Contributo-2019 

 

 

Maria-Teresa-Guerra-MediciGLI ZUAVI DEL PAPA. 1860-1870.

LA ‘QUESTIONE ROMANA’ E I ROMANI

 

Maria teresa guerra Medici

Roma

Università di Camerino

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SOMMARIO: 1. Una storia lontana. – 2. L’intraprendente monsignore. – 3. Un esercito cosmopolita. – 4. Il Belgio in soccorso del papa. – 5. I Soldati della Fede a Roma. – 6. L’inizio della fine.Abstract.

 

 

1. – Una storia lontana

 

La storia la scrivono i vincitori. I vinti rimangono nell’ombra o sono affidati a narrazioni partigiane più o meno malevole.

La storiografia del Risorgimento, a partire dall’ultimo ventennio del XIX secolo, fu scossa dal disastro di Adua e dallo scandalo della Banca Romana; tra i massimi responsabili di così gravi avvenimenti erano il generale Baratieri e l’onorevole Crispi, entrambi provenienti dalle fila dei garibaldini. La sfiducia che sembrò manifestarsi sulle sorti della patria appena conquistata richiese un accorato appello agli eventi salienti della lotta per l’unità mitizzandone la portata e dimenticando, o svalutando, le azioni di quanti avevano tentato, spesso con generosità e sacrificio, di opporsi ad un processo inevitabile e necessario. Il discredito ha colpito anche il piccolo esercito cosmopolita degli Zuavi del Papa.

Gli Zuavi, un corpo militare francese che aveva combattuto eroicamente in Crimea, prendevano il nome dalla divisa indossata[1]. Un battaglione di zuavi aveva fatto parte dell’esercito di Napoleone III intervenuto in Italia a fianco del Piemonte. Nel 1859 si segnalarono a Magenta, Solferino e Palestro dove si guadagnarono il nome di ‘furia francese’.

Gli zuavi del papa avevano una origine diversa, erano volontari e provenivano da tutte le terre della Cristianità[2]. La storiografia risorgimentale è stata particolarmente aspra nei loro confronti. Carducci li definì ‘esecrabili assassini’. Si riferiva ad una penosa rappresaglia seguita all’imboscata della caserma Serristori dove molti zuavi erano stati uccisi e sepolti sotto le macerie; un episodio, doloroso, non molto dissimile dai tanti che hanno visti coinvolti i ‘briganti’ del sud e i garibaldini stessi.

I garibaldini definirono gli Zuavi, incontrati a Mentana, ‘rifiuti delle fogne di tutta Europa’, gli zuavi ricambiarono con le parole ‘infectes canaille’. Il re Vittorio Emanuele li definì una «accozzaglia di tutti i paesi e di tutte le sacrestie». Il generale Cialdini nel suo proclama dichiarò «vi conduco contro una masnada di briachi stranieri, che sete d’oro e vaghezza di saccheggio trasse nel nostro paese. Combattete, disperdete inesorabilmente que’ banditi, per mano vostra sentano l’ira di un popolo che vuole la sua nazionalità e la sua indipendenza».

Diverse le parole del garibaldino Pio Vittorio Ferrari che, vedendoli impegnati nei lavori di fortificazione di Roma, scrisse: «Dal ponte Sant’Angelo ci fu dato vedere degli zuavi che lavoravano di carriola e vanga allegramente lungo le sponde del Tevere … forse erano tutti figli di famiglie civili, persone istruite e dabbene, forse erano laureati, professori, conti, duchi, baroni, e lasciavano la patria e gli agi di casa per venire qui a fare il manovale, il bracciante! Bisogna proprio convenire che la fede fa miracoli!».

Che la fede faccia miracoli lo testimoniano le parole di Santa Teresa di Lisieux «… Sento nell’anima il coraggio di un crociato, di uno Zuavo Pontificio, vorrei morire su un campo di battaglia per la difesa della Chiesa»[3].

 

 

2. – L’intraprendente monsignore

 

Il re di Sardegna non era rimasto insensibile al grido di dolore che gli giungeva dall’Italia e con l’appoggio di Napoleone III, giunto con 100.000 mila uomini in suo soccorso, aveva sconfitto l’Austria nella battaglia campale di Magenta. Si era assicurato una certa libertà di azione per continuare la politica di annessioni ‘plebiscitarie’ che dovevano portare all’unità d’Italia sotto la corona di Vittorio Emanuele II. Nel giugno del 1859 quasi tutte le regioni delle Romagne, parte rilevante dello stato pontificio, dichiararono la loro intenzione di porsi sotto il governo di Torino. L’Umbria e le Marche si allinearono alle altre regioni italiane. L’impresa garibaldina aveva fruttato il Regno delle due Sicilie: mancava solo Roma.

A Roma si comprese immediatamente che sarebbe stata la fine del governo pontificio e per correre ai ripari, ma era forse troppo tardi, si provvide a sostituire il ministro della Guerra. La carica era stata fino ad allora ricoperta dal Segretario di stato cardinale Antonelli, abile politico ma poco esperto di questioni militari, e poco interessato a rafforzare l’esercito pontificio nel quale non riponeva grande fiducia e al quale non aveva dedicato molta attenzione, quasi a confermare la parole di Guicciardini, «… i pontefici comunemente sono malserviti nelle cose della guerra»[4].

Il cardinale era uomo concreto e intelligente, seppure privo di vera cultura, aveva intuito cosa andava maturando riguardo all’avvenire politico del papato e, forse, aveva compreso che non si poteva impedire il corso della storia. Seppure si faceva qualche illusione sapeva che la sorte di Roma, più che dalla forza delle armi, dipendeva dagli equilibri internazionali: forse era cosciente della fine inevitabile[5].

A ricoprire la carica come Pro-Ministro alle armi fu chiamato monsignor Saverio de Merode figlio di una aristocratica famiglia belga[6]. Aveva frequentato la scuola di guerra e raggiunto il grado di sottotenente di fanteria. Con il permesso del governo belga aveva partecipato alla campagna d’Algeria con l’esercito francese conquistandosi la Legion d’Onore. Tornato in patria manifestò l’intenzione di dedicarsi alla vita ecclesiastica e partì per Roma. Fu ammesso al Collegio Romano e nel 1849 fu ordinato sacerdote. Si dedicò ad opere di carità e alla assistenza dei malati assieme ad un altro belga, il barone Antoine de Woelmont che era stato ordinato sacerdote nello stesso tempo[7].

Era l’epoca incerta in cui scorrevano i travagliati mesi della Repubblica Romana. I due sacerdoti chiesero e ottennero da Mazzini l’autorizzazione ad assistere i feriti. Lo stesso Garibaldi li ringraziò per la loro dedizione. Woelmont offrì la sua opera misericordiosa alla principessa di Belgioioso, che sovraintendeva alla organizzazione degli ospedali. Ma, scrive il barone al fratello, quando la principessa si trovò di fronte un prete e non un gentiluomo si irritò fortemente e indicò all’incauto samaritano la porta dichiarando: «que son infame habit ne souillerait jamais les hopitaux aussì longtemp qu’elle aurait l’honneur de les gouverner». Il nostro non si arrese, sapeva che gli infelici soldati «sous la domination de cet ange du mal» non avevano perduto il loro spirito cristiano: non erano altro che strumenti passivi della rivoluzione[8].

Pio IX, rientrato a Roma da Gaeta, aveva riconosciuto i meriti di de Merode nominandolo cameriere segreto. Per vent’anni vicino al papa, che lo stimava e lo apprezzava, fu sempre in conflitto con Antonelli che dominava la politica vaticana, e non solo. Sicuro e freddo, abile e intrigante il cardinale veniva da una modesta famiglia ciociara ed era naturalmente in contrasto con l‘aristocratico, disinvolto e ironico prelato belga che diffondeva i suoi amari sarcasmi con generosità nei salotti romani, centro della mondanità internazionale che si raccoglieva a Roma nei mesi invernali[9].

Il nuovo ministro delle Armi aveva capito che solo un appello alla Cristianità tutta poteva servire a fornire uomini e mezzi alla difesa dello stato pontificio. Già dagli ultimi mesi del 1859 aveva preso contatti con il generale francese Christophe de Lamorcière, che aveva conosciuto durante la campagna in Algeria[10]. In gran segreto il ministro si recò dal generale per offrirgli il comando delle truppe pontificie a nome di Pio IX. L’invito fu accolto con entusiasmo. Il generale aveva accettato la proposta di comandare l’esercito pontificio dichiarando che «un figlio non può non rispondere quando il padre chiama». Come due congiurati de Merode e Lamorcière, per evitare possibili azioni ostili da parte di Napoleone III, invece di seguire il percorso più facile (Bruxelles, Parigi, Marsiglia, Civitavecchia) presero la via di Vienna e Trieste e giunsero a Roma il 1° aprile del 1860. Il generale venne nominato a capo dell’esercito pontificio.

L’accorato appello di de Merode alla Cristianità per la difesa del papa fece affluire a Roma un gran numero di volontari che avevano deciso di accorrere per difendere la causa della legittimità. La nobiltà europea rispose con entusiasmo all’appello. Il principe Nugent offrì i suoi servizi militari e presentò progetti per formare un’armata pontificia[11]. Il conte e la contessa de Rohan offrirono il loro figlio cadetto per l’armata pontificia[12]. I fratelli duchi de la Rochefoucauld, a nome della nobiltà e dei cattolici francesi si offrirono di formare e mantenere a loro spese un’armata in difesa della Santa Sede. Il duca donò dodici obici fabbricati in Belgio con la scritta La Rochefoucauld à Pie IX[13].

Grazie a monsignor de Merode dal Belgio prese l’avvio una avventura al servizio della Chiesa e in difesa del Papa che sarebbe durata dieci anni. Agli uffici di reclutamento di Roma si presentarono volontari francesi e belgi che vennero riuniti per formare un unico reparto: divennero i Cacciatori (tirailleurs) franco-belgi, il comando venne affidato al barone Athanase de Charette ‘l’eroe di Costantina’[14]. La sua presenza rassicurava i romani «… sebbene i torbidi politici si incamminino alla totale ruina di stati italiani stati sempre bersaglio di turbatori invidi e ambiziosi, io sono tranquilli te ripeto fidando, dopo Dio, nell’Eroe di Costantina …» scriveva un romano alla fidanzata francese[15].

Anche gli irlandesi accorsero numerosi, 800 volontari formarono il battaglione di San Patrizio. Venivano in aiuto della Chiesa minacciata e in odio all’Inghilterra che appoggiava la casa di Savoia in funzione antifrancese e antiaustriaca. I Crociati di San Patrizio erano guidati dal maggiore Patrick O’ Reilly, un personaggio dotato di grande carisma[16]. Con il suo battaglione difese eroicamente Spoleto resistendo a numerosi attacchi dei piemontesi, sino all’inevitabile resa di fronte a forze preponderanti[17].

Il 20 di giugno del 1860 il battaglione franco-belga ricevette il suo nuovo comandante, il conte Louis Becdelièvre, già capitano degli Chasseurs à pied e decorato con la Legion d’Onore per il valore dimostrato durante la guerra di Crimea. Il conte Becdelièvre, di una antica famiglia brettone ci ha lasciato il racconto della sua adesione al corpo degli zuavi[18]. Alla compagnia dei franco-belgi si unirono 600 Crociati di Jacques Catholineau, dal nome del loro fondatore[19].

