Tradizione-Romana-2019

 

 

foto-Vanni-PirasVANNI PIRAS

Università di Sassari

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La pentasecolare esperienza democratica della Sardegna giudicale:

non feudi e loro parlamento ma (piccole) città e loro assemblee

 

 

SommaRiO: 1. Premessa. Singolarità della storia giuridica sarda. – 2. Specialità civica-democratica della ‘forma di governo’ giudicale. – 3. Feudalesimo e Parlamento (nel resto) d’Europa. – 4. In Sardegna: imposizione violenta dei feudi … – 5. … e del Parlamento. – 6. Conclusioni. Straordinaria attualità della ‘forma di governo’ giudicale. – Abstract.

 

 

1. – Premessa. Singolarità della storia giuridica sarda

 

Nell’ambito della generale “Storia del diritto italiano”, la specifica storia delle istituzioni della Sardegna è stata oggetto di numerosi studi, data l’originalità e – addirittura – la singolarità delle sue vicende: politiche, giuridiche ed economiche[1].

La Sardegna sperimenta infatti, dal secolo IX al secolo XIV compresi, una ‘forma di governo’ (in senso lato) assolutamente propria, il “Giudicato”: assunta con il ‘distacco’ de facto dell’Isola dall’Impero Romano[2] e conservata sino all’imporsi nell’Isola del dominio catalano-aragonese.

Il ‘distacco’ nel secolo IX e la conseguente nascita della ‘forma di governo’ giudicale concludono una ultramillenaria relazione tra parte e tutto, iniziata nel secolo III a.C., quando la Sardegna era divenuta, insieme alla Corsica, la seconda “provincia imperii” della res publica di Roma[3].

Tale ‘relazione’ non è spezzata dalla parentesi del Regno vandalo sulla Sardegna: non incisivo (pare che esso non andasse molto oltre la presenza di un presidio militare) e breve (meno di 80 anni: dal 456 al 534, quando l’Imperatore romano Giustiniano, nel quadro della campagna per la riconquista dell’Italia, ri-conduce la Sardegna nell’Impero)[4]. Ancor meno incide sulle strutture organizzative dell’Isola il brevissimo dominio dei Goti (551-553)[5]. Preziosi studi hanno inoltre accantonato le ipotesi di dominazioni dei Franchi e dei Longobardi[6].

Pertanto, tra i secoli VI e IX (mentre l’Italia peninsulare resta sostanzialmente oggetto di una continua e confusa contesa politica e militare (tra Impero, Goti, Longobardi e – infine – Franchi, nella quale si inserisce la formazione del potere temporale dei Pontefici cattolici) la Sardegna sperimenta altri tre secoli di organizzazione imperiale romana: sino a quando (essenzialmente per la sopravvenuta impossibilità delle comunicazioni marittime, insidiate dagli Arabi) i rapporti tra l’Isola e l’Impero si affievoliscono per venire, infine, meno[7].

In questo momento (dunque dopo circa dodici secoli di quasi ininterrotta partecipazione della Sardegna all’Impero romano e quando nel resto della Europa i governi regi evolvono nel cosiddetto “feudalesimo”) nell’Isola prendono vita i Giudicati[8], i quali (raccogliendo, invece, le influenze delle Repubbliche comunali di Pisa e Genova) vivono mezzo millennio: sino al secolo XV; quando, con la rinuncia dell’ultimo Giudice (1420), la Sardegna ridiventa – e, questa volta, a lungo − parte di un Regno, quello di Aragona.

 

 

2. – Specialità civica-democratica della ‘forma di governo’ giudicale

 

Forzosamente interrotte le comunicazioni con la “seconda Roma”[9], i cives sardi dividono il governo della propria Provincia (una volta governata da un unico praeses o iudex con competenza anche sulla Corsica) tra quattro Giudici locali[10].

Nella sostanza, il governo giudicale è la continuazione della «vecchia organizzazione» ovvero «la nuova organizzazione poggia in realtà sulle basi dell’antica»[11]. Il governo giudicale conserva i fondamentali connotati giuridici propri della organizzazione repubblicana romana, anche di quella imperiale: a) il Giudicato non è «uno stato patrimoniale di proprietà del sovrano»[12]; b) il modo della volizione pubblica è quello dell’articolazione tra titolarità ed esercizio del potere di ‘governo’ (in senso stretto) da parte del “Giudice” e titolarità ed esercizio del potere ‘sovrano’ da parte del ‘sistema’ delle villae/biddas (le piccole città / comunità locali).

Il patrimonio privato del Giudice, denominato pecugiare[13], è separato da quello del Giudicato, distinzione chiara che ne disciplina le rispettive amministrazioni[14]. Il Giudice può cedere le proprie prerogative regie (come fa Guglielmo III di Narbona Bas nel 1420) e vendere i propri beni personali; non può, però, sostituirsi al Giudicato né alienare alcun bene demaniale pena la revoca dell’imperium da parte del Popolo[15].

Il potere proprio alla organizzazione giudicale non si conclude nel perimetro di quello del Giudice: questi non è titolare di un potere pieno e incondizionato ovvero assoluto ed esclusivo[16]; può, infatti, obbligare se stesso ma non il popolo[17]. È riconosciuto il «carattere democratico della costituzione politica dell’Isola» in quanto «il governo non era nelle mani di uno o di pochi, ma di tutta la popolazione libera»[18]. Il vincolo giuridico che si instaura tra il giudice e il popolo è imperniato sul bannus-consensus, che consiste nel conferimento del potere di comando da parte del Popolo, in cambio del rispetto delle prerogative popolari[19]. Il Giudice assume il suo officium mediante giuramento pronunciato all’atto dell’incoronazione: «regnum non alienare neque minuere […] neque pactum aliquod aut societatem aliquam cum gente estranea inire aliquatenus aut facere sine consensu popoli»[20]. La sua azione è condizionata dal dover essere in sintonia «cum bona volontate de totu su logu» e «cum consiliu de sus homines bonos de sa terra»; gli occorre il placet del Popolo, non è ammesso il suo arbitrio[21]. Il discostarsi da queste linee di azione, con la conseguente rottura del bannus-consensus, cioè del rapporto di mandato, può dar luogo a una rivolta legittima, che consente al Popolo di resistere al Giudice e di rovesciarlo[22]. La rivolta può arrivare sino all’uccisione del Giudice fedifrago/tiranno, addirittura con deturpazione di cadavere, come la mutilazione della lingua[23]. L’episodio più emblematico, per crudeltà e efferatezza nell’esecuzione, è quello di Ugone III re di Arborea, accusato di «reggere lo Stato in forma stizzosa e dispotica, comunque malaccetta dal popolo che, ritenendo d’essere tradito nel rapporto del bannus-consensus, il 3 marzo 1383 si sollevò e, secondo l’antica usanza libertaria del tirannicidio, lo pugnalò insieme alla figlia e lo gettò, ancora vivo, in un pozzo con la lingua tagliata»[24]. Ricorrendo alla categoria bodiniana di ‘sovranità’[25], possiamo dire che nella ‘forma di governo’ giudicale essa risiede nel Popolo, e l’intervento di questo, con il proprio consenso (o dissenso) normalmente espresso mediante il voto, è il primum movens nel meccanismo giudicale, sia in politica estera (dichiarazioni di guerra, stipula dei trattati di pace o alleanze) sia in politica interna (acclamazione del nuovo Giudice in caso di vacanza del trono, composizione collegiale degli organi giurisdizionali). Zirolia definisce tale intervento come «un diritto vero e proprio del popolo di esprimere la sua volontà quando si trattava dei più gravi interessi della patria»[26].

Come abbiamo osservato in apertura, sulla formazione e sulla organizzazione della ‘forma di governo’ giudicale si è addensato un considerevole numero di studi[27]. Non sempre, però, appare trovare adeguata attenzione (ci chiediamo se per dimenticanza o per scelta) proprio la istituzione più importante e più specifica del meccanismo ‘costituzionale’ giudicale: il sistema delle ‘biddas’ con le loro ‘coronas’, organizzato a più livelli[28]. Eppure è noto che l’ordinamento giudicale si articola in due parti, da una parte le «istituzioni di corte» dall’altra le istituzioni del «territorio aventi a base la villa»[29]. All’interno di questa organizzazione personale e territoriale, le ville sono dunque «i centri più importanti di ciascun giudicato»[30], motore decisionale del governo giudicale[31]. Carta Raspi afferma che nei Giudicati «la sovranità è nel popolo» e la «forma politica di governo è soprattutto a base popolare», sottolineando l’importanza del Popolo sardo, in particolar modo nel XII secolo, quando in tutta Europa i popoli erano invece soltanto soggetti giuridicamente passivi, in completa obbedienza al proprio monarca e al proprio feudatario[32]. Non c’è un’organizzazione istituzionale modellata secondo una struttura piramidale con al vertice il re, tipicamente feudale. Sappiamo, ad esempio, che «le delibere arborensi non venivano mai prese a livello verticistico – dalla “giudicessa” o dalla sua Curia – ma […] erano collettive, prese da tutto il popolo («per part de los Sarts d.Arborea») al quale venivano fatti conoscere di volta in volta i capitoli d’intesa perché fossero discussi»[33]. La partecipazione del Popolo al governo giudicale (riscontrabile nelle ‘adunanze’, ‘assemblee’, ‘riunioni’) è la costante della vita giudicale. Dette assemblee sono denominate Corone, per il modo in cui si dispongono i componenti intorno al magistrato che le presiede. Nelle Corone si esercitano tutti i poteri del Giudicato, di carattere politico, amministrativo e giudiziario[34]. I Catalano-Aragonesi hanno considerate le Corone la «specialità» dei Sardi, il «mos sardiscus per eccellenza»[35]. La Corona è, dunque, la istituzione base del Giudicato, imprescindibile per il suo funzionamento; è il luogo dove − a diversi livelli − si manifesta la volontà del popolo. Il principio della sovranità popolare si può ricavare dalla disposizione e dal meccanismo di funzionamento delle corone: un processo decisionale, organizzato in sistema partecipativo-ascendente, attraverso un iter volitivo che parte dai – e mantiene determinanti i – cives delle villae/biddas. L’iter volitivo: a) prende avvio con la Corona più piccola: la Corona de Villa, cui partecipano i membri della stessa villa e che è presieduta dal maiore de villa; b) prosegue con la Corona de Curadoria (sorta – quest’ultima − di distretto, composto da un certo numero di ville viciniori) cui partecipano, mediante mandatari, le ville che compongono la curatoria e che è presieduta normalmente dal suo curatore ed eventualmente dal Giudice o da un suo delegato (l’armentariu o anche il curatore del distretto della capitale); c) si conclude con la Corona de Logu, l’assemblea generale di tutto il Giudicato (logu) che si riuniva in casi eccezionali[36]. La deliberazione della Corona de Logu, come espressione della volontà finale, è la risultante del sistema delle tre corone: de Bidda, de Curadoria, de Logu[37]. L’esempio più duraturo di tale meccanismo volitivo è il «giudicato di Arborea, l’unica regione che, avendo conservato la sua autonomia» rimane più a lungo immune dalla «sfrenata politica di infeudazione inaugurata dai Catalano-Aragonesi»[38].

