Tradizione-Romana-2018

 

 

Zablocka-IMG_7409MARIA ZABŁOCKA

Uniwersytet Warszawski

 

 

Le origini del ragionamento per analogia nel diritto romano

 

 

 

ABSTRACT

The Origins of the Use of Analogy (Reasoning on Grounds of Similarity) in Roman Law

 

The author embarks on an interpretation of the text of Gaius 3.194, particularly the words furtum manifestum ex lege. To explain this phrase she refers to her earlier work on Gaius, especially Gaius 3.192 and the phrase lance et licio. The doctrine hitherto has regarded lance et licio to mean a special ritual search for a stolen item. However, on the basis of Festus (L. 104) we may assume that this expression could have been associated with audacious theft, with the thief not being caught in the act. Audacious theft of this type, cum lance et licio, in other words, with the thief disguised (literally “unclothed”), viz. with a type of balaclava on his face, was punishable under the Law of the Twelve Tables in the same way as furtum manifestum.

This interpretation allows us to read Gaius’ phrase furtum manifestum aut lege intellegi as meaning that the penalty for an audacious theft, viz. one that was committed lance et licio, was to be the same as for a natural furtum manifestum, a manifest theft in which the thief was caught red-handed. Moreover, such an interpretation would tie up with the passage in which lance et licio is discussed in the works of Rivalius, Alexander ab Alexandro, and Oldendorp, the first authors to attempt to reconstruct the Law of the Twelve Tables.

If we interpret the text of Gaius 3.194 in this way, we may venture on a hypothesis that the Romans first applied analogy as an independent construction without going into a theoretical discussion already in the period of the Twelve Tables. Since the perpetrator of an audacious theft which was a furtum manifestum was punished by forfeiting his freedom (or a greater penalty), then there should have been an analogous penalty for the analogous situation of an audacious theft in which the thief was not caught in the act; hence Gaius writes that a crime of this sort should be treated as a furtum manifestum ex lege.

 

* * *

 

Secondo la communis opinio gli abitanti di Roma del V sec. a.C. furono gente abbastanza primitiva. Tale presunzione non da però conto di alcuni fenomeni che sembrano contraddire tale giudizio. È indiscutibile che il popolo vivente in quell’epoca sulla riva del Tevere fu ben lontano da ragionamenti teoretici paragonabili a quelli dei cittadini delle póleis greche. Questo però non vuol dire che gli antichi Quiriti per fini pratici non sapessero adottare soluzioni adeguate qualora ce ne fosse bisogno. Ad esempio, il padre delle scienze mediche viene comunemente ritenuto Ippocrate, ma già all’epoca della Legge delle Dodici Tavole le tecniche mediche erano abbastanza avanzate: infatti dall’ottava tavola si può dedurre che i Romani in questi tempi usavano le piombature d’oro per curare i denti.

Anche nell’ambito del diritto è possibile fare osservazioni analoghe.

Nella dottrina moderna particolare attenzione viene posta sull’uso nella sfera del diritto[1] del ragionamento per similitudine, chiamato oggi ragionamento per analogia[2]. Bisogna allora chiedersi se i Romani, in assenza di basi teoretiche mutuate dalla logica e dalla filosofia greche, potessero praticare un modello simile di ragionamento[3]. Questa possibilità sembra essere confermata da una delle istituzioni antiche di cui parla lo stesso Gaio:

 

Gaius, Inst. 3.194:

Propter hoc tamen, quod lex ex ea causa manifestum furtum esse iubet, sunt, qui scribuntur furtum nanifestum aut lege intellegi, aut natura: lege id ipsum, de quo loquimur, natura illud, de quo superius exposuimus. sed verius est natura tantum manifestum furtum intellegi, neque enim lex facere potest, ut, qui manifestus fur non sit, manifestus sit, non magis, quam qui omnino fur non sit, fur sit, et qui adulter aut homicida non sit, adulter vel homicida sit. At illud sane lex facere potest, ut proinde aliquis poena teneatur, atque furtum vel adulterium vel homicidium admisisset, quamvis nihil eorum admiserit.

 

[Tuttavia, poiché la legge (scil. delle Dodici Tavole) stabilisce che in tal caso si abbia furto manifesto, vi sono coloro che scrivono che il furto manifesto si intende (come tale) o per legge o per natura: per legge quello di cui parliamo; per natura quello di cui abbiamo trattato più sopra. Ma risulta più corretto che solamente quello per natura sia inteso come furto manifesto. Infatti, la legge non può far sì che il ladro manifesto sia manifesto, più di quanto non possa rendere ladro chi non lo sia, o in adultero od omicida chi non sia adultero od omicida. Ma la legge certamente può far sì che taluno sia sottoposto a una pena come se avesse commesso furto, o adulterio od omicidio, sebbene non abbia compiuto nulla di queste cose].

 

Passando all’interpretazione di questo testo bisogna chiedersi innanzitutto a quale tipo di furto si riferisse Gaio. Che cosa indicasse la locuzione «poiché la legge stabilisce che in tal caso si abbia furto manifesto» e perché la legge stabilisse questo.

Occorre riflettere su quale tipo di furto venisse ritenuto furtum manifestum “per legge” (quod lex ex ea causa manifestum furtum esse iubet), e quale “per natura”. È vero che Gaio informa che il furto manifesto ex lege[4] era il furto di cui si parla in questo momento (lege id ipsum, de quo loquimur), mentre il furto manifesto per natura era quello trattato precedentemente (de quo superius exposuimus), ma questa spiegazione non sembra essere del tutto chiara e soddisfacente.

