Note-&-Rassegne-2018

 

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1318850340078Il diritto penale nella storia della Facoltà di Giurisprudenza dell'Università di Sassari [1]

A proposito del recente libro di Antonello Mattone sulla Facoltà giuridica sassarese[2]

 

GIAN PAOLO DEMURO

Università degli Studi di Sassari

Direttore del Dipartimento di Giurisprudenza

 

 

 

Il diritto penale porta un contributo ideale profondo nella storia della Facoltà di Giurisprudenza dell'Università di Sassari. Sono tanti i docenti di straordinario rilievo che dovrei citare (tra i tanti Manzini, Rocco, Florian, Battaglini, Antolisei, Vannini, Delogu, Frosali, Scarano, Bricola, Marinucci, senza dimenticare Delitala che da qui è partito) ma oltre che sulle loro persone mi concentrerò su alcune idee guida che hanno segnato e contraddistinguono tuttora la scienza del diritto penale. Lascio da parte, segnalandone però il valore storico, gli esponenti della Scuola positiva, autorevolmente rappresentati qui a Sassari da professori come Berenini e Florian.

 

storia-giurisprudenza - CopiaA) È il 15 gennaio 1910 - come rievoca Antonello Mattone a pagina 423 della sua Storia - quando Arturo Rocco, dopo aver preso servizio nel novembre precedente qui a Sassari, svolge la sua famosa prolusione (prelezione) al corso di diritto e procedura penale: le idee professate in quella prolusione e poi trasfuse in numerosi scritti segnarono la nascita dell'indirizzo tecnico-giuridico, che caratterizzò profondamente la scienza del diritto penale nel XX secolo. Secondo Arturo Rocco, sulla scia di concezioni giuspositivistiche già affermatesi in Germania con Karl Binding, il giurista in quanto tale deve disinteressarsi di fondamenti extragiuridici (politici, sociali, morali, psicologici, ecc.) del diritto penale per concentrarsi sullo studio tecnico delle norme penali vigenti. La scienza del diritto penale - cito alla lettera dalla sua prolusione - si deve limitare a «studiare il delitto e la pena sotto il lato puramente e semplicemente giuridico, cioè come fatti giuridici di cui l'uno è la causa e l'altro l'effetto o conseguenza giuridica», lasciando ad altre scienze di studiarli come fatto individuale e sociale. In questo modo si apriva una via nuova, tra la scuola classica e la scuola positiva: alla scuola classica Rocco rimproverava di considerare il diritto penale come immutabile e universale, sganciato dalla realtà della legislazione; alla scuola positiva di trattare il diritto penale come fosse un'appendice della sociologia o della criminologia. La strada intrapresa da Rocco era quella maggiormente consona alla congerie culturale dell'epoca, come dimostra l'impostazione simile anticipata da Vittorio Emanuele Orlando per il diritto pubblico. E il contributo di Rocco fu decisivo - come osserva Paolo Grossi - per il diritto penale, perché non ne rivendicherà solo l'autonomia, ma fonderà metodologicamente quella autonomia.

Oggi in un autorevole manuale di diritto penale, quello di Fiandaca e Musco, si riconosce che l'impostazione teorica sviluppata nella prolusione sassarese era fondamentalmente corretta. Rocco infatti nel rivendicare il primato del metodo giuridico non intendeva con questo affatto disconoscere l'esigenza di uno studio interdisciplinare dei fenomeni criminosi: «Distinzione non è separazione e tanto meno divorzio scientifico».

Altro discorso è quello dell'utilizzo che del metodo tecnico-giuridico venne fatto negli anni. Dire che per il penalista il principale oggetto di indagine deve essere costituito dalle norme vigenti, valide in quanto emanate dallo Stato, era pienamente funzionale alle tendenze autoritarie che si manifestavano già in uno Stato liberale sempre più in crisi e preoccupato ormai di salvaguardare piuttosto l'ordine costituito. Fu con il codice fascista, a cui contribuirono proprio i fratelli Rocco e Massari e un altro grande penalista che insegnò a Sassari, Vincenzo Manzini, che l'indirizzo tecnico-giuridico si trovò nella migliore condizione per dominare il campo. Anche se pervasi di tendenze autoritarie, sia l'indirizzo tecnico-giuridico, sia lo stesso codice Rocco, mantennero fermi alcuni capisaldi della tradizione penale liberale, a cominciare dal principio di legalità e dal divieto di analogia in materia penale. Gli studiosi seguaci dell'indirizzo applicarono i suoi postulati con ancor maggiore rigore di Rocco, nella convinzione che le questioni di ordine filosofico-politico non rientrino come tali nella competenza scientifica dello studioso di orientamento rigorosamente dogmatico: basti pensare proprio a Vincenzo Manzini e al suo Trattato di Diritto penale.

