispetto all’Italia, in E. Pessina (a cura di), Enciclopedia del diritto penale italiano, Milano, Società editrice libraria, 1905, 431, il quale osserva che prima dei Longobardi né gli Unni né gli Ostrogoti, nonostante avessero dominato i territori prima facenti parte dell’Impero romano, avevano mutato in maniera sostanziale l’assetto legislativo precedente.

[39] Per un inquadramento storico di tale periodo di rinvia a S. Gasparri, Italia Longobarda, Bari, Laterza, 2016.

[40] Si veda ancora P. Del Giudice, Diritto penale germanico, cit., 462 e ss.

[41] Una delle popolazioni che diedero un significativo rilievo a siffatta distinzione fu quella visigota, come rilevato da P. Del Giudice, Diritto penale germanico, cit., 468 e s.

[42] Per una panoramica generale dell’applicazione del diritto penale in tale periodo si veda A. Marongiu, Colpa penale II, b) Diritto intermedio, in Enciclopedia del diritto, vol. VII, 1960, 617 e ss. Sulla confusione terminologica tra i concetti di culpa e casus, v. P. Del Giudice, Il delitto colposo, Ferrara, Taddei, 1918, 30 e ss.

[43] G.P. Demuro, Il dolo, cit., 80 e ss.; C. Calisse, Svolgimento storico del diritto penale in Italia dalle invasioni barbariche alle riforme del secolo XVIII, in E. Pessina (a cura di), Enciclopedia del diritto penale italiano, cit., Vol. II, 243 e ss. Sulla circostanza che l’impostazione descritta fosse comune a tutte le popolazioni barbariche si veda pure F. Joühon de Longrais, Le droit criminel anglais au Moyen Age, in Revue historique de droit français et étranger, 1956, 391 e ss.

[44] Cfr. P. Del Giudice, Diritto penale germanico, cit., 463 e ss.

[45] Si pensi che, come riferito da A. Marongiu, Colpa penale, cit., 617, nell’editto Editto di Rotari, per quanto concerne i reati di omicidio e lesioni personali, non sussisteva alcuna distinzione tra il fatto commesso con dolo e quello commesso con colpa. Similmente, l’articolo 75 dell’editto assimilava il delitto di aborto colposo a quello di omicidio volontario.

[46] Si veda sul punto ampiamente P. Del Giudice, Diritto penale germanico, cit., 463.

[47] Per un quadro completo dell’attuale sopravvivenza di tale forma di responsabilità nella più recente giurisprudenza della Corte di Cassazione di veda F. Basile, La responsabilità oggettiva nella più recente giurisprudenza della Cassazione relativa agli artt. 116, 584 e 586 c.p., in Diritto penale contemporaneo, 22 novembre 2012.

[48] E’ il caso ad esempio dell’art. 229 dell’Editto di Rotari che punisce con pene differenti la vendita di cose o di servi altrui a seconda che il venditore fosse consapevole dell’altruità ovvero fosse in buona fede. Si veda sul punto A. Marongiu, Colpa penale, cit., 618.

[49] G. Salvioli, Trattato di storia del diritto italiano dalle invasioni germaniche ai giorni nostri, Torino, UTET, 1908, 721 e ss.

[50] F. Ciccaglione, Manuale di storia del diritto italiano, Milano, Vallardi, 1901, 309.

[51] Si tratta in particolare delle Leggi dei Visigoti, dei Ripuari e dei Burgundi. Sul punto si vedano le considerazioni di P. Del Giudice, Il delitto colposo, cit., 1918, 6 e di E. Loncao, “Culpa e casus” nella storia del diritto italiano, in Annali del seminario giuridico della Regia Università di Palermo, Vol. V, Palermo, 1917, 73.

[52] Sul punto D. Schiappoli, Diritto penale canonico, in E. Pessina (a cura di), Enciclopedia del diritto penale italiano, Vol. I, Milano, Società editrice libraria, 1905, 625 e ss.; A. Stoppato, L’evento punibile. Contributo allo studio dei delitti colposi, Padova, Fratelli Drucker, 1898, 36 nonché più di recente G.P. Demuro, Il dolo, cit., 84.

[53] A. Pagliaro – S. Ardizzone, Sommario del diritto penale italiano, Milano, Giuffrè, 2006, 67 e ss.

[54] Cfr. A. Marongiu, Colpa penale, cit., 620. Testimonianza di tale ripresa proviene dalla lettura dei testi antichi, cfr. ad esempio A. Da Gandino, Tractatus de maleficiis, Venezia, 1598, in cui nel paragrafo “De poenis”, evidenzia “Attenditur utrum delictum proveniat ex animo vel non. Quia si non proveniat ex animo, plerumque nullo modo punitur”” e ancora, nel paragrafo “De homicidio”, “Si autem delictum non ex animo, sed negligentia vel culpa commissum est, impunitum esse non debet”.

[55] Così D. Schiappoli, Diritto penale canonico, cit., 695.

[56] Si veda l’analisi di A. Marongiu, Colpa penale, cit., 622 e ss.

[57] Come riportato da C. Calisse, Svolgimento storico, cit., 247, nelle Costituzioni siciliane di Re Ruggero – sovrano del Regno delle due Sicilie dal 1130 d.C. –  anche l’omicidio colposo dava luogo, al pari di quello doloso, alla pena capitale. Tale equiparazione fu corretta in punto di pena da Federico II nel 1200. Rileva le stesse problematiche anche N. Palmieri, Il diritto penale da Giustiniano ai giorni nostri, in Cogliolo (a cura di), Completo trattato teorico e pratico di diritto penale, cit., 331 e ss.

[58] Cfr. M. Salem Elsheik (a cura di), Il costituto del Comune di Siena, Siena, Fondazione Monte dei Paschi di Siena, 2002, 420-421.

[59] Sul tema si vedano A. Marongiu, Colpa penale, cit., 620; C. Calisse, Svolgimento storico, cit., 268 e ss.; T. Delogu, L’importanza del delitto colposo nel diritto moderno, cit., 7 e ss.

[60] P. Del Giudice, Il delitto colposo, cit., 24 e ss.