La maggior parte della dottrina, seguendo Gaio (anche se lui stesso riteneva la propria spiegazione ridicola – Gaius, Inst. 3.193), ritiene che la locuzione ‘de quo loquimur’ si riferisse alla procedura della perquisizione della refurtiva lance et licio. Allora, perché Gaio dice che tale furto (e non la ricerca) era da ritenersi un furto manifesto per legge[5]?

Forse, per chiarire il significato di questi due concetti di furto, bisogna allontanarsi per un attimo dal testo di Gaio 3.194 e ritornare ai tipi di furto discussi dal giurista antoniniano in precedenza.

 

Esponendo la materia delle obbligazioni ex delicto Gaio inizia con l’elenco dei delitti (3.182) e successivamente passa al tema del furto[6] facendo riferimento alle opinioni di due giuristi del periodo repubblicano. Del furto, a detta di Servio Sulpicio e Marciano Sabino, si distinguevano quattro specie: manifestum et nec manifestum, conceptum et oblatum. Labeone invece ne riduceva il numero a due – manifestum et nec manifestum, le altre configurandosi piuttosto come azioni connesse al furto (Gaius, Inst. 3.183). Quest’ultima interpretazione sembra essere condivisa dall’autore delle Istituzioni mentre spiegava in cosa consistesse il furtum conceptum (3.186) e il furtum oblatum (3.187).

 

Gaius, Inst. 3.186:

Conceptum furtum dicitur, cum apud aliquem testibus praesentibus furtiva res quaesita et inventa est. Nam in eum propria actio constituta est, quamvis fur non sit, quae appellatur concepti.

 

Gaius, Inst. 3.187:

Oblatum furtum dicitur, cum res furtiva tibi ab aliquo oblata sit eaque apud te concepta sit: utique si ea mente tibi fuerit, ut apud te potius quam apud eum qui dederit conciperetur. Nam tibi, apud quem concepta est, propria adversus eum qui optulit, quamvis fur non sit, constituta est action, <quae> appellatur oblati.

 

V’era furtum conceptum quando, in presenza di testimoni, la refurtiva veniva cercata e ritrovata; si puniva quindi la detenzione, anche inconsapevole, della stessa. V’era furtum oblatum quando questa veniva intrufolata in casa altrui per non farla trovare in quella del ladro; in tal caso si sanzionava l’intrufolamento.

Quindi il giureconsulto ricorda che si poteva agire contro chi avesse cercato di intralciare il ritrovamento della refurtiva.

 

Gaius, Inst. 3.188:

Est etiam prohibiti furti <actio> adversus eum qui furtum quaerere volentem prohibuerit.

 

Pur lasciando aperto il quesito se all’epoca delle XII Tavole si configurassero quattro o soltanto due specie di furto, giova ricordare che già la veneranda Legge contemplava, a scienza di Gaio[7], pene non solo per furtum manifestum e nec manifestum, ma anche per detenzione e intrufolamento.

 

Gaius, Inst. 3.191:

Concepti et oblati poena ex lege XII tabularum tripli est, eaque similiter a praetore servatur.

 

Il giureconsulto seguita informando che la pena per intralcio alle ricerche (prohibiti actio) fu introdotta dall’editto pretorio.

 

Gaius, Inst. 3.192:

Prohibiti actio quadrupli est ex edicto praetoris introducta: lex autem eo nomine nullam poenam constituit. Hoc solum praecipit, ut qui quaerere velit, nudus quaerat, licio cinctus, lancem habens; qui si quid invenerit, iubet id lex furtum manifestum esse.

 

La legge non contemplava nessuna azione eo nomine, vale a dire per intralcio alle ricerche. Statuiva soltanto, continua Gaio, che colui che volesse cercare, lo facesse nudo, coperto unicamente di una fascia di lino, e portasse una ciotola. Dal contesto del passo gaiano sembra evincersi che il ricercatore dovesse cercare e trovare un oggetto precedentemente rubato, e che ciò (id) fosse equiparato al furto manifesto[8].

Per Gaio la norma è ridicola e incomprensibile[9]. Non lo convincono né la fascia né la ciotola per tener occupate le mani.

 

Gaius, Inst. 3.193:

Quid sit autem licium, quaesitum est. Sed verius est consuti genus esse, quo necessariae partes[10] tegerentur. Quae res [lex tota] ridicula est. Nam qui vestitum quaerere prohibet, is et nudum quaerere prohibiturus est, eo magis quod ita quaesita re et inventa maiori poenae subiciatur: deinde quod lancem sive ideo haberi iubeat, ut manibus occupatis nihil subiciat, sive ideo, ut quod invenerit ibi imponat, neutrum eorum procedit, si id quod quaeratur eius magnitudinis aut naturae sit, ut neque subici neque ibi imponi posit. Certe non dubitatur, cuiuscumque materiae sit ea lanx, satis legi fieri.

 

Cosa fu, quindi la quaestio cum lance et licio? Gli studiosi vi si scervellano da tempo[11].

La dottrina odierna, richiamandosi a Gaio, tende a vedervi un rito di perquisizione[12].

Ma è l’unica spiegazione possibile?

Non può contestarsi che la descrizione di Gaius, Inst. 3.192 ricorda un brano[13] di Platone (Nomos 12.954a). Ma è lecito supporre che i Decemviri si fossero a tal punto ispirati alle leggi di Solone[14], per non parlare di un impossibile riferimento agli scritti di Platone?

