Monografie-2018

 

 

 

Si pubblica, col consenso dell’Autrice e dell’Editore, il Capitolo Terzo «Una rilettura in prospettiva europea» (185-204) della monografia di MARIA LUISA SERRA, «VALORI FUNZIONALI» DEL PROCESSO E DOMANDA GIUDIZIALE. Contributo breve in tema di oggetto del processo, Napoli,  Jovene Editore, 2018, pp. X-212. ISBN 978-88-243-2530-1

Indice del volume

 

 

 

Maria Luisa SerraMaria Luisa Serra

Professore aggregato di Procedura civile

nell’Università di Sassari

 

Una rilettura in prospettiva europea

 

 

Sommario: 1. Una rilettura. – 1.1. La centralità dei principi funzionali del processo nella individuazione e delimitazione degli istituti processuali. – 1.2. I risultati della giurisprudenza e la loro incidenza sul diritto processuale civile italiano: la nozione di causa petendi e la rilevanza dell’omogeneità funzionale delle norme di diritto sostanziale ai fini della determinazione dell’identità delle domande. – 2. Ricostruzione del concetto di oggetto del processo. – 2.1. I principi cardine del processo. 2.2. Quando si ha domanda nuova o modifica della stessa?2.3. Rilievo officioso e decisione del giudice. – 3. Il processo come sintesi dell’elemento processuale e sostanziale: la dinamicità del processo.

 

 

1. – Una rilettura

 

Una prima considerazione emerge dai principi affermati in dottrina e dall’esame della giurisprudenza più recente. L’esercizio della tutela giurisdizionale impone di tenere conto, da un lato, della posizione di diritto soggettivo vantata dal singolo e, dall’altro, della funzione del processo. Funzione del processo che svolge un ruolo determinante nell’interpretazione e applicazione delle norme dell’ordinamento.

Il processo persegue non solo effetti sostanziali ma anche processuali. Pertanto, il noto dibattito circa l’individuazione della funzione primaria assolta dall’attività giurisdizionale – se essa consista nel garantire la tutela del diritto sostanziale ovvero nella mera composizione delle liti ovvero ancora l’attuazione della legge, o, infine, l’attuazione dell’ordinamento, mezzo offerto al giudice per applicare la legge nel caso concreto – deve muovere da questa premessa. Il processo, o meglio l’oggetto del processo, rappresenta la sintesi dell’elemento sostanziale e di quello processuale.

Il processo, peraltro, persegue non solo effetti sostanziali ma anche processuali. Pertanto il noto dibattito circa l’individuazione della funzione primaria assolta dall’attività giurisdizionale – se essa consista nel garantire la tutela del diritto sostanziale ovvero nella mera composizione delle liti ovvero ancora l’attuazione della legge; infine l’attuazione dell’ordinamento, mezzo offerto al giudice per applicare la legge nel caso concreto – deve muovere da questa premessa. Il processo, o meglio l’oggetto del processo, rappresenta la sintesi dell’elemento sostanziale e di quello processuale.

 

1.1. – La centralità dei principi funzionali del processo nella individuazione e delimitazione degli istituti processuali

 

Alla luce di questa considerazione preliminare può dirsi che l’interpretazione delle norme processuali e sostanziali vada condotta tenendo presente i valori funzionali del processo. E’ quanto già emerso nella determinazione del concetto d’identità della domanda ai fini della dichiarazione di litispendenza comunitaria e internazionale, nel qual caso l’interpretazione di tale concetto di fronte alle diversità delle leggi applicabili negli stati membri è da compiersi in una prospettiva strumentale a tali valori. In particolare, la lettura sistematica delle norme sulla litispendenza deve privilegiare una definizione di identità di domande finalizzata ad evitare che sullo stesso oggetto della domanda si svolgano procedimenti paralleli, con conseguente rischio del formarsi di giudicati contraddittori al fine di consentire il perseguimento di uno degli obiettivi primari della Corte di Giustizia.

Tutto ciò ha portato, in ambito comunitario, all’elaborazione di una nozione di oggetto del processo più ampia rispetto a quella utilizzata per il diritto interno, ciò in quanto le Corti nazionali hanno recepito i principi enunciati dalla Corte di Giustizia. È, dunque, pertanto un’interpretazione non strettamente vincolata a «criteri formalistici e restrittivi», che supera la coincidenza formale degli elementi della domanda e che si basa sulla «identità dei risultati pratici perseguiti». La c.d. teoria del Kernpunkt – secondo la quale la coincidenza del fulcro delle domande costituisce il requisito che ne determina l’identità – pone l’accento sul profilo processuale rappresentato dall’efficacia vincolante del giudicato. L’applicazione di tale teoria nella determinazione della litispendenza ha lo scopo di: i) impedire il contrasto fra due decisioni; ii) evitare il mancato riconoscimento della decisione da parte di in un altro stato membro per contrarietà ad altra precedente sentenza.

In altre parole, la Corte di Giustizia applica la disciplina della litispendenza non solo all’ipotesi di identità di domande (ipotesi in cui potrebbe porsi un problema di ne bis in idem), ma anche quando – secondo il diritto interno di alcuni ordinamenti – potrebbe porsi un problema di efficacia vincolante della prima decisione in un altro processo. Lo scopo è quello di attribuire la decisione ad un unico giudice al fine di evitare la contraddittorietà dei giudicati.

Più precisamente, la sussistenza del requisito dell’identità delle domande sussiste indipendentemente dalla piena coincidenza del petitum, essendo sufficiente la coincidenza del fulcro delle domande. Al riguardo basta richiamare i differenti casi oggetto di pronuncia della Corte di Giustizia e delle Corti Nazionali, per valutare le conseguenze di questa impostazione sul piano applicativo[1].

La disciplina della litispendenza regolata dal diritto interno non ha recepito appieno tale impostazione in ambito domestico, anche perché, come ricordato, non ne è ravvisabile la necessità, essendo previsti strumenti processuali atti ad evitare lo svolgimento di procedimenti paralleli aventi lo stesso oggetto[2]. 