Intanto quel che rimaneva dello Stato della Chiesa subiva un nuovo attacco. Garibaldi, che aveva valorosamente difeso la Repubblica Romana e consegnato il Regno di Napoli al re di Sardegna, dall’‘esilio’ di Caprera non nascondeva la sua aspirazione a Roma. Godeva della sotterranea ‘indifferenza’ di Cavour che si serviva del Comandante, per forzare la mano al re e per tenere a bada i mazziniani repubblicani, ma facendo ben attenzione che non si rafforzasse troppo, era sostenuto in questo dai generali di carriera che non amavano affatto quell’avventuriero che conduceva i suoi uomini di vittoria in vittoria.

Il 18 maggio del 1859 ‘bande di invasori’, uomini male equipaggiati, molti dei quali privi di uniforme, guidati dal garibaldino Luigi Masi[20] avevano superato la frontiera della Toscana ed erano giunti fino a Latera dove avevano abbattuto le insegne papali provocando una ben orchestrata insurrezione[21].«I cosiddetti volontari toscani saccheggiarono la gendarmeria, rapirono il sindaco e con un coltello alla gola gli fecero emanare ordini di pagamento. Assalirono i preti e gli abitanti malmenandoli e insultarono le donne»[22]. Il generale de Pimodan, informato dell’accaduto, con sessanta gendarmi a cavallo piombò sui ‘malviventi’ e li disperse. A terra rimasero nove morti.

Il re di Sardegna si ritenne autorizzato ad intervenire. Il capitano Farini consegnò a Lamorcière, che presidiava Spoleto dove aveva stabilito il suo quartier generale, una lettera del generale Fanti che lo invitava a ritirare le truppe dai luoghi ove la popolazione manifestava sentimenti italiani. Un messaggio analogo fu inviato ad Antonelli. Le lettere furono considerate un affronto e un inganno dal governo pontificio. Enrico Piccoli, un funzionario della Segreteria di stato, scrive alla fidanzata francese, «Leggerai sui fogli la vergognosa lettera del Cavour al Cardinale Antonelli e del generale Fanti al generale Lamorcière che questi chiama la ‘fable du loup et de l’Agneu en actioned intanto il giorno 8 si invadeva le Marche e l’Umbria»[23].

Contemporaneamente, incurante delle proteste delle nazioni cattoliche e forte dell’approvazione inglese, l’esercito invasore al comando di Fanti e Cialdini entrò nello stato della Chiesa mentre la flotta comandata dall’ammiraglio Persano poneva l’assedio al porto di Ancona. La guerra era iniziata. La cittadella di Pesaro si arrese, si arrese Perugia, e anche Osimo fu occupata; Lamorcière dopo una strenua difesa abbandonò Spoleto.

Il 18 settembre 1860 l’esercito piemontese e quello pontificio si scontrarono nella battaglia che prese il nome di Castelfidardo ma in realtà si svolse tra le Crocette e la sponda sinistra del Musone.

I pontifici opposero una resistenza inaspettata: si segnalarono i Tiragliatori franco-belgi guidati dal marchese de Pimodan, che fu ferito a morte, e la compagnia di d’Arcy, i ‘crociati di San Patrizio’, ai quali era stato affidato il compito di trascinare due cannoni.

I ‘nuovi crociati’ erano generosi, coraggiosi e, sebbene in numero inferiore ai piemontesi, difesero le loro posizioni a lungo dando filo da torcere al nemico. Il capitano Athanase de la Charette ingaggiò un duello a sciabola con un ufficiale nemico e lo fece prigioniero. Bacdelièvre guidò bravamente il suo battaglione e il conte Felice de Montravel, colpito da quattro pallottole e due colpi di baionetta morì gridando «viva il Papa, viva la Francia, viva l’Ardeche».

Molti furono i feriti e numerosi i combattenti che seppero morire con coraggio, fra loro il generale de Pimodan, comandante della piazza di Spoleto dalla quale dipendeva anche Terni, che aveva guidato i suoi soldati al grido «Dio è con noi!»[24]. Il generale era stato ferito gravemente ma aveva continuato a combattere fino a quando era caduto al suolo esanime e fatto prigioniero. Il generale Cialdini, informato, inviò due medici e il suo aiutante di campo che assisté il ferito sino alla fine. Per ordine di Vittorio Emanuele alla marchesa de Pimodan[25] fu inviata la spada del marito che lei stessa aveva spinto a lasciare l’esercito austriaco per entrare a far parte di quello del papa[26]. Un vecchio capitano disse: «je me suis battu en Crimée, en Afrique. J’ai vu le Turcs et les Zouaves d’Afrique, je n’ai point vu se battre mieux que les soldats du Pape»[27]. Un ufficiale dello stato maggiore piemontese, leggendo l’elenco con i nomi dei caduti esclamò «sembra di leggere la lista di un ballo alla corte di Luigi XIV».

La notizia della sconfitta non arrivò inaspettata a Roma dove fu accolta con dolore e sgomento a «causa delle tante iniquità che si commettono da mani scellerate … in manumissione di ogni diritto umano e divino ...»[28]. Soprattutto pesava l’incertezza, sulla sorte di tanti giovani «venuti a sostenere la Santa Causa», che teneva in ansia così tante famiglie dovuta «agli infami che per maggior cordoglio avevano impedito ogni comunicazione epistolare»[29]. Alla richiesta di notizie sui combattenti franco-belgi, che gli era stata rivolta dalla fidanzata francese, Piccoli risponde con un resoconto, lacunoso, del ministero delle Armi: «… sono penetrati in Ancona col Generale Lamorcière … sbucando in mezzo all’armata Piemontese almeno 2000 uomini dei nostri … Ci sono state perdite ma non quante ne conta la propaganda nemica … la maggior parte dei pontifici sono stati fatti prigioni dopo essersi ovviamente battuti». De Pimodan aveva tentato una sortita che si era conclusa con la sua morte. I piemontesi erano risultati «vincitori … non davvero per valore, perché la vittoria era dei pontifici combattendo essi 1 contro 4». La perdita del ‘Bravo Eroico Pimodan’ era stato un duro colpo per quanti ne conoscevano e ammiravano il valore e per il papa addolorato che aveva scritto una lettera di condoglianza alla vedova. Tuttavia qualcuno a Roma riponeva ancora fiducia nel generale Lamorcière per far risorgere la “causa giusta e santa” contro «… questa orribile canaglia ira di Dio e del mondo civilizzato»[30].

A Castelfidardo era stato ferito gravemente anche Joseph Louis Guerin, un giovane volontario che aveva lasciato il seminario di Nantes per accorrere a Roma in difesa della Chiesa. Era giunto da poco e subito era stato inserito tra i franco-belgi con il grado di tenente. Assistito dall’amico Athur Guillemin scrisse alla famiglia «… Da molto tempo ho offerto a Dio e alla Chiesa il sacrificio della mia vita. Invidiate la mia felicità e confortate la mia povera madre. Lunga vita a Pio IX Pontefice e Re»[31].

In seguito una società di rappresentanti della nobiltà, presieduta dal principe Orsini, commissionò allo scultore Pietro Tenerani il monumento per gli eroi di Castelfidardo. I nobili, per la maggior parte, evitavano le cospirazioni e non aderirono alle istanze liberali che soffiavano tra i disprezzati borghesi e, in parte, tra i mercanti di campagna. Ricordando gli eroi di Castelfidardo confermavano la loro fedeltà al papa. Tenerani presentò il bozzetto ma non poté compiere l’opera a causa della salute malferma; il monumento fu eseguito da due suoi allievi e collocato in San Giovanni nella cappella di Santa Severina[32].

Il generale Cialdini, giunto a cose fatte, si era attributo il merito della battaglia vinta dai suoi ufficiali e, nel comunicato inviato a Torino, assegnò a Lamorcière 15.000 uomini, tre volte circa la vera consistenza delle forze pontificie.

L’esercito pontificio era stato sconfitto ma con onore; la sua riorganizzazione si imponeva.

 

 

3. – Un esercito cosmopolita

 

Il generale Lamorcière a Roma aveva trovato l’apparato militare in condizioni a dir poco penose. La sconfitta di Castelfidardo aveva mostrato tutte le deficienze dell’esercito del papa. Le risorse militari e umane ridotte al minimo, le truppe male equipaggiate e pessimamente amministrate. Bisognava correre ai ripari, e in fretta.

Il 1° gennaio 1861 ebbe nascita ufficiale il “Battaglione degli zuavi pontifici” che prendevano il nome dall’uniforme che il loro comandante Becdelievre, al quale era stata affidata l’organizzazione del corpo, aveva voluto per i suoi uomini[33].

I Francesi indossavano pantaloni rossi mentre per gli zuavi papalini fu creata una divisa blu, più adatta al clima romano. Pantaloni alla zuava e un corto giacchino bordato. Tutto piuttosto elegante. Gli zuavi del Papa costituirono il corpo d’élite dell’esercito pontificio, a loro venivano affidate le missioni più rischiose.

L’accorato appello del papa era stato raccolto in quasi tutti i paesi cattolici. Gli zuavi partirono per Roma mossi da spirito di avventura, senso del dovere e dal potente richiamo della fede. Cattolici da tutto il mondo raggiunsero il Vaticano. Le nazioni più rappresentate furono la Francia e il Belgio che diedero vita al battaglione dei Tiragliatori Franco-Belgi[34]. La provenienza dei cacciatori francesi e belgi era piuttosto diversa. I francesi appartenevano per lo più a famiglie dell’aristocrazia, tradizionalista e lealista; di solito erano molto giovani e alle armi per la prima volta. Fra questi vi erano il visconte de Quélen, nipote del vescovo di Parigi i cui antenati erano stati crociati in Terra Santa[35], il conte Gabrielli Wiseman nipote del cardinale Arcivescovo di Westminster con numerosi conti baroni ecc. Si arruolarono anche i due fratelli Dufournel: Adéodat ed Emmanuel, questi morì il 5 novembre del 1867 a Farnese, Adeodat lo seguì pochi giorni dopo[36]. Avevano espresso il desiderio di essere sepolti nel suolo della città santa che erano venuti a difendere. Riposano nel cimitero monumentale del Verano[37].

Anche gli svizzeri furono rappresentati degnamente: un numero consistente aveva lasciato il gruppo svizzero per confluire in quello franco-belga. Il contingente più numeroso arrivò dall’Olanda. Il re Gugliemo III non solo non si era opposto alla partenza dei volontari ma se ne era mostrato, in qualche modo, compiaciuto[38]. Nel 1867 si contavano 1921 olandesi e 1337 francesi. Gli olandesi, erano per lo più soldati semplici, eccellenti. Arrivarono combattenti dall’Italia, dall’Austria, dalla Spagna, dall’America del Sud, dalla Germania, anche dall’Asia e dall’Africa[39]. Gli effettivi del battaglione degli zuavi subirono oscillazioni dettate anche dal contesto politico. Il numero degli uomini aumentava in relazione alle minacce che di volta in volta gravavano sullo stato della Chiesa.

Nel 1861 erano presenti 600 uomini, truppa e ufficiali, che si ridussero a circa 300 nel 1863, anno di relativa tranquillità, per divenire 700 nel 1865 [40]. Agli inizi del 1867 il gruppo dei belgi-olandesi, che avevano costituito una sorta di unione, rappresentava i due terzi del reggimento.