Tornando al testo di Gaio va rilevato l’enorme divario che separava le pene per furtum conceptum da quelle comminate per lance et licio. La prima, quando l’oggetto rubato fosse stato durante la perquisizione ritrovato e ripreso, ammontava al triplum (Gaius, Inst. 3.191). Quanto alla seconda, Gaio ricorda che riprendere la refurtiva nel corso della perquisizione lance et licio era visto alla stregua del furtum manifestum; pertanto, se gli andava bene, il colpevole poteva punirsi con l’addictio[15], d’accordo con le XII Tavole che prevedevano questo e altro[16] per il ladro preso in flagrante (la pena del quadruplum fu contemplata dall’editto pretorio che mitigò le sanzioni per il furtum manifestum).

Pertanto, se all’epoca delle XII Tavole qualcuno avesse visto un oggetto che gli era stato rubato, domandava con un’actio furti nec manifesti il doppio; qualora presumesse che l’oggetto rubato fosse stato nascosto in una casa, anche all’insaputa di chi vi risiedeva, in presenza di testimoni la perquisiva e, ritrovato l’oggetto, con un’actio furti concepti domandava il triplo; e se avesse perquisito nudo o coperto soltanto di una fascia di lino, il ritrovamento equiparava il risiedente al reo di furtum manifestum.

Ma fu veramente così?

A questo punto par giusto avanzare alcune domande.

Il modo di effettuare la perquisizione – la scelta di procedere nudo o vestito spettava comunque al derubato[17] – poteva differenziare a tal punto la responsabilità di colui che abitava la casa in cui l’oggetto fosse stato ritrovato? La perquisizione lance et licio doveva svolgersi in presenza di testimoni (cui peraltro il giurista non accenna)? Se l’oggetto veniva ritrovato lance et licio non presso il ladro, ma in una casa dove questi l’aveva intrufolato, chi, di conseguenza, perdeva la libertà? E, infine, cosa si cercava lance et licio? Nel caso di furtum conceptum Gaio afferma chiaramente che si cercava l’oggetto rubato (Gaius, Inst. 3.186: furtiva res quaesita), mentre in Gaius, Inst. 3.192 discorre di ricerche (qui quaerere velit), che soltanto se riferite al brano precedente sembrano poter riguardare un tal oggetto.

Pare tuttavia che il 3.192 consti di due parti separate: nella prima Gaio parla di una distinta azione introdotta dal pretore in caso di intralcio a ricerche di refurtiva: Prohibiti actio quadrupli est ex edicto praetoris introducta: lex autem eo nomine nullam poenam constituit; nella seconda il giurista ricorda un istituto, di cui sa e capisce ben poco, del periodo delle XII Tavole: Hoc solum praecipit, ut qui quaerere velit, nudus quaerat, licio cinctus, lancem habens; qui si quid invenerit, iubet id lex furtum manifestum esse. In latino sono due periodi nettamente separati che in due recenti traduzioni polacche si leggono congiunti[18].

Se non si accetta l’ipotesi, invero assai azzardata, che all’epoca delle XII Tavole la perquisizione lance et licio facesse ricadere una responsabilità quanto mai severa anche su soggetti non colpevoli del furto, giova interessarsi ai contenuti di questo misterioso istituto.

Nelle contemporanee palingenesi della Legge delle XII Tavole le norme relative al furto sono collocate nella tavola VIII. Vi si tratta, com’è noto, delle pene previste dai Decemviri per il furto commesso di notte (VIII 12), per il furto commesso di giorno, ma a mano armata (VIII 13), per il furtum manifestum (VIII 14) e il furtum nec manifestum (VIII 16). Le parole lance et licio seguono (VIII 15b) conceptum et oblatum, cioè il frammento in cui si statuiscono le pene per la detenzione e l’intrufolamento (VIII 15 a). Tale collocazione distoglie lance et licio dal furtum manifestum cui, tuttavia, Gaio vuol assimilarlo (3.192).

Nella prima ricostruzione moderna, avanzata in Civilis historiae Iuris sive in XII Tab. Leges commentariorum libri quinque, Historiae Iuris Pontifici liber singularis[19] da Rivallio[20], uno dei primi rappresentanti dell’umanesimo giuridico francese, l’espressione lance et licio è ancor più nettamente che in Gaio congiunta con la descrizione del furtum manifestum e le pene conseguenti. Rivallio scrive[21]:

 

«Furem qui manifesto furto prehensus erit, si furtum aut noctu faciat, aut interdiu cum prehenderetur, se telo defendat, occidito. E caeteris manifestis furibus liberos verberato, et ei cui factum luci furtum erit, si se telo non defendant, addicito. Servos autem manifesto furto prehensos verberibus afficito, et e saxo praecipito. Pueros impuberes praetoris arbitratu verberato, noxamque ab his factam sarciri facito. Furta quae per lancem liciumque concepta erunt, sicut manifesta vindicato».

 

Il nostro elenca quindi la pena di morte prevista per il furto commesso di notte e di giorno, se a mano armata, la fustigazione del ladro colto in flagrante che veniva a trovarsi sotto la potestà del derubato, la condanna a morte dei ladri-schiavi, fatti precipitare dalla Rupe Tarpea, l’attenuazione della pene comminate agli impuberi, fustigati e obbligati a risarcire il danno. Aggiunge infine che furta quae per lancem liciumque concepta erunt, sicut manifesta vindicato.