Ciò non toglie che i principi enunciati dalla Corte di Giustizia e, in particolare, quello fondamentale per il quale l’interpretazione delle norme deve essere orientata ai valori funzionali del processo, abbiano fortemente influenzato il diritto processuale civile interno attraverso le recenti pronunce della Corte di Cassazione.

 

1.2. – I risultati della giurisprudenza e la loro incidenza sul diritto processuale civile italiano: la nozione di causa petendi e la rilevanza dell’omogeneità funzionale delle norme di diritto sostanziale ai fini della determinazione dell’identità delle domande

 

Le recenti pronunce della Corte di Cassazione mostrano che la definizione dell’oggetto della lite, da un lato con riferimento alla possibilità di mutamento e precisazione della domanda e, dall’altro, al giudicato, non si basa più oggi sulla coincidenza formale degli elementi di identificazione della domanda.

In particolare, in materia di emendatio e di mutatio libelli la Cassazione si preoccupa di chiarire quando la domanda sia da considerare nuova e, quindi, inammissibile ai sensi dell’art. 183 c.p.c. Così, secondo la Suprema Corte la domanda non è nuova, ma semplicemente modificata, quando resta immutata la situazione di fatto dedotta e, quando la domanda modificata non si aggiunge a quella iniziale ma la sostituisce, ponendosi pertanto, rispetto a quella iniziale, in un rapporto di alternatività.

Il rilievo della Corte consente, pertanto, di giungere a concludere – anche tenendo conto della pronuncia della stessa Corte in tema di impugnative negoziali – che, al fine di valutare se vi sia identità della domanda considerare la funzione svolta dalla norma di diritto sostanziale applicabile alla fattispecie concreta. Da ciò discende che la domanda non può definirsi nuova se le fattispecie legali applicabili a tali fatti perseguono la medesima funzione o, meglio, consentono di raggiungere lo stesso risultato. Ciò significa che le norme di diritto sostanziale applicabili alla situazione di fatto – (in un caso di specie, la stipulazione di un contratto, dapprima qualificato come preliminare e successivamente individuato come contratto definitivo) – alla quale corrispondono, sotto il profilo processuale, rispettivamente azioni diverse (un’azione costitutiva e un’azione di accertamento), perseguono il medesimo risultato funzionale (ossia, nell’ipotesi considerata, la realizzazione del medesimo bene della vita, il diritto di proprietà). Diventa quindi irrilevante – ai fini della individuazione delle modifiche ammesse ai sensi dell’art. 183 c.p.c. – la natura dell’azione di tutela esercitata nel senso che la stessa non modifica l’oggetto della domanda. Sotto questo profilo è da precisare, infatti, che le domande modificate sono domande diverse rispetto a quella iniziale e comportano, pertanto, una modifica parziale degli elementi identificativi della domanda[3], che però – occorre aggiungere – non determinino una variazione del risultato perseguibile sul piano sostanziale.

Da ciò consegue che la domanda iniziale e quella modificata, se proposte in due processi differenti, non daranno luogo ad un’ipotesi di litispendenza, che presuppone la coincidenza di tutti gli elementi di identificazione della domanda. A ciò si aggiunga che, in tale valutazione, rientra anche il tipo di azione esercitata dalle parti (la forma della tutela prescelta).

 

 

2. – Ricostruzione del concetto di oggetto del processo

 

Alla luce delle considerazioni che precedono, con riferimento agli elementi di identificazione della domanda, si deve ritenere che la causa petendi sia composta dai fatti, così come indicati nella domanda rivolta al giudice – al quale soltanto spetta la qualificazione giuridica della fattispecie, nella quale incanalare le affermazioni dell’attore – e dalle norme ad essi applicabili, ordinate in base allo scopo perseguito dalla tutela giuridica richiesta. L’oggetto del processo non muta se le norme applicabili a quegli stessi fatti perseguono la medesima finalità, per quella che – con efficace espressione – i tedeschi chiamano la Ordnungsfunktion.

Ciò significa che nella nozione di oggetto del processo un ruolo determinante è svolto dal fatto storico, nel senso di rapporto sostanziale che ne scaturisce determinato, o meglio, orientato in base alle fattispecie legali ad esso applicabili, seconda la funzione da queste perseguita.

 

2.1. – I principi cardine del processo

 

La prima considerazione dalla quale muovere riguarda il fatto che nella definizione di causa petendi deve essere svalutato il ruolo della fattispecie legale dedotta al fine dell’individuazione del diritto. Da questo punto di vista, dunque, assume un ruolo determinate la centralità della vicenda sostanziale dedotta in giudizio. Circa il concetto di petitum, esso è inteso come bene della vita o meglio, nel senso di effettiva volontà coltivata dalla parte e scopi di utilità pratica perseguiti tramite il ricorso all’autorità giurisdizionale. Causa petendi e petitum sono due facce della stessa medaglia, che si fondono alla luce dell’obiettivo scopo della tutela giuridica perseguito dall’attore con la domanda, fine che si sostanzia nella sintesi dei fatti o, anche, dell’ «accadimento della vita» posti/o a base della domanda rivolta al giudice, unico titolare del potere di qualificazione giuridica della fattispecie. Di qui è possibile, a mio avviso, far discendere i seguenti corollari: l’oggetto del processo non muta se le norme applicabili a quegli stessi fatti perseguono la medesima Ordnungsfunktion; l’attenzione allo scopo oggettivo della tutela voluto dall’attore nella determinazione dell’oggetto del processo consente, dunque, nel rispetto delle preclusioni, di modificare anche uno degli elementi della domanda se immutato resta il risultato cui tende la domanda.