Si videro arrivare 5.000 austriaci e 3.000 svizzeri. Gli Irlandesi erano 1.000 [41]. «Le Canadiens arriverent le clairon en tête, drapeaux aux armes du Pape»[42]. L’appello lanciato dal vescovo di Montreal ai cattolici canadesi, per la difesa del Papa, si era diffuso rapidamente in tutte le parrocchie dell’immenso territorio del Quebec. I volontari accorsero in massa, In poche settimane se ne presentarono più di 400, ne furono scelti 135, alla fine si contavano circa 500 volontari raggruppati in cinque contingenti. Partirono per Roma festeggiati dai concittadini entusiasti: le divise erano state cucite dalle donne che avevano anche confezionato la bandiera[43]. Giunsero anche reclute dagli Stati Uniti e quattro signore americane si recarono in Vaticano per consegnare al Vicario di Cristo uno stendardo di seta che avevano ricamato per il battaglione degli zuavi. Le nobili dame furono onorate da una canzone del padre don Pasquale de Franciscis dei Pii Operai[44].

Anche dall’Inghilterra giunsero dei volontari e cantavano una loro canzone[45]. Combatterono per il papa i fratelli Gorge e Alfred Collingridge, nipoti di un vescovo, provenivano dallo Oxfordshire. Alfred morì nella battaglia di Mentana assistito da Catherine Stone, una coraggiosa signora inglese che si era offerta come infermiera volontaria presso le Suore della Carità. Poiché i garibaldini avevano sottratto allo zuavo il rosario Catherine gli pose il suo tra le mani[46]. George emigrò in Australia dove proseguì la sua professione di scrittore e illustratore.

Negli anni dell’invasione garibaldina di Mentana, quando la questione romana si stava avviando alla sua inevitabile conclusione, gli effettivi risalirono a 1800 nel 1868 per raggiungere il record di 3000 presenze nel 1870.

La ferma era generalmente di un anno, rinnovabile ad ogni scadenza. Gli zuavi avevano anche la facoltà di arruolarsi per sei mesi purché venissero versate 60 lire al fondo di massa per le spese di equipaggiamento. Molti optavano per il semestre giugno-dicembre, periodo durante il quale era più facile venire alle mani con i garibaldini. Dopo la breve ferma le 60 lire erano perse: finiva che molti pagavano per l’onore di servire tra le file degli zuavi. Numerosi fra gli zuavi non ritiravano questo simbolico soldo e molti prima di congedarsi offrirono cospicue somme di denaro all’Obolo di S. Pietro. Il duca di Chevreuse, prima di congedarsi, dopo la vittoriosa campagna di Mentana, donò la considerevole somma di 50.000 lire. Offerte arrivavano dai paesi cattolici e non solo in denaro. La duchessa di Parma donò otto cannoni[47].

Molti, che appartenevano alle classi sociali più alte, o erano di nobili origini, offrirono alla Santa Sede le loro ricchezze insieme ai loro servigi. Il principe Alfonso di Borbone si arruolò come soldato semplice ma fece carriera e divenne caporale e poi tenente. A Porta Pia si fece notare per il suo coraggio[48].

Una delle accuse più frequenti della storiografia risorgimentale era quella di essere ‘mercenari attratti a Roma solo dalla sete di oro’.

Lo zuavo Patrick Keyes O’ Cleary scrive «La paga dei mercenari di Pio IX era di cinquanta centesimi al giorno, una razione di minestra, pane e caffè»[49]. Ma se la paga era modesta in compenso nessuno faceva domande indiscrete: non si chiedeva se c’erano conti in sospeso con la giustizia. Certamente ci saranno stati avventurieri e ribaldi. Un brussellese Charles Lovègne fu arrestato dalla autorità sabaude mentre fuggiva con la cassa della compagnia[50]. Nel 1866 si arruolò l’americano John Surrat con il nome di John Watson. Ma il nuovo zuavo fu riconosciuto da un altro zuavo, il canadese Henry Saint-Marie, che lo denunciò al console americano[51].

John Surrat era stato un agente segreto statunitense e aveva fatto parte della cellula canadese del Servizio Segreto, aveva combattuto nella Guerra Civile dove era stato impiegato come corriere. Era stato accusato di aver partecipato ad un complotto ordito contro Abraham Lincoln. Fuggito si era rifugiato in Europa ed era approdato a Roma dove aveva deciso di partecipare alla difesa della Chiesa e del papa. Era figlio di una fervente cattolica, Mary Surrat Jenkins, a sua volta accusata di aver ospitato e protetto dei cospirati: fu impiccata nel 1865 [52]. Surrat arrestato e riportato in patria fu processato e riconosciuto innocente. Visse gli anni seguenti da libero cittadino.

Anche le signore offrirono la loro opera dedicandosi con generosità alla cura dei feriti. Catherine Marie Stone Biddulph, una coraggiosa signora inglese di famiglia cattolica, dopo la riconquista di Neroli da parte di Charette, aveva ottenuto l’autorizzazione a creare, con l’aiuto della signora Laura Kanzler, un piccolo ospedale da campo. La intrepida signora che, avvolta nel suo mantello bruno, si prendeva cura dei feriti era anche ben conosciuta tra le fila dei garibaldini; aveva ottenuto un lasciapassare da Menotti Garibaldi il quale, in cambio, aveva chiesto cure per i garibaldini prigionieri. A Roma madame Stone, alla quale il colonnello Allet aveva affidato la cura degli zuavi feriti, madame Kanzler, la marchesa de Limminghe, madame Blot e tante altre dame, prestavano la loro opera assidua presso l’ospedale delle Suore della Carità creato da madame de Jurien.

Marie-Antoinette Camille Panon-Desbassyns viscontessa de Jurien de la Gravère (1811-1876) apparteneva ad una famiglia di coloni della Reunion, vedova senza figli disponeva di un’immensa fortuna che aveva consacrato alle buone opere. Aveva sostenuto progetti caritatevoli di Pio IX e fatto una generosa donazione alla chiesa di Santa Chiara per opere di restauro. Dopo aver assistito, con abnegazione, i feriti di Castelfidardo donò un ospedale al battaglione e lo affidò a cinque suore della carità di San Vincenzo de’ Paoli. L’ospedale in seguito fu trasferito a Marino[53].

Anche la moglie del generale Charette si dedicò alla cura dei malati. La sua dedizione le fu fatale. Contrasse il tifo da un giovane morente. La sua morte provocò una emozione intensa tra coloro che la avevano conosciuta, ammirata e apprezzata. Il suo funerale fu un avvenimento di struggente dolore per molti. Fu sepolta a Roma accanto al povero zuavo che aveva assistito negli ultimi momenti[54].

 

 

4. – Il Belgio in soccorso del papa

 

La storia degli zuavi pontifici aveva preso l’avvio in Belgio grazie a monsignor Saverio de Merode che costituì un comitato per l’arruolamento di cui faceva parte il conte Carlo Antonio di Villermont, un oratore, giornalista e storico di origine francese naturalizzato belga. L’appello rivolto al paese fu accolto con entusiasmo. In tanti risposero, nell’animo dei volontari echeggiavano richiami alle Crociate e a Goffredo da Buglione. Fra i volontari belgi vi erano aristocratici: il conte Albert de Modiano, il marchese Zénon de Résimont, il conte de Limminghe, il signore di Maestraeten. Vi erano studenti dell’università cattolica di Lovanio come Jean Mueller e vecchi soldati legionari d’Africa; forse non tutti erano particolarmente devoti come cattolici e convinti della missione, venivano per praticare il mestiere a loro più congeniale. Si arruolarono anche contadini fiamminghi, erano profondamente religiosi ma ignoranti, non parlavano francese né italiano.

Erano giovani, e meno giovani, ma tutti, per lo più, poco esperti di arte militare, ad essi si aggiunsero militari di carriera che avevano abbandonato l’esercito perché avevano sentito il dovere di correre in aiuto per istruire gli inesperti volenterosi. Con monsignor Sacré e monsignor de Woelmont arrivarono a Roma i capitani Guelton e Jacquemin e Georges d’Heliand e il caporale Mercier, e molti altri[55].

Se non tutti erano spinti da spirito religioso: lo erano certamente la gran parte. Fra questi vogliamo ricordare Auguste Misson[56]. Era uno studente brillante dell’università di Lovanio. Giovane, elegante di bell’aspetto era stato dolorosamente colpito dalle notizie che arrivavano dall’Italia e aveva deciso di portare il suo sostegno alla causa del papa. Il giovane, belge de coeur et ardente patriote, dopo aver domandato, e ottenuto, il permesso dei suoi genitori aveva chiesto al re Leopoldo l’autorizzazione a servire sotto un’altra bandiera. La risposta giunse dal ministero della giustizia. Il ministro scrisse che la richiesta non era stata inoltrata al Sovrano il cui nobile cuore non avrebbe potuto impedire ad un giovane di andare a combattere per una causa che riteneva giusta. Tuttavia ricordava che nella seduta della Camera dei Rappresentanti, del 1° febbraio del 1861, il ministro dell’Interno aveva auspicato «Que le gouvernement use d’indulgence envers ceux qui vont servir ailleurs la cause qui répond le mieux à leur convinctions, c’est mon avis …»[57]. Segno che la questione dei volontari in difesa della Santa Sede si era posta all’attenzione delle autorità e che la partenza di cittadini belgi, pur senza essere autorizzata formalmente, sarebbe stata tollerata, forse anche favorita.

I genitori di August non solo permisero al figlio di andare a combattere a Roma ma fecero un donativo in oggetti e gioielli per favorire la sua difesa. Il 16 febbraio Auguste e un altro volontario, Léon Gilbert servirono la messa celebrata da monsignor Sacré, cameriere segreto del papa e cappellano degli Zuavi. Alla messa parteciparono i parenti, gli amici i compagni e altri che aspiravano a far parte del corpo di spedizione. Alla fine il barone D’Eschedé depose ai piedi dell’altare una somma considerevole insieme a numerosi oggetti preziosi da donare al papa per la difesa di Roma. I due moderni crociati si avviarono dopo aver salutato, con qualche rimpianto, parenti e amici verso la loro missione. Prima di partire Auguste si era recato a rendere omaggio alla contessa de Merode la quale, commossa, aveva chiamato il suo bambino per mostrargli quel «… nouveau croisé, un soldat de la foi, un zouave du Pape»[58].

Abbiamo il racconto del viaggio direttamente dalle lettere di Auguste: lettere affettuose, scritte con semplicità e garbo, ricche di annotazioni e notizie e di un pathos sincero, spontaneo dovuto alla curiosità, alla giovane età e all’entusiasmo dell’autore che scopre città, luoghi, situazioni e persone diverse. La pubblicazione delle lettere sul Journal de Bruxelles procurò all’autore «… un tantinet de vanité»[59].

Da Bruxelles partirono otto giovani accompagnati da monsignor Sacré[60]. Fra di loro il conte Alfred de Limminghe e che li infiammò, entusiasmandoli, con il racconto della eroica giornata di Castelfidardo dove si era distinto rimanendo ferito gravemente. Rimesso in salute, dopo un soggiorno in patria, tornava a difendere la Chiesa minacciata.

Parigi, Marsiglia, il Mediterraneo, Civitavecchia e, finalmente, Roma.