          Pressoché coeva la ricostruzione della Legge delle XII Tavole ad opera dell’umanista napoletano Alessandro d’Alessandro[22], apprezzato avvocato, membro dell’Accademia del Pontano, attivo a cavallo del Quattro e Cinquecento, autore dei Genialium Dierum Libri Sex, I ed., Romae 1522 [23], in buona parte dedicati a ricerche comparate di storia del diritto. D’Alessandro vi si misura con diversi argomenti, sia di diritto pubblico (il ruolo del senato, le magistrature) e di diritto privato (partizioni delle res, modalità di successione). Nel decimo capitolo del sesto libro ricostruisce le XII Tavole, raffrontandole spesso con norme giuridiche di altri popoli, di preferenza con i diritti delle città greche e in particolare con la legislazione di Solone, ma anche con le leggi di Germani, Egizi, Persiani, Sciti, Arabi, Etiopi e Indiani.

Discorrendo di furto, alle prime d’Alessandro[24] non si discosta da Rivallio:

 

«Furta quoque eadem lex usque adeo aversata est, et tam severa correctione plecit, ut furem manifestum in servitutem tradat illi, cui furto quid subtractum foret. Furem vero nocte deprensum, quoquo modo: die vero, si telo se defenderet, et demum cum clamore occidi permiserit, in haec verba: Si nox furtum factum sit, si im aliquis occidit, iure caecus esto. Furta quoque per lancem et licium concepta velut manifesta, severiori poena punivit».

 

Ambo gli umanisti ricostruiscono le Tavole senza menzionare il furtum conceptum et oblatum. Nessuno dei due accenna a qualsiasi perquisizione, limitandosi ad affermare che il furtum per lance et licio venisse punito al pari del furtum manifestum. Dal tenore del discorso si deduce che entrambi attingono a Gellio[25] (senza degnarsi di ricordarlo). Tuttavia d’Alessandro, a differenza di Gellio, prima si sofferma brevemente sulle pene che le XII Tavole contemplavano per i colpevoli di furto, poi osserva che a Sparta la legge di Licurgo non perseguiva i ladri, e quindi raffronta la riforma di Solone con la legislazione di Dracone[26]. Infine chiarisce in cosa consistesse il furtum per lancem et licium:

 

«Dixere autem furta per lancem et licium, quod fures qui in alienas penetrabant aedes, plerunque (ut est sagax furum solertia) licium ferebant, quo furta alligarent, et lancem prae oculis, ne innotescerent».

 

Se ne potrebbe dedurre che il furtum per lancem et licium non si configurasse come intralcio alle ricerche, bensì come tipo particolare di furto. Per d’Alessandro una fascia di lino non serviva al ricercatore, ma al ladro che era tanto astuto da portasela per occultarvi il malloppo e da nascondersi la faccia dietro a una ciotola, antenata degli odierni passamontagna[27].

Alessandro d’Alessandro, come al solito, tace la fonte. Tuttavia può supporsi che si tratti dall’epitome di Paolo Diacono al De verborum significatu di Festo.

 

Festus, De verb. sign., v. Lance et licio, p. 104 L.:

Lance et licio dicebatur apud antiquos, quia qui furtum ibat quaerere in domo alieno licio cinctus intrabat, lancemque ante oculos tenebat propter matrum familiae aut virginum praesentiam.

 

Gli antichi parlavano di lance et licio poiché chi voleva rubare si cingeva i fianchi con una fascia di lino, si copriva il viso con una ciotola (maschera) tenuta davanti agli occhi[28], quindi penetrava (intrabat) in casa altrui, sfidandovi la presenza di mater familias e pulzelle.

Che in lance et licio dovesse individuarsi un tipo di furto era chiaro a Johann Oldendorp[29], umanista tedesco e studioso delle XII Tavole, il primo a occuparsi della sistematica dei Decemviri. In Εìσαγωγή juris naturalis sive elementaria introductio juris naturae gentium et civilis[30], ordina i brani raccolti in dodici parti-titoli in cui si sforza di rispecchiare la struttura delle XII Tavole. Il 12° titolo dedicato al furto raccoglie le seguenti norme:

 

«Furem qui maifesto furto prehensus erit: si furtum, aut noctu faciat, aut interdiu cum prehenderetur, se telo defendat, occidito.

E caeteris manifestis furibus, liberos verberato, et ei cui luci factum furtum erit, si se telo non defendat, addicito.

Servos autem manifesto furto prehensos, verberibus adficito, et e saxo praecipitato.

Pueros impuberes, Praetoris arbitratu verberato, noxamque ab his factam sarciri facito.

Furta quae per lancem liciumque concepta erunt, sicut manifesta vindicato».

 

A ogni norma Oldendorp aggiunge un commento. Interpretando le prime quattro, richiama chiaramente la sua fonte: il lib. 11 cap. 18 di Gellio, sulle cui orme descrive l’evoluzione storica delle pene per furto in Grecia – dalla pena di morte, voluta da Dracone per ogni ruberia, alla condanna al duplum statuita da Solone. Quindi discute le pene per furtum manifestum e nec manifestum delle XII Tavole.

Ai furta quae per lancem liciumque concepta erunt affianca, a mo’ di commento, quanto segue:

 

«Ingeniosa est hominum malicia ad peccandum. Quare et fures ut propositam alienarum rerum contrectationem interdiu commodius expedirent, non aperta facie domum intrabant, sed licio seu filo cincti, lancem duobus foramnibus aptanta [aptatan] ante oculos habebant, ut matres familiarum, aut virgine, alaeve ancillae in domo forte fortuna obviae terrerentur, fugerentque; potius, quam quod de cognoscendo vel observando fure essent solicitae, ac interim illi res subriperent».

 

Quanto sono ingegnosi gli uomini nel violare la legge! Per impossessarsi meglio delle cose altrui, i ladri penetravano nelle case a viso coperto, ma quasi nudi, solo con una fascia ai fianchi e il viso nascosto dietro una ciotola munita di due fori per gli occhi, sperando che tanto la mater familias, quanto le pulzelle e le serve prendessero paura e se la dessero a gambe, senza badare agli oggetti né cercare di riconoscere il ladro.