Siffatta specificità, o specialità della ‘forma di governo’ giudicale sarda appare in continuità con la ‘forma di governo’ repubblicana-imperiale romana. A questo riguardo è fondamentale la omologia – osservata in dottrina – tra le Corone giudicali[39] e i Concili provinciali delle Città nel mondo romano[40].

L’istituto ‘conciliare’ sardo mantiene intatta la sua vitalità sino alla fine del secolo XIV, al crepuscolo della epoca medievale, come dimostra il trattato di pace, del 23 gennaio del 1388, tra il Giudicato di Arborea e il Re Giovanni I d’Aragona[41]. Preferiamo indicare il trattato in questi termini, rispetto a quelli correnti di “trattato tra il Giudice Eleonora di Arborea e il Re Giovanni d’Aragona”, perché l’elemento che rende tale documento un unicum della storia politica/giuridica europea è costituito proprio dai suoi stipulanti. Detto documento giuridico, ha un’importanza, a nostro avviso, non inferiore a quella della coeva Carta de Logu di Arborea[42], sebbene su di esso la attenzione – anche scientifica – contemporanea è non soltanto, oggettivamente, minore, ma pure, a nostro giudizio, non pienamente ‘a fuoco’. Infatti, dal punto di vista della informazione istituzionale da esso ricavabile, il trattato permette soprattutto di riscontrare il perdurare del ruolo ‘politico’ determinante delle piccole ‘città’ (le biddas); è la manifestazione più contundente della diversità della organizzazione giudicale rispetto a quella feudale; è la testimonianza che, ancora sul finire del XIV secolo, è vigente il principio della sovranità popolare[43]. Il testo del trattato di pace tra il Giudicato di Arborea e il Re di Aragona ci spalanca così, in modo estremamente diretto, l’orizzonte di un confronto tra sistemi (e connessi ordinamenti) politici/giuridici molto più che differenti, opposti. Tra i due sistemi-ordinamenti, quello sorprendente, nella Europa feudale della fine del secolo XIV, è il Giudicato d’Arborea, il quale, sulla base delle firme di coloro i quali stipulano per esso la pace, appare – nella sua complessità – straordinariamente attuale: composto da un insieme di comunità locali ‘sovrane’, strutturate su più livelli, in relazione biunivoca con un governo centrale, forte ma comunque soltanto ‘esecutivo’. La partecipazione delle biddas − mediante i propri mandatari − all’iter decisionale pattizio o (come è stato detto in maniera efficace seppure giuridicamente non precisissima) la «partecipazione del popolo alle funzioni di governo» mostra un carattere «quasi democratico dell’organizzazione politica dei giudicati», una forma istituzionale prossima a una «democrazia diretta»[44]. Il trattato in questione ci permette di vedere all’opera insieme due modi di volizione unitaria collettiva tra loro opposti: da una parte il Re catalano-aragonese, la cui volontà (unica e bastevole a concludere il trattato) rappresenta/sostituisce la volontà della propria collettività politica; dall’altra parte il Giudicato sardo, con al vertice lo iudex, la cui volontà deve poggiare – accompagnandovisi – sull’assenso manifesto Popolo, i cives delle biddas / piccole città. È la manifestazione della differenza sostanziale tra la monarchia feudale germanica, in cui la volontà del re è la volontà di tutto il regno, e il Giudicato di ascendenza repubblicana romana, in cui la volontà del giudice deve essere coerente a quella “generale del Popolo”, il quale la esprime direttamente nel proprio, complesso sistema di assemblee civiche[45]. Il Giudicato d’Arborea è stato detto «l’ultimo residuo della tradizione autoctona sarda», noi diremmo della ‘organizzazione sardo-romana’ e con esso si chiude l’ultima epoca di libertà sarda, fatta di cives e di piccole città[46]. Con la caduta del Giudicato arborense «si compie anche l’assestamento pressoché definitivo del disegno feudale dell’isola»[47].

 

 

3. – Feudalesimo e Parlamento (nel resto) d’Europa

 

Il feudo è l’istituto giuridico che ha fornito le basi di un nuovo diritto pubblico ed «ha avuto più larga diffusione e vita più duratura, dall’alto Medioevo fino alla Rivoluzione francese ed oltre, in tutti i paesi dell’Europa occidentale, quasi senza eccezioni»[48]. Marongiu definisce «Stato feudale» «uno Stato con sottostati e Stato di stati, cioè di categorie, ceti […] e soggetti di privilegi ed immunità […] mosaico di feudi» in cui «i maggiori signori feudali sono i discendenti di coloro che capeggiarono le invasioni e si considerano quindi poco meno che compartecipi della sovranità»[49].

Appare chiaro che l’istituzione feudale è ‘figlia’ delle genti del nord[50] e appare altrettanto chiaro il nesso monarchia-feudalesimo, imperniato sullo schema organizzativo della ‘sequela del capo’, la ‘Gefolgeschaft’[51]. Con il feudalesimo, i “Germani” conciliano la monarchia con la cosiddetta “libertà aristocratica”[52]. La genesi del feudalesimo si ha con il passaggio dal nomadismo[53] alla stanzialità, quando le genti germaniche arrestano il loro “moto migratorio” (‘Völkerwanderung’) e – attraverso la presa di possesso: ‘occupazione’[54] – si stabiliscono in modo permanente in un dato territorio: “Germani sedes posuerunt[55]. Il mondo germanico è una realtà etnica, è organizzato per stirpi, cioè per origine, e l’elemento territoriale, ai primordi, gli è estraneo: «il vincolo del sangue precede, infatti, quello del suolo come il nomadismo precede lo stanziamento»[56]. Il passaggio delle stirpi germaniche dalla migrazione alla sedentarizzazione[57] dà forma e consistenza al cosiddetto «governo gotico»[58].

Dunque, alle occupazioni germaniche delle diverse parti dell’Europa «tenne dietro l’istituzione del feudalesimo, il quale nacque dalle concessioni di terre che i conquistatori teutonici facevano ai loro compagni di armi»[59]. Montesquieu individua l’origine dei feudi nelle concessioni delle terre paludose della Westfalia e fa discendere i vassalli da quegli uomini che si ponevano al servizio di un signore, unendo così le loro sorti per il mezzo della comune sequela di un solo uomo[60]. Più recentemente, la dottrina individua l’inizio del ‘governo feudale’ «con la grande invasione dei Franchi [tra il IV e il V secolo, ndr], con la cacciata dei Visigoti dall’Aquitania [inizio del VI secolo, ndr] e con la conquista del regno burgundo [ancora inizio del VI secolo, ndr]» quando «la presenza nelle Gallie del germanesimo più integrale si fa assorbente e massiccia [… e …] tutta l’antica provincia romana si tramuta in un forte e unitario regno germanico»[61]. Il sistema feudale appare messo a punto dai Franchi, in particolare da «i re carolingi, anzitutto Carlo Magno stesso» che prendono «ad adottare la prassi di attribuire ai conti il titolo di vassalli del re. In questo modo si voleva creare un legame ulteriore tra il re e i suoi funzionari, è la specifica fedeltà feudale. Anche i vescovi carolingi furono obbligati a divenire vassalli del re, giurandogli fedeltà» [62]. L’Editto di Rotari (Pavia, 643) testimonia questo passaggio e rispecchia «una società che si governava ormai a monarchia; e che non aveva più alla propria sommità un comandante militare, ma un sovrano», il quale si ispira ora ai Re del Vecchio Testamento[63]. Però, anche quando queste popolazioni nordiche (già eserciti perennemente in marcia) si territorializzano, mantengono il loro legame con il loro condottiero valoroso, prima capo-guida della spedizione militare e quindi capo territoriale[64]. Il connesso legame di fedeltà al capo è qualcosa di midollare, “inherens ossibus” alle genti germaniche, costituisce il fondamento del loro mondo, e la stessa fidelitas germanica, generata dal giuramento, resta la chiave di volta dei rapporti dell’età feudale. Nessun vassallo si può sottrarre al giuramento di fedeltà, pena la dichiarazione di decadenza dal feudo e l’estromissione dall’ordinamento feudale. La combinazione medievale di monarchia e feudalesimo è, in maniera affatto particolare, «un regime, un principio e un modo di essere e di atteggiarsi del potere sovrano»[65]. La stessa organizzazione istituzionale del regno ha una struttura piramidale in cui il re è «al vertice della piramide feudale ed il suo potere sovrano si rafforza grazie alla sua posizione di supremo feudatario»[66]. Nell’ordinamento feudale è fondamentale un particolare principio ‘contrattuale’: i regni poggiano «sul vincolo che lega un uomo ad un altro, il superiore all’inferiore [il corsivo à nostro, ndr]» costituendo «una trama senza la quale l’ordinamento dello Stato medievale si sfascerebbe e mercé la quale esso poté invece resistere a lungo»[67].