Il ricorso a questo primo criterio di individuazione degli elementi della domanda giudiziale risulta ancor più condivisibile allorché si consideri che l’interpretazione della legge deve essere orientata ai «valori funzionali del processo», nel senso che l’ammissibilità della domanda così modificata trova la sua ragione nel fatto che l’attore la ritiene «più rispondente ai propri interessi e desiderata rispetto alla vicenda sostanziale ed esistenziale dedotta in giudizio». Conclusione che risulta pienamente rispondente all’orientamento dei giudici di legittimità, che appare oggi irreversibilmente indirizzato verso la valorizzazione del collegamento tra processo e diritto sostanziale, in modo da far sì che il processo si configuri quale strumento essenziale per il raggiungimento della più «soddisfacente» tutela degli interessi sottesi alla vicenda esistenziale dedotta in giudizio.

Conclusione che, quando riferita alla nozione di oggetto del processo, porta a individuare l’oggetto della domanda nel diritto individuato sulla base di «tutti i fatti», che oggettivamente (i.e., per il diritto sostanziale) sono idonei e necessari al fine di produrre le conseguenze giuridiche domandate.

In questa ottica, piuttosto, si deve ribadire la difficoltà di rinvenire un criterio univoco idoneo a definire l’ambito della discrezionalità entro cui possa esercitarsi legittimamente il potere del giudice di ricostruire i fatti oggetto del processo e, nel contempo, si deve notare che proprio la denuncia di tale difficoltà consente altresì di sottolineare come la soluzione del problema, relativo al potere d’ufficio del giudice di rilevare la sussistenza di un fatto costitutivo non dedotto dalla parte, dipenda necessariamente dalla nozione di oggetto del processo di volta in volta assunta.

Sotto questo profilo, un ruolo determinante deve riconoscersi al fatto storico che di tale diritto costituisce la fattispecie concreta, o il «fatto generatore». Ciò perché dal fatto storico e dal rapporto sostanziale che da esso scaturisce, qualificato con riferimento alle (possibili) fattispecie legali applicabili, discende la stessa possibilità di effettiva tutela del diritto che la parte intende fare valere in giudizio.

Una simile conclusione, del resto, ben si concilia con la realizzazione delle esigenze funzionali del processo, sui corollari applicativi delle quali ci si è soffermati nel corso di questo lavoro, che certamente spingono a «massimizzare la portata dell’intervento giurisprudenziale richiesto».

Tale risultato si consegue, infatti, dal punto di vista delle parti, consentendo la possibilità di apportare modifiche alla domanda, che permettano all’attore di proporre una domanda «più rispondente ai propri interessi e desiderata rispetto alla vicenda sostanziale ed esistenziale dedotta in giudizio». La modificabilità della domanda – nei termini esposti in questa sede – comporta il vantaggio obiettivo, che si traduce nel risultato di «risolvere in maniera tendenzialmente definitiva i problemi che portano le parti dinanzi al giudice, evitando che esse tornino nuovamente in causa in relazione alla medesima vicenda sostanziale».

Del resto i valori funzionali del processo ai quali deve ispirarsi l’interpretazione della disciplina processuale non sono valori fini a sé stessi, nel senso che devono compenetrarsi con altri principi-cardine del processo, come quello del contraddittorio e di imparzialità dell’organo giudicante e, nel caso specifico, con il rispetto del principio della domanda, al fine di evitare che l’esito del processo sia interamente rimesso alla discrezionalità, ancorché tecnica, del giudice, che è soggetto terzo rispetto agli interessi concreti sottoposti al vaglio del processo.

Alla luce di quanto esposto, si ritiene più conforme all’impostazione prescelta circa l’individuazione dell’oggetto della domanda e a principi ai valori funzionali del processo (e tenuto altresì conto del principio di uguaglianza delle parti), la soluzione a favore dell’ammissibilità del rilievo officioso dei fatti costitutivi secondari, cioè di quei fatti che non servono ad individuare il diritto ma a precisare il contenuto della corrispondente pretesa.

Tale conclusione mi pare che possa trovare conforto negli ampi poteri riconosciuti al giudice con riferimento ai fatti estintivi, modificativi ed impeditivi [4], come conferma anche l’orientamento recente della giurisprudenza in tema di rilievo officioso delle nullità negoziali. A mio avviso, pertanto, il medesimo potere va attribuito al giudice quanto ai fatti principali costituivi non individuatori del diritto; in particolare ritengo che al giudice debba permettersi, con riferimento alla medesima vicenda sostanziale dedotta in giudizio con l’atto introduttivo o comunque a questa collegata, di ricavare tutte le indicazioni utili ad ordinare i fatti attraverso le norme ad essi applicabili secondo una connessione interna che si realizza, consentendo al giudice – parafrasando un’espressione di autorevole dottrina – di «andare» dai fatti verso la norma e viceversa  ai fini dell’individuazione dell’oggetto della domanda[5]. Fermo restando che tale potere debba essere esercitato nei limiti segnati dal rispetto del principio della domanda, non deve peraltro escludersi che il giudice possa porre a fondamento della decisione fatti costitutivi differenti da quelli indicati dalle parti se pertinenti alla realtà fattuale dedotta nel processo, salvo sempre il rispetto del principio del contraddittorio ex art. 184 co. 4 e 101, co. 2°, c.p.c. [6]. Alla luce di queste considerazioni, poiché a norma dell’art. 183 c.p.c. sono sempre ammesse le modificazioni della domanda, è necessario individuare i criteri per valutare se la domanda diversa – in quanto modificata – proposta in sede di udienza di trattazione possa essere intesa quale domanda iniziale modificata ovvero quale domanda nuova.

 

2.2. – Quando si ha domanda nuova o modifica della stessa?