Ulteriori ricostruzioni della Legge delle XII Tavole non aggiungono, per quanto qui interessa, nulla di nuovo. Hotomanus[31] non accenna neanche alla lance et licio, Gothofredus[32] in Fragmenta XII. Tabularum suis nunc primum tabulis restituta, probationibus, notis et indice munita, Heidelberg 1616, riprende il passo si furtum lance licioque conceptus escit, atque uti manifestum vindicator dopo aver ricordato le norme sul furtum manifestum (e prima quelle sul nec manifestum), aggiungendovi un assai stringato commento dove richiama soltanto Gellius 11.18 e Gellius 16.10.

Cosa significò, pertanto, la quaestio per lancem et licium: un modo particolare di procedere alla ricerca di refurtiva o una specie di furto? Ovviamente gli studiosi dedicatisi in tempi remoti alla ricostruzione delle XII Tavole non conoscevano né le Istituzioni di Gaio né l’actio furti prohibiti, di cui Gellio, loro fonte primaria, non parla[33].

È giusto vedere nella quaestio in parola un tipo particolare di furto?

Al proposito si ricorderà che all’epoca delle XII Tavole non era stata ancora tipizzata la rapina, soltanto nel I sec. a.C. delineata dal pretore nella actio vi bonorum raptorum. Il ladro preso in flagrante andava incontro a pene assai severe, non inferiori alla privazione della libertà. Il ladro che fosse riuscito a commettere furto e fuggire (tranne che in caso di furtum conceptum) veniva condannato al duplum. Ma poteva equanimemente punirsi in questo modo per un furto particolarmente audace? Forse la quaestio cum lance et licio era stata, all’epoca, una prefigurazione della più tarda rapina. La Legge delle XII Tavole statuiva che per aver cercato oggetti da rubare (o forse già per il solo intento di mettere in atto il furto), anche quando non fosse stato colto in flagrante delitto, ma avesse dato prova di particolare audacia, agendo travestito, o meglio svestito, ma col viso coperto da una specie di passamontagna, il ladro dovesse punirsi come per furtum manifestum. All’epoca di Gaio si conosceva ormai da tempo il concetto di rapina e il pretore aveva introdotto un’azione per intralcio al recupero di refurtiva. Il giureconsulto può aver inconsapevolmente collegato l’uno con l’altra.

Ritornando al testo principale della ricerca cioè il testo di Gaius, Inst. 3.194, se interpretiamo in questo modo la locuzione lance et licio, diventa probabile che il furto manifesto per legge (furtum manifestum aut lege intellegi) costituisse proprio il furto lance et licio discusso sopra. Tale furto, per il suo carattere di temerarietà, doveva essere punito con la stessa sanzione del furto manifesto per natura. La suddetta interpretazione sarebbe coerente con la sistematica delle rispettive parti, dedicate al furto nelle opere di Alessandro d’Alessandro, di Rivalio e di Oldendorp e innanzitutto con la prima ricostruzione moderna della Legge delle Dodici Tavole di Gotofredo.

Accettando tale interpretazione del testo gaiano 3.194 si può avanzare l’ipotesi che i Romani già all’epoca della Legge delle Dodici Tavole, senza formulare una teoria in proposito, per la prima volta adoperarono un ragionamento per analogia. Infatti il furto atroce costituente furtum manifestum veniva punito come minimo con la pena della perdita della libertà. In una situazione analoga, dove però il ladro non era stato colto in flagrante, bisognava comminare una pena simile e perciò Gaio scriveva che tale reato doveva essere trattato come furtum manifestum ex lege.

 

 

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[Per la pubblicazione degli articoli della sezione “Tradizione Romana” si è applicato, in maniera rigorosa, il procedimento di peer review. Ogni articolo è stato valutato positivamente da due referees, che hanno operato con il sistema del double-blind]

 

[1] Secondo A. Kacprzak, Julian, Ulpian i nietypowa pożyczka. Zastosowanie analogii w rozważaniach prawniczych [Giuliano, Ulpiano e lo strano caso di mutuo. L’uso dell’analogia nei ragionamenti giuridici], in Zeszyty Prawnicze 10.1, 2010, 29: «il paragone tra la fattispecie la cui qualificazione giuridica non era ovvia con fattispecie simili, la cui qualificazione giuridica era indiscutibile, rientrava nell’ambito dei modelli preferiti di ragionamento degli iurisprudentes romani. Di solito tali paragoni servivano a mostrare che le differenze tra le due fattispecie discusse erano giuridicamente irrilevanti in modo da poter giustificare l’adozione di una soluzione prevista per una situazione tipica in una situazione dubbia».

[2] I Romani stessi non usavano la locuzione “ragionamento per analogia”. Cfr. A. Mantello, L’analogia nei giuristi tardo repubblicani ed augustei. Implicazioni dialettico-retoriche e impieghi tecnici, in Studi in onore di Remo Martini, II, Napoli 2009, 609 ss., 615; A. Kacprzak, Tra logica e giurisprudenza. Argumentum a simili nei Topici di Cicerone, Varsavia 2012, 15. Solo nel diciottesimo secolo i giuristi europei hanno iniziato ad usarla nelle loro opere, cfr. V. Piano Mortari, v. Analogia a) Premessa storica, in Enciclopedia del diritto, II, Milano 1958, 345.

[3] F. Gallo, Alle origini dell’analogia, in Diritti e processo nell’esperienza romana, Napoli 1994, 39 ss., analizza i testi dei giuristi solo partendo dall’epoca adrianea.