Prima conseguenza è, sul piano ‘costituzionale’, l’introdursi e il dilagare nei territori e tra le comunità dell’Impero romano di un ordinamento nuovo, la cui logica (di legittimazione discendente di diritti e poteri) è il vero e proprio rovesciamento della logica (di legittimazione ‘ascendente’, di diritti e poteri) propria del preesistente «ordinamento romano dei municipia»[68].

Ulteriore conseguenza è, sempre sul piano ‘costituzionale’, la nascita dell’istituto parlamentare. È stato osservato che le monarchie feudali, sin dall’alto medioevo, contengono in potenza sia «il germe degli istituti parlamentari» sia «il fondamento di quel sistema, approssimativamente potremmo dire contrattualistico, con cui si atteggiano, anche molti secoli dopo, i rapporti fra i sovrani ed i parlamenti»[69].

Proprio alla Spagna si riconosce unanimemente in dottrina la primogenitura nella nascita della istituzione parlamentare. In particolare, il regno di León (quello meglio strutturato rispetto agli altri regni spagnoli) vanta la prima convocazione, ad opera del Re Alfonso IX, nel 1188, di una assemblea denominata, «anziché concilium» «curia» dove sono presenti gli “electi cives” delle singole città[70]. La grande novità dell’assemblea del 1188, è sicuramente la presenza dell’elemento cittadino ossia dei mandatari dei Comuni[71]. La denominazione tecnica di curia, ossia di “consilium [non concilium] regis”, esprime la natura di un consesso in cui i feudatari sono tenuti, secondo il diritto feudale, non a prendere decisioni collegiali ma a dare al re consilium et auxilium[72]. La qualificazione giuridica di León è, dunque, quella di «riunione del consiglio del re» e la stessa denominazione di corte è «come suggerisce il nome stesso, la corte del re, benché in forma molto allargata»[73].

La nuova presenza nelle Corti regie (a partire dalla Corte di León) dei mandatari dei Comuni cambia, non solo la composizione, ma anche la natura del vecchio consilium regis: da luogo di ‘consultazione’, del Re con i ‘suoi’ feudatari, a luogo di ‘presa di decisioni’, cui, insieme al Re e ai suoi feudatari (che ripetono il proprio potere dalla infeudazione regia), concorrono i delegati dei Comuni (i quali ripetono il proprio potere dal mandato civico). In questo contesto, le cortes catalane costituiscono elemento di resistenza alla partecipazione civica e sino alla fine del XIII secolo si devono ancora inquadrare tra le vecchie «assemblee dello Stato feudale» in quanto i partecipanti si limitavano a «dare solennità e pubblicità a questa o quella manifestazione della volontà del sovrano»[74].

Torneremo più avanti sulla istituzione parlamentare ma occorre subito notare, che proprio nei parlamenti catalano-aragonesi il ‘parlamentarismo’ più vero appare essere non quello del compromesso del sistema feudale con il sistema municipale (come potrebbe leggersi il ‘parlamentarismo’ introdotto nel 1188 da Alfonso IX di León) ma quello dell’inglobamento del sistema municipale nel sistema feudale (poi realizzato – anche formalmente – nel 1295 da Edoardo I di Inghilterra).

 

 

4. –In Sardegna: imposizione violenta dei feudi …

 

Nella Europa feudale, la Sardegna giudicale, costituisce la eccezione. L’Isola, per lunghissimo tempo, è un esempio di terra immunizzata dal feudo in quanto in essa (come si è detto) le dominazioni ‘barbariche’ sono state brevi e inconsistenti e non si è realizzato un vero e duraturo governo germanico[75]. Marc Bloch, massimo specialista del feudalesimo, sostiene che la Sardegna vive una singolare condizione storica con la mancata «formazione di monarchie barbariche» e con la formazione invece di «dinastie di capi indigeni [che] avevano diviso l'isola in “giudicati”»[76].

Il feudalesimo giunge in Sardegna soltanto cinque secoli dopo la sua comparsa in Europa; cioè nel secolo XIV, con la conquista catalano-aragonese[77].

La conquista della Sardegna da parte dei Catalano-Aragonesi, è dettata da ragioni di ordine politico e di ordine economico. Essa è compiuta sia per affermare la propria potenza nel quadro della politica mediterranea, sia per garantire la sicurezza delle proprie rotte commerciali[78]. In tale contesto geo-storico la Sardegna ha una evidente posizione strategica. È naturale che la occupazione della Sardegna rientri tra le mire e nel programma espansionistico degli Iberici: una vera e propria «necessità geopolitica» da soddisfare lungo la traiettoria della cosiddetta «ruta de las islas»[79]. Ciò che dà il ‘via’ al piano di espansione iberico, l’opportunità decisiva, è l’infeudazione dell’Isola al re Giacomo II d’Aragona, nel 1297 da parte di papa Bonifacio VIII. Il pontefice contribuisce così sostanzialmente a ‘forzare’ il ‘corso della storia’ dell’Isola: «immise innaturalmente [i Sardi] nella sfera politico-culturale di un mondo straniero ed estraneo alla loro tradizione sardo-italiana, pieno di regole feudali, di prevenzioni classiste»[80].

Il Re utilizza l’organizzazione feudale per rafforzarsi e prendere possesso della Sardegna. Con la conquista catalano-aragonese, la autorità del Re si inserisce, si estende e si consolida in Sardegna in parallelo con la continua immissione nell’Isola dei feudatari[81]. La conquista è concepita e realizzata secondo una ‘impostazione’ feudale, attraverso una campagna militare pianificata, con ampio seguito di nobiltà feudale e cavalieri[82]. Lo stesso re Giacomo II esorta a partecipare alla spedizione la nobiltà dei suoi regni, con la promessa di ricompensarla con l’infeudazione dei nuovi territori. I nobili che integrano la spedizione militare sono detti «repartidores de la tierra»[83]. Le terre sarde vengono date ai nobili iberici con la «formula delle concessioni feudali»[84]. All’inizio del secolo XIV, si assiste, dunque, «all’affermazione di catalanità» ossia alla catalanizzazione-feudalizzazione dell’Isola[85]. Una conseguenza immediata è la gerarchizzazione dell’organizzazione istituzionale in quanto «la struttura piramidale e il rapporto di grado che legava tra loro i singoli ufficiali, senza ampi margini di autonomia e possibilità di manovra, costituiva il fattore portante di questo sistema. I rapporti fra i regimi amministrativi erano impostati in maniera gerarchica»[86].  I Re catalano-aragonesi, trapiantano in Sardegna la ‘forma di governo’ a loro più congeniale, quella che essi stessi hanno nel loro Regno: suddividono l’Isola in feudi, così assicurandosene il dominio senza gravare sulle proprie finanze, poiché i feudatari hanno interesse a mantenere il proprio dominio sulle terre e sui villaggi, servendo con fedeltà il proprio sovrano[87], dal quale dipende o discende il titolo ‘giuridico’ del loro dominio[88]. Il feudalesimo sardo, inteso come «un vero ordinamento giuridico e politico», è essenzialmente di importazione catalano-aragonese[89]. Appare anzi chiaro che «alla lunga, l’introduzione del feudalesimo finì per essere la più importante tra le conseguenze della conquista aragonese»[90].

Si assiste, così, a «un notevole fenomeno di emigrazione giuridica: l’introduzione delle istituzioni feudali francesi in una terra di conquista» e si diffonde il cosiddetto «feudalesimo d’importazione»[91]. La generale matrice feudale è infatti (come abbiamo già osservato)[92] franca, ma la Sardegna recepisce il feudalesimo attraverso la mediazione catalana. I Re d’Aragona, nel plasmare le istituzioni sarde utilizzano, infatti, il modello organizzativo catalano «cui viene unanimemente riconosciuto dalla dottrina il carattere feudale» e si precisa che «il modello ispiratore era ancora l’organizzazione del Palatium regio ispano-gotico e franco (maggiordomo, camerario, coppiere, barbiere, cappellano)»[93]. Occorre, infatti, ricordare che Carlo Magno libera la Catalogna dagli Arabi, intorno agli anni 785 (conquista di Girona) e 801 (conquista di Barcellona). Da quel momento, fino al secolo XI, la Catalogna è parte integrante dell’Impero franco-carolingio. Entrando appieno nell’orbita della cultura franca, la Catalogna è la regione iberica in cui viene maggiormente introdotto e integralmente recepito il sistema feudale.