L'indirizzo dominò fino agli sessanta e produsse come risultati innanzitutto e certamente una ricostruzione tecnica degli istituti del diritto penale che rimane ancora oggi salda; d'altro canto, però, il rifiuto di affrontare le questioni di fondo del diritto ha portato a insterilire la scienza penalistica, che ha dovuto faticare per riappropriarsi del suo ruolo, altrettanto essenziale, di istanza critica del diritto vigente.

 

B) Una straordinaria traccia nel diritto penale di oggi è poi quella lasciata da Giacomo Delitala e dalla sua scuola (c.d. milanese) che ha visto poi insegnare qui a Sassari docenti come Giorgio Marinucci, Emilio Dolcini e Francesco Angioni. Giacomo Delitala nacque, studiò e si laureò nel 1924 a Sassari (con una tesi sulla «Violazione della legge penale e violazione della legge civile», discussa con Ottorino Vannini). Tra le pagine dell'opera del prof. Mattone mi sono rimaste impresse le vicende di vita universitaria sassarese di tre colossi della scienza giuridica italiana, Lorenzo Mossa, Giacomo Delitala e Salvatore Satta. Penso a Salvatore Satta che incontra Lorenzo Mossa, con cui poi si laureerà, in via Carlo Alberto, il quale accomiatandolo dopo un'ora e mezza di conversazione (o meglio di monologo) sui libri, salutandolo gli dice guardandolo negli occhi: «Nella vita si possono fare molte cose, e si può fare a meno di studiare diritto. Per me il diritto è tutto»; e Salvatore Satta che scrive (in Soliloqui e colloqui di un giurista): «Mi precipitai per le scale, mi slanciai felice nella notte. Avevo trovato la mia vocazione». E poi sempre Salvatore Satta, che preso dal suo impeto, va alle quattro del mattino dal suo coetaneo Giacomo Delitala, compagno di classe anche all'Azuni, col quale aveva divorato biblioteche intere, a bussare alle finestre del suo amico (definito "dormiglione" ma erano le quattro!) «per conquistare insieme tutto lo scibile giuridico». Si laureeranno tutti e due nel 1924.

Anni di passione giuridica che segneranno Giacomo Delitala, autore nel 1930 (a 28 anni!) della monografia "Il fatto nella teoria generale del reato", che sulle orme di Beling, segnerà indelebilmente la scienza penalistica italiana, in senso liberale e garantista (suoi allievi, e anche ciò ne segnala la grandezza, furono tra gli altri Vassalli, Nuvolone e Bettiol). Delitala aderì all'indirizzo tecnico-giuridico, ma lo fece senza cadere nel concettualismo, adottando cioè un metodo rigorosamente tecnico legato alle norme del diritto positivo e inteso a scoprire gli elementi sistematici che le spiegano e le collegano (così spiegava Vassalli nel suo ricordo del Maestro su "La Giustizia Penale"), e con una dimensione aperta all'impegno "politico" (in senso ampio) del giurista. La monografia di Delitala, 221 pagine divise in una prima parte dedicata alla nozione di fatto e una seconda centrata sugli elementi essenziali del fatto, ebbe un successo clamoroso, lo portò a vincere il concorso per ordinario precedendo proprio Antolisei, ma Delitala che già era tentato anche dall'attività professionale preferì la chiamata alla Cattolica di Milano.