[61] Deciano nel suo Tractatus Criminalis del 1580, evidenzia che colpa non è tanto la mancanza di consapevolezza dell’antigiuridicità dell’azione, quanto la mancanza di previsione delle sue conseguenze cioè l’errata o non adeguata valutazione delle medesime. Sul tema si veda A. Marongiu, Tiberio Deciani, criminalista, in Rivista di storia del diritto italiano, 1934, 348 e A. Marongiu, Colpa penale, cit., 620 e ss. nonché L. Maganzani, La “diligentia quam suis” del depositario dal diritto romano alle codificazioni nazionali, Milano, LED – Edizioni Universitarie, 2006, 36 e ss.

[62] Nei suoi commenti al Corpus iuris civilis, Bartolo distinse la colpa in ben sei livelli: levissima, levior, levis, lata, latior e latissima a seconda della misura del contrasto del comportamento dell’agente da quello di una sorta di homo eiusdem condicionis et professionis. Così ad esempio descrive la colpa lieve nella traduzione riportata da A. Petrucci, Fondamenti romanistici del diritto europeo. La disciplina generale del contratto, Torino, Giappichelli, 2018, 103 e ss. “Per sesta cosa pongo principalmente la questione su cosa sia la colpa lieve… Diversi autori dicono cose diverse… A me sembra che la colpa lieve venga in considerazione in un triplice modo. Infatti, la colpa lieve si assume in un certo modo con riguardo agli affari solamente altrui, si assume in un modo diverso per le cose incidentalmente comuni e in un modo diverso ancora per le cose comuni a seguito di una convenzione. Circa il primo significato dico che la colpa lieve nelle cose altrui è la deviazione constatata da quella diligenza, che adibiscono gli uomini diligenti nella della stessa condizione e professione”.

[63] I. Clari, Opera omnia, sive practica civilis atque criminalis, Genova, Sumptibus Samuelis Chouet, 1666, Liber quintum, 389 e ss. Per un commento alla posizione del Claro sui reati colposi cfr. G.P. Massetto, I reati nell’opera di Giulio Claro, Roma, Pontificia Universitas Lateranensis, 1979, 426 e ss.  Posizioni analoghe furono assunte anche da C. Thomasius, Dissertationum Academicarum, Tomo III, Halae Magdeburgicae, 1777, 894 e ss.

[64] S. Guazzini, Opera omnia juridica et moralia, Losanna, Sumptibus Marci – Michaelis Bousquet & Sociorum, 1738, Tomo I, 489.

[65] Per una presentazione e panoramica generale sui codici cui successivamente si farà cenno si veda A. Cadoppi, Materiali per un’introduzione allo studio del diritto penale comparato, Padova, CEDAM, 2001, 153 e ss.

[66] Per una panoramica di tale codificazione cfr. C. Paterniti, Note al codice criminale toscano del 1786, Padova, CEDAM, 1985.

[67] Cfr. D. Zuliani, La riforma penale di Pietro Leopoldo, Milano, Giuffrè, 1995, 146.

[68] Per una completa analisi dell’evoluzione di tale progetto legislativo cfr. A. Cavanna – G. Vanzelli, Il primo progetto di codice penale per la Lombardia napoleonica, Padova, CEDAM, 2000.

[69] Tale regno, con capitale Milano, comprendeva buona parte del settentrione e parte dell’Italia centro orientale.

[70] Il progetto di codice ed i relativi lavori preparatori sono stati pubblicati in un’opera in due volumi a cura di G. Luosi (a cura di), Collezione dei travagli sul codice penale del Regno d’Italia, Brescia, Nicolò Bettoni, 1807. Va rilevato come il Luosi avesse già cominciato la stesura di un codice sotto l’antecedente Repubblica Italiana.

[71] Cfr. G. Luosi (a cura di), Collezione dei travagli sul codice penale del Regno d’Italia, cit., Vol. I, 93 e ss.

[72] Cfr. G. Luosi (a cura di), Collezione dei travagli sul codice penale del Regno d’Italia, cit., Vol. I, 117 e ss.

[73] Cfr. A. Cavanna – G. Vanzelli, Il primo progetto di codice penale per la Lombardia napoleonica, cit., 175 e ss.

[74] Si veda I regolamenti penali di Papa Gregorio XVI per lo Stato pontificio (1832), Padova, CEDAM, 1998.

[75] Codice penale universale austriaco (1803), Padova, Cedam, 1997.

[76] Siffatta codificazione, adottata dal Principe di Lucca e Piombino Felice I, è reperibile in Codice penale per il principato di Piombino (1808), Padova, CEDAM, 2000. In essa non vi era una norma generale che definisse la colpa, ma esistevano singole fattispecie di parte speciale punite a tale titolo di responsabilità. In particolare, per quel che concerneva l’omicidio colposo, l’art. CCLXXVIII prescriveva che “l’omicidio commesso per colpa, cioè per effetto di negligenza, o di imprudenza, senza alcun disegno di nuocere, è punito con pena correzionale di multa non minore di Lire cinquecento né maggiore di Lire duemila, o di carcerazione, che non può eccedere un anno”. Il successivo art. CCLXXIX, poi, stabiliva: “L’omicidio non accompagnato da alcuna sorta di negligenza, imprudenza, o malizia per parte di colui, che l’ha commesso, e derivante da puro accidente non prevedibile, né reparabile per parte dell’uccisore, non è un delitto, e per conseguenza non merita alcuna pena”.

[77] Tale normativa è consultabile in Le leggi penali di Giuseppe Bonaparte per il Regno di Napoli (1808), Padova, CEDAM, 1996. Siffatto corpus normativo contiene una definizione della colpa, prescrivendo all’art. 8 che “Sono imputabili nella loro causa i delitti commessi per colpa. E’ colposo il delitto, che nasca da una atto non voluto dal reo, ma le cui conseguenze criminose poteva prevedere. Sono colposi tutt’i delitti, che nascono da omissione. Appartengono parimenti alla classe dei delitti colposi quelli commessi per imprudenza, per negligenza, per imperizia, per debolezza, per eccesso di rigore, per eccesso di commiserazione, dalle persone alle quali il dovere del loro uffizio rende imputabili il difetto o l’eccesso di tai sentimenti” ed il successivo articolo 9 che “Cessa interamente l’imputabilità delle azioni, nelle quali manchi egualmente l’intenzione di delinquere, e la colpa. Il difetto d’intenzione o di dolo, può nascere o da una cagione perenne, o da una cagione accidentale”.