La ‘forma di governo’ giudicale della Sardegna risulta sovvertita con l’avvento della monarchia feudale e con l’affermarsi di una forma di governo specularmente opposta[94]. La dottrina è d’accordo «sul nuovo assetto di generale feudalizzazione del Regnum» e in particolare sul «nuovo assetto feudale dato alle istituzioni politiche sarde» e sulla «rottura [istituzionale] collegata all’introduzione immediata, sistematica e generalizzata del feudalesimo»[95]. Il Popolo sardo sperimenta un nuovo modo di essere governato: l’introduzione del feudalesimo «annullò in Sardegna l’ordinamento precedente, basato su istituzioni di tipo comunale, e sconvolse la società»[96]. La dominazione catalano-aragonese innesta nel tronco civico della ‘forma di governo’ giudicale, i feudi e l’istituto parlamentare ad essi strettamente connesso. Le due istituzioni, feudo e parlamento, sono, insieme alla conquista militare, gli strumenti di attuazione del disegno politico di dominazione.

Questo fenomeno è segnato da grandi contrasti. Alla durezza dell’impatto iniziale non segue un adattamento pacifico ma – anzi – lo scontro tra i Sardi, con i propri Giudici, e l’apparato militare regio-feudale cresce sino alla definitiva sconfitta dei Sardi ad opera delle superiori forze catalano-aragonesi.

Il feudalesimo che si installa in Sardegna si differenzia da quello continentale, innanzi tutto, per l’epoca e, conseguentemente, per il modo di formazione. L’una e l’altro fanno del feudalesimo sardo una entità estranea al ‘corpo sociale’ che lo alberga e, quindi, da esso continuamente rigettato. Nella Europa continentale, il feudalesimo si forma nel IX secolo come lento sviluppo dei Regni germanici ivi impiantatati già tra il III e il V secolo. In Sardegna, il feudalesimo è importato soltanto nel secolo XIV e innestato nella pentasecolare organizzazione civico-giudicale, la quale era invece in continuità con la già millenaria organizzazione provinciale romana. È stato detto che in Sardegna il feudalesimo riceve particolarmente «spinta e direzione dall’alto»[97].

La feudalizzazione dell’Isola aggredisce gli ordinamenti preesistenti, a base ‘comunitaria locale’ (sia quelli ‘indigeni’ [le “ville” le loro associazioni, come le “curatorie”] sia quelli impiantati dai Pisani e dai Genovesi [i comuni, rustici e urbani])[98] e tende ad annientarne le organizzazioni amministrative azzerandone il ruolo[99]. Così, in quello stesso XIV secolo, in cui, nella Penisola, i Comuni si rafforzano come ‘potenze’, trasformandosi in “Signorie”, la conquista catalano-aragonese della Sardegna vi cancella anche quella parte di sistema comunale di importazione peninsulare[100]. Nell’Isola, dunque, la «fioritura comunale non è preceduta [ma seguita, ndr] da un periodo di ordinamento feudale»[101]. La storia della Sardegna continua così nella sua particolarissima connotazione, di una sorta di capovolgimento della consecutio temporum storica europea.

Anche in Sardegna la ‘forma di governo’ regia risulta non ammorbidita ma indurita dalla feudalizzazione, in cui «la sovranità veniva immensamente frazionata, perché ognuno dei feudatari, nella indefinita scala dei maggiori e dei minori, era sovrano nella cerchia dei propri possedimenti»[102] e la oppressione sui ‘sudditi’ si fa più puntuale e più occhiuta. In una lettera diretta dal Giudice Ugone II al cardinale Orsini il 19 dicembre del 1325, si descrive la situazione determinata dal nuovo regime (in ogni villaggio vi era un feudatario che si comportava come un re-tiranno) come insostenibile e che avrebbe portato il popolo sardo alla ribellione[103].

La sostituzione della ‘forma di governo’ giudicale con la ‘forma di governo’ feudale, ovvero, per utilizzare l’espressione di Cattaneo l’«infelice dominio feudale spagnolesco», determina o co-determina la crisi economica e demografica dell’Isola[104].

La dottrina più recente e autorevole ribadisce fermamente che bisogna non «sottovalutare l’importanza gravissima della svolta che per l’evoluzione dell’isola significò la conquista aragonese e la conseguente introduzione del feudalesimo»[105]. Considerazioni etico-giuridiche a parte, la ‘forma di governo’ feudale incide negativamente in campo economico[106]. La perdita d’importanza del ruolo dell’isola nel commercio mediterraneo è messa in relazione con «le modificazioni della struttura sociale conseguenti all’introduzione del feudalesimo, che, esteso, per ragioni finanziarie e militari a quasi tutta l’isola, creò una netta contrapposizione tra le città mercantili e i domini feudali»[107]. Gli storici constatano che «la Sardegna dei secoli XII-XIII [quella, cioè, precedente la invasione catalano-aragonese, ndr] fosse nel suo insieme non solamente prospera e tranquilla, ma anche relativamente popolata […] è in questo periodo che l’isola è uscita dal suo secolare isolamento e si è messa al passo dell’Europa. Essa ha preso parte (in modo modesto) allo sviluppo degli scambi, al progresso dell’agricoltura, soprattutto monastica, e al movimento comunale. Le basi di questa prosperità relativa, che aveva suscitato le bramosie degli aragonesi»[108]. Il papa Clemente VI (1342-1352) «attribuiva proprio alla politica seguita da Alfonso e da Pietro [Re aragonesi, ndr], una politica che egli definiva di infeudazioni, concessioni, remissioni, alienazioni, donazioni, il fatto che la conditio regni fosse facta deterior e che fossero lesi i diritti ecclesiastici»[109].

Ciò che accade in Sardegna appare confermare la tesi di Rousseau, il quale individua nello spopolamento il segno più chiaro e certo del mal governo[110]. In Sardegna, infatti, è apparso ascrivibile all’introduzione del feudalesimo anche lo spopolamento e l’abbandono selettivo delle Comunità locali[111]. Il problema drammatico della crisi demografica spinge la monarchia ad effettuare concessioni immobiliari a favore dei Catalani e Aragonesi, e a tutti coloro che partecipano alla conquista dell’isola. Sono così concessi dei guidatici, delle “carte di popolazione”, per bloccare il rapido e progressivo spopolamento[112].

Per comprendere meglio la portata del regresso economico e demografico della Sardegna regnicola, si può fare un raffronto con i territori che non erano ancora soggetti alla corona aragonese, come le curatorie di Trexenta, di Gippi e il giudicato d’Arborea, che non patiscono i fenomeni del regresso demografico e dell’abbandono dei villaggi ma continuano a tenere i tratti di società «in dinamica evoluzione, propri della Sardegna duecentesca»[113].

Anche negando al feudalesimo una portata totalizzante, anche non ritenendolo l’unica causa della ‘decrescita’ isolana, ossia della crisi economica e demografica, occorre comunque riconoscerlo come la principale concausa[114]. La ‘forma di governo’ feudale e lo stato di cose venutosi a creare a seguito della sua

introduzione, provoca «la rivolta dei sardi verso la rapacità degli aragonesi feudatari»[115]. La forma di governo feudale intesa «come una struttura politica superiore» è un «modello [che] fallì»[116].

La lotta anti-catalano-aragonese, condotta prima dal Giudicato di Arborea e quindi da tutto il popolo sardo, è non soltanto una guerra di ‘indipendenza’ (per sostituire un ‘sovrano’ con un altro della stessa natura) ma anche, se non prima di tutto, una lotta – diciamo, con un certo anacronismo – ‘rivoluzionaria’, contro la ‘forma di governo’ feudale e le sue conseguenze, quali – tipicamente – la spaccatura e la contrapposizione tra città e campagna. In principio, si tratta di azioni di lotta di comunità locali ma, in seguito, assumono i connotati di «vere e proprie guerre di liberazione, condotte ripetutamente dai diversi giudici, Mariano IV, Ugone III, Eleonora»[117]. Un conflitto aperto che vede il Popolo sardo, la «nació sardesca», contrapposto alla «nació catalana-aragonesa», conflitto «scaturito e alimentato dall’insanabile contrasto d’ordine politico, giuridico, economico e sociale determinato dal regime instaurato dagli Aragonesi nell’isola»[118].

 

 

5. – … e del Parlamento…

 

L’assetto feudale favorisce gli «sviluppi di nuove esigenze, che sono quelle delle classi più elevate della società feudale» ‘sviluppi’ che a loro volta «contribuiscono al sorgere dell’istituzione parlamentare vera e propria»[119].

Anche in Sardegna, con l’ordinamento feudale giunge l’istituzione parlamentare. Sulla data del primo ‘vero’ Parlamento sardo non c’è unanimità di giudizio. Si oscilla, tra il Parlamento del 1355, convocato − a Cagliari − da Pietro IV il Cerimonioso[120], e quello del 1421, convocato − sempre a Cagliari − da Alfonso V il Magnanimo. Vi è, infatti, chi ritiene che il Parlamento del 1355, possa definirsi meglio come «riunione», in quanto difetterebbe di elementi formali che caratterizzano l’istituto parlamentare e che connotano il rapporto contrattuale tra Re, stamenti e sudditi[121]; pertanto, si tratterebbe non di «un vero parlamento» ma soltanto di «una prefigurazione parlamentare»[122]. In ogni caso, il ‘parlamento’ del 1355 non svolge un ruolo attivo, limitandosi ad approvare le Costituzioni del Re, con le quali si sancisce l’autorità regia sui sudditi e si instaura anche formalmente la nuova organizzazione feudale. In Sardegna (ancora una volta con una inversione nell’ordine continentale degli eventi) il Parlamento appare alla origine della istituzione feudale e strumento giuridico della sua instaurazione. Come è stato scritto, esso segna «il principio della fine della precedente struttura sociale e giuridica sarda e l’avvento del feudalesimo integrale»[123].