Come per molti altri viaggiatori il primo incontro di Auguste con la Ville Éternelle, a lungo immaginata, studiata e sognata, fu alquanto deludente. Una città qualunque, sporca, percorsa da evidente miseria e infestata dalle ricorrenti epidemie. Solo il secondo e poi il terzo e altri sguardi rivelavano un po’ per volta il fascino della città: la maestà del suo passato, lo splendore dei suoi palazzi, delle sue chiese, delle sue fontane. Dopo un primo giro di ricognizione i nuovi arrivati si ritrovarono la sera al caffè frequentato dal battaglione franco-belga[61]. Alloggiati nella caserma di San Giovanni in Laterano, cominciarono subito l’addestramento militare, indossarono la divisa, ricevettero le dotazioni necessarie e dopo pochi giorni furono inviati ad Anagni dove arrivarono marciando sotto una pioggia torrenziale e posero un campo.

Dopo Anagni, Palestrina, dove furono accolti dagli applausi della popolazione e poi di ritorno a Roma, acquartierati presso Santa Maria Maggiore, per celebrare le feste pasquali. La domenica di Pasqua al battaglione toccò l’onore della guardia al Santo Padre. Alla cerimonia erano presenti il re e la regina di Napoli.

Ad Anagni, dove erano tornati per proseguire le esercitazioni, furono raggiunti dalla notizia della morte del conte de Limminghe. Alfred de Limminghe studioso di scienza naturali e botanico conosciuto e apprezzato era autore di diversi libri. Aveva raccolto una ricca biblioteca che si aggiungeva a quella già notevole del padre[62]. Religioso e generoso verso i meno fortunati era membro della Società di San Vincenzo de’ Paoli. A Roma il conte fu molto attivo nella organizzazione del piccolo esercito e nella difesa dalle cosiddette società segrete ‘mazziniane’ che non esitavano ad usare il coltello ed avevano una certa propensione ai gesti eclatanti: un suo compagno era stato ferito, non gravemente. Il conte aveva ricevuto ripetute minacce, delle quali aveva dato notizia al padre. Le sue lettere erano state pubblicate sul Journal de Bruxelles in più articoli; De Limminghe e i suoi amici si erano accordati per non uscire mai per Roma da soli, ma almeno in due, per poter prevenire attacchi o per difendersi. La situazione era divenuta particolarmente pericolosa per il conte che aveva accolto il consiglio dei superiori e si apprestava a tornare in Belgio[63]: non fece in tempo.

La sera del 16 aprile del 1861, alle ventuno e trenta Alfred rientrò all’albergo della Minerva dove risiedeva. Era gravemente ferito da un colpo di pistola. Tornava dalla conclusone del triduo in onore del beato Labré che si era celebrato nella chiesa di Santa Maria ai Monti[64]. Vi si era recato da solo, i suoi compagni erano impiegati altrove: li aveva invitati per un tè nel suo albergo dopo la cerimonia. Il tè divenne una veglia funebre. Morì da buon cristiano, come era sempre vissuto, circondato dagli amici, assistito da monsignor de Merode e da monsignor Sacré. I funerali furono celebrati a Roma con grande partecipazione e commozione generale, e poi in Belgio. La sua morte, data la personalità e la fama del defunto così brutalmente assassinato, destò grande scalpore in Europa. Da parte del partito sospettato di un’azione tanto ignobile, si volle correre ai ripari. Cominciò a circolare la voce che il povero conte si fosse avventurato in quella parte poco conosciuta di Roma, ma nota per la sua pericolosità, per qualche affare non proprio onorevole, forse questioni di donne, e che ne avesse pagato il prezzo[65].

A Roma non si moriva solo di armi da fuoco e di coltello, si moriva soprattutto a causa delle malattie. Alfred de Limminghe pochi giorni prima di essere assassinato era stato a fare visita a monsignor de Woelmont richiamato a Roma da de Merode con l’incarico di cappellano dell’esercito pontificio. Woelmont aveva studiato a Roma dove era stato ordinato prete; successivamente era partito per Costantina per assistere i feriti e i malati nella guerra d’Oriente. Ammalato di scorbuto era tornato in patria. Guarito era ancora in Italia per soccorrere i feriti della guerra tra Francia e Austria. Giunto a Roma si era premurato di visitare i giovani belgi e rassicurare le famiglie sulla salute dei loro figli[66]. De Woelmont, che non aveva mai smesso di assistere malati, si era ammalato gravemente, probabilmente di tifo, tanto da far temere per la sua salute. Per fortuna era di tempra forte e ne venne fuori grazie anche alle cure di una delle madrine che si dedicavano all’assistenza degli zuavi[67].

Non altrettanto fortunato Auguste Misson: morto di tifo. Nulla valsero gli sforzi dei medici, degli amici e l’assistenza della madrina[68] che vegliò fino alla fine sullo sfortunato zuavo che morendo volle dedicare la sua vita a Maria: la Regina degli Zuavi. La morte esemplare del giovanissimo zuavo commosse profondamente non solo i compagni ma la popolazione tutta che seguì i funerali con profonda commozione. Auguste fu sepolto con il conte de Limminghe nella cappella del collegio belga dove entrambi riposano tuttora. Non solo combattenti, una sottoscrizione dei cattolici belgi fornì 5.000 fucili Remington, 1.600 fucili di fanteria, 1.500 carabine di gendarmeria, 80 carabine di lusso per la guardia nobile più 12 che portavano i nomi degli apostoli offerte al papa, più una quantità ingente di munizioni.

Con le armi, arrivarono anche quantità di sigari e tabacco tanto che il tenente Charles Mousty, per impedire ruberie, ritenne necessario mettere il tutto sotto chiave. Allo scopo affittò un locale di due stanze a Borgo Pio dove olandesi e belgi potevano recarsi dalle quattro alle sei per la distribuzione. Il magazzino fu sostituito dal Circolo militare S. Joseph in via di Monserrato 151, poi trasferito nei più ampi locali di palazzo Rondinini. Il circolo era formato da un foumoir, una biblioteca e una sala di lettura dove arrivavano giornali da tutti i paesi. La carità cattolica belga si preoccupava di sostenere i soldati poveri e il Comitée des Ouvres Pontificales, presieduto dal conte de Villermont, dietro richiesta della Madre superiore delle Suore della Carità, si fece carico delle spese dell’ospedale per quanto riguardava i belgi-olandesi che costituivano la maggior parte del battaglione franco-belga[69]. Fra i belgi non possiamo non ricordare il conte Armand de Lawayss, tenente degli zuavi. Era biondo, elegante e bello, Pio IX lo aveva nominato cavaliere d’onore della Regina Maria Sofia[70].

Il papa aveva accolto a Roma gli spodestati sovrani di Napoli. Attorno alla regina, aureolata dalla condizione infelice di sovrana esiliata e dalla fama della sua eroica resistenza in difesa di Gaeta, si era raccolta una corte di devoti, di ammiratori e di corteggiatori. Era una donna giovane, bella, alta e snella, incedeva regale e leggera, sembrava non toccare terra. Era una regina. Visitava gli ospedali, assisteva i malati, traduceva per coloro che non parlavano italiano. Si era guadagnata l’incondizionata devozione degli zuavi che erano stati i primi a rendere omaggio ai sovrani esiliati e che non la scordarono mai. Il giovane tenente belga le era più vicino e sollecito di quanto non fosse il timido consorte regale che amava la moglie ma non l’avvicinava quanto avrebbe dovuto.

Nella primavera del 1862 Maria Sofia lasciò Roma per la Baviera, era incinta e si doveva evitare lo scandalo. In Germania nacquero, in gran segreto, due bambine, Daisy e Viola. Una verrà affidata agli zii von Wallersee. Daisy fu affidata al padre che, ammalato di tisi, aveva lasciato il servizio ed era tornato a Bruxelles. Morirono entrambi a pochi giorni di distanza nel 1870, una data fatidica[71].

 

 

5. – I Soldati della Fede a Roma

 

La sconfitta di Castelfidardo aveva mostrato, impietosamente, le grandi carenze militari e organizzative dell’esercito pontificio e degli zuavi stessi. Alcuni provenivano dagli eserciti dei loro paesi, ed erano buoni soldati, altri erano animati solo da buona volontà, devozione, e spirito di avventura. Bisognava educarli. Le truppe vennero sottoposte a un duro ciclo di esercitazioni sotto la guida dei numerosi militari che avevano dato le dimissioni dai rispettivi eserciti per accorrere ad ampliare, con la loro esperienza, i quadri degli ufficiali pontifici.

Sappiamo dalle lettere di Auguste Misson che alcuni zuavi erano alloggiati nelle caserme presso San Giovanni e Santa Maria Maggiore e nella caserma Serristori, nel rione Borgo, acquistata nel 1821 dalla Camera Apostolica. Dopo il ’70 la Serristori divenne la caserma dei bersaglieri.

Durante le esercitazioni al campo gli zuavi dormivano in tenda, spesso all’aperto, su giacigli di paglia. Le lenzuola erano un lusso, le coperte scarseggiavano. Il cibo era scarso e misero, per lo più. Adempiuti gli obblighi militari gli zuavi si ristoravano per la città che li aveva accolti e li ospitava cordialmente, soprattutto le famiglie della nobiltà che avevano legami antichi e recenti con molte delle famiglie da cui i volontari provenivano. Il comandante, barone de Charette, aveva sposato Antoinette de Fitzjames, sorella della duchessa Salviati. I fratelli de Charette (erano tre e si erano arruolati tutti tra gli zuavi), d’Arcy, de Maistre, Allet, erano ricevuti con ogni cortesia nei saloni della nobiltà, adulati e vezzeggiati. I ricevimenti si alternavano ai balli affollati dalla società cosmopolita che frequentava la corte pontificia, universale. In occasione dell’Epifania a Sant’Andrea della Valle si udirono gli eleganti monsignori Hohenloe, Talbot e De Merode che predicavano in tedesco, inglese e francese. Da tutti i paesi del mondo confluivano a Roma personaggi illustri, studiosi, artisti. Il principe Borghese aprì al pubblico la sua villa. Il magnifico parco era rimasto chiuso dal 1849 al 1860: una protesta contro le devastazioni compiute al tempo della Repubblica romana.

Gli zuavi, di famiglia nobile, erano sempre invitati nelle più prestigiose case romane. Nel 1866 ebbero luogo due memorabili balli in costume nei palazzi Borghese e Salviati. Alcuni dei partecipanti indossavano gli abiti fastosi dei loro antenati. La presenza di tanti giovani dai nomi importati e dalle fortune spesso altrettanto importanti, aggiungeva smalto alla società che animava la mondanità romana. Dalle documentazioni dei banchieri Spada, Flamigni, Kolb ecc., si vede che molti degli zuavi erano accreditati a Roma dalle rispettive famiglie anche per somme talvolta assai rilevanti.

Gli ufficiali si incontravano nel circolo S. Joseph, si intrattenevano nei caffè e avevano adottato dei cani, il più famoso aveva nome Garibaldi: «il vaut mieux que son nom, il est intelligente et loyal»[72].

La banda degli zuavi, che si esibiva al Pincio la domenica, rallegrava i romani. Nella città si fece strada anche una diffusa fede nella presenza salvifica dagli Zuavi. Luigi Guerin, il giovane seminarista morto eroicamente in difesa della Chiesa, veniva ricordato e celebrato quasi come un santo: divenne un simbolo degli zuavi a Roma. Alla sua apparizione, in divisa di zuavo, si attribuì il merito della guarigione di una giovane romana moribonda, Nannina, quasi resuscitata alla vista miracolosa[73]. Roma stessa e i piccoli paesi dell’Agro Romano beneficiarono considerevolmente della presenza degli zuavi e non solo dal punto di vista economico. Quando non erano impegnati nelle campagne militari gli zuavi risiedevano nelle guarnigioni di Tivoli, Montefiascone, Anagni, Velletri, Viterbo, Monterotondo.