[78] Si veda Codice dei delitti e delle pene pel Regno d’Italia, Padova, CEDAM, 2002, in cui, quanto alla colpa, non vi era una norma definitoria generale, ma l’art. 319 sanzionava l’omicidio involontario prevedendo che “chi, per inavvertenza, imprudenza, disattenzione, negligenza o inosservanza dei regolamenti, avrà commesso involontariamente un omicidio o involontariamente vi avrà dato causa, sarà punito con detenzione da tre mesi a due anni e con la multa da cinquanta a seicento lire” ed il successivo art. 320 le lesioni involontarie stabilendo “Se dalla mancanza di precauzione o d’avvertenza non derivarono che ferite o percosse, la detenzione sarà da sei giorni a due mesi, e la multa da sedici a cento lire”.

[79] Cfr. http://www1.unipa.it/storichedeldiritto/Materiali/FONTI/Codici/Codice_per_lo_Regno_delle_Due_Sicilie.pdf. Anche in tale codificazione, adottata da Re Ferdinando I di Borbone, non vi era una definizione generale di colpa ma l’art. 375 prescriveva con riferimento al reato di omicidio colposo che “chiunque per disaccortezza, imprudenza, disattenzione, negligenza, inosservanza de’ regolamenti commetta involontariamente un omicidio, o ne sia involontariamente la cagione, sarà punito con prigionia dal secondo al terzo grado”.

[80] Il Codice fu adottato da Maria Luigia d’Austria ed è rinvenibile in Codice penale per gli Stati di Parma Piacenza e Gustalla (1820), Padova, CEDAM, 1991. Anche in siffatto corpus normativo non vi era una norma generale che definisse la colpa ma  alcune singole fattispecie erano punite anche a tale titolo. L’art. 349, che sanzionava l’omicidio, le ferite e le percosse involontarie, prevedeva ad esempio che “chiunque, per inavvedutezza, per imperizia dell’arte o professione che esercita, per imprudenza, disattenzione, negligenza, o inosservanza de’ regolamenti, abbia involontariamente commesso un omicidio, o ne sia stato cagione, sarà punito con prigionia da tre mesi a due anni”. Per una dettagliata analisi delle peculiarità di tale codificazione si rinvia a A. Cadoppi, Il codice penale parmense del 1820, in S. Vinciguerra (a cura di), Diritto penale dell’ottocento. I codici preunitari e il codice Zanardelli, Padova, CEDAM; 1991, 196 e ss.

[81] Cfr. https://www.giustizia.it/resources/cms/documents/Codice_Penale_Toscano_1853_ridotto.pdf. In questa codificazione non vi è una definizione generale di colpa ma sono previste singole fattispecie di delitto colposo come l’omicidio, in relazione al quale l’art. 315 prevede che “L’omicidio colposo si punisce con l’esiglio particolare da uno a tre anni”.

[82] Siffatta raccolta normativa, promulgata su iniziativa di Francesco V d’Asburgo – Este, è reperibile in Codice criminale per gli Stati estensi (1855), Padova, CEDAM, 2002. Anche in esso non è prevista una norma generale in materia di colpa ma l’omicidio involontario è specificamente sanzionato dall’art 376, a mente del quale “Chiunque per inavvertenza, disattenzione, imprudenza, negligenza o imperizia dell’arte o della professione che esercita, commetterà involontariamente un omicidio, o vi darà causa, sarà punito colla pena del carcere da tre mesi a due anni”, mentre le lesioni colpose sono penalmente irrilevanti.

[83] Cfr. Il Codice penale per gli Stati del Re di Sardegna e per l’Italia Unita (1859), Padova CEDAM, 2008. Anche tale codificazione, voluta da Vittorio Emanuele II e che riproponeva con modifiche il Codice penale sabaudo per il Regno di Sardegna adottato da Re Carlo Alberto di Savoia nel 1840, non aveva una definizione generale di colpa, nondimeno l’omicidio colposo era sanzionato dall’art. 554 che, con una formulazione assai prossima a quella poi adottata dal Codice Zanardelli, prescriveva: “chiunque per inavvertenza, disattenzione, imprudenza, negligenza, o per imperizia dell’arte o della professione che esercita o per inosservanza dei regolamenti, avrà involontariamente commesso un omicidio o vi avrà dato causa, sarà punito colla pena del carcere estensibile a due anni, e con la multa estensibile sino a lire duemila”.

[84]Cfr.hhttps://books.google.it/books?id=4FdDAAAAcAAJ&pg=PA151&hl=it&source=gbs_toc_r&cad=4#v=onepage&q&f=false

[85] Così A. De Simoni, Dei delitti considerati nel solo affetto ed attentati, Milano, Fratelli Veladini, 1809, 160 e ss.

[86] G. Carmignani, Elementi di diritto criminale (Traduzione del Prof. Caruana Dingli), Milano, Carlo Brigola, 1882, 80.

[87] Si tratta di F.A. Mori, Teorica del Codice penale toscano, Firenze, Stamperia delle murate, 1854, 49 e ss.