Quando oggi diciamo che il nostro è un diritto penale del fatto e non dell'autore, che cioè prima è necessario accertare sul piano oggettivo l'esistenza degli elementi che descrivono l'offesa al bene giuridico e solo dopo si potrà passare ad analizzare il suo autore, quando affermiamo che nessuno può essere punito per ciò che è, per ciò che pensa, per ciò che vuole, ma innanzitutto e ineliminabilmente per ciò che ha fatto, lo possiamo dire in virtù di quella centralità (pietra angolare) che ha il fatto nella sistematica del reato, che è appunto - come hanno appreso gli studenti del corso di diritto penale - un fatto tipico, antigiuridico e colpevole. Il diritto penale del fatto trova la sua più significativa espressione nella disciplina del tentativo: nella fondamentale esigenza, cioè, che il proposito criminoso si traduca in un comportamento materiale che, a sua volta, produca una effettiva lesione, o almeno una messa in pericolo obiettivamente accertabile del bene giuridico; la teoria c.d. oggettiva del tentativo, contro le teorie soggettive e le teorie miste. Come diceva Vincenzo Manzini, il più autorevole studioso della parte speciale del diritto penale, il diritto non punisce le intenzioni, bensì le positive lesioni degli interessi che esso protegge; sono i beni giuridici, individuali e collettivi, il perno sul quale poggiano le singole figure di reato, mentre il ruolo del dolo, della colpa e degli altri elementi della colpevolezza è quello di limiti alla rilevanza penale dell'offesa ai beni tutelati.

 Dunque il ricordo e la riconoscenza va a quella straordinaria monografia del 1930 - eccentrica rispetto a un periodo storico pervaso di tendenze illiberali - di Giacomo Delitala, della quale oggi leggiamo i riflessi in tanti manuali di diritto penale, tra i quali, diffusissimo, quello opera di Giorgio Marinucci e di Emilio Dolcini, entrambi allievi di Delitala e docenti qui a Sassari (proprio Emilio Dolcini ha voluto chiudere con una lectio magistralis sulla sistematica del reato la sua carriera qui dove la iniziò). Insomma le tracce di quella formazione giuridica che avvenne negli anni '20 del secolo scorso, magari di quelle conversazioni tra queste mura, segnano ancora gli studi dell'attuale generazione di giuristi penalisti.

 

C) L'accenno prima fatto alla protezione dei beni giuridici mi consente di passare al terzo e ultimo profilo di attualità dello studio del diritto penale, al quale in qualche modo ha contribuito anche la Facoltà di Giurisprudenza dell'Università di Sassari. Mi riferisco cioè al principio costituzionale di offensività e all'idea del reato come offesa di un bene giuridico.

Franco Bricola arrivò a Sassari come professore straordinario di Diritto penale nel 1964. A quel punto della carriera e a soli trent'anni vantava già due monografie e stava ultimando la terza (Dolus in re ipsa, Milano 1960, Fatto del non imputabile e pericolosità, Milano 1961, e La discrezionalità nel diritto penale, Milano 1964). In quegli anni di poco precedenti alla contestazione studentesca il corpo docente della Facoltà di Giurisprudenza presentava un equilibrio tra i professori locali e quelli che, per lo più giovani, venivano da grandi scuole della penisola e si sperimentavano nel campo della ricerca e dell’insegnamento: tra questi Catalano, Persiani, Cattaneo, Marinucci (successore immediato di Bricola nella cattedra penalistica) e, appunto, Bricola. Si trasferì poi a Bologna dove, col suo magistero, prese a formarsi la scuola bolognese di Diritto penale. Furono gli anni della svolta nella dottrina penalistica, che, dopo il dominio quasi incontrastato dell'indirizzo tecnico-giuridico, del quale abbiamo parlato, andava orientandosi non solo verso una rigorosa e perciò estensiva applicazione dei principi costituzionali, ma anche per l’attenzione alle problematiche della politica criminale e a quelle contigue della sociologia della devianza.