 

Alla luce di quanto precede la domanda non può considerarsi nuova rispetto a quella originariamente proposta dall’attore, nel caso di modifica del fatto costitutivo della domanda avente ad oggetto un diritto autodeterminato. Con riferimento all’individuazione dell’ambito di tali diritti, sono pacificamente ricondotti in tale fattispecie i diritti assoluti a carattere non patrimoniale[7] e, secondo la dottrina maggioritaria, i diritti ad una prestazione specifica. Nelle ipotesi nelle quali la domanda ha per contenuto un’obbligazione specifica, infatti, muovendo dalla considerazione che la tutela del creditore nel processo non va intesa in funzione esclusivamente risarcitoria, ma – capovolgendo la prospettiva – deve garantire il diritto del creditore a un risultato corrispondente alla soddisfazione di un suo interesse, «l’unità o la pluralità dei diritti dipende dall’unità o pluralità dei risultati conseguibili e degli interessi correlati: sicché se uno ed uno solo è il risultato garantito dalla legge, unico pure è il suo diritto» [8]. Pertanto, a titolo di esempio, unicità si avrà se la domanda ha ad oggetto il diritto alla consegna di una cosa, a prescindere dal titolo generatore del diritto, al contrario di quanto accade con riferimento ai diritti di credito ad una prestazione generica, ove il fatto storico generatore del diritto rileva nella determinazione del diritto.

Con riferimento ai diritti eteroderminati si ritiene condivisibile l‘orientamento della giurisprudenza più recente, secondo il quale non concreta domanda nuova la decisione che riconosca la condanna al risarcimento di danni a titolo di responsabilità contrattuale quando la domanda si sia limitata a fare valere una responsabilità di tipo aquiliano. La ragione è da individuare nel fatto che «la domanda, con la quale si chiede il risarcimento dei danni provocati da un determinato fatto, è una ed unica seppure il medesimo fatto possa costituire illecito aquiliano e inadempimento contrattuale; è una sola, perché unico è comunque il diritto di credito che può esistere nel medesimo istante e tra le stesse parti”[9].

Analoga conclusione vale nel caso di concorso fra l’azione ex titulo e l’azione derivante dal rapporto causale sottostante, come si verifica per il concorso dell’azione cambiaria e l’azione causale[10].

Infine, con riferimento alle azioni costitutive, anche alla luce del recente orientamento della giurisprudenza, per il quale oggetto dei giudizi di impugnativa negoziale è sempre «il rapporto giuridico sostanziale» [11], risulta condivisibile la conclusione per la quale oggetto delle azioni costitutive non è il diritto potestativo alla modifica bensì il diritto che la parte vuole giudizialmente formato[12].

In questa prospettiva le ipotesi di maggior rilievo concernono «le impugnative negoziali di annullamento, rescissione, risoluzione», che già di per sé rappresentano un campo di indagine sufficientemente ampio. Per dirla con le parole di autorevole dottrina «il quesito da porre è se la specifica tipologia della (sentenza di) modificazione giuridico-sostanziale richiesta dall’attore – ovvero il petitum nella sua qui unitaria accezione – individui la domanda costitutiva di per sé sola, ossia senza che occorra a quel fine considerare anche il titolo della modificazione richiesta ed in particolare i singoli fatti che consentono all’attore di chiederla»[13]. Da questo punto di vista, facendo proprie le affermazioni espresse dall’orientamento giurisprudenziale da ultimo richiamato, si ritiene che la risposta sia da rinvenire nella nozione di oggetto del processo e del giudicato, che deve essere in grado di ricondurre nell’orbita della regiudicata il rapporto sostanziale nella sua complessità, non frazionabile o disarticolabile in una pluralità di segmenti autonomi con la domanda dell’attore. Posto che oggetto dei giudizi di impugnativa negoziale è sempre «il rapporto giuridico sostanziale»[14], premessa la rilevanza dei più volte invocati valori funzionali del processo, si condivide l’orientamento della S.C. per cui, in attuazione del principio di eguaglianza formale delle parti, in virtù del quale è «deducibile tout court anche per l’attore ciò che è sempre opponibile dal convenuto»[15], deve ritenersi «di generale applicazione, il principio secondo il quale l’autorità del giudicato, tendente ad impedire un bis in idem e un eventuale contrasto di pronunce, copre il dedotto e il deducibile, vale a dire non solo le ragioni giuridiche dedotte in quel giudizio, ma anche tutte le altre, proponibili in via di azione e di eccezione, le quali, benché non dedotte specificamente, si caratterizzano per la loro inerenza ai fatti costitutivi delle pretese anteriormente fatte valere»[16].

Da ultimo, non si può trascurare di sottolineare il richiamo alla «omogeneità funzionale e di disciplina tra tutte le azioni di impugnativa negoziale» quale presupposto sul quale si basa – secondo la S.C. – l’affermazione del principio per il quale la rilevabilità ex officio della nullità va estesa a tutte le ipotesi di azioni di impugnativa negoziale, senza per ciò solo negarne le diversità strutturali, che le distinguono sul piano sostanziale (e così, per esempio, adempimento e risoluzione postulano l’esistenza di un atto morfologicamente valido, di cui si discute soltanto quaod effecta, mentre rescissione e annullamento presuppongono un’invalidità strutturale dell’atto, pur tuttavia temporaneamente efficace)[17]. Omogeneità funzionale delle azioni di impugnativa che è «una conseguenza inevitabile”, una volta esclusa la fondatezza della tesi che considera oggetto dell’azione di annullamento non già le situazioni soggettive contrattuali sorte dal contratto, bensì il diritto potestativo di annullamento (sostanziale, ovvero a necessario esercizio giudiziale)[18]. Pare, dunque, che se l’identificazione della domanda coincide con quella del diritto che la parte vuole giudizialmente formato, non sia ravvisabile un diverso effetto prodotto dall’annullamento per errore rispetto a quello per violenza o dolo[19].

Inoltre, sempre tenendo presente, il richiamo alla «omogeneità funzionale», dovrebbe darsi risposta affermativa al quesito se, proposta una domanda di risoluzione, sia consentito all’attore introdurre nello stesso processo quella di annullamento. In conclusione, gli effett ìi dell’annullamento e della risoluzione, poiché consistono nella mancata produzione degli effetti propri dell’atto annullato o risolto, possono pertanto ritenersi di per sé identici, quale che sia la fattispecie normativa dedotta dalla parte ed accolta nella sentenza[20].

 

2.3. – Rilievo officioso e decisione del giudice

 

Un altro profilo che merita di essere segnalato riguarda il rilievo d’ufficio della questione e potere di decisione su tale questione da parte del giudice.