[88] In senso conforme a tale posizione G.A. Poggi, Elementa iurisprudentiae criminalis, Libro I, Firenze, Typographia Francisci Daddii, 1815, par. XXVI;  A.F. Berner, Trattato di diritto penale (edizione italiana tradotta da E. Bertola), Milano, Vallardi, 1887, 138 e s. Concordi sull’irrilevanza penale della colpa lieve ad eccezione del reato di omicidio in ragione dell’importanza del bene giuridico tutelato pure G. Puccioni, Il codice penale toscano illustrato sulla scorta delle fonti del diritto e della giurisprudenza, Vol. I, Pistoia, Tipografia Cino, 1855, 318 e ss. in cui l’Autore rileva che “per la esclusione della imputabilità delle azioni colpose prodotte da colpa leve e levissima può allegarsi l’autorità di quasi tutti gli scrittori della scienza, tanto antichi che moderni, da noi sopra riportata, la quale basandosi sulla equità come sulla inutilità della repressione, qual mezzo preventivo atto a richiamare gli uomini all’uso della prudenza, della diligenza, della cautela media e minima, conclude esser sufficiente il debito della indennità ed il dolore che sempre prova colui che non volendo ha cagionato l’altrui danno; a tal che senza scopo di pubblica e privata tutela ed anche in onta della pubblica opinione che sente pietà e commiserazione per l’agente si farebbe spreco del diritto di punire. Dal che dovrebbe concludersene, che il Legislatore nel reprimere le azioni colpose, uniformandosi ai precetti della scienza, abbia soltanto inteso di comprendere la sola colpa lata e così quelle azioni che racchiudono la mancanza della diligenza, della cautela, della prudenza che si adoperano dal comune degli uomini, escludendo quelle che sono proprie dei diligenti e dei diligentissimi, e che d’ordinario formano in minor numero” nonché G. Giuliani, Istituzioni di diritto criminale col commento della legislazione gregoriana, Vol. II, Macerata, Varchi, 1940, 305.

[89] T. Canonico, Introduzione allo studio del diritto penale. Del reato e della pena in genere, Torino, UTET, 1872, 77 e ss.

[90] F. Carrara, Programma del corso di diritto criminale – Parte speciale, cit., p 90 e ss.

[91] F. Carrara, Programma del corso di diritto criminale – Parte speciale, cit., 101 e ss.

[92] Cfr. E. Pessina, Elementi di diritto penale, Napoli, Riccardo Margheri, 1882, 178 e ss.

[93] Così G. Filangieri, La scienza della legislazione, Vol. III, Filadelfia, Stamperia delle provincie unite, 1819, 154 e ss. In senso sostanzialmente conforme a tale posizione ancorché precisi che solo la colpa grave può dar luogo a pene di tipo afflittivo – con riferimento alle leggi criminali francesi che come si è visto erano state introdotte durante la dominazione in territorio italiano – P.F. Mouyart De Vouglans, Le leggi criminali nel loro ordine naturale, Milano, Tipografia Buccinelli, 1813, 74 e ss.

 

[94] La sentenza è reperibile in Annali di giurisprudenza. Raccolta di decisioni della Suprema Corte di Cassazione della Corte regia e dei Tribunale di prima istanza, Firenze, Tipografia del Giglio, 1841, 567.

[95] Cfr. Pretura di Castiglione delle Stiviere, sent. 16 giugno 1885, in Giurisprudenza penale, 1885, 508, con nota di Rizzardi, il quale critica la sentenza non perché giuridicamente errata quanto all’interpretazione della non rilevanza penale della colpa lieve, bensì in quanto i dati fattuali erano indicativi di una colpa grave dell’imputata.

[96] In particolare in N. Nicolini, Quistioni di diritto trattate nelle conclusioni, né discorsi ed in altri scritti legali, Napoli, Tipografia Prete Largo, 1869.

[97] N. Nicolini, Quistioni di diritto trattate nelle conclusioni, cit., 169.

[98] Un tentativo di definizione dei gradi della colpa fondato su basi differenti da quelle appena richiamate fu realizzato da G. Giuliani, Istituzioni di diritto criminale col commento della legislazione gregoriana, Vol. I, Macerata, Varchi, 1840, 97, in cui l’Autore osserva quanto segue: “quando la probabilità che accada l’effetto vietato è maggiore od uguale alla probabilità che lo stesso non accada la colpa è lata, quando la probabilità è minore della seconda, ma non remota, la colpa è lieve, quando è remota, la colpa è lievissima”.

[99] N. Nicolini, Quistioni di diritto trattate nelle conclusioni, cit., 170.

[100] La norma cui si fa riferimento è del Codice penale per gli Stati del Re di Sardegna e per l’Italia Unita del 1859.

[101] Si veda Corte di Cassazione penale di Torino, sent. 14 ottobre 1887, in Giurisprudenza penale, 1887, 507. In senso sostanzialmente conforme si veda pure Cassazione penale di Torino, sent. 29 dicembre 1881, in Giurisprudenza penale, 1882, 24. Con riferimento al Codice penale toscano, ugualmente conformi alla posizione appena definitiva Cassazione penale di Firenze, sentenza 25 maggio 1841, in Annali di giurisprudenza, cit., 1841, 372; Cassazione penale di Firenze, sentenza 16 marzo 1853, in Annali di giurisprudenza, cit., 1853, 131 e s.; Cassazione penale di Firenze, sentenza 26 febbraio 1853, in Annali di giurisprudenza, cit., 1853, 106 e s.; Cassazione penale di Firenze, sentenza 5 luglio 1854, in Annali di giurisprudenza, cit., 1854, 635 e ss., in cui la Corte tuttavia – a torto, visto un simile orientamento si era formato già sotto la vigenza del codice leopoldino – dà un peso decisivo nella rilevanza penale di qualsiasi grado della colpa all’entrata in vigore del Codice penale toscano che aveva sostituito la legislazione penale di Pietro Leopoldo; nel medesimo senso della sentenza da ultimo richiamata anche Cassazione penale di Firenze, sentenza 14 febbraio 1857, in Annali di giurisprudenza, cit., 1857, 146 e ss. e Cassazione penale di Firenze, sentenza 7 febbraio 1863, in Annali di giurisprudenza, cit., 1863, 97 e ss. Sulla giurisprudenza toscana contraria all’irrilevanza penale dei gradi più tenui della colpa le considerazioni critiche di P.A. Cerretelli, L’ultimo decennio dal 1829 della giurisprudenza criminale toscana, Firenze, Tipografia della Speranza, 1840, 560 e ss., in cui l’Autore rileva “la colpa lata, che consiste nell’omissione di quella ordinaria diligenza che suole comunemente praticarsi dalle persone di quella tal condizione, che nel dubbio deve escludersi, è la sola che possa formar oggetto di criminale rimprovero. Un tal principio è stato ricevuto nella nostra giurisprudenza trattandosi di ferimento, ma non se si tratta di omicidio sebbene per gius comune non sia fatta distinzione alcuna tra omicidio e ferimento”.