[4] Secondo G.G. Archi, “Lex” e “natura” nelle Istituzioni di Gaio, in Festschrift für Werner Flume zum 70. Geburtstag, I, Köln 1978, 3-23 (ora in Id. Scritti di diritto romano, I, Milano 1981): 147 «in Gai. 3.194 il termine lex nel discorso viene ad indicare in maniera generale sia la lex in senso stretto (quod populus iubet atque constituit) sia quod legis vicem optinet. [...] la lex e quod legis vicem optinet possono modificare la regula iuris gentium contrariamente a quanto avviene per la realtà di fatto: la ‘natura’ di Gai. 3.184».

[5] Alcuni autori, basandosi sulla parte successiva del testo, suggeriscono l’uso della finzione: il caso del ritrovamento della refurtiva durante una perquisizione veniva equiparato ad un furtum manifestum. V. Arangio-Ruiz, La répression du vol flagrant et du non flagrant dans l’ancien droit romain, in Scritti di diritto romano, II, Napoli 1974, 373 nt. 2 (prima Id., in Al Qanoun Wal Iqitsad 2, 1932, 109 ss., ripubblicato poi in Raiora, Roma 1946, 197 ss.); E. Bianchi, Fictio iuris. Ricerche sulla finzione in diritto romano dal periodo arcaico all’epoca augustea, Padova 1997, 349 nt. 414, e ultimamente anche L. Franchini, La desuetudine delle XII tavole nell’età arcaica, Milano 2005, 40 ss.

[6] Cfr. il mio saggio Quaestio cum lance et licio in Iura. Rivista internazionale di diritto romano e antico 54, 2004, 109 ss.

[7] Cfr. P. Krüger, Über furtum conceptum prohibitum und non exhibitum, in Zeitschrift der Savigny-Stiftung für Rechtsgeschichte. Romanistische Abteilung 5, 1884, 222 nt. 1; Th. Mommsen, Römisches Strafrecht, Graz 1955, 748 ss.; H.F. Hitzig, Beiträge zur Lehre vom Furtum, in Zeitschrift der Savigny-Stiftung für Rechtsgeschichte. Romanistische Abteilung 23, 1902, 329 ss.; A. Ehrhardt, The «Search», in Studi in onore di Emilio Betti, III, Milano 1962, 173; R. Westbrook, The Nature and Origins of the XII Tables, in Zeitschrift der Savigny-Stiftung für Rechtsgeschichte. Romanistische Abteilung 105, 1988, 108 ss.; R. La Rosa, La repressione del furtum in età arcaica. Manus iniectio e duplione damnum decidito, Napoli 1990, 66 ss. Dal brano di Gellio 11.18.6-12 non risulta con chiarezza se all’epoca delle XII Tavole furtum conceptum e furtum oblatum fossero già noti. Sul raffronto tra i brani di Gaio e Gellio cfr. O. Diliberto, Materiali per la palingenesi delle XII Tavole, I, Cagliari 1992, 229 ss.

[8] G. Nicosia, Il processo privato romano, I: Le origini, Torino 1986, 86 vi scorge un riferimento all’autodifesa privata. Parimenti M.D. Floria Hidalgo, La Casuìstica del Furtum en la Jurisprudencia Romana, Madrid 1991, 36.

[9] Probabilmente per questo motivo non fu ripresa nelle Istituzioni di Giustiniano, cfr. D. Nörr, Rechtskritik in der römischen Antike, München 1974, 12.

[10] Su nudità e partes necessariae cfr. A. Guarino, Il «furtum» nelle «XII Tabulae»: 3. «Partes necessariae», in Pagine di diritto romano, IV, Napoli 1994, 187 ss. Il passo è stato inoltre pubblicato da C. Sofo, «Partes necessariae», in Index. Quaderni camerti di studi romanistici 2, 1971, 433 ss.

[11] Cfr. da ultima Laura Pepe, Ricerche sul furto nelle XII Tavole e nel diritto attico, Milano 2004, 167 ss.

[12] Gli studiosi che si sono occupati della quaestio lance cum licio ne hanno più volte ribadito il carattere magico, sacro, rituale e simbolico. Cfr. in particolare J.G. Wolf, Lanx und licium. Das Ritual der Haussuchung im altrömischen Recht, in Sympotica Franz Wieacker. Sexagenario Sasbachwaldeni a suis libata, Göttingen 1970, 59 ss. con gli autori ivi citati. Cfr. inoltre F. Horak, v. Quaestio lance et licio, in Paulys Real-Encyclopädie der classischen Altertumswissenschaft, XXIV, Stuttgart 1963, coll. 788 ss.; E. Wieacker, Zwölftafelprobleme, in Revue Internationale des Droits de l’Antiquité 3, ser. 3, 1956, 479 ss.; R. Zimmermann, Furtum, in Derecho romano de obligaciones. Homenaje al Profesor José Luis Murga Gener, Madrid 1994, 770 ss. Critico E. Peruzzi, La quaestio cum lance et licio, ovvero le nudità dei Romani e la pudicizia dei Sabini, in Cultura 6, 1968, 162 ss. (ora in Id., Origini di Roma, I. La familia, Firenze 1970, 77 ss.). Anche nella dottrina più recente si punta sulla violazione della pace domestica e il carattere rituale della perquisizione: L. Franchini, op. cit., 40 ss. ed anche U. Manthe, Lance et licio, in Usus Antiquus Juris Romani. Antikes Recht in lebenspraktischer Anwendung, Berlin-Heidelberg 2005, 163 ss., dove nei dettagli si analizza gli elementi cruciali di questo rituale (nudus licium lanx); mentre in un altro lavoro recente di F. Bellini, Delicta e crimina nel sistema quiritario, Milano 2012, 49 questo argomento non è trattato. Invece C. Pelloso, Studi sul furto nell’antichità mediterranea, Padova 2008, 264 nt. 304, ingiustamente ritiene che io condivida l’idea secondo cui lance et licio costituisse una procedura di carattere rituale della perquisizione.