Data esatta di nascita a parte, anche per la genesi del Parlamento sardo vale – ovviamente − quanto detto per la istituzione feudale: non è il frutto di una generazione endogena ma «nasce già adulto diversamente da quanto accadde in quasi tutti gli altri paesi dove invece rappresentò il frutto di una naturale evoluzione»[124]. L’istituzione parlamentare sarda è la riproduzione – più o meno precisa – di quella catalano-aragonese, che si svolge «attraverso il feudo»[125]; è strutturata come le Corts catalano-aragonesi: in tre estaments, ecclesiastico, militare, reale o cittadino e funziona secondo la formula per la quale «Parlaments se celebren conforme a la pratica cathalunya»[126].

È stato correttamente osservato che «le istituzioni stamentarie erano […] la forma tipica della rappresentanza di una società di ordini e di una formazione economico-sociale di tipo feudale (nel senso che i vassalli erano rappresentati dai loro feudatari)»[127]. In definitiva si assiste all’affermazione di «quel principio della rappresentanza estamental che è tipica espressione di uno Stato monarchico e di un governo non urbano, ma feudale»[128].

È stato anche affermato che, fino alla metà del XV secolo, le rappresentanze cittadine, sia quelle delle città organizzate in municipia sia quelle dipendenti direttamente dalla corona appartengono al ceto feudale, il quale è il solo ad avere un «effettivo potere rappresentativo»[129] e a svolgere «un ruolo decisivo nella vita parlamentare»[130]. Conseguentemente, essendo la stessa rappresentanza in Parlamento, appannaggio del “ceto privilegiato” quasi totalmente di estrazione catalano-aragonese, viene alquanto limitata la partecipazione dei sardi ai primi Parlamenti, costretti ad un ruolo di mera comparsa[131].

È, però, la prima ‘osservazione’ il ‘punto’ dogmatico saliente.

Nella prospettiva dogmatica del modo della volizione unitaria collettiva, è caratteristico della istituzione feudale-parlamentare l’istituto della “rappresentanza”, il quale – con il Parlamento – assurge a istituto cardine della forma di organizzazione ‘pubblica’ (ammesso che tale istituto possa conciliarsi con la nozione di Popolo) oggi diffusa a scala mondiale. L’istituzione parlamentare poggia sull’istituto della rappresentanza in forza della matrice feudale di questo istituto. Come nella istituzione feudale sono non i membri della collettività a prendere le decisioni che li concernono come tali ma i loro ‘signori’, così nella istituzione parlamentare sono non i membri della collettività a prendere le decisioni li concernono come tali ma i loro “rappresentanti”. È stato scritto che nel parlamento medievale si traducono istituzionalmente «l’idea e la funzione della rappresentanza, cioè della sostituzione – operata dapprima dai sovrani – di uomini e collegi ristretti e qualificati a moltitudini popolari o assembleari»[132] e che «lo sviluppo del sistema rappresentativo e dei parlamenti fu uno dei più cospicui fenomeni del Medio Evo»[133]: «la capacità politica era riconosciuta non agli individui considerati come soggetti della sovranità, ma alle varie signorie feudali, laiche ed ecclesiastiche»[134].

Occorre richiamare qui la attenzione sul fatto che la dottrina vede l’istituto della rappresentanza costitutivo anche del ‘ramo’ iberico della istituzione parlamentare. Ciò può sorprendere perché questo ‘ramo’ è storicamente distinto e geograficamente separato dal ‘ramo’ inglese; cioè da quello ‘riformato’ ad opera di Edoardo I, precisamente con la introduzione dell’elemento (unanimemente consideratone caratteristico) della “rappresentanza”, ovvero: con la cancellazione del “mandato imperativo” ai delegati dei Comuni al ‘Model Parliament’ ‘e con la attribuzione agli stessi delegati della “plena potestas[135].

Tale ‘sorprendente visione’ della dottrina – che ci appare però condivisibile – ha un importante senso dogmatico di portata generale: significa ridimensionare il ruolo (correntemente individuato nella costruzione dell’istituto della rappresentanza) della nozione giuscanonista di “persona ficta seu repraesentata”, riscoprendovi invece (rousseauianamente) il ruolo della logica feudale. In altre parole, ciò significa leggere la novità del famoso ‘writ’ edoardiano del 1295 come completamento di una operazione di fagocitazione feudale del sistema comunale, più che come contro-riforma di una operazione di integrazione tra (modo volitivo del) sistema feudale e (modo volitivo del) sistema comunale. Merita qui anche osservare il vero e proprio ‘calco’ della logica feudale (per cui ogni feudatario è «sovrano nella cerchia dei propri possedimenti»)[136] nello stravolgimento a “decentramento”, operato del “Federalism” nord-americano (di matrice parlamentare inglese)[137], della ‘partecipazione’, caratterizzante invece la tradizione federativa euro-mediterranea (di matrice municipale romana)[138].

La Sardegna, prima della dominazione catalana-aragonese, non era un sistema giuridico rappresentativo; le istituzioni rappresentative le erano estranee[139]. Nelle «istituzioni originarie» dell’Isola, le pubbliche assemblee[140] erano fondate «sul principio della partecipazione [la evidenziazione è nostra, ndr] dei grandi e dei liberi al governo, non già sul principio della rappresentanza proprio dei parlamenti»[141] perché «non si può attribuire natura parlamentare o rappresentativa all’intervento del popolo e dei majorales in determinate assemblee di epoche anteriori alla conquista aragonese (le Coronas de Logu[142]. Le istituzioni indigene pre-feudali-parlamentari appaiono imperniate sul sistema villae/biddas e delle loro delle assemblee (“Corone”) intra- e inter-civiche, in cui le piccole comunità locali esercitano il ruolo sovrano-attivo nell’iter volitivo giudicale. La forma di partecipazione giudicale, in cui «ciascuno partecipava per diritto proprio e non come delegato di classi o di popolo e nelle quali le deliberazioni venivano prese seguendo il criterio del consenso dei più tra gli intervenuti», cede il passo ad una modalità assembleare ‘altra’: quella rappresentativa di ordini[143]. La forma di partecipazione giudicale è, dunque, un iter volitivo complesso, che si sviluppa in maniera continuativa (con le mediazioni/sintesi intervenienti nelle Coronas precedenti la Corona de Logu: le Coronas de Bidda e de Curadoria) dal singolo civis fino al Giudice che presiede la Corona de Logu. Tale “partecipazione” è un elemento qualificante della organizzazione giudicale, ne marca la alterità con il genus degli istituti di “rappresentanza” e sancisce la continuità con la organizzazione repubblicana/imperiale romana[144]. Le istituzioni rappresentative sono in Sardegna, più che altrove, «conseguenza dell’instaurato dominio straniero e da cui restarono completamente estranei in principio gli abitanti del paese»[145] e mezzo per «raffermare la fedeltà dei sudditi all’autorità de Re»[146]; sono cioè un «instrumentum regni»[147]. Con il feudo e il Parlamento, la Sardegna assume i tratti della nuova fisionomia regnicola, con essi «si chiudeva, infatti, il cerchio istituzionale di stampo catalano stretto attorno all’isola»[148].

 

 

6. – Conclusioni. Straordinaria attualità della ‘forma di governo’ giudicale

 

Nello studiare la Sardegna giudicale e la Sardegna regnicola, troviamo la contrapposizione della ‘forma di governo’ medievale germanica (definibile come feudale-parlamentare-rappresentativa) alla ‘forma di governo’ antica romana (definibile come repubblicana-municipale-partecipativa)[149].

La Sardegna del XIV secolo è, dunque, terra di confronto e scontro concreto tra le due ‘forme di governo’, come la Francia del XVIII secolo lo sarà del loro confronto e scontro teorico: scientifico prima e politico, normativo e persino militare poi ma sempre soltanto teorico[150].

Il confronto scientifico settecentesco − ancora lungi dall’essere adeguatamente apprezzato − è di estrema importanza ai fini della comprensione dei fenomeni in generale giuridici e in particolare costituzionali, anche odierni[151]. In tale confronto, Montesquieu è fautore del “modello costituzionale” inglese, come manifestazione moderna della specifica ‘forma di governo’ germanica[152] e, in applicazione del suo “modello”, propone una organizzazione del potere tripartita in legislativo, esecutivo e giudiziario ma comunque nella disposizione dei soli rappresentanti[153]. Nel medesimo confronto, Rousseau è fautore, invece, della specifica ‘forma di governo’ romana[154] e, in applicazione del suo “modello”, propone una organizzazione del potere bipartita in iubere legem ‘sovrano’, di cui il Popolo ha non soltanto la astratta titolarità ma anche il concreto esercizio, e gubernare ‘esecutivo’, proprio dei magistrati[155]. Al generale deficit di apprezzamento scientifico di questo complesso confronto/scontro di modelli costituzionali storico-dogmatici tra loro alternativi, si somma lo specifico deficit di apprezzamento scientifico del nucleo di tale confronto/scontro, costituito dal confronto/scontro tra organizzazione parlamentare e organizzazione civica; ‘nucleo’ il quale, peraltro, emerge come essenziale anche dalla semplice lettura della Costituzione di ispirazione montesquieuiana del ’91 (a sovranità parlamentare) e della Costituzione di ispirazione rousseauiana del ’93 (a sovranità comunale/municipale).