Se la questione riguarda una questione mista di fatto e diritto, il giudice deve attivare il contraddittorio ai sensi degli artt. 101, co. 2 e 183, co. 4, c.p.c.[21]. Se non c’è domanda di parte il giudice, non potrà decidere tale questione con efficacia di giudicato, ma su quella questione si formerà preclusione extraprocessuale[22].

Con riferimento al vincolo dell’accertamento negli altri processi, lo stesso sussiste «se, nel nuovo processo, si discuta di un effetto giuridico non solo dipendente, ma indiscutibilmente legato per ragioni di funzionalità sostanziale con l’effetto su cui si è già deciso»[23]. Tale conclusione riprende il nucleo fondamentale della nota teoria per la quale – come efficacemente riassunto – in concreto, «la preclusione a discostarsi dalla precedente valutazione del rapporto fondamentale opererà in presenza di connessione corrispondente fra i due consecutivi processi, e così allorché si deduca un effetto giuridico contrattuale legato da un nesso sinallagmatico rispetto a quello già accertato (…)»[24].

Detto ciò, emerge anche dai recenti orientamenti giurisprudenziali già ricordati che non sempre l’oggetto della domanda e del giudicato coincidono, atteso che «oggetto del processo, oggetto della domanda giudiziale e oggetto del giudicato risultano allora cerchi sicuramente concentrici, ma le cui aree non appaiono sempre perfettamente sovrapponibili»[25]. Questo perché il giudice – proprio in forza dei valori funzionali del processo, in particolare tenuto conto del principio di speditezza, economia e celerità delle decisioni – può emettere una pronuncia «fondata sulla ragione più liquida del rigetto della domanda»[26]. Ciò significa che – muovendo dalla considerazione per cui l’ordine della trattazione delle questioni va distinto dall’ordine di decisione delle stesse – l’ordine con il quale il giudice esamina e decide le questioni preliminari di merito in rapporto al medesimo petitum (inteso come bene della vita) «deve essere stabilito caso per caso»[27]. Sotto questo profilo il criterio che deve indirizzare la scelta del giudice è la «ricerca di un equilibrio tra la discrezionalità di scegliere e le questioni da trattare anche in ragione della necessità o meno di istruttoria (e quindi in funzione del principio di economia processuale che sostiene il c.d. canone della ragione più liquida) e il principio dispositivo che permea di sé il processo civile», con la conseguenza che «il giudice deve rigettare sic et simpliciter la domanda se la ragione che fonda la decisione non esige alcuna attività istruttoria».

 

 

3. – Il processo come sintesi dell’elemento processuale e sostanziale: la dinamicità del processo

 

Da quanto finora osservato, si può constatare che le esigenze di funzionalità hanno finito per pervadere le motivazioni delle pronunce della Suprema Corte e superare – con maggiore o minore consapevolezza – un’interpretazione basata su criteri formalistici.

In particolare, emerge sempre più chiaramente che il processo assolve a un proprio autonomo ruolo, che implica innanzitutto che non si possa riduttivamente individuarne l’oggetto nel diritto sostanziale dedotto in giudizio. Il processo è sintesi dell’elemento processuale e sostanziale, nel senso che attraverso il giudicato il risultato processuale si trasferisce sul piano sostanziale. Ciò comporta che sulla realtà sostanziale incidono anche le regole processuali. La diversa ampiezza degli effetti del giudicato è determinata all’interno del processo, il quale, a sua volta, si pone come strumento di attuazione del diritto in esso dedotto, tanto che la definizione dell’oggetto del processo e del giudicato è segnata da norme processuali (un esempio è la c.d. ragione più liquida) [28]. Funzione del processo è dunque attuare e garantire la tutela del diritto sostanziale, ma – ma nel contempo – dell’ordinamento nel suo insieme. In questa prospettiva può dirsi, appunto, che scopo primario è l’attuazione del diritto sostanziale nel rispetto e nel perseguimento dei valori funzionali del processo[29].

Da quanto detto deriva che la nozione di oggetto del processo non può essere unica, ossia di assoluta coincidenza fra oggetto della domanda e contenuto della sentenza.

Si ricava da quanto finora illustrato che – anche secondo la giurisprudenza in precedenza ricordata – «oggetto del processo, oggetto della domanda giudiziale e oggetto del giudicato risultano cerchi sicuramente concentrici, ma le cui aree non appaiono sempre perfettamente sovrapponibili». In altri termini, l’oggetto del giudizio non può essere determinato in modo statico, avendo riguardo unicamente all’oggetto della domanda ovvero all’oggetto della sentenza, ma è necessario considerare anche la finalità perseguita dalla tutela giudiziale esercitata dall’attore, ossia i possibili effetti della sentenza. L’oggetto del processo, dunque, deve tenere conto – unitamente al diritto dedotto – del potenziale oggetto del giudicato, derivante dalla combinazione della pretesa dell’attore, dei fatti posti a suo fondamento e della fattispecie legale applicabile, raggruppabili in base alla funzione concretamente perseguita dalla tutela giudiziale esercitata dall’attore.

Conclusione che riporta all’impostazione teorica degli studi esaminati in questa sede, e in particolare all’intuizione di Böhm, per il quale il giudicato va inteso come effetto processuale determinante, nel senso che ha lo scopo di trasferire il risultato processuale sul piano sostanziale.

Più precisamente, nel valutare l’oggetto del processo occorre guardare agli elementi di identificazione della domanda, da un lato attenendosi alla valutazione compiuta ex ante e, dall’altro, per quanto attiene alla determinazione del contenuto facendo capo all’ipotetica classificazione delle conseguenze giuridiche e al potenziale oggetto del giudicato, quindi sui possibili effetti della sentenza. In altri termini, occorre guardare – in ciò risulta attuale l’intuizione di Böhm – all’oggetto del processo non soltanto, staticamente, al momento della proposizione della domanda, ma attraverso una visione dinamica che guardi a ritroso, il possibile sviluppo del procedimento, dal possibile contenuto della sentenza all’oggetto della domanda.