[13] Su analoghe perquisizioni in altri diritti indoeuropei cfr. E. Weiss, Lance et licio, in Zeitschrift der Savigny-Stiftung für Rechtsgeschichte. Romanistische Abteilung 43, 1922, 459; F. Horak, op. cit., coll. 788 ss.; P.G. Maxwell-Stuart, Per lancem et licium. A Note, in Greece & Rome 23, 1976, 1 ss.; E.M. Harris, “In the Act” or “Red-Handed”? ‘Apagoge’ to the Eleven and Furtum Manifestum, in Symposion 1993. Vorträge zur griechischen und hellenistischen Rechtsgeschichte, Köln-Weimar-Wien 1994, 169 ss.; L. Pepe, op. cit., 95 ss. E. Weiss, op. cit., 459, G.I. Luzzatto, Per un’ipotesi sulle origini e la natura delle obbligazioni romane, Milano 1934, 154 e E. Peruzzi, op. cit., 163 sottolineano tuttavia che, sebbene elemento comune delle perquisizioni fosse la nudità, soltanto in quelle romane si menzionasse la lanx.

[14] Su eventuali influenze greche sulla Legge delle XII Tavole cfr. Wołodkiewicz, Greckie wpływy na powstanie ustawy XII Tablic (na marginesie glosy Accursiusa do D. 1,2,4) [Influenze greche nell’elaborazione della Legge delle XII Tavole (in margine alla glossa di Accursio a D.1,2,4], in Prawo kanoniczne [Diritto canonico] 37, 1994. 3-4, 39 ss.; Id., Les remarques d’Accurse sur les origines grecques de la Loi des XII Tables, in Collatio Iuris Romani. Études dédiées à Hans Ankum à l’occasion de son 65e anniversaire, II, Amsterdam 1995, 643 ss. con ampi ragguagli bibliografici.

[15] Cfr. Gaius, Inst. 3.189; Gellius 11.18.8; Gellius 20.1.7; cfr. inoltra R. La Rosa, op. cit., 58 ss. e gli autori ivi citati.

[16] Il ladro sorpreso a rubare di notte o di giorno, se armato, poteva essere ucciso, cfr. D. 9.2.4.1; 47.2.55.2; 48.8.9; Gellius 11.18.7.

[17] Cfr. R. La Rosa, op. cit., 67.

[18] Gaius. Instytucje [Gaio. Istituzioni], trad. a cura di C. Kunderewicz. Warszawa 1982, ad hoc loc.; Gai Institutiones, trad. a cura di W. Rozwadowski, Poznań 2003, ad hoc loc.

[19] I ed. Valentiae 1515. L’opera, la prima ad essere dedicata alla storia del diritto, ebbe numerose ristampe. Nel 1584 fu pubblicata nella raccolta Tractatus universis iuris, duce et auspice Gregorio XIII Pontifice Maximo, Venetiis, vol. I.

[20] Su vita e opere di Aymar Rivallius cfr. H.E. Dirksen, Uebersicht der bisherigen Versuche zur Kritik und Herstellung des Textes der Zwölf-Tafel-Fragmente, Leipzig 1824, 29 ss.; F.C. von Savigny, Geschichte des römischen Recht im Mittelalter,, 2a ed., VI Nachdruk, Darmstadt 1956, 449 ss.; E. Moeller, Aymar du Rivail. Der erste Rechtshistoriker, Berlin 1907, 12 ss.; D. Maffei, Gli inizi dell’umanesimo giuridico, Milano 1956, 138 ss.; voce Rivail Aymar (du), in Novissimo Digesto Italiano, XVI, Torino 1969, 223; R. Orestano, Introduzione allo studio storico del diritto romano, 2a ed., Torino 1961, 141 ss.; O. Diliberto, Materiali per la palingenesi delle XII Tavole, II, Cagliari 1998, 35 s.; Id., Bibliografia ragionata delle edizioni a stampa delle Legge delle XII Tavole (sec. XVI-XX), Roma 2001, 47 s.; Id., La palingenesi decemvirale: dal manoscritto alla stampa, in Le Dodici Tavole. Dai Decemviri agli Umanisti, Pavia 2005, 487 ss.; M. Zabłocka, Ustawa XII Tablic – rekonstrukcje doby renesansu [La legge delle XII Tavole – ricostruzioni del Rinascimento], Warszawa 1999, 20; J.-L. Ferrary, Saggio di storia della palingenesi delle Dodici Tavole, in Le Dodici Tavole, cit., 506 ss.

[21] Brano tratto dall’edizione Moguntiae 1533.

[22] Su vita e opere di Alessandro d’Alessandro cfr. H.E. Dirksen, op. cit., 27 ss.; F.C. von Savigny, op. cit., VI, 457 ss.; D. Dal Re, I precursori italiani di una nuova scuola di diritto romano nel secolo XV, Roma 1878, 83 ss.; D. Maffei, Alessandro d’Alessandro. Giureconsulto umanista (1461-1523), Milano 1956, 27 ss.; F.G. Gabrieli, v. Alessandri Alessandro, in Novissiomo Digesto Italiano, I.1, Torino 1964, 476 ss.; O. Diliberto, Materiali, cit., II, 39 s.; Id., Bibliografia, cit., 51 s.; Id., La palingenesi, cit., in Le Dodici Tavole, cit., 487 ss.; M. Zabłocka, Ustawa XII Tablic, cit., 35 ss.; J.-L. Ferrary, op. cit., 510.