[102] Così Cassazione penale di Firenze, sentenza 11 gennaio 1842, in Annali di giurisprudenza, cit., 1842, 27 e ss.

[103] Tribunale di prima istanza di Firenze, sent. 8 gennaio 1840; in Annali di giurisprudenza, cit., 1840, 996 e ss. Tale sentenza aderisce ad alcune posizioni dottrinali minoritarie menzionate in precedenza.

[104] Cassazione penale di Firenze, sentenza 8 giugno 1853, in Annali di giurisprudenza, cit., 1853, 319 e ss.

[105] Cassazione penale di Firenze, sentenza 2 febbraio 1840, in Annali di giurisprudenza, cit., 1840, 100 e s. In senso conforme Cassazione penale di Firenze, sentenza 18 aprile 1845, in Annali di giurisprudenza, cit., 1845, 253; Cassazione penale di Firenze, sentenza 8 marzo 1851, in Annali di giurisprudenza, cit., 1851, 230 e s.

[106] Siffatto codice risulta peraltro attualmente ancora in vigore nello Stato città del Vaticano. Tale vigenza si deve al richiamo operato dall’art. 7 della Legge dello Stato Città del Vaticano LXXXI, che a sua volta richiama l’art. 4, legge 7 giugno 1929, n. II, il quale rinvia alla normativa del codice italiano all’epoca vigente, cioè, appunto, il codice penale Zanardelli.

[107] Cfr. la Relazione sul progetto di legge del 1887, reperibile in Progetto del Codice Penale per il Regno d’Italia preceduto dalla relazione ministeriale, Roma, Stamperia Reale, 1888, 536 e ss.

[108] Ibidem.

[109] Ibidem.

[110] In epoca più recente hanno confermato che nella dottrina e nella giurisprudenza formatasi sotto la vigenza del codice Zanardelli vi fosse la tendenza ad escludere la rilevanza penale della colpa levissima, pur rilevando alcuni problemi applicativi derivanti da tale graduazione dovuti alla difficoltà di definire con certezza i gradi della colpa, anche T. Padovani, Il grado della colpa, in Rivista italiana di diritto e procedura penale, 1969, 825; G. De Francesco, La colpa nel codice Zanardelli in rapporto alla successiva evoluzione dommatica, in S. Vinciguerra (Coordinatore), I codici preunitari e il codice Zanardelli, Padova, CEDAM, 1999, 440 e ss.

[111] A. Setti, Dell’imputabilità secondo gli articoli 44, 45, 46, 47 e 48 del Codice penale italiano, Torino, Fratelli Bocca, 1892, 85 e ss.

[112] G. B. Impallomeni, Colpa e omicidio colposo. Fondamenti psicologici, in Antologia Giuridica, VII, 1894, 743 e ss.

[113] L. Majno, Commento al codice penale italiano, Torino, UTET, vol. III, 1924, 284 e ss.

[114] B. Alimena, I limiti e i modificatori dell’imputabilità, vol. III, Torino, Fratelli Bocca, 1899, 493 e s.

[115] Si tratta di A. Tosti, La colpa penale. Studio sociologico giuridico, Torino, Fratelli Bocca, 1907, 144 e ss.

[116] Nella stessa linea degli Autori appena citati F. Carfora, Dei delitti colposi, in Supplemento alla Rivista penale, vol. VI, 1897, 278 e s.; D. Camoletto, Il concetto di prevedibilità nella colpa penale, in Cassazione Unica, XV, 1903, 1462 e ss.; P. Cogliolo, Considerazioni sulla c.d. culpa levissima, in Cassazione Unica, IX, 1897, 769 e ss.; G. Leto, Il reato colposo, Palermo, 1913, 291 e ss. e G. Campili, Condizioni e limiti della punibilità della colpa, in Studi senesi, XX, 1903, 166 e s.  In termini non dissimili pure P.  Del Giudice, Il delitto colposo, cit., 1918, 167 e ss., il quale sostiene che è errato parlare di colpa lievissima in quanto essa, in realtà, non sarebbe colpa: “[…] occorre non far più parola di colpa lievissima: enorme errore fu quello di ammetterne, sia pur in via d’eccezione, la punibilità; errore meno grave, ma sempre errore è il discutere d’una colpa lievissima per giungere alla conclusione della sua non punibilità. Se la colpa richiede la volontaria inosservanza d’una norma per cui la condotta dell’agente sia contraria alla polizia o alla disciplina, il non osservare le più sottili cautele del vivere civile, le più raffinate consuetudini della convivenza sociale o il deviare menomamente dalle norme che regolano l’esercizio professionale non costituisce affatto colpa, mancando quella condotta anormale e illecita di cui sopra è parola. Assurdo e contraddittorio è adunque il parlare d’una colpa lievissima non punibile, se niuna colpa esiste: non può esservi punibilità di una colpa che non è colpa”.

[117] T. Mosca, Brevi studi e nuove dottrine sulla colpa nel diritto civile, penale e amministrativo, Roma, Tipografia Nazionale, 1896, 37 e s.; così anche F. Masini, La colpa nel diritto penale, Pesaro, Nobili, 1889, 142 e ss.

[118] G. Crivellari, Il codice penale per il Regno d’Italia, Vol. III, Torino, UTET, 1892, 288. Nello stesso senso anche E. Biondi, Sopra un caso di responsabilità colposa della levatrice per erroneo ed arbitrario trattamento di puerpera, nota a Cass. pen. sent. 25.1.1916, in Rivista  italiana di diritto e procedura penale, 1917, vol. II, 160 e ss.

[119] Cfr. F. Antolisei, Recensione a E. Jannitti di Gujanga, Concorso di persone e valore del pericolo nei delitti colposi, in La scuola positiva, 1913, 1071.