In altre parole, nello scopo perseguito dalla tutela giudiziale esercitata dalla parte, id est nei possibili effetti della sentenza, si riflettono la finalità e dinamicità, quali elementi della struttura di merito insita nel processo[30].

Pertanto appare sempre più attuale la possibilità – muovendo da questa nuova idea di oggetto del processo (centrata sui fatti e l’omogeneità funzionale delle norme giuridiche applicabili alle situazioni sostanziali affermate nella domanda) – di giungere anche ad una nozione di giudicato comunitario, come del resto auspicato da quegli studiosi che avevano anticipato già molti dei risultati cui perviene oggi la Corte di Giustizia[31].

 

 



[1] A titolo meramente esemplificativo, è sufficiente richiamare l’ipotesi di litispendenza comunitaria fra la domanda di accertamento negativo del diritto e la domanda successivamente proposta dal medesimo convenuto, volta ad ottenere la condanna dell’attore del procedente giudizio. In tale ipotesi la Corte ha più volte ribadito che al fine di prevenire una potenziale incompatibilità delle decisioni pronunciate nei singoli Stati e, quindi, per stabilire l’identità della pretesa, non sarebbe determinante la formale identità delle domande, quanto, piuttosto, la coincidenza del Kernpunkt (fulcro) della controversia giuridica; il tema è stato approfondito nella prima parte del lavoro alla quale si fa pertanto rinvio.

[2] Si è in precedenza evidenziato che i singoli Stati hanno a disposizione ulteriori meccanismi per evitare il rischio di procedimenti paralleli e decisioni contrastanti; in punto cfr. quanto osservato in precedenza (I parte) par.6, sub d).

[3] Anche qui si riportano le affermazioni della S.C. (Cass., sez. un., 15 giugno 2015, n. 12310, cit.), secondo la quale «la possibilità di una modifica della domanda iniziale anche con riguardo agli elementi identificativi oggettivi della stessa, non espone al rischio di trasformare il processo in un “tram” da prendere al volo caricandolo di tutte le possibili ed eventualmente eterogenee ragioni di lite nei confronti di una determinata controparte, se si considera che, oltre a rimanere ovviamente immutato rispetto alla domanda originaria l'elemento identificativo soggettivo delle personae, la domanda modificata deve pur sempre riguardare la medesima vicenda sostanziale dedotta in giudizio con l'atto introduttivo o comunque essere a questa collegata, regola sicuramente ricavabile da tutte le indicazioni contenute nel codice in relazione alle ipotesi di connessione a vario titolo, ma soprattutto se si considera in particolare che, come sopra evidenziato, la domanda modificata si presenta certamente connessa a quella originaria quanto meno per “alternatività”, rappresentando quella che, a parere dell'attore, costituisce la soluzione più adeguata ai propri interessi in relazione alla vicenda sostanziale dedotta in lite».

[4] Il dato è pacifico; in dottrina per un approfondimento del punto e anche per richiami bibliografici, Merlin, Compensazione e processo, cit., p. 335 ss., nt. 244 e 245; da ultimo, in giurisprudenza, cfr. le recenti pronunce della giurisprudenza in tema di rilievo officioso delle nullità negoziali, sulle quali ci si è soffermati in precedenza nel primo capitolo alla nt. 220 e testo corrispondente.

[5] Il riferimento è alla nota espressione di Engisch; in punto, cfr. Cap. 1, nt. 198.

[6] Come nel caso in precedenza citato della pronuncia del Tribunale di Napoli, alla nt. 253 e testo corrispondente, che ha fondato la decisione su un fatto costitutivo non dedotto dalle parti, ma – a mio avviso – rilevabile d’ufficio, in quanto relativo ad un profilo di nullità del contratto o, più in generale, di corretta applicazione della legge.

[7] In punto, cfr. quanto osservato al Cap. 2, nt. 51.

[8] Cfr., Cerino Canova, op. cit., p. 183 ss.

[9] Cfr., Cerino Canova, op. cit. p. 204.

[10] In punto si richiamano le osservazioni di Cerino Canova, op. cit., p. 220 s. ( e si veda già al Cap. 2, nt. 58 3 testo corrispondente).

[11] Menchini, Le sezioni unite fanno chiarezza sull’oggetto di giudizi di impugnativa negoziale: esso è rappresentato dal rapporto giuridico scaturito dal contratto, in Foro it., I, 2015, c. 941.

[12] Così Cerino Canova, La domanda giudiziale, cit., p. 146 ss.; Menchini, I limiti oggettivi del giudicato civile, cit., p.,139 ss.; Consolo, Domanda giudiziale (dir. proc. civ.), cit., p. 82; per una differente ricostruzione del sistema delle azioni di impugnativa negoziale, cfr. Pagni, Le azioni di impugnativa negoziale, Milano, 1998, p. 266 ss.

[13] Così, Consolo, Spiegazioni di diritto processuale civile, I, 11a ed., Torino, 2017, p. 141 ss.

[14] Menchini, Le sezioni unite fanno chiarezza sull’oggetto di giudizi di impugnativa negoziale: esso è rappresentato dal rapporto giuridico scaturito dal contratto, cit., c. 941.

[15] Cass., sez. un., 12 dicembre 2014, n. 26242, punto 4.3.

[16] Cass., sez. un., 12 dicembre 2014, n. 26242, punto 5.2.3; in punto, cfr. Proto Pisani, Rilevabilità d’ufficio della nullità contrattuale: una decisione storica delle sezioni unite, in Foro it., 2015, I, c. 944.

[17] Cass., Sez. Un., 12 dicembre 2014, n. 26242, punto 6.2. e 6.11. Inoltre, si precisa (punto 6.12) che «l’impugnativa negoziale trova, in definitiva, la sua comune Grundlage, e cioè il suo fondamento di base, nell’assunto secondo cui, non sussistendo ragioni di nullità, il giudice procede all’esame della domanda di adempimento, esatto adempimento, risoluzione, rescissione, annullamento, scioglimento contratto ex art. 72 L.F., scioglimento del contratto per mutuo dissenso».