In Sardegna, questo ‘nucleo’ marca non soltanto la transizione violenta dalla ‘forma di governo’ giudicale sarda a quella monarchica-feudale catalano-aragonese ma anche – e in maniera assolutamente cosciente – i “moti” antifeudali di fine Settecento. Nei “moti” guidati dall’Alternos “giacobino” Giovanni Maria Angioy[156], sono le Comunità locali sarde (le biddas, organizzate con “patti di unione”) a sfidare il “Parlamento sardo” (gli “Stamenti”) e il giovane avvocato-patriota sardo, Francesco Ignazio Mannu, vicino alle posizioni politiche di Angioy, nel suo inno antifeudale in lingua sarda dal titolo Su patriota sardu a sos feudatarios[157], scrive, riannodando la vicenda contemporanea a quella medievale: «Meda innanti de sos feudos /Esistian sas biddas/ Et issas fini pobiddas / De saltos e biddattones»[158]. Il Mannu in qualità di giurista svolge il suo ragionamento giuridico sulla illegittimità del sistema feudale attraverso la contrapposizione tra feudos e biddas, tra i baroni e gli abitanti delle comunità di villaggio.

Anche nel coevo pamphlet anonimo dal titolo L’Achille della sarda Liberazione, riconducibile «all’ambiente dei Giacobini cagliaritani» e ampiamente diffuso nel triennio rivoluzionario (1793-1796)[159], si incita il popolo alla ribellione contro i feudatari[160]. Nel pamphlet, diviso in quattro paragrafi, è degna di rilievo, oltre alla denuncia del malcontento per l’iniquità dell’ordinamento feudale, l’affermazione dell’importanza centrale delle «ville»[161]. Di particolare interesse il terzo paragrafo dal titolo Schiavitù feudalistica, in cui emerge la contrapposizione tra «popoli» (termine declinato al plurale per intendere gli abitanti delle comunità di villaggio) e «feudi» [162].

Lo studio dell’avvicendarsi in Sardegna della forma di governo monarchica-feudale a quella giudicale, consente non soltanto di conoscere qualche ulteriore elemento della storia sarda ma anche e soprattutto di comprendere più a fondo la dialettica tra le grandi e opposte logiche istituzionali, che la anima, e fornisce le ragioni scientifiche per prendere posizione nella odierna tensione costituzionale tra il sempre più dominante decentramento[163] e la domanda di partecipazione, che si manifesta sia all’interno sia all’esterno della Sardegna. Sono, in particolare per i Sardi, argomenti e strumenti per una non retorica/velleitaria opzione democratica.

 

 

Abstract

 

Dans l’histoire juridique de la Sardaigne du Moyen Age, l’institution “giudicale” est considérée comme la plus importante institution. Le “Giudicato” (IX-XV siècles), “forme de gouvernement” des Sardes au IX siècle à la suite du ‘détachement’ de l’île de l’empire romain, est une forme typique et exclusive de la Sardaigne. En effet, dans une Europe marquée par le système féodal, la Sardaigne giudicale représente une exception. De facto, l’île pendant longtemps constitue un exemple de terre immunisée par la féodalité puisque, d’une part les dominations barbares ont été courtes et faibles, et d’autre part n’a pas été créé un gouvernement germanique réel et durable. Elément caractérisant le gouvernement giudicale, la participation du peuple est une constante allant de l’élection des Giudici (Juges) à la signature des traités supranationaux. Cette participation est fondée sur une structure la “villa” o “bidda” (village) et se déroule dans chaque “bidda” et, au niveau supérieur entre les “biddas”: en particulier, dans une assemblée de citoyens au sein de chaque “bidda” et, avec deux niveaux supérieurs, entre les “biddas” (villages), par les assemblées de circonscription (“curatoria”) et entre l’ensemble des circonscriptions soit de tout le Giudicato (“Logu”). Ces assemblées sont appelées Corone et exercent un pouvoir, pouvant être défini comme ‘souverain’, de type politique, administratif et judiciaire, dans le Giudicato. Cette ‘forme de gouvernement’ spéciale ou spécifique à la Sardaigne apparaît en continuité avec la forme républicaine-impériale romaine. En effet, les Corone soient une suite des Conseils apparaissent comme une continuité départementaux des villes typique du système romain. Le féodalisme a été importé en Sardaigne seulement au XIV siècle avec la conquête catalane-aragonaise. La ‘forme de gouvernement’ Giudicale de la Sardaigne est renversée par l’arrivée de la monarchie catalane-aragonaise, avec le conséquent établissement d’un ordre féodal et d’une assemblée parlementaire. Les institutions de l’Ile - les assemblées du peuple basées sur un principe démocratique de participation populaire - cèdent le pas à une autre et différente modalité, aristocratique ou – selon les points de vue – oligarchique: soit représentative des ordres.

 

 



 

[Per la pubblicazione degli articoli della sezione “Tradizione Romana” si è applicato, in maniera rigorosa, il procedimento di peer review. Ogni articolo è stato valutato positivamente da due referees, che hanno operato con il sistema del double-blind]

 

[1] M. Caravale, Lo Stato giudicale, questioni ancora aperte, in G. Mele, a cura di, Atti del Convegno internazionale di studi Società e cultura nel Giudicato di Arborea e nella Carta de Logu, Oristano 5-8 dicembre 1992, Nuoro 1995, 224, ora in Id., Scritti, I, Fonti e dottrina, in P. Alvazzi del Frate, a cura di, Roma 2013, 526: «Tale spiccata originalità – credo – risulta in qualche modo mortificata nei tentativi diretti a omologare l’ordinamento sardo con modelli istituzionali e legislativi costruiti dalla storiografia per le restanti regioni del mondo occidentale. Mi sembra opportuno, invece, che essa sia ben tenuta presente, perché profondamente radicata in una società che non trova uguali nella penisola e nell’intero Continente».

[2] P. Grossi, Per la storia della legislazione sabauda in Sardegna: il censore dell’agricoltura, in Rivista di diritto agrario, 42, 1963, 67: «il medioevo sardo rappresentava il culmine di un’evoluzione storica, rappresentava il momento di una effettuale autonomia sul piano politico conseguita da vitali forze interne all’isola, concretantesi nelle solide strutturazioni dei Giudicati […] strutture tipiche che non avevano raffronto nel diritto continentale» L’autore definisce «periodo dell’autonomia» esattamente l’arco temporale che va dal IX secolo alla conquista aragonese; M. Caravale, Ordinamenti giuridici dell’Europa Medievale, Bologna 1994, 221: «Forme organizzative del tutto originali andò, infine, assumendo nel periodo in esame l’ultimo dei domini bizantini d’Italia, l’Isola di Sardegna»; A. Mattone, Le radici dell’autonomia. Civiltà locale e istituzioni giuridiche dal Medioevo allo Statuto speciale, in M. Brigaglia, a cura di, La Sardegna, II, La cultura popolare, l’economia, l’autonomia, Cagliari 1982, 12: «È proprio nel Medioevo che si delinea il nucleo istituzionale della civiltà locale, con una sua personalità caratteristica, un’organizzazione amministrativa ed una legislazione consuetudinaria».

[3] 238 a.C. Sardegna, 236 a.C. Corsica. Sull’uso già ‘pre-imperiale’ della espressione “provincia imperii”, vedi A. Favuzzi, Osservazioni su alcune proposte di Mecenate nel libro LII di Cassio Dione, in M. Chelotti, a cura di, Epigrafia e territorio, politica e società. Temi di antichità romane, IV, S. Spirito (Ba) 1996, 281, ove si rinvia a G. Vrind, De Cassii Dionis vocabulis quae ad ius publicum pertinent, Den Haag 1923, 141 ss.; cfr. anche C. Carsana, La teoria delle forme di governo: il punto di vista di Cassio Dione sui poteri di Cesare, in V. Fromentin - E. Bertrand - M. Coltelloni-Trannoy - M. Molin - G. Urso, éd. s, Cassius Dion: nouvelles lectures, II, Bordeaux 2016, 545 ss.

[4] A. Boscolo, L’età dei giudici, in M. Brigaglia, a cura di, La Sardegna, I, La geografia, la storia, l’arte e la letteratura, Cagliari 1982, 26: «nel 534, la Sardegna – passando dai Vandali ai Bizantini – tornava nell’orbita della cultura e del potere di Roma».

[5] E. Besta, Il diritto sardo nel medioevo, Bari 1898, 8, l’autore rivolgendosi al popolo sardo afferma: «fra voi le istituzioni barbariche non ebbero agio di dare alla società un assetto nuovo: l’influenza loro si arrestò alla superficie, non penetrò nell’intima compagine del corpo sociale […] fu troppo breve e malferma la loro signoria perché vi rimanessero indelebili tracce del loro sistema giuridico».

[6] G. Calligaris, Due pretese dominazioni straniere in Sardegna nel secolo VIII, in Miscellanea di storia italiana, S. 3, T. 3, Torino 1896, 3-20; G. Zanetti, I longobardi e la Sardegna, in Atti del 1° Congresso Internazionale di Studi Longobardi, Spoleto 1952, 525-535, ora in Studi storici e giuridici in onore di Antonio Era, Padova 1963, 465-479.

[7] F.C. Casula, La Storia di Sardegna, Sassari 1992, 127-167.

[8] G. Zanetti, Giudicato (Storia del diritto sardo), in Novissimo Digesto Italiano, VII, Torino 1957, 864. L’autrice ricostruisce la storia dei giudicati e la loro organizzazione, rimarca che nei secoli VIII-IX «mentre in quasi tutta l’Europa medievale si radicavano, generalizzandosi, i germi del feudalesimo, in Sardegna, terra rimasta immune dal dominio barbarico» iniziava ad assumere una ben definita fisionomia il governo giudicale.