[120] Cass. pen., sent. 2 luglio 1913, Stella, in La giustizia penale, 1914, 1485.

[121] Cass. pen., sent. 29 maggio 2016 in Rivista di diritto e procedura penale, 1917, vol. VIII, 164.

[122] Cass. pen., sent. 19 novembre 1928, in Rivista italiana di diritto penale, 1929, 140.

[123] Cass. pen., sent. 26 marzo 1928, in Giustizia penale, 1928, 114.

[124] Cass. pen., sent. 16 maggio 1930, in La scuola positiva, 1931, 243 e s. In senso analogo si veda pure, sempre con riferimento alla disposizione contenuta nel Codice Zanardelli, Cass. pen., sent. 18 gennaio 1932, in La scuola positiva, 1933, 429.

[125] Trattasi di Cassazione penale, sez. II, sent. 27 settembre 1906, reperibile in Rivista penale, 1907, 307 e s.

[126] In senso contrario cfr. tra le altre Cass. pen., sez. II, Sent. 27 aprile 1894 reperibile in Rivista penale, 1894, vol. XL, 73, nonché Cass. pen., sez. II, Sent. 26 giugno 1914 reperibile in Rivista di diritto e procedura penale, 1915, vol. II, 30 e ss. con nota critica di S. Vitocolonna, In tema di colpa penale e segnatamente se sia punibile la colpa lievissima, in cui l’Autore, dopo aver menzionato tanto i noti passi di Carrara sopra già richiamati quanto la relazione al Codice Zanardelli, rileva “la nostra legge, sebbene non gradui la colpa, non si presta alla punibilità della colpa levissima. Non vi si presta per le dichiarazioni che la precedettero e che abbiamo ricordate, e non vi si presta nemmeno per le sue espressioni, perché punisce l’imprudenza, la negligenza o l’imperizia e imprudenza, negligenza o imperizia non significano punto mancanza di una estrema prudenza, di una estrema diligenza o perizia”. In senso conforme a tali pronunce anche Cassazione penale, sent. 2 dicembre 1896, in La giustizia penale, 1897, 311 e ss.; sent. 17 febbraio 1902, Puppin, in Cassazione Unica, 1902, 656.

[127] Sentenza del 9.2.1897, reperibile in La Legge, 1897, anno XXXVII, vol. I, 568.

[128] In questo senso, nella giurisprudenza di merito si vedano anche Corte d’appello di Trani, sent. 19.12.1890, in Rivista Giuridica, Trani, 1891, 122; Corte d’appello di Torino, 17.3.1893, in Annali, 1893, 474 e ss.

[129] Sul “punto di vista” scelto ai fini della valutazione della colpa ai tempi del codice Zanardelli e sui riflessi di tale scelta sul grado dell’elemento soggettivo cfr. T. Padovani, Il grado della colpa, cit., 846 e ss.; G.A. De Francesco, La colpa nel codice Zanardelli in rapporto alla successiva evoluzione dommatica, in S. Vinciguerra (Coordinato da), I codici preunitari e il codice Zanardelli, Padova, CEDAM, 1999, 412 e ss.

[130] Cfr. Lavori preparatori del codice penale e del codice di procedura penale, Vol V, Parte I – Relazione sul libro I del Progetto, Roma, Tipografia delle Mantellate, 1929.

[131] Da rilevare altresì la circostanza che nel decennio antecedente l’adozione del Codice Rocco e negli anni immediatamente successivi alla sua promulgazione si erano sviluppate altresì correnti di pensiero fortemente critiche sulla stessa incriminabilità della colpa incosciente. Così O. Vannini, “Responsabilità senza colpa” nel diritto penale, in Rivista penale, 1921, Vol. XCIV, 401 e ss. nonché O. Vannini, Colpa semplice e colpa con previsione, in La scuola positiva, 1936, 361 e ss.; F. Gramatica, La irrazionalità della colpa nel diritto penale, Genova, Edizione del circolo di cultura giuridica, 1929. Siffatta linea di pensiero non era peraltro una novità in quanto sostenuta già in epoca precedente al codice Zanardelli, cfr. ad esempio V. Bucellati, Guida allo studio del diritto penale, Milano, 1865, 18 e ss.

[132] E. Altavilla, Delitti contro la persona. Delitti contro la integrità e la sanità della stirpe, in E. Florian (a cura di), Trattato di diritto penale, Milano, Vallardi, 1934, 202 e s. I medesimi concetti sono espressi anche in E. Altavilla, Il reato colposo. Riflessi civilistici, analisi psicologica, Roma, Edizioni dell’Ateneo, 1950, 253 e ss.

[133] Così R. A. Frosali, Sistema penale italiano, UTET, Torino, 1958, 504 e s., nonché, subito dopo l’adozione del Codice Rocco, R.A. Frosali, Corso di diritto penale, Città di Castello, Leonardo da Vinci, 1937, 122 e R.A. Frosali, L’errore nella teoria del diritto penale, Roma, Tipografica editrice di Roma, 1933, 629.

[134] G. Battaglini, Diritto penale. Teorie generali, Bologna, Zanichelli, 1937, 150 e s. Dello stesso Autore si veda pure G. Battaglini, Gli elementi del reato nel nuovo codice penale, in Annali di diritto e procedura penale, 1934, 1097.

[135] Cfr. nota 105.

[136] C. Saltelli – E. Romano Di Falco, Commentario sistematico del nuovo codice penale, I, II ed., Torino, Utet, 1940, 279. Per ulteriori spunti sul tema si vedano pure N. Levi, Il codice penale illustrato articolo per articolo, vol. I, Palermo, S.E.I. Editrice, 1934, 196 e ss.; G. Santucci, La colpa lievissima, in Rivista penale, 1954, I, 789 e ss.