[23] Tra il Cinque e il Seicento l’opera ebbe 33 riedizioni repertoriate da D. Maffei, Alessandro, cit., 175 s.

[24] L’edizione di riferimento è Coloniae 1539. Cfr. anche D. Maffei, Alessandro, cit., 162 ss., che si avvale dell’edizione del 1673.

[25] Gellius 11.18.6-12: Decemviri autem nostri, qui post reges exactos leges, quibus populus Romanus uteretur, in XII tabulis scripserunt, neque pari severitate in poeniendis omnium generum furibus neque remissa nimis lenitate usi sunt. Nam furem, qui manifesto furto prensus esset, tum demum occisi permiserunt, si aut, cum faceret furtum, nox esset, aut interdiu telo se, cum prenderetur, defenderet. Ex ceteris autem manifestis furibus liberos verberari addicique iusserunt ei, cui furtum factum esset, si modo id luci fecisset neque se telo defendissent; servos item furti manifesti prensos verberibus adficiet e saxo praecipitari, sed pueros inpuberes praetoris arbitratu verberari voluerunt noxiamque ab his factam sarciri. Ea quoque furta, quae per lancem liciumque concepta essent, proinde ac si manifesta forent, vindicaverunt.

Sed nunc a lege illa decemvirali discessum est. Nam si qui super manifesto furto iure et ordine experiri velit, actio in quadruplum datur. Manifestumautem furtum est’, ut ait Masurius, ‘quod deprehenditur, dum fit. Faciendi finis est, cum perlatum est, quo ferri coeperat’. Furti concepti, item oblati, tripli poena est.

Sed quod sit oblatum’, quod conceptumet pleraque alia ad eam rem ex egregiis veterum moribus accepta neque inutilia cognitu neque iniucunda, qui legere volet, inveniet Sabini librum, cui titulus est de furtis.

[26] Sul confronto tra la Legge della Dodici Tavole e il testo di Platone cfr. L. Pepe, op. cit., 20 ss.

[27] Di una maschera fece menzione anche E. Peruzzi, op. cit., 163 s. e L. Pepe, op. cit., 169.

[28] La lanx tenuta davanti agli occhi è per F. Horak, op. cit., col. 795 un assurdo, e la spiegazione propter matrum familiae…praesentiam frutto di una tarda glossa (coll. 797).

[29] Su vita e opere di Johann Oldendorp cfr. H.E. Dirksen, op. cit., 32 ss.; R. Stintzing, Geschichte der deutschen Rechtswissenschaft, I, München-Leipzig 1880, 325; E. Wolf, Grosse Rechtsdenker der deutschen Geistesgeschichte, Tübingen 1939, 101 ss.; F. Wieacker, Privatrechtsgeschichte der Neuzeit, 2a ed., Göttingen 1967, 283 ss.; v. Oldendorp Johann, in Novissimo Digesto Italiano, XI, Torino 1965, 806 s.; K. Sójka-Zielińska, Ius publicumius privatum w systematyce prawa XVI w. [Ius publicum – ius privatum nella sistematica del diritto del XVI sec.], in Czasopismo Prawno-Historyczne [Rivista di Storia e Diritto] 37.2, 1985, 179 ss.; J. Otto, v. Oldendorp Johann, in Juristen. Ein biographisches Lexikon. Von Antike bis zum 20. Jahrhundert, ed. Stolleis, München 1995, 462 s.; O. Diliberto, Materiali, cit., II, 45 s.; Id., Bibliografia, cit., 57 s.; M. Zabłocka, Ustawa XII Tablic, cit., 57 ss.; J.-L. Ferrary, op. cit., 511.

[30] Coloniae 1539. L’opera è anche nota col titolo Εìσαγωγή seu elementaria introductio, ad studium iuris et aequitatis, cui è raccordata nella raccolta delle opere di Oldendorp, Opera, I, Basilae 1559, al quale mi sono riferita.

[31] In De legibus XII tabularum tripartita. Commentatio, Lugduni 1564.

[32] Su vita e opere di Jacobus Gothofredus cfr. H.E. Dirksen, op. cit., 77 ss.; R. Stintzing, op. cit., I, 385 ss.; F.G. Gabrieli, v. Godefroy Jacques, in Novissimo Digesto Italiano, VII, Torino 1961, 1145; E. Holthöfer, v. Godefroy (Gothofredus), Jacques, in Juristen, cit., 240 s.; O. Diliberto, Materiali, cit., II, 95 s.; Id., Bibliografia, cit., 127 s.; M. Zabłocka, Ustawa XII Tablic, cit., 155 ss.; J.-L. Ferrary, op. cit., 534 ss.

[33] In 11.18.16-18 Gellio scrive dell’impunibilità in Egitto e di leggi e consuetudini vigenti a Sparta, dove s’informano i giovani al furto non per guadagno o capriccio, ma nell’ambito della formazione militare. Gellio riporta l’amara e mai prescritta osservazione di Catone che i ladri di beni privati patiscono in catene, e quelli del bene pubblico continuano a godere di ogni ricchezza (fures privatorum furtorum in nervo atque in compedibus aetatem agunt, fures publici in auro atque in purpura). Vedi Oratorum Romanorum fragmenta, Turici 1842, 79: M. Porcius Cato, Oratio de praeda militibus dividunda e inoltre R. La Rosa, op. cit., 60.