Nel 1867 il colera, proveniente dal regno di Napoli, si abbatté sul Lazio, su Albano soprattutto. Il colera colpiva tutti: non aveva riguardo né per i nobili né per i sovrani, la famiglia dei Borbone fu decimata. Quando una compagnia di zuavi, proveniente da Velletri, raggiunse il paese, trovò una situazione drammatica. I cadaveri erano abbandonati, non c’era chi fosse disposto a seppellire i morti. Tutti erano fuggiti. Solo i preti e le monache si prestavano ad assistere i malati. Il tenente de Resimont chiese ai suoi soldati chi si offriva per seppellire i morti e soccorrere i sofferenti. Erano quarantadue: si offrirono tutti. Finita l’epidemia gli zuavi morti erano sei. A Frascati, il loro principale punto di appoggio, costituirono la Società di San Vincenzo de’ Paoli, in undici mesi donarono novecento scudi ai poveri[74].

Gli zuavi pontifici furono impegnati anche nella repressione del brigantaggio che infestava le campagne romane. Erano ben allenati dalle continue scaramucce con le bande di garibaldini che premevano alle frontiere. Vennero impiegati, come rinforzo delle milizie pontificie, loro malgrado. Erano venuti a Roma per difendere la Chiesa e non per dare la caccia ai banditi. Con la fine del regno di Napoli e la caduta di Gaeta le forze regie disperse erano presto degenerate in bande brigantesche. Le idee di restaurazione legittimista non erano durate a lungo, le bande avevano preso ad agire per proprio conto: i loro capi si improvvisavano generali, colonnelli, luogotenenti. Si sparsero nel Regno, negli Abruzzi e nel Lazio. Assaltavano comuni, fattorie, sequestravano persone, taglieggiavano, uccidevano. Per debolezza, o per malaccorto opportunismo a sostegno della causa borbonica, il governo pontificio non sembrava in grado di contenere con sufficiente fermezza i movimenti di brigantaggio che si infiltravano dalla frontiera napoletana. Lo stato concentrava entro i suoi confini le azioni per reprimere e contenere un fenomeno che trovava fondamento nella miseria e nel disordine generali.

Gli anni dal 1864 al 1867 furono relativamente tranquilli. Anche i più facinorosi sembravano quietati, grazie anche al dimezzamento degli studenti della Sapienza, fra i più attivi nelle manifestazioni patriottiche. Nel dicembre del 1865 i francesi cominciarono a lasciare Roma; nello stesso anno monsignor de Merode era stato costretto a dimettersi dalla sua carica: gli veniva imputato il mancato allargamento dell’armata pontificia. In realtà pesava soprattutto l’ostilità. mai sopita, del cardinale Antonelli, l’abitudine di monsignore di immischiarsi su questioni che non gli competevano e l’insopprimibile vezzo di pronunciare giudizi e battute ironiche senza troppo badare alla opportunità delle sue parole. Aveva pesato anche, e non poco, un scontro vivace con il generale Kanzler. L’ultimo atto pubblico di monsignor de Merode furono le esequie per il generale Lamorcière. Il generale era morto nel suo castello nei pressi di Amiens dove era tornato a vivere dopo aver lasciato Roma in seguito alla sconfitta di Castelfidardo. Monsignore convocò l’esercito alla solenne cerimonia che celebrò in onore del defunto. Nel 1866 fu nominato arcivescovo e si dedicò ad una proficua attività immobiliare: ebbe una parte decisiva nel modificare la struttura urbanistica di Roma. Si dedicò assiduamente alle opere di carità e alla educazione dei giovani, nonché alle indagini archeologiche insieme all’amico fraterno Giovan Battista de’ Rossi.

 

 

6. – L’inizio della fine

 

Hermann Kanzler[75] divenne il nuovo Ministro delle Armi. L’esercito fu ricostituito e portato a oltre dodicimila uomini. Il battaglione degli zuavi divenne un reggimento di circa tremila uomini divisi in cinque battaglioni, al suo comando fu posto il colonnello Eugen Allet[76], vicecomandante era Charette, promosso tenente colonnello.

Intanto i movimenti insurrezionali riprendevano: la questione romana era sempre aperta. Nel 1867 si sviluppò un movimento nel territorio pontificio abilmente orchestrato dall’esterno.

Garibaldi, che non aveva mai abbandonato l’idea di conquistare Roma, riuscì a partire da Caprera. Fuggì avventurosamente e ricomparve in Toscana dove prese ad arruolare volontari. In Umbria, a Terni, fu stabilito una sorta di quartiere generale dell’insurrezione. Con sempre maggior frequenza gruppi di garibaldini penetravano nello stato pontificio e venivano ricacciati indietro. Gli zuavi di François de Jacquemont e Olivier de la Gonidec contenevano le sortite su Canino, Bolsena e Ischia di Castro nella lampante indifferenza delle popolazioni. I Garibaldini, che si aspettavano accoglienze festose e partecipazione popolare, erano alquanto stupiti. Un gruppo di garibaldini raccolto a Bagnorea (oggi Civita di Bagnoregio) fu fronteggiato e respinto, con molte perdite, dagli zuavi comandati dal conte de Jacquemont.

Gli sconfinamenti delle bande insurrezionali continuavano. L’8 ottobre gli insorti guidati da Menotti Garibaldi si scontrarono a Montelibretti con gli zuavi comandati da de Charette. A dargli manforte sopraggiunse la compagnia del tenente Guillemin che aveva un conto da saldare dopo Castelfidardo dove aveva subito una brutta ferita e perso l’amico fraterno Luigi Guerin. Il tenente era particolarmente amato dai suoi soldati che lo chiamavano l’ange gardien per la sollecitudine e la cortesia che adoperava nei loro confronti. Insieme a lui combatteva il visconte Urbain de Quélen. Lo scontro fu duro con numerose perdite da ambo le parti. Gli invasori vennero respinti e ripiegarono su Nerola.

Anche a Roma la situazione si stava complicando. Il 22 ottobre due cospiratori posero una mina in una cantina della caserma Serristori. L’esplosione fu rumorosa e dannosa: morirono 23 zuavi, fra cui nove membri della banda musicale. Morirono anche un passante con la figlia di sei anni.

Il giorno dopo a villa Glori la squadra di Enrico e Giovanni Cairoli fu annientata. La sconfitta non spense i tentativi di guerriglia e i complotti. Una fonte anonima avvisò che nel lanificio di Giulio Aiani era riunito un gruppo di rivoluzionari per preparare una sommossa. Gli zuavi furono incaricati della perquisizione, vennero accolti da una bomba ‘all’Orsini’ e dai colpi sparati dalle finestre, risposero scatenando il fuoco: tra i morti rimase anche Giuditta Tafani Arcuati. Una crudele risposta per l’attentato alla caserma Serristori in una Roma incattivita dalla guerriglia.

Il 24 Novembre del 1867 Garibaldi decise di attaccare il presidio di Monterotondo, aveva concentrato le sue forze e si preparava a marciare su Roma che preparava le sue difese. La vicinanza del generale ai confini e i continui sconfinamenti provocarono la reazione della Francia che inviò un esercito in aiuto del papa. Non si poteva marciare su Roma: Garibaldi decise di puntare su Tivoli con il progetto di provocare una insurrezione. Nella campagna tra Monterotondo e Mentana i due schieramenti scontrarono. L’esercito garibaldino era decimato dalle diserzioni, e indebolito dall’indisciplina della ‘parte canagliesca delle squadre’[77] mentre i soldati pontifici si mantennero fedeli e ordinati.

La battaglia, lunga e sanguinosa, fu vinta dai soldati del papa: il fulcro dello schieramento era costituito da 1500 zuavi al comando del tenente colonnello de Charette, dal colonnello d’Argy, con i suoi legionari, del capitano Olivier le Gonidec del capitano Oscar Lallemand, fra i soldati c’era anche il conte lucchese Carlo Bernardini, un poliglotta umanista e matematico[78].

Molti zuavi sfoggiarono i cappelli dei garibaldini catturati; i tanti prigionieri feriti, portati a Roma, furono curati doverosamente; quasi tutti i medici della città prestarono la loro opera, la infaticabile Katherine Stone non fu da meno. Anche la regina di Napoli si recava a visitare i feriti: nelle tasche del bianco grembiule portava sigari e dolci che distribuiva generosamente. Il papa venne a salutare e benedire i malati. Nella assistenza ai garibaldini si distinse in modo particolare don Giovanni Biffani, figlio del cameriere di Pio IX che si dedicò all’opera con un ardore che, sembra non gli fu perdonato. Non fece una carriera brillante, Morì a quarantasette anni cappellano del collegio militare di Roma.

Garibaldi si ritirò a Passo Corese da dove prese la strada per Firenze, in treno: a Figline fu arrestato e rispedito a Caprera. A Mentana, a dar sostegno al Comandante, era giunta anche Helena Blawatsky. Un interessante personaggio: una donna che aveva scelto la libertà, di una sensibilità singolare, acuta e impressionante. Di origine russa, aveva viaggiato in Egitto e India e si era dedicata allo studio e alla diffusione della teosofia. Era in contatto con Garibaldi, al quale fu legata da solida amicizia, ed anche con Mazzini, entrambi interessati all’essoterismo, allo studio dei fenomeni psichici e allo spiritismo. Durante la battaglia fu ferita e, creduta morta, fu gettata fra i cadaveri. Racconta lei stessa che venne salvata da alcuni maestri[79]. Qualche anno dopo fondò la Società Teosofica che raccolse numerosi adepti.

La vittoria di Mentana aveva allontanato, per il momento, lo spettro dell’invasione. Roma continuava la sua vita religiosa e mondana; processioni e celebrazioni liturgiche si alternavano. I balli si succedevano ai ricevimenti e alle fastose nozze di alcuni rampolli della nobiltà. La società brillante era illuminata dai numerosi ospiti che giungevano da tutta Europa. Partito Gounod era tornato Listz. La regina Olga di Wuttemberg, che teneva corte all’albergo Costanzi, fu seguita dal principe Guglielmo di Baden. In occasione del battesimo della sospirata figlia dei sovrani napoletani giunse anche l’Imperatrice d’Austria. Elisabetta veniva in visita dalla sorella, Maria Sofia, finalmente divenuta madre.

Ibsen, che a Roma scrisse i suoi drammi più famosi, ricorda con rimpianto la Roma pontificia, la città universale, la sola città sacra d’Europa, l’unica che godeva di vera libertà. Libertà dalla tirannia della politica, «così alla fine hanno tolto Roma a noi esseri umani per darla ai politici»[80]. A Roma Lord Acton aveva scritto alcuni dei suoi studi maggiori[81]. Gregorovius si preparava a lasciare la ‘città universale’ dove era vissuto per circa venti anni. La capitale di un piccolo stato europeo non lo interessava più.

L’apertura del Concilio Ecumenico, l’8 dicembre 1869, richiamò a Roma una folla di prelati, inviati da ogni paese del mondo e visitatori. Pio IX celebrò il cinquantesimo anniversario del sacerdozio circondato dall’affetto dei sudditi.