[137] Cassazione penale, sent. 20 dicembre 1939, in Giustizia penale, 1940, II, 439. Nel medesimo senso nella giurisprudenza di merito si veda Corte d’Appello di Bologna, sent. 23 marzo 1942, in Temi emiliana, 1943, I, 2, 5, n. 163. Va rilevato che nella dottrina penalistica vi è stato in passato chi ha sostenuto la diversità sostanziale della colpa civile da quella penale con conseguente inopportunità di argomentazioni fondate su analisi comparative delle due tipologie di colpa; cfr. ad esempio A. Stoppato, L’evento punibile, cit., 144 e ss.; V. Lanza, Diritto penale italiano. Principi generali, Torino, UTET, 1908, 177 e s.). Tale problematica, se pare essere stata ridimensionata in seguito dalla dottrina penalistica, per lo meno con riferimento alla sua utilità ai fini della discussione in ordine alla rilevanza penale del grado della colpa (cfr. ad esempio T. Padovani, Il grado della colpa, cit., 826 e ss.) è invece rimasta ben presente nella dottrina civilistica, si veda ad esempio C. Maiorca, Colpa civile (teoria generale), in Enciclopedia del diritto, vol. VII, Torino, UTET, 1960, 581 e ss.

[138] Cass. pen., sent. 26 aprile 1939, in La scuola positiva, 1940, 25 e ss.

[139] Si veda ad esempio G. Maggiore, Principi di diritto penale, Bologna, Zanichelli, 1937, 394. Così anche V. Manzini, Trattato di diritto penale italiano, Torino, UTET, 1948, 696 e ss., che tuttavia sembra ritenere che contegni che altri Autori definirebbero di colpa lievissima non siano comunque penalmente punibili non per la non punibilità della colpa levissima, ma in ragione della inesigibilità del contegno conforme alla regola cautelare “Se vi è colpa, questa è sempre punibile, nei delitti indicati dalla legge, appunto perché la legge non distingue tra i vari gradi di colpa […]. Se non sono state osservate le più minute cautele del vivere civile, o se non si sono seguiti i più alti ammaestramenti della scienza, non vi è colpa, perché questa, grave, lieve, o lievissima che sia, si fonda sempre su ciò che è esigibile dalla media degli uomini”.

[140] V., ad esempio,P. Nuvolone, Colpa civile e colpa penale, ora in Trent’anni di diritto e procedura penale, Padova, Cedam, 1969. Tale contributo era già stato in precedenza pubblicato in Corso di diritto della circolazione stradale, Milano, Giuffrè, 1958.

[141] La norma, rubricata “Responsabilità del prestatore d’opera”, dispone che “se la prestazione implica la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, il prestatore d’opera non risponde dei danni, se non in caso di dolo o di colpa grave”. L’applicazione di questa norma al settore penale fu sostenuta, tra i primi, da A. Crespi, La responsabilità penale del trattamento medico chirurgico con esito infausto, Palermo, Priulla, 1955; per l’evoluzione storica dell’impiego di questa disposizione alla nella responsabilità penale del sanitario cfr. F. Basile, Un itinerario giurisprudenziale sulla responsabilità medica colposa, cit.

[142] Così di recente anche M. Ronco, Scritti patavini. Gli elementi soggettivi del fatto tipico. La colpa in particolare, Bologna, Zanichelli, 2017, 406 e ss.

[143] Tra i tanti G. Marinucci, Innovazioni tecnologiche e scoperte scientifiche: costi e tempi di adeguamento delle regole di diligenza, in Rivista italiana di diritto e procedura penale, 2005, 814 e ss.; V. De Francesco, Sulla misura soggettiva della colpa, in Studi urbinati, 1977 – 1978, 298; F. Basile, Fisionomia e ruolo dell’agente-modello ai fini dell’accertamento processuale della colpa generica, in Diritto penale contemporaneo, 13 marzo 2012, 11 e ss.

[144] Sull’impiego di tale parametro in giurisprudenza cfr. tra le tante Cass. pen., sent. 1.7.1992, in CED Cassazione, 193035 e, più di recente, Cass. pen., sent. 4.11.2014 n. 49707 in CED Cassazione, 263283. Rileva la necessità che il giudizio in ordine alla sussistenza della colpa generica – in particolare con riguardo alla ricostruzione dell’agente modello – sia effettuato da parte della giurisprudenza con estremo rigore e serietà onde evitare pronunce arbitrarie e contraddittorie F. Basile, Fisionomia e ruolo dell’agente-modello, cit., 27 e s.

[145]Così F. Basile, Fisionomia e ruolo dell’agente modello, cit., 8 e s.

[146] Ancora F. Basile, Fisionomia e ruolo dell’agente modello, cit., 15 e ss.

[147] Un notevole contributo alla descrizione del fenomeno dell’utilizzo sempre maggiore del diritto penale nella società moderna è stato offerto da J. M. Silva Sanchez, L’espansione del diritto penale. Aspetti della politica criminale nelle società postindustriali (ed. italiana a cura di V. Militello), Milano, Giuffrè, 2004.

[148] Si veda a tal proposito J. M. Silva Sanchez, L’espansione del diritto penale, cit. 14. Il medesimo concetto è ripreso in termini similari da numerosi autori, si veda ad esempio C.E. Paliero, Consenso sociale e diritto penale, in Rivista italiana di diritto e procedura penale, 1992, 849 e ss.; F. Stella, Giustizia e modernità, Milano, Giuffrè, 2003; F. Centonze, La normalità dei disastri tecnologici. Il problema del congedo dal diritto penale, Milano, Giuffrè, 2004.

[149] Si veda la lucida analisi di W. Hassemer, Perché punire è necessario: difesa del diritto penale, Bologna, Il Mulino, 2012, 119, in cui l’autore, in un significativo paragrafo intitolato “Un illecito, non la sfortuna”, evidenzia che “interventi del diritto penale infondati o anche solo eccessivi possono opprimere per anni o anche persino rovinare la vita delle persone colpite, possono annientare le basi su cui poggiano la reputazione sociale di una persona e anche i suoi mezzi di sostentamento. Un esempio di queste violazioni non è solo il giudizio errato formulato sull’innocente, ma lo è anche la lotta priva di risultati condotta per anni dalla vittima di un reato nei confronti delle procure e dei tribunali in sede di ricorso contro l’archiviazione degli atti […], per ottenere l’avvio o la prosecuzione di un procedimento penale che gli garantisca la conferma di essere stata vittima di un illecito, non della sfortuna”.