[18] Cass., sez. un., 12 dicembre 2014, n. 26242, punto 6.8.2. e 6.9.4., ove si precisa che le diverse disposizioni normative richiamate nella motivazione della sentenza (artt. 1450, 1432, 1446, 1467 e 1450 c.c. e 1430 e ss c.c.), volte a  dimostrare che non sussiste una radicale distinzione – ai fini della rilevabilità d’ufficio della nullità negoziale – fra le azioni di risoluzione e le azioni c.d. demolitorie del vincolo contrattuale, «costituiscono un vero e proprio sottosistema normativo, sicuramente omogeneo, la cui univoca ratio consiste nel riconoscimento della facoltà di paralizzare l’impugnativa negoziale della controparte che lamenti l’errore (essenziale e riconoscibile), il raggiro (determinante del consenso), la violenza morale (ingiusta e notevole), l’approfittamento dello stato di bisogno». Ciò in evidente sintonia con quanto previsto in costanza di giudizio di risoluzione per inadempimento o eccessiva onerosità sopravvenuta. Infine, precisa la S.C., se il potere di paralizzare l’azione id annullamento o di rescissione attraverso l’offerta banco iudicis di una efficace reductio ad aequitatem del contratto è destinato a stabilizzarne definitivamente l’effetto negoziale non prohibente iudice (o addirittura nell’inerte silenzio del giudice!), la originaria nullità di quella convenzione deve porsi, invece, in termini assolutamente impeditivi del perdurare di un effetto mai nato, e come tale irrimediabilmente ostativo all’attuazione dell’originario programma.

[19] In punto giova sottolineare che secondo autorevole dottrina (Consolo, Spiegazioni di diritto processuale civile, I, p. 142), il titolo nelle azioni costitutive è dato nel suo complesso, se non dall’insieme dei fatti che giustificano e rendono giudizialmente ottenibile l’effetto di annullamento del contratto, da ciascun sottoinsieme (giuridicamente) omogeneo di tali fatti: tutti quelli che integrano la fattispecie astratta di dolo, dell’errore, della violenza, dell’incapacità.

[20] Sebbene vi sia da osservare che la variazione della fattispecie può indurre a differenti implicazioni che, però, non qualificano la tutela richiesta (in punto, cfr. Cerino Canova, La domanda giudiziale e il suo contenuto, cit., p. 170, il quale osserva che «alcuni motivi consentono alla controparte di evitare l’eliminazione offrendo una congrua variazione della vicenda giuridica da caducare»); per l’A. da ultimo citato il discorso può essere esteso anche alla rescissione, seppure con le riserve suggerite “«all’ambigua natura» di tale istituto. L’A. precisa inoltre che «l’impostazione adottata impone di considerare, tra i molti problemi che restano aperti, un’ipotesi di frequente riscontro nella pratica applicativa: la modificabilità della domanda di annullamento o di risoluzione in quella di nullità e, altresì, la modificabilità della domanda di costituzione del diritto in quella di accertamento del diritto stesso». La soluzione alla quale perviene l’illustre autore non pare condivisibile. Secondo l’A. «la diversità degli effetti si accompagna alla differenziazione della norma concreta, poiché l’una è di modificazione giuridica e l’altra riconosce direttamente una posizione di vantaggio rispetto ad un bene della vita. Pertanto la trasformazione si svolge tra entità eterogenee e non dovrebbe essere consentita». Anche se con la necessaria precisazione, che «il rilievo d’ufficio della nullità e la valutazione della fattispecie costitutiva del diritto impongono di tenere conto delle deduzioni comunque avvenute nel processo, dunque anche di quelle dell’attore. Ciò significa che il giudice dovrà respingere la domanda di annullamento se comunque gli risulti la nullità e dovrà respingerla perché non è consentito annullare quanto ab origine non produce effetti».

[21] In punto, cfr. Chizzini, Legitimation durch Verfahren. Il nuovo secondo comma dell’art. 101 c.p.c., in Giust. proc. civ., 2011, p. 43 ss., spec. p. 50, il quale, circa il rilievo delle questioni di merito, osserva che la soluzione adottata dal legislatore è volta «a conciliare la struttura dispositiva del processo, quale recepita dalla tradizione a tutela dell’imparzialità del giudice, con l’esercizio dei poteri giudiziali che si ricollegano nel nostro sistema costituzionale al primato della legge» e «che gli impongono, pertanto il dovere di superare le eventuali deduzioni di parte incompatibili con la legge». Da ciò consegue, secondo l’A., che il “giudice non è vincolato a muoversi nell’alveo tracciato dalle parti, chiuso nella gabbia in cui questo lo astringono, ma, nel rispetto delle deduzioni fattuali che si legano al divieto di scienza privata, potrà sviluppare autonome prospettazioni tramite il corretto esercizio del contraddittorio, al fine di giungere – secondo coscienza – ad una decisione della lite conforme alla legge»; in senso più restrittivo, cfr. Verde, Considerazioni inattuali sul giudicato e poteri ufficiosi del giudice, in Riv. dir. proc., 2017, p. 20, per il quale «non spetta al giudice stabilire i termini della discussione su cui si andrà a formare l’effetto preclusivo». Con specifico riferimento al giudicato si osserva che l’effetto preclusivo nei confronti di ciò che non ha formato oggetto di discussione dipende dalla legge sostanziale. Più precisamente, con riferimento al principio secondo il quale il giudicato copre il dedotto e il deducibile, in relazione agli accertamenti che costituiscono il presupposto indispensabile della pronuncia richiesta in via principale, si rileva che in questi casi in gioco «è (o dovrebbe essere) un unico rapporto o un’unica situazione giuridica, in quanto il presupposto è che si tratti di fatti da introdurre necessariamente nel processo pendente non essendo fatti dotati di efficacia autonoma, così che i fatti deducibili (ma non dedotti) possono essere identificati più agevolmente in relazione alle disposizioni di legge regolatrici del rapporto o della situazione»- La necessità che le questioni siano fatte oggetto di contraddittorio, al fine di consentire che su di esse si formi il giudicato, è uno dei motivi posti a fondamento della critica alla teoria del giudicato implicito elaborata dalla giurisprudenza (in particolare con riferimento alle pronunce della S.C. in tema di impugnative negoziali, sulle quali ci si è in precedenza soffermati) da parte di De Cristofaro, Giudicato e motivazione, cit., p. 30 ss.