La sconfitta di Sedan non segnò solo il crollo del Secondo Impero napoleonico, annunciò anche la fine dello stato del Papa. La Santa Sede non aveva più difensori. L’esercito francese era partito insieme a molti zuavi che erano corsi in aiuto della patria in pericolo. «Le curé d’Arras disait que parmi le soldats de la France qui la servaient le plus efficacement étaient les soldats de Rome»[82].

L’esercito pontificio poteva opporre solo una modesta resistenza. I suoi 13.000 uomini rappresentavano un quarto delle forze del generale Cadorna. L’invito del re d’Italia a risolvere la questione in via diplomatica fu respinto con fermezza. Lo Stato pontificio si preparava alla difesa, una difesa formale. Pio IX voleva dimostrare al mondo intero che Roma era assediata e sarebbe stata conquistata con le armi. Le truppe pontificie furono dislocate intorno alla città. Gli zuavi del tenente colonnello Charette furono posti a protezione di Viterbo.

Mano a mano che gli italiani avanzavano i vari reggimenti rientravano a Roma. Gli invasori erano alle porte, i difensori dislocati nei vari punti strategici: i romani stavano a guardare. Più incuriositi che spaventati dalla rappresentazione di una guerra tra un esercito al quale era stata ordinata una resistenza formale, contro l’orologio della storia, e un esercito, quattro volte più numeroso, che doveva conquistare la città ‘santa’ senza danneggiare una chiesa o colpire un cardinale.

Gli zuavi di Allet presidiavano praticamene il centro della città: San Francesco a Ripa, il palazzo Salviati, il Sant’Uffizio, il Vaticano, la Chiesa Nuova, la caserma Sora, Sant’Agostino, Santa Marta. Gli zuavi di Fabry presidiavano i Tre Archi e respinsero un attacco nemico. La Legione d’Antibes[83], guidata dal colonnello Charles d’Argy, presidiava piazza Colonna, Monte Cavallo, il Campo Pretorio, piazza del popolo e il Pincio. La Legione, anche Legione di Antibo o Legione Romana, meriterebbe un discorso a parte. Era stata voluta dal Cardinale Antonelli con la collaborazione della Francia per rimpiazzare, se possibile, le truppe francesi che lasciavano Roma. Era composta soprattutto da militari dell’esercito francese, contava 1410 uomini tutti volontari. Erano dotati di fucili Chassepot[84]. Il conte Charles d’Argy[85] era un colonnello dell’esercito francese che aveva accattato l’incarico del ministro francese della guerra di comandare la Legione. La Francia aveva autorizzato alcuni militari ad arruolarsi nella Legione romana che aveva attratto anche cittadini di altri paesi richiamati, forse, dal desiderio di avventura o dalla necessità di sfuggire alle armi patrie che li rivolevano indietro. Il governo della Baviera chiese il rimpatrio del disertore Joseph Ragengast che si era arruolato con il falso nome di Jean de Barth[86]. Il governo belga invece chiese notizie di un altro personaggio, piuttosto interessante: Antoine Vestraecken. La famiglia non aveva da tempo sue notizie: il belga con il nome di Leopold V. si era arruolato nella Legione straniera dalla quale aveva disertato, per arruolarsi nel 1865 nella legione d’Antibes, era poi ritornato a far parte della Legione straniera[87].

Il 10 settembre Pio IX fece la sua ultima uscita da sovrano di Roma, si inaugurava l’acquedotto dell’Acqua Marcia. Un mazziniano, il conte Ugolini di Perugia, aveva pensato bene di attentare alla vita del pontefice con delle bombe. Il progetto, abbastanza sconclusionato, fu sventato dalla gendarmeria. Il 19 dicembre il papa uscì per l’ultima volta dal Vaticano. Si recò alla Scala Santa. Sulla spianata di San Giovanni erano accampati gli zuavi con l’unica mitragliatrice in dotazione all’esercito pontificio. Il colonnello Charette invocò la benedizione del papa, i soldati presentarono le armi al grido di “Viva Pio IX” “Viva il Papa Re”.

L’atmosfera si faceva sempre più pesante. L’ansia e lo sgomento pervadevano i difensori di Roma mentre il papa proseguiva, tranquillo, nell’adempimento dei suoi compiti. Si mostrava sicuro per le strade della sua città: inaugurò l’acquedotto dell’Acqua Marcia e offrì un Triduo alla Vergine. Dal papa giungevano la benedizione e i ringraziamenti per i combattenti insieme all’ordine di non opporsi con le armi al sacrilegio. La resistenza doveva solo manifestare la protesta contro la violenza, ma non si dica mai «che il vicario di Gesù Cristo abbia acconsentito ad alcun spargimento di sangue». A malincuore Kanzler, che preparava una sortita, senza farsi illusioni, solo per dimostrare la fedeltà ad una causa nobile e perduta, si preparò ad obbedire.

In soccorso della Chiesa minacciata era tornato a Roma, dove aveva già combattuto con gli zuavi, Patrick Keyes O’Clery. Il conte irlandese si trovava a caccia nel Texas con aristocratico inglese, Keryon di Gillingham, e l’americano Steve Tracy quando li raggiunse la notizia della fine imminente. I tre non persero tempo e si precipitarono in soccorso del papa. Riuscirono a superare le linee nemiche il 19 settembre 1870 [88].

Alle 7 di mattina del 20 settembre il papa celebrava la messa, erano presenti tutti i diplomatici invitati a riparare in Vaticano dove erano stati ricevuti con tutti gli onori secondo il cerimoniale. Pio IX non sembrava troppo turbato dai cannoneggiamenti che da più di un’ora martellavano Porta Pia e Porta San Giovanni. Finita la messa accolse l’omaggio dei rappresentanti del corpo diplomatico guidati dall’ambasciatore di Prussia conte Armin. Il conte, sebbene, protestante, si fece portavoce dei presenti che si dichiararono pronti a difendere il Santo Padre con le loro persone. Pio IX ringraziò, benedisse tutti e ordinò di alzare la bandiera bianca.

L’ordine di cessare il fuoco, recato da un dragone, veniva direttamente dal papa. Gli zuavi lo subirono come un’offesa al loro valore e tentarono di opporsi, il maggiore de Troussures si rifiutava di deporre le armi: ma Charette, era sì un soldato ma anche un fervente cattolico, dichiarò: non si discute un ordine del Santo Padre.

Bixio, che in seguito disse di non aver visto la bandiera, continuò a sparare all’impazzata con evidente pericolo per il Vaticano e per San Pietro. Fu fermato solo da un ordine del comandante della zona.

Il 21 settembre del 1870 il reggimento degli zuavi si trovò riunito per l’ultima volta in piazza San Pietro: nei suoi ranghi si contavano 1.172 olandesi, 760 francesi, 563 belgi, 279 canadesi-inglesi-irlandesi, 242 italiani, 86 prussiani, 37 spagnoli, 19 svizzeri, 15 austriaci, 13 bavaresi, 7 russi e polacchi, 5 del Baden, 5 degli Stati uniti, 4 portoghesi, 3 essiani, 3 sassoni, 3 wuttemburghesi, 2 brasiliani, 2 equadoregni, 1 peruviano, 1 greco, 1 monegasco, 1 cileno, 1 ottomano e 1 cinese. Dei 170 ufficiali franco-belgi, con 7 olandesi, più della metà, (95) erano nobili.

Il Papa impartì loro l’ultima benedizione e poi la finestra si richiuse. Un’ora dopo l’esercitò pontificio sfilò davanti alle truppe italiane che presentarono le armi. Charette marciava alla testa del suo bel reggimento, subito dopo la Legione Romana guidata da d’Argy. Agli zuavi fu consentito di tornare ai loro paesi. Un treno condusse molti di loro a Civitavecchia dove furono pronunciati commossi addii. Altri rientrarono per altre vie, non sempre facili.

Il ritorno nei rispettivi paesi fu mesto, talvolta penoso, ma non disperato. Oltre al tributo di vita gli zuavi pagarono un ulteriore prezzo per aver voluto difendere la causa della Chiesa. La Francia, nel 1861, con decreto imperiale aveva dichiarato che gli zuavi pontifici decadevano dalla qualità di Francesi[89]. Quando Napoleone III pensò di onorare il comandante Charette della Legion d’Onore decise di farlo a titolo di “straniero” perché aveva prestato servizio fuori della Francia. Il barone, sdegnato, rifiutò ‘l’onore’: «Je suis français. Je ne puis accepter d’être traité en étranger… Français je suis et Français je reste»[90].

I volontari del papa erano sconfitti ma non vinti, avevano combattuto per una causa giusta e ne erano fieri. Tornati in patria i civili tornarono alla loro vita, i militari, con qualche esitazione più formale che sostanziale, furono reinseriti nei loro ranghi, i nobili e i borghesi, ripresero le loro vite e le loro attività senza perdere la memoria dell’epopea romana.

Nei Paesi Bassi esiste tuttora una squadra di calcio chiamata Zouaven, che esibisce lo stemma con le chiavi incrociate, e a Oudenborsch, nella provincia del Brabante settentrionale esiste un piccolo museo dedicato agli zuavi olandesi: la Stichting Nederlands Zouavenmuseum.

Gli zuavi francesi si ritrovavano nella Basse Motte nei pressi di Saint Malò, dove è situato il castello della famiglia Charette. La cappella del Sacré Coeur fu dedicata alla confraternita degli zuavi. In Belgio nacquero diverse associazioni di zuavi, alcune sono tutt’ora operanti nella vita religiosa dei loro paesi. Per ricordare le loro impresa nacque L’Avant Garde, una rivista dedicata agli zuavi. Anche il Canada ha mantenuto vivo a lungo il ricordo della epopea. I fratelli Pierre e Albert Dorval hanno raccolto una nutrita collezione di oggetti legati agli zuavi e alla loro impresa per tramandarne e onorarne la memoria.

Alcuni reduci della gloriosa missione intrapresero percorsi individuali. Henry Wyart[91], che aveva servito sotto il generale Lamorcière ed era stato ferito a Castelfidardo, nel 1872 entrò nel monastero di Mont de Cats con il nome di frère Sébastien. Divenne superiore generale dei Trappisti.

Arthur Hodister[92] iniziò una vita di viaggi e ardite esplorazioni insieme ad un proficuo commercio di avorio. Collaborò ad alcuni giornali. Era membro della Société Antiesclavagiste de Belgique. Ufficiale dell’esercito belga mori in Congo con i suoi compagni. Sembra che Conrad si sia ispirato a lui per il personaggio di Kurz di Cuore di Tenebra. Il sergente V. Roux parti per la Cina come missionario «en priant les vieux camarades du régiment de souvenirs un peu de moi»[93].

Non possiamo non notare che, invece, la città e l’istituzione per la quale in tanti si sono adoperati, anche a costo della vita, ha preferito relegare nel silenzio e nell’oblio una testimonianza preziosa di fede e di devozione.

 

 

Abstract

 

Xavier de Merode, the new war ministry named by pope Pius IX, called all the Christianity to defend the pope’s state against the ‘Italians’. De Merode, before to be priest, had been an hero in the Crimean War and had gained the Légion d’honneur. The first to answer to the call was another hero of the war, and a Légion d’honneur, the count general Christophe de Lasmorcière who said “when the father calls the son goes”.

European nobility: the counts of Rohan, the dukes de la Rochefoucold, the count de Pmodan, the prince de Bourbon etc., responded to the call, and people and students and scholars.