[9] Vedi S. Calderone, Costantinopoli la ‘seconda Roma’, in Aa.Vv., Storia di Roma, III/1, L’Età tardoantica. Crisi e trasformazioni, Torino 1993, 723-749; cfr. la “Collana diretta da Pierangelo Catalano” Da Roma alla Terza Roma. Documenti e studi, edita da «L’Erma» di Bretschneider.

[10] C.M.A. Rinolfi, Юридические аспекты римской Сардинии в речи Цицерона “pro Scauro” (Aspetti giuridici della Sardegna romana nella pro Scauro di Cicerone), in Ius Antiquum - Drevnee Pravo 1.4, 1999, 63 ss., l’autrice richiama l’attenzione sull’importanza dell’organizzazione della provincia Sardiniae e al contempo evidenzia la mancanza di recenti lavori specifici sull’argomento.

[11] E. Besta, La Sardegna medioevale, II, Le istituzioni politiche, economiche, giuridiche, sociali, Palermo 1908-1909, rist. an. Bologna 1966, 83: «nella Sardegna medievale […] i beni già del fisco imperiale continuarono a formare un complesso economico distinto dallo avere particolare del giudice […] svanita la dipendenza dall’impero, le ragioni di diritto pubblico […] non furono però confuse con quelle di diritto privato»; sulla continuità dell’organizzazione giudicale con gli istituti della Repubblica imperiale romana, vedere M. Orrù, Alle origini del giudicato: una breve riflessione, in  Theologica & Historica, Annali della Pontificia facoltà teologica della Sardegna, XXII, 2003, 359-362, l’autore avanza l’ipotesi che la Novella CXLIX di Giustino II, del 18 gennaio 569 sia all’origine della modalità di elezione dei Giudici; Id., Nota sull’amministrazione dell’Isola in età bizantina e altomedievale. Κουράτορες in Sardegna?, in Theologica & Historica, Annali della Pontificia facoltà teologica della Sardegna, XXV, 2016, 361-365, l’autore avanza l’ipotesi che la curatoria sarda sia istituzione “bizantina”.

[12] F.C. Casula, Profilo storico della Sardegna catalano-aragonese, Cagliari 1982, 13, l’autore descrive l’organizzazione statuale del Giudicato e afferma che «non era uno stato patrimoniale di proprietà del sovrano, un «Herrschertum», ma uno stato subiettivo, superindividuale, al di sopra dei suoi stessi regnanti».

[13] O. Schena, Strutture politiche, istituzioni ecclesiastiche e vita culturale nei secoli XI-XIII, in O. Schena - S. Tognetti, La Sardegna medievale nel contesto italiano e mediterraneo (secc. XI-XV), Milano 2011, 11: «i Giudici potevano liberamente disporre solo del loro patrimonio personale (pecugiare)».

[14] V. Leontovitsch, Elementi di collegamento fra le istituzioni di diritto pubblico della Sardegna medioevale ed il diritto pubblico dell’Impero bizantino, in Medioevo. Saggi e Rassegne, 3, 1977, 9-10: «le basi del regime statale della Sardegna medievale, e soprattutto la […] separazione tra la sfera giuridica pubblica e privata, oppure istituti con spiccato carattere di diritto pubblico siano in relazione con le tradizioni giuridiche dell’Impero bizantino, o che addirittura derivino dalla struttura giuridica di tale Stato» e (14) «la Sardegna dell’XI e XII secolo non apparteneva all’Occidente feudale bensì alla sfera giuridica bizantina, basata sul dualismo del diritto pubblico e privato»; cfr. J. Le Goff, La civilisation de l’Occident médiéval, 1ª ed. Paris 1964, tr. it. La civiltà dell’Occidente medievale, Torino 1981, 57: «I Franchi, malgrado gli sforzi per attingere da Roma la sua eredità politica e amministrativa, non avevano acquistato il senso dello Stato. Il regno era considerato dai Franchi come una loro proprietà, allo stesso modo dei possessi e dei tesori».

[15] L. D’Arienzo, Documenti sui Visconti di Narbona e la Sardegna, I-II, Padova 1977; vedi anche V. Amat di San Filippo, Pretendenti e discendenti della Casa d’Arborea, in Archivio Storico Sardo, XXXI, 1980, 85-91.

[16] P. Marica, La Sardegna e gli studi del diritto, II, Le fonti, Roma 1955, 19: «Il giudice, pur appellandosi Re, non era un Sovrano assoluto, ma piuttosto, un primus inter pares, la sua stessa nomina derivando da designazione anche del popolo che vi concorreva […] nelle «Corone»».

[17] E. Besta, Il diritto sardo nel medioevo, cit., 14: «Il giudice solo e il doge solo avrebbero potuto obbligar sé stessi, non il popolo», vedi anche (40)  nt. 30: «L’intervento del popolo era tanto necessario che, dove fosse mancato, conveniva menzionarne la causa».

[18] R. Carta Raspi, La Sardegna nell’alto medioevo, Cagliari 1935, 206.

[19] F.C. Casula, Banno, bannalità, in Dizionario Storico Sardo, Roma 2003, 149: «Nei regni giudicali sardi per “banno-consenso” (bannus-consensus) s’intendeva il rapporto fra il sovrano e il suo popolo il quale concedeva al re la facoltà d’impero sulle medesime genti in cambio del rispetto delle prerogative popolari espresse nel giuramento all’atto dell’intronizzazione. La rottura del “banno-consenso” poteva indurre i sudditi al tirannicidio, come avvenne nel 1235 con l’uccisione di Barisone III nel Regno di Torres; nel 1307 con quella di Giovanni/Chiano nel Regno di Arborèa, e, nel 1383, con quella di Ugone III ancora nel Regno di Arborèa».

[20] F.C. Casula, La Sardegna Aragonese, I, La Corona d’Aragona, Sassari 1990, 120.

[21] E. Besta, La Sardegna Medioevale, II, Le istituzioni politiche, economiche, giuridiche, sociali, cit., 56-59, confrontare il capitolo 7 dal titolo La partecipazione del popolo al governo.

[22] F.C. Casula, La storia di Sardegna, cit., 171: «Al sovrano fedifrago veniva tolto il consensus, e poteva essere ferocemente giustiziato dal popolo – come spesso accadde nella storia giudicale –, secondo il “diritto alla rivolta” di origine bizantina»; Id. La Sardegna aragonese, II, La Nazione Sarda, Sassari 1990, 397: «nessuno, né cronista né storico, ha mai notato o fatto notare che, nella storia della Sardegna giudicale, il regicidio popolare, con deturpazione di cadavere, è ricorrente e tale da farlo sembrare un’antica legge risolutoria bizantina, un atto di giustizia superiore nei confronti del tiranno che aveva violato, in qualche modo, il giuramento di bannus-consensus”». Vedi, in proposito C.G. Pitsakis, Dalla Nuova Roma al Commonwealth bizantino: il modello politico-religioso di Costantinopoli e la sua espansione oltre i confini dell’impero, in A. Pacini, a cura di, L’Ortodossia nella nuova Europa. Dinamiche storiche e prospettive, Torino 2003, § 3. Discordanze nella sinfonia bizantina, 16-30, in particolare (20 ss.) «Ma che cosa accade se l’imperatore non adempie ai suoi doveri di filantropia e giustizia? Una simile eventualità rappresenta l’occasione adatta per esercitare il supremo diritto popolare, quello cioè della resistenza al potere, o addirittura della rivoluzione: non esiste, infatti, altra possibilità “costituzionale” di rovesciare chi si è mostrato indegno di rappresentare l’immagine di Dio sulla terra. In certe circostanze l’esercizio di tale diritto appare giustificabile e giustificato, se non raccomandabile; analogamente, e a maggior ragione, il diritto di resistere o ribellarsi al potere è indiscutibile nel caso ancor più grave in cui l’imperatore manchi di ortodossia. All’origine di tutte le sommosse e le rivolte scoppiate a Bisanzio vi sono sempre state delle accuse di ingiustizia a danno dell’imperatore. Naturalmente, sarebbe eccessivo affermare che il diritto pubblico o “costituzionale” bizantino garantisse al popolo un “diritto di rivolta”. Quando le sommosse non raggiungevano l’obiettivo di rovesciare l’imperatore, i loro capi si ritrovavano evidentemente alla mercé del vincitore: la loro sconfitta significava pertanto che la Provvidenza non aveva abbandonato il suo eletto, e che quindi la rivolta era ingiustificata. Per contro, il successo di una rivoluzione ne comportava generalmente la giustificazione: in fin dei conti, la Provvidenza avrebbe potuto proteggere l’imperatore, se avesse voluto farlo. È qui, dunque, che si osserva quella che in teoria è l’unica incrinatura nell’unità bizantina degli ordini politici e giuridici. Il diritto canonico mantiene un atteggiamento sostanzialmente neutro nei confronti degli attentati all’ordine costituito. Evidentemente, ciò presuppone un chiaro diritto (se non addirittura un dovere) di disobbedienza o di resistenza a un’autorità o a una politica imperiali che si pongano in dissidio con la vera fede o con la disciplina della chiesa: è quello che I. P. Medvedev ha definito, in un suo articolo, ius resistendi37. La storia era ricca di esempi in questo senso» [nt. 37 «I. Medvedev, «Le pouvoir, la loi et le ius resistendi à Byzance. Quelques considérations» in Byzantinoslavica, 56, 1995 [Stéfanos. Studia Byzantina ac slavica Vladimiro Vavrinek ad annum sexagesimum quintum dedicata], 75-81; J. Karayannopoulos, To Byzantinó krátos, Saloniki 1996, pagg. 294-9»].