[22] L’esempio è quello richiamato dalla dottrina (Consolo, Spiegazioni di diritto processuale civile, I, p. 227 s.) e dalla giurisprudenza (Cass., sez. un., 12 dicembre 2014, n. 26242 e Cass., sez. un., 12 dicembre 2014, n. 26243), relativo al rilievo da parte del giudice dell’eccezione di nullità del contratto posto a base della domanda dell’attore, in difetto di eccezione da parte del convenuto. In punto si rileva (Consolo, op. ult. cit.) che il giudice può fondare la sentenza sulla nullità, ma prima di valorizzarla deve suscitare il contraddittorio fra le parti. In tal caso il giudice può rilevare la questione, ma in difetto di domanda di parte – atteso che la nullità è una questione pregiudiziale di merito che può essere decisa con efficacia di giudicato soltanto su domanda di parte – il giudice non potrà pronunciare con efficacia di giudicato, ma dovrà limitarsi, se convinto della nullità del contratto, a dichiararla in motivazione (in questo senso, Consolo, op. ult. cit. e le pronunce sopra citate).

[23] Cass., sez. un., 12 dicembre 2014, n. 26242, punto 5.8.

[24] In punto, cfr. quanto osservato al Cap. 1, nt. 230.

[25] Cass., sez. un., 12 dicembre 2014, n. 26242, punto 4.3e punto 5.4.

[26] V., Cap. 1, nt. 227.

[27] Cfr., Cap. 1, nt. 228; le espressioni riportate ne testo si leggono in Cass., sez., un., 12 dicembre 2014, n. 26242.

[28] In punto, oltre a quanto osservato al Cap. 1, nt. 227 e testo corrispondente, si vedano le osservazioni di chi (Proto Pisani, Oggetto del processo e oggetto del giudicato nelle azioni contrattuali, in Foro it., 2016, V, c. 328), ha sottolineato che «in forza di tale principio si può avere uno scollamento tra oggetto del processo e oggetto del giudicato, oggetto del giudicato che sarà relativo non più al rapporto sostanziale nel suo complesso, ma solo alla “questione” dell’esistenza o no di un singolo fatto impeditivo».

[29] In punto è stato sottolineato in dottrina (Chizzini, Konvenzionalprozess e poteri delle parti, in Riv. dir. proc., 2015, p. 52) che se è assolutamente condivisibile il fatto che «il processo è, per l’avente diritto, un mezzo predisposto dall’ordinamento giuridico per la realizzazione del diritto», deve affermarsi con altrettanta certezza che «il diritto processuale civile non esaurisce l’insieme delle norme giuridiche mediante le quali l’ordinamento garantisce la tutela dei diritti, ma costituisce solo una parte di esse». Nella prospettiva del più ampio tema relativo al potere dispositivo delle parti all’interno del processo, l’A. – dopo avere individuato una serie di norme a conforto della sua conclusione – si esprime in senso favorevole al riconoscimento di un «Konvenzionalprozess». Con più specifico riferimento al profilo che in questa sede ci occupa –  il rapporto fra norme di diritto processuale e norme di sostanziale – l’A. precisa che «il diritto processuale in senso stretto può restringersi al solo diritto riservato all’attività giurisdizionale specificamente imperativa dello stato che agisce con gli organi giurisdizionali, in quanto è un’attività questa alla quale certo non bastano (…) gli strumenti del diritto civile comune e che appare il frutto (storicamente determinato) di un insieme di peculiari concetti e istituti giuridici di natura imperativa che si sono differenziati da quelli di diritto privato e si sono sviluppati in un sistema proprio; nondimeno ciò non toglie che esso, quel diritto processuale, solo concorra ad ogni effetto con le norme del diritto privato, quindi con le disposizioni del codice civile, al fine precipuo di dare concreta attuazione a quella strumentalità rispetto ai diritti che costituisce il pilastro delle relazioni tra diritto sostanziale e diritto processuale».

[30] In questo senso, Böhm, Die Ausrichtung des Streitgegenstandes am Rechtsschutzziel, cit., p. 123, secondo il quale la sua vista «auf die hypothetische Einordnung und den potentiellen Rechtskraftgegenstand abstellt», e in questo modo «kurz gesagtgleichsam die Statik (dynamisiert), was ihr durch die Ausrichtung des Streitgegenstandes am Rechtsschutzziel möglich wird». Con riferimento al profilo della dinamicità del processo, cfr. Goldschmidt, Der Prozess als Rechtslage: eine kritik des prozessualen Denkens, Berlin, 1925, p. 227.

[31] In punto, più di recente, cfr. Stamm, Zum Verzicht auf die Streitgegenstandslehre, cit., p. 51 ss., il quale evidenzia che questo sembra essere il percorso intrapreso dalla Corte di Giustizia, la quale – nella formulazione della c.d. Kernpunkttheorie – al fine di evitare decisioni contraddittorie, non spinge verso un ripensamento del concetto di oggetto del processo, quanto piuttosto verso l’ampliamento dell’orizzonte dei metodi di soluzione. In altre parole, la via per l’armonizzazione del diritto processuale nazionale ed europeo, passa attraverso la rinuncia alla teoria dell’oggetto del processo, nel senso che l’oggetto del processo non costituisce più il comune denominatore, ma esso è da individuarsi nelle conseguenze processuali dell’identità di domande, della contradddittorità di giudicati e della pregiudizilaità.