As first arrived in Rome French and Belgian voluntaries, they formed the company of the Tirailleurs franco-belge, in command was the baron Athanase de la Charette “the Costantina Hero” and after the count Louis Becdelievre, another hero of the Crimea War and a Légion d’honneur. From Ireland arrived the battalion of the Crusaders of San Patrick. Arrived even the Crusaders of Jacques Catholinieu. A very consistent group arrived from Holland, with the permission of the King. Almost all Catholic countries were represented, included US and Canada.

The Zouavi were generous brave and behave with great courage, many of them died in battle. But the story was not at their side, and they knew. They fought for the pope and the Church: a noble lost cause.

 

 



 

Per la pubblicazione degli articoli della sezione “Contributi” si è applicato, in maniera rigorosa, il procedimento di peer review. Ogni articolo è stato valutato positivamente da due referees, che hanno operato con il sistema del double-blind.

 

*Con questo articolo, pubblicato in parte negli studi in onore di Maria Sofia Carciulo, ho voluto onorare la memoria della mia bisnonna Elisa de Guerra, nata baronessa de Jamblinne, che si adoperò come madrina per assistere i volontari venuti dal Belgio, e ricordare quanti hanno vissuto quegli anni con dolore e rassegnazione.

[1] Il corpo degli zuavi era stato costituito nel 1830 e posto sotto la guida del generale Bertrand Clausel. Fu poi incorporato nella guardia imperiale da Napoleone III. Il nome derivava dal costume che i francesi avevano preso da una tribù algerina: gli Zwàwà. Costituiva un corpo di elite che si distinse particolarmente durante la guerra di Crimea.

[2] Sempre importante per il periodo, Raffaele de Cesare, Roma e lo stato del papa: Dal ritorno di Pio IX al XX settembre. 1850-1870, Milano 1970 (1907). Patrick Keyes O’ Clery, Risorgimento in controluce. La questione italiana vista da uno zuavo di Pio IX, a cura di G. De Cesare, Roma 1965; J. Guenel, La dernière guerre du pape: Les Zouaves Pontificaux au secours de la Saint Siège. 1860-1870 [Collection Histoire], Rennes 1998. Per la storia degli zuavi interessante anche, Alfio Caruso, Con L’Italia mai. La storia mai raccontata dei Mille del Papa, Milano 2015. Un progetto di ricerca che riguarda anche gli zuavi è stato lanciato da G. Pecout, Resaeaux politiques internationaux: le volontariat international en Méditerranée au XIXe siècle, http/www.ihmc.ens.fr/volont.html .

[3] Teresa di Lisieux, Storia di un’anima, Palermo 1996; lettera a Suor Maria del Sacro Cuore, 216.

[4] Francesco. Guicciardini, Storia d’Italia, II, Torino 1971, 872. Sulla dibattuta e non irrilevante questione della politica militare dello stato pontificio si veda P. Prodi, Il sovrano pontefice. Un corpo e due anime: la monarchia papale in età moderna, Bologna 1982, in particolare 111 e ss. Sebbene riferiti ad epoche diverse interessanti anche G. Brunelli, Presenza dei militari a Roma tra Cinque e Seicento, in Popolazione e società a Roma dal medioevo all’età contemporanea, Roma 1998, 359-371; Soldati del papa. Politica militare e nobiltà nello Stato della Chiesa (1560-1644), Roma 2003: I commissari generali dell’esercito pontificio tra Cinquecento e Seicento, in Dimensioni e problemi della ricerca storica 2, 2004, 176-206; Al vertice dell’istituzione militare pontificia. Il generale di Santa Chiesa (sec. XVI-XVII), in Offices et Papauté (XIVe-XVIIe siècle). Charges, Hommes, Destins, edd. A. Jamme-O. Poncet, Roma 2005, 483-499.

[5] Su Antonelli e sul mondo ecclesiastico, De Cesare, Roma e, cit., V. Sulla “questione’ di particolare interesse, Odo William L. Russel, The ‘roman questionextracts from the dispatches of O. Russell from Rome, 1858-1870, (London 1962), rist. Walmington 1980. Odo Russel era stato incaricato di affari della legazione inglese a Roma.

[6] Federico Francesco Saverio de Mérode (1820-1874) figlio del conte Felix de Mérode aveva studiato presso i gesuiti per entrare poi nell’Accademia militare di Bruxelles. Su de Merode si veda Francis Wey, Rome, Description et souvenir, Paris 1873. In particolare 312 e ss. Sull’influenza dell’educazione dei gesuiti nella società belga si veda, Xavier Dusausoit, Les jésuites dans la ville: les colléges jésuites dans la société belge du XIX s. (1831-1914), Bruxelles 2011.

[7] Eduard Antoine Emanuel Ghislaine de Woelmont (1824-1870). Di una nobile famiglia belga risiedeva a Roma presso il collegio dei nobili. Compagno di studi di de Merode seguì il corso di teologia presso il Collegio romano. Nel 1849 tornò in Belgio. Ancora a Roma nel 1855 dove de Merode era diventato cameriere segreto del papa. In seguito partì per Costantinopoli per assistere i malati e i feriti nella guerra d’Oriente, prestò la sua opera al reggimento degli zuavi francesi. Ancora in Italia nel 1859 si dedicò alla assistenza dei feriti della guerra tra Francia e Austria. Tornato in Belgio divenne canonico di Namour finché de Merode non lo richiamò a Roma come cappellano dell’esercito pontificio.

[8] Ferdinand Lefebvre, Vie de Monsigneur Edouard Antoine Ghislaine baron de Woelmont d’Hambraise, Namour 1874, 44.

[9] Di qualche interesse, per definire il carattere del personaggio, Tre avventure di monsignor Saverio De Merode, ex ministro delle armi pontificie raccontate da lui medesimo alla marchesa C… e riferite da un testimonio auricolare, Milano 1868 (?).

[10] Christophe Louis Léon Juchault de la Morcière (1806-1865), nel 1830 era capitano degli zuavi francesi. Nominato colonnello nel 1837 divenne generale di divisione nel 1843. Nel 1848 divenne ministro della guerra ma nel 1851 fu arrestato in quanto oppositore del colpo di stato di Luigi Napoleone Bonaparte.

[11] Archivio Segreto Vaticano (da ora in poi ASV), Arch. Part. di Pio IX, Sovrani e Particolari, 1859, n. 82, 8. Il Principe Nugent offre i suoi servizi militari al santo padre. Probabilmente si riferisce al conte Laval Nugent (1777-1862), ufficiale austriaco che servì al servizio del re di Napoli per poi tornare nei ranghi dell’esercito austriaco. Pio VII gli conferì il titolo di principe.

[12] ASV, Arch. Part. Di Pio IX, Sovrani e Particolari, 1860 n. 147.

[13] ASV, Arch. Part. di Pio IX, Sovrani e Particolari, 1860, n. 403, e 419.

[14] Athanase-Charles-Maire de Charrette de la Contrie (1832-1911), di una famiglia nobile profondamente cattolica annoverava tra i suoi antenati un eroe vandeano, Dopo varie esperienze militari si mise al servizio di Pio IX.

[15] Enrico Piccoli (1819-1871), è il bisnonno di chi scrive (ndr). Era sottocopista alla Segreteria di Stato e del 1850 esattore della Camera Apostolica. Lettera a Josephine Noël del 4, settembre 1860, Archivio di Famiglia (AdF) Piccoli 1, fsc. Lettere di E. Piccoli a Josephine Noël.

[16] Myles William Patrick O’ Reilly (1825-1880), giornalista e scrittore. Tornato in patria rappresentò la sua contea nel parlamento inglese dove si impegnò nella promozione e difesa del cattolicesimo in Irlanda. Nel 1868 pubblicò Memorials of those who suffered for the catholic faith in Ireland in the 16th, 17th and 18th centuries, London 1880.

[17] Patrick Keyes O’ Clery (1849-1913), Come fu fatta l’Italia, Roma 1892, 449 e ss.

[18] Louis Aimé de Becdelievre (1826-1871), Souvenirs de l’armée pontifical, Paris 1868, alle pp. 3-4 si legge «… en 1856 à la fin de la campagne de Crimée, j’étais capitain et chevalier de la Légion d’Honnoeur. En 1858, je donnai ma demission après mon marriage… Je vivais à la campagne, déplorant les événements dont le sain-père venait d’étre victime, lorsqu’jour je reçus une lettre de mon beau-frère, capitain de la marine française … Je sors de chez madame de Lamorcière; le général a besoin d’officiers, et elle m’a prié de vous écrire pour vous demander si vous consentiriez à vous jondre à lui et à partager de ses fatigues ...». Immediatamente il conte scrisse alla signora per offrire i suoi servizi alla Chiesa minacciata.

[19] Jacques Catholineau (1759-1793), profondamente religioso e saldo nella fede cattolica divenne un generale della guerra di Vandea. Combatté contro la Rivoluzione e si guadagnò il titolo di ‘Santo d’Anjou’.

[20] Luigi Masi (1814-1872) poeta estemporaneo e scrittore collaborò con il principe di Canino, Luigi Bonaparte. Convinto sostenitore della politica liberale di Pio IX divenne capitano dell’esercito pontificio. Aderì alla Repubblica romana che difese strenuamente fino alla fine. Sembra che anche sua madre, Colomba Antonietti, sia morta in difesa della Repubblica. Costretto all’esilio si rifugiò in Francia e poi raggiunse il Piemonte dove gli fu affidato un corpo di volontari.

[21] O’ Clery, Risorgimento in controluce, cit., 165.

[22] L. Defives de Saint Martin, Pro Petri sede ou nos zouaves belges à Rome, histoire documenté…, Mechliniae (s. n.) 1899-1914, vol I, 153.

[23] E. Piccoli, Lettera a Josephine Noël del 18 settembre 1860 (AdF, Piccoli 1).

[24] Georges de la Vallée de Rarecourt marchese de Pimodan (1822-1860), generale di brigata era entrato da poco a far parte dell’esercito pontificio.

[25] Emma de Couronel era figlia del duca di Montmercy-Laval, donna d’une beauté remarquable, era vedova a ventisei anni con due figli.

[26] De Cesare, Roma e, cit., 433.

[27] Julien Allard, abbé, Les Zouaves pontificaux ou Journal de Mgr. Daniel, aumônier des Zouaves. Camérier secret de S.S. Pie IX et de S.S. Léon XIII, Nantes 1880, 356; In appendice l’elenco completo degli zuavi morti al servizio del Papa.

[28] E. Piccoli a J. Noël, 29 settembre, 60 (AdF, Piccoli 1, fasc. Lettere di E. Piccoli).

[29] Ib. passim; e lettera del 2 ottobre 60 (AdF, Piccoli 1, fasc. Lettere di E. Piccoli).

[30] E. Piccoli, Lettera del 13 ott. 60 (AdF, Piccoli 1, fasc. Lettere di E. Piccoli).

[31] Julien Allard sac., Giuseppe Luigi Guerin, volontario del corpo degli zuavi pontifici franco-belgi, Firenze 1864.

[32] De Cesare, Roma e, cit., 196-197. Pietro Tenerani (Carrara 1789-Roma 1869), era parte della popolosa società artistica internazionale di Roma, era entrato nello studio di Albert Thorvaldsen per il quale rifiniva le opere.

[33] Louis Aimé Becdelièvre, Souvenirs de l’armé pontificale, Paris 1868, vedi 104 e ss. In appendice la lista degli ufficiali, sottoufficiali e soldati che hanno preso parte alla battaglia di Castelfidardo.