  L'idea base di Bricola (del quale io personalmente ricordo, per interessi scientifici, il suo magistrale Dolus in re ipsa, scritto poco prima di venire a Sassari) è stata quella di assumere la Costituzione come criterio di riferimento nella scelta di ciò che può legittimamente assurgere a reato, la Costituzione cioè non solo come limite ma come fondamento. Come ci riferisce uno dei suoi illustri allievi, Massimo Donini, l’analisi del reato, la concezione del fatto tipico, dell’illecito, della colpevolezza, la sistematica e la dogmatica classiche, appaiono in parte condizionate dal dettato costituzionale, ma ancor più importanti sono altre questioni di fondo: quali fini della pena, quali beni proteggere, contro quali forme di aggressione e livelli di lesività, quali fonti legittime, con quali tecniche costruire il reato e diversificarlo dall’illecito civile e da quello amministrativo, quale spazio per logiche d’autore o per illeciti a struttura contravvenzionale e di pericolo non concreto, quali margini lasciare ai decreti-legge, alle fonti subordinate alla legge. Nel dare una risposta a tutti questi interrogativi, la Costituzione - secondo Bricola - traccia una vera immagine positiva di come l’illecito penale deve distinguersi dagli altri illeciti.

In particolare segnalo in questo contesto la teoria costituzionalmente orientata del bene giuridico, che aveva il duplice obiettivo da un lato di elaborare un concetto di bene giuridico che preesista alla scelta legislativa, e dall'altro di predeterminare criteri di valutazione dotati di vincolatività nei confronti del legislatore penale. Quella teoria, di grandissima rilevanza non solo tecnica ma anche politico-criminale, si rivelò col tempo insufficiente, nella sua versione originaria, a comprendere i possibili vincoli al legislatore ordinario e si adattò dunque alla considerazione dei beni costituzionali impliciti e a quelli non costituzionalmente incompatibili. D'altro canto, oggi è in discussione proprio il ruolo del bene giuridico. Ma il monito garantista, contenuto nella teoria, a vincolare la scelta di penalizzazione a valori superiori e condivisi, rimane fermo e immutabile.

 

D) Posso dire - e vengo all'ultimo punto della mia breve relazione - che ai giovani sardi che hanno studiato a Sassari sia stata offerta la possibilità di confrontarsi pienamente, grazie a quelli che poi divennero illustri Maestri, con le più grandi scuole e con le idee di fondo del diritto penale anche di oggi. 

È vero che Sassari costituì per molti una sede iniziale e magari anche di breve durata, ma ciascuno ha condotto qui i propri studi nella fase più produttiva del proprio impegno scientifico e a Sassari hanno lasciato un contributo, un ricordo, una traccia, magari anche in quella straordinaria esperienza editoriale e scientifica che fu la rivista "Studi Sassaresi", che mi piacerebbe tanto far rinascere.

Natalino Irti, nel rammentare la nascita della sua amicizia a Sassari con Giorgio Marinucci, descrive Sassari come «facoltà giuridica, antica di secoli, illustre per tradizione di studi e di maestri», racconta le passeggiate con Floriano D'Alessandro, Valerio Onida, Franco Bassanini e Bernardo Santalucia, le discussioni sui concetti di norma e di fattispecie, e osserva che «Sassari, nelle consuetudini universitarie di quegli anni, era soltanto la prima sede, il noviziato, da cui si moveva verso città più grandi e importanti». E aggiunge queste belle parole: «Ancora non sapevamo (fu la malinconica scoperta di età mature) di lasciare a Sassari gli anni più lievi e fervidi della nostra vita».

Le idee volano, soprattutto quelle straordinarie vivono oltre i loro autori e i luoghi in cui sono nate e si sono sviluppate: ma che, in questo percorso, abbiano attraversato la nostra Facoltà di Giurisprudenza e la nostra Università di Sassari, è motivo comunque di orgoglio, di responsabilità e per tutti noi di spinta a uno straordinario  impegno.

Grazie ancora ad Antonello Mattone, a Paolo Grossi e a voi tutti per l'attenzione.

 

 



 

[1] Relazione presentata al convegno scientifico tenutosi il 4 maggio 2018 nell'Aula Magna dell'Università degli studi di Sassari.

[2] ANTONELLO MATTONE, Storia della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Sassari (secoli XVI-XX), [Studi e ricerche sull’università – Collana del Centro interuniversitario per la storia delle università italiane, diretta da Gian Paolo Brizzi], Bologna, Società Editrice il Mulino, 2016, pp. 1037. ISBN 978-88-15-26674-3.