[150] Cfr. supra, par. 1.

[151] Tra gli altri, ha sottolineato questo aspetto J. M. Silva Sanchez, L’espansione del diritto penale, Milano, Giuffrè, 2004, 21 il quale rileva che nella società di oggi, caratterizzata da un vasto numero di “soggetti passivi” ossia di persone, costituenti la maggioranza, che non creano autonomamente utili ma che sono beneficiari del trasferimento di ricchezza da parte dello Stato, “esiste anche una resistenza psicologica rispetto al caso fortuito, di fronte alla produzione accidentale di risultati lesivi” aggiungendo “è evidente che ne consegue una crescente tendenza a trasformare l’Unglück (accidente, fortuito, disgrazia) in Unrecht (illecito), ciò che a sua volta inevitabilmente conduce ad un ampliamento del diritto penale”. Aggiunge ancora l’Autore, a 22, che “alla sensazione di insicurezza si somma l’esistenza di un prototipo di vittima che non ammette la possibilità che il fatto di avere sofferto sia dovuto a una ‘propria colpa’ o, semplicemente, al caso. Si parte sempre dall’assioma per cui deve esserci sempre un terzo responsabile, cui imputare il fatto e le sue conseguenze patrimoniali e/o penali”

[152] Sul rapporto tra diritto penale e mass media, nel senso della strettissima relazione che vi è tra l’attività di questi e la normazione penale, la letteratura è ampia. Si veda, oltre al già citato J. M. Silva Sanchez, L’espansione del diritto penale, cit., 15, ad esempio R. Bianchetti, La paura del crimine: un’indagine criminologica in tema di mass media e politica criminale ai tempi dell’insicurezza, Milano, Giuffrè, 2018; C. E. Paliero, La maschera e il volto (percezione del crimine ed “effetti penali” dei media), in Rivista italiana di diritto e procedura penale, 2006, 467 e ss.; nella letteratura tedesca si vedano N. Luhmann, Die Realität der Massenmedien, IV ed., Wiesbaden, Vs Verlag Für Sozialw, 2013, nonché W. Hassemer, Perché punire, cit.; nella letteratura spagnola cfr. A. Garapon, Juez y democracia, Madrid, Flor del Viento Ediciones, 1997, 94, in cui l’Autore osserva che “i mezzi di comunicazione, strumenti dell’indignazione e della collera pubblica, possono accelerare l’invasione della democrazia attraverso l’emozione, propagare una sensazione di paura e di vittimizzazione e introdurre di nuovo nel cuore dell’individualismo moderno il meccanismo del capro espiatorio che si credeva riservato a periodi inquieti”.

[153] Evidenzia a tal proposito W. Hassemer, Perché punire, cit., 76-77 che nel tempo si è assistito ad una “marcia trionfale della sicurezza, che ha messo in ombra le libertà civili” e che essa sia “intimamente collegata alla prevenzione, perché gli strumenti preventivi, in ultima istanza, servono a garantirla”. Sulla circostanza che tale bisogno di sicurezza nulla abbia a che fare con l’oggettività dei pericoli dei cittadini si veda J. M. Silva Sanchez, L’espansione del diritto penale, cit., 16. Il tema è stato analizzato, tra gli altri, anche da C. Prittwitz in Strafrecht und Risiko. Untersuchungen zur  Krise von Strafrecht und Kriminalpolitik in der Risikogesellschaft, Francoforte, 1993, 73, il quale ha evidenziato che, se anche la società non è mai stata sicura come adesso – si pensi solo alla facilità con cui un tempo si poteva morire per le malattie, ovvero alla minore tecnologia a disposizione che comportava una minore possibilità di controllo da parte delle autorità per esempio in tema dei reati contro la persona – la paura e l’insicurezza siano diventate il tema del XX secolo.

[154] Sulla decisività di tale ruolo si veda anche la lucida analisi di W. Hassemer, Perché punire, cit., 107 e ss. in cui l’illustre giurista si pone la domanda: “Esiste una relazione fra teorie della pena e mass media?”, rispondendo: “a servirci da mezzo per la comunicazione della norma è sempre meno il Tribunale e sempre più lo spettacolo del mezzo televisivo trasmesso dalle televisioni private. I giuristi hanno tratto da ciò una serie di conseguenze che valgono per molti ambiti del diritto e della prassi giuridica; tra queste, l’idea di opinione pubblica divenuta, come da tempo non occorre più spiegare, elemento centrale in uno Stato di diritto”. E ancora “Oggi i giuristi distinguono tra pubblico del Tribunale e pubblico dei media, riconoscendo con ciò che buona parte delle speranze che poggiano sul principio di pubblicità sono ormai soggette alle condizioni poste dalla società mediatica”. L’autore quindi individua l’elemento centrale per quella che è poi l’influenza anche sulle forze politiche “Ne consegue, che chi voglia sapere di che cosa si occupa la giustizia, raramente seguirà un’udienza pubblica in Tribunale ma si informerà leggendo un quotidiano. Da tale circostanza consegue che l’idea che questa persona si fa della giustizia è grossolanamente falsata. Nell’aula di Tribunale essa avrebbe potuto maturare un’opinione con i suoi occhi e con le sue orecchie. Il mezzo di informazione di massa comunica invece le sue impressioni secondo il copione dei mezzi di informazione, cioè secondo i presunti interessi del lettore del quotidiano, da cui ci si aspetta che legga il giornale anche il giorno dopo. Ciò a sua volta significa che il lettore che segue i mezzi di comunicazione di massa concepisce l’idea errata per cui la giustizia sarebbe sostanzialmente giustizia penale, cui va ad aggiungersi qualche assaggio di diritto di famiglia, del lavoro e delle locazioni”. La risposta alla domanda che l’autore si è posto non ammette repliche: “La questione è chiara. Naturalmente teorie della pena e mass media sono in rapporto reciproco”.

[155] A. Garapon, Juez y democrazia, cit., 104.

[156] Tali riflessioni sono di W. Hassemer, Perché punire, cit., 78-79.