[34] Matricule du Bataillon des Tirailleurs Franco-Belges. Armade Pontificale 1860, Publication de L’Avant-Garde, Lille, Imp. H. Morel, Contiene l’elenco degli militari di ogni ordine e grado presenti al momento. Stati pontifici. Esercito pontificio. Zuavi, Pro Petri sede. Bataillon des Zouaves Pontificaux, Rome, 8 septembre 1861. Con i nomi e i gradi di tutti gli Zuavi presenti nel 1861, Roma, 8 settembre 1861. René Bittard des Portes, Histoire des Zouaves Pontificaux, Paris (s.d).

[35] G. Cerbelaud-Salagnac, Les Zouaves pontificaux, Paris 1963, 78.

[36] Matricule des Zouaves Pontificaux officiers et de volontaires de l’ouest, T. I. Deux frères: Adéodat et Emmanuel Dufourrnel. Officiers aux zouaves pontificaux, Lille-Paris 1898.

[37] Jean B. Franco, Les Croisés de Saint Pierre, Bruxelles 1870, 9.

[38] Franco, Les Croisés, cit., 57.

[39] François Athanase de Charette de la Contrie, Souvenire du régiment des zouaves pontificaux. Roma 1860-70, France 1870-71, 2 vol., Paris 1877-78, 90 e ss.

[40] Stati Pontifici. Esercito Pontificio. Zuavi.

[41] Paul Devigne, Charette et les zouaves pontificaux, Paris 1913, 37.

[42] Julien S. Allard, abbé, Les zouaves pontificaux ou Journal de Mgr. Daniel aumônier des zouaves. Camerier secret de SS. Léon XIII, cit.

[43] René Hardy-Elio Lodolini, Les zouaves pontificaux canadiens, Ottawa 1976; Diane Audy, Les zouave du Québec au XXe siècle, Ville du Québec 2003; E. Lodolini, Volontari del Canada nell’esercito pontificio. 1868-1870, in Rassegna storica del Risorgimento 1969, 641-644. Una esauriente bibliografia sull’argomento in M. Sanfilippo, Fuggivi e avventurieri nord-americani tra Garibaldi e Pio IX. Una proposta di ricerca, in Ricerche di storia politica 10 (1), 2007, 67-78. R. Melançon, Cinq cent zouaves et une chemise rouge. Sur l’image du Risorgimento au Canada français au XIXe siècle, in Italies imaginaires du Quebec, a cura di C. Fratta-E. Nardou-Lafarge, Montréal 2003, 17-12.

[44] Canzone del padre D. de Franciscis alle dame americane cattoliche degli Stati Uniti per il vessillo offerto al Santo Padre Pio IX da servire al nobile corpo degli Zuavi, Roma 1867. Il padre de Franciscis pubblicò una raccolta dei discorsi di Pio IX.

[45] Joseph Powell, Two years in the Pontifical Zouaves: a narrative of travel, residence, and experience in the Roman States, in Song of the English Zouaves, London 1871.

[46] Charles A. Coulombe, The Pope’s Legion. The multinational Fighting Force that Defended the Vatican, London 2009.

[47] Luisa Maria di Berry (1819-1864) aveva sposato il duca di Parma e Piacenza Carlo III. Rimasta vedova governò come reggente per il figlio Roberto fino al 1859, quando il ducato fu unito al regno di Sardegna. Morì in esilio a Venezia.

[48] L’Avant Garde 17 –VI- 1893. Si tratta di Alfonso Carlo di Borbone d’Este (1849-1937), fratello del pretendente al trono di Spagna Carlo VII, duca di Madrid.

[49] Patrik Keyes O’Clery, Come fu fatta l’Italia, Roma 1892, 449 e ss.

[50] ASV, Segr. di Stato, 1870, rub. 190, fasc. 2, ff. 32 e. 37.

[51] Edouard Lefebrve de Bellefeuille, Le Canada et les zouaves pontificaux. Mémoires sur l’origine, l’enrôlement et l’expédition du contingent canadien à Rome, pendant l’anné 1868, Montréal 1868.

[52] Dalla sua vicenda Robert Redford ha tratto il film The Conspirator.

[53] Cerbelaud-Salagnac, Le Zouaves pontificaux, cit.,78 e ss.

[54] Matricule des zouaves Pontificaux officiers, cit., 23.

[55] Defives de, Pro Petri, vol. I, cit., passim. Nel volume anche i nomi dei belgi feriti a Castelfidardo e i nomi del battaglione franco-belga che fu alloggiato nella caserma Cimarra in via Madonna dei Monti. Matricule du Bataillon des Tirailleurs Franco-Belge.

[56] Éd. Terwecoren de la Compagnie de Jesus, Auguste Misson. Zouave pontifical, Bruxelles 1862. Auguste era figlio di Victor Auguste, consigliere della corte dei conti.

[57] Terwecoren, Auguste Misson, cit., 22.

[58] Nel salon, della contessa, nata principessa d’Aremberg, si riuniva tutta la società di Bruxelles.

[59] Terwecoren, Auguste Misson, cit., 51.

[60] Monsignor Sacré era il presidente del Collegio Ecclesiastico Belga a Roma e cameriere segreto del papa. Era stato convocato da de Merode come cappellano degli Zuavi.

[61] Molto probabilmente si tratta del caffè San Carlo al Corso dove era stato instaurato un servizio di pranzi e colazioni e «cominciarono a convenirvi giovani signori, oltre all’uffizialità pontificia e francese», De Cesare, Roma e, cit., 126.

[62] Alfred de Limminghe (1834-1861) era figlio del conte Auguste professore all’Accademia di Namour. Dal padre aveva ereditato la passione per la botanica. Al suo nome è dedicata una begonia, la Alfred de Limminghe.

[63] Alexandre Pruvost, Notice sur la vie et la morte du comte Alfred de Limminghe, Bruxelles 1861.

[64] San Benedetto Giuseppe Labré (1748-1783), detto ‘il vagabondo di Dio’.

[65] M. Bosi, Una pagina ignorata della nostra storia. La proditoria uccisione dello Zuavo pontificio de Limminghe e il ricordo di lui nella chiesa di S. Gioacchino e S. Anna a Quattro Fontane, estr. dalla Strenna dei Romanisti, 1977.

[66] E. La Febvre, Vie de, cit., 221: 25-II-1861. «… Peu des nouvelles à mander. Le jeune Misson s’est engagé hier dans le Zouaves …»; 223: «… n’y a pas des malades parmi les belges. Misson, Moeller, Detregen vont au mieux et restent de bien gentil garçons …».

[67] Archivio di Famiglia (AdF). Devo ricordare a questo proposito la mia bisnonna Elisa Guerra de Jamblinne che assisté monsignor de Woelmont “a rischio della sua vita”.

[68] Terwecoren, Auguste Misson, cit., 64: «Madame de Guerra, née baronne de Gemblinnes (de Jamblinne, ndr), femme de l’ancien ministre du Mexique, s’est montrée d’une charité admirable et d’une bonté parfaite. Elle venait chaque jour s’asseoir, pendant de longues heures, au chevet du malade, et lui prodiguer d’affectueux soulagements». Su l’ancien ministre du Mexique si può vedere, M.T. Guerra Medici, En los parlamentos del viejo y nuevo mundo. Josè Basilio Guerra (Campeche, Yucatan 1790 - Roma 1872), in Diritto @ Storia. Rivista internazionale di Scienze Giuridiche e Tradizione Romana anno XII, quad. 11, N. ser. 2013, 1-15 (http://www.dirittoestoria.it/11/note&rassegne/Guerra-Medici-Parlamentos-Jose-Basilio-Guerra.htm).

[69] Defives de, Pro Petri, cit., v. II. 106 e ss.

[70] Maria Sofia di Wittelsbach (1841-1925), nel gennaio del 1859 furono celebrate, per procura, le nozze con Francesco II di Borbone, re di Napoli dove la regina arrivò il 7 marzo. Pochi giorni dopo, alla morte del re Ferdinando, Maria Sofia diventava regina a diciotto anni. Era sorella dell’imperatrice d’Austria Elisabetta (Sissi).

[71] L’Avant Garde 1- IV- 1893, 5 e ss. La storia romantica e triste è ben raccontata da Arrigo Petacco, La regina del Sud, Milano 1992.

[72] Lecigne, A. Guillemin, 181.

[73] Cerbelaud-Salagnac, Les Zouaves pontificaux, cit., 78.

[74] Ibidem 94.

[75] Hermann Kanzler (1822-1888), nato in una piccola città presso Karlsruhe, era entrato a far parte delle truppe pontificie nel 1845. Aveva sposato in prime nozze Letizia Pepoli, morta a 28 anni, e in seconde nozze Laura Vannutelli, sorella di due cardinali. Dopo il 1870 Kanzler rimase a capo delle truppe del papa.

[76] Eugene Allet (1814-1878), era nato a Leuk Stadt nel cantone svizzero del Valais, In suo onore l’associazione degli zuavi canadesi prese il nome di Union Allet.

[77] De Cesare, Roma e, cit., 629.

[78] H. Derely, Le comandant Lallemand, Lille 1891.

[79] Helena Blawatsky (1831-1891), filosofa e teosofa russo-statunitense: Helena Blawatsky, ed. Nicholas Goodrick-Clarke, Berkley 2004; Garibaldi, Mazzini e il Risorgimento nel risveglio dell’Asia e dell’Africa, ed. G. Borsa e P. Beonio Brocchieri, Milano 1984. Domenico Perri, Elena la guerriera garibaldina, in L’Eretino 5, 2008, 70-71.

[80] Cito da L. Villari, Bella e Perduta. L’Italia del Risorgimento, Bari 2009, 324.

[81] John d’Alberg, lord Acton (1834-1902), era imparentato con gli ammiragli Acton e con donna Laura Minghetti. Storico di grande fama, nonostante fosse cattolico, divenne professore all’università di Cambridge.

[82] Allard, Les zouaves, cit., 388.

[83] La Légion d’Antibes, o Legione Franco-Romana, in seguito Legione Romana, era stata formata nel 1866; era composta da militari francesi, volontari che avevano avuto l’autorizzazione a partecipare alla difesa dello Stato della Chiesa. I Legionari erano dotati di fucili Chassepot. Al suo comando fu posto il colonnello conte Charles d’Argy (1805-1870). La legione fu acquartierata a Viterbo. Il colonnello morì a Roma dopo una breve malattia.

[84] Lodolini, Volontari, cit., 644.

[85] Charles d’Argy, insignito della Legion d’onore (Malmy 1805-Roma 1870). I suoi ufficiali gli hanno eretto un monumento funebre nella chiesa di San Luigi dei Francesi in Roma.

[86] ASV, Segreteria di Stato, 1870, fasc. 2, rub. 190, f. 48.

[87] ASV, Segreteria di stato 1870, fasc. 2, rub. 190, ff. 60-64.

[88] Alberto Leoni, Introduzione a, Patrick Keyes O’ Clery, La rivoluzione italiana, a cura di M di Palma, Milano 2001. Il volume raccoglie i tre libri dell’autore sul Risorgimento.

[89] Lecigne, A. Guillemin, 212.

[90] Paul Devigne, Charette et les zouaves pontificaux, cit., 89.

[91] L’Avant Garde 1893, 15-IV-16.

[92] L’Avant Garde 1893, 20-V, 7.

[93] Ib. 1893, 28-VIII.