[23] F.C. Casula, Una nota sul giudice Giovanni d’Arborea, in Archivio Storico Sardo, XXVII, 1960, 161-168; Id., Lo Zurita e il giudice Chiano d’Arborea, in Atti del VII Congresso di Storia della Corona d’Aragona, II, Barcellona 1962, 344-348; Id., Barisone III, re di Torres, in Dizionario Storico Sardo, cit., 161. Vedere a proposito del tirannicidio G.B. Tuveri, Del diritto dell’uomo alla distruzione dei cattivi governi, 1ª ed. Cagliari 1851, ora in Tutte le opere, I, in A. Accardo - L. Carta - S. Mosso, a cura di, Sassari 1990. L’autore sostiene il diritto dei cittadini alla resistenza e la legittimità delle rivoluzioni, in particolare leggere il capitolo III Della Sovranità, 365: «è il difetto d’un mezzo ordinario, per cui il Popolo possa esercitare i suoi poteri sovrani, che necessita e giustifica le Rivoluzioni, le quali altro non sono, che l’irregolare esercizio della Sovranità popolare […] Perché dunque sia lecito il rivoltarsi, è necessario, che la Società non possa regolarmente riparare ai suoi mali», e ancora il capitolo XVI Del Regidio e del Tirannicidio, 584-585: «l’uccisione del tiranno è un diritto; un diritto autorizzato dalla conservazione della Società, che per la tiranide va a perire»; cfr. F. Francioni, Diritto di resistenza, nazione e patria in Sardegna durante la rivoluzione Francese, in Le autonomie etniche e speciali in Italia e nell’Europa Mediterranea. Processi storici e istituzioni, Atti del Convegno Internazionale nel quarantennale dello Statuto, Cagliari 1988, 89-90. L’autore riporta le posizioni dei gesuiti Juan de Mariana e Francisco Suarez, e di Johannes Althusius riguardo diritto di resistenza.

[24] F.C. Casula, Ugone III, re di Arborèa, in Dizionario Storico Sardo, cit., 1828; A. Boscolo, L’impresa di Martino il Giovane in Sardegna, in Medioevo Aragonese, Padova 1958, 27; E. Putzulu, L’assassinio di Ugone III e la pretesa congiura aragonese, in Anuario de Estudios Medievales, Barcelona 1965, 333-357; cfr. R. Tanda, La tragica morte del giudice Ugone III d’Arborea alla luce di nuove fonti documentarie, in Miscellanea di Studi Medioevali Sardo-Catalani, Cagliari 1981, 93-115.

[25] J. Bodin, Les Six Livres de la République, 1ª ed. Paris 1576, livre II, chapitre I: «n'y a doute quelconque, que l'état des Romains, depuis qu'on donna la chasse aux rois, ne fût populaire» vedi anche livre I, chapitre VIII, De la souveraineté: «La souveraineté est la puissance absolue et perpétuelle d'une République, que les Latins appellent majestatem», versione in italiano, I Sei Libri dello Stato, in M. Isnardi Parente, a cura di, Torino 1988, I, libro II, capitolo I, 554: «Non c’è alcun dubbio che il regime istituito in Roma dopo la cacciata dei re fosse democratico» vedi anche I, libro I, capitolo VIII, (345) Della sovranità: «Per sovranità s’intende quel potere assoluto e perpetuo ch’è proprio dello Stato. Essa è chiamata dai latini maiestas».

[26] G. Zirolia, Ricerche storiche sul governo dei giudici in Sardegna e relativa legislazione, Sassari 1897, p. 97.

[27] F. Artizzu, Gli studi sulle istituzioni della Sardegna: situazione attuale e prospettive di ricerca, in Archivio Storico Sardo, XXXIII, 1982, 167-177.

[28] G. Milia, La civiltà giudicale, in M. Guidetti, a cura di, Storia dei Sardi e della Sardegna, II, Il Medioevo. Dai Giudicati agli Aragonesi, Milano 1988, 194: «I numeri aiutano a capire la capillare e totale diffusione in tutta l’isola di tale organizzazione amministrativa: il «giudicato» di Cagliari era diviso in 16 curadorias che comprendevano ben 406 ville; quello del Logudoro aveva un numero superiore di «curatorie», 19, ma inferiore di ville: 341; l’Arborea contava invece 13 «curatorie» e 223 ville; mentre la Gallura aveva 11 «curatorie» e 140 ville»; cfr. F.C. Casula, “Giudicati e curatorie”, in R. Pracchi e A. Terrosu Asole, a cura di, Atlante della Sardegna, Roma 1980, p. 94: «Uno degli aspetti più sorprendenti dell’organizzazione giudicale è dato dalle curatorie, chiamate preferibilmente partes nella Sardegna meridionale (ma più nell’Arborea che nel Cagliaritano). Queste curatorie erano, in pratica, distretti amministrativi di varia estensione, formati da un complesso più o meno numeroso di paesi o «ville» («biddas»)».

Cfr. C. Ferrante - A. Mattone, Le comunità rurali nella Sardegna medievale (secoli XI-XV), in Diritto@Storia, N. 3 – Maggio 2004, in particolare il § 2 La villa nella società giudicale dei secoli XI-XII in cui si afferma che «la comunità rustica, composta in prevalenza da piccoli proprietari terrieri, artigiani e coloni, era in genere dotata di organi di governo, di un’assemblea, talvolta di statuti, ed esercitava la propria autonomia amministrativa disciplinando gli usi collettivi nel territorio di pertinenza […] l’impronta bizantina costituisce il nucleo originario occulto della storia della comunità rurale sarda del Medioevo, giacché la struttura amministrativa e giudiziaria rigorosamente centralistica dei Giudicati non prevedeva immunità o poteri delegati di tipo feudale».

[29] G. Olla Repetto, L’ordinamento costituzionale-amministrativo della Sardegna alla fine del ’300, in Il mondo della Carta de Logu, Cagliari 1979, ora in Ead., Studi sulle istituzioni amministrative e giudiziarie della Sardegna nei secoli XIV e XV, Cagliari 2005, 238, e (247) «la molecola della società»; Ead., Le istituzioni medievali, in  La Sardegna, I, La geografia, la storia, l’arte e la letteratura, in M. Brigaglia, a cura di, cit., ora in Ead., Studi sulle istituzioni amministrative e giudiziarie della Sardegna nei secoli XIV e XV, Cagliari 2005, 252: «cellula base del tessuto sociale medievale sardo» e (258) «la centralità della villa, ombelico del corpo territoriale».

[30] A. Boscolo, La Sardegna dei Giudicati, Cagliari 1979, 12: «Le ville erano i centri più importanti di ciascun giudicato. Ogni villa, abitata generalmente oltreché da liberi e da servi anche da colliberti, si presentava con una struttura ben organizzata»; cfr. M. Tangheroni, L’economia e la società della Sardegna (XI-XIII secolo), in M. Guidetti, a cura di, Storia dei Sardi e della Sardegna, II, Il Medioevo. Dai Giudicati agli Aragonesi, cit., 157: «la base del tessuto connettivo, economico ed istituzionale dei giudicati»; J. Day, La Sardegna e i suoi dominatori dal secolo XI al Secolo XIV, in La Sardegna medioevale e moderna, Storia d’Italia, X, Torino 1984, 65: «L’unità amministrativa di base è naturalmente il villaggio, le cui diverse denominazioni nei documenti dell’epoca – scolca, curte, donnicalia, domus – si riferiscono a una medesima realtà economico-sociale. Verso la fine del XIII secolo, tutta questa nomenclatura, che ha lasciato parecchie tracce nella toponomastica, tende a sparire. Rimane solamente il termine villa (bidda in sardo) per indicare un centro di insediamento a volte frazionato, spesso microscopico, ma dotato di personalità giuridica propria e di un territorio delimitato, composto, secondo la formula consueta, dal centro di abitazione, dai campi, prati, vigne, saltus, corsi d’acqua e domestias».

[31] E. Mura, Considerazioni sul problema fondiario nella Sardegna medievale, in Archivio Storico Sardo di Sassari, XI, 1985, 144: «Nel periodo giudicale più antico troviamo la Sardegna organizzata economicamente ed amministrativamente in villaggi costituenti non solo un’unità demografica, ma una vera e propria unità politica con competenze sul territorio circostante che ne costituisce una naturale pertinenza»; F.C. Casula, Villa, in Dizionario Storico Sardo, cit., 1879: «Come distretto politico la “villa” stette alla base dell’organizzazione amministrativa dei successivi regni giudicali di Càlari, Torres, Gallura e Arborèa».

[32] R. Carta Raspi, Ugone III d’Arborea e le due ambasciate di Luigi I d’Anjou, Cagliari 1936, 38-39.

[33] F.C. Casula, Eleonora regina del regno d’Arborea, Sassari 2003, 342; Id., Carte reali diplomatiche di Giovanni I il Cacciatore, re d’Aragona, riguardanti l’Italia, Padova 1977, doc. 145, 176: «Capitols tractats e ordonats per part de madona Elianor d.Arborea e los Sarts d.Arborea», il re d’Aragona chiede espressamente l’approvazione delle comunità del giudicato d’Arborea, che avviene puntualmente secondo la modalità della corone popolari.

[34] A. Solmi, Prefazione a i Condaghi di S. Nicola di Trullas e di S. Maria di Bonarcado, Milano 1937, 15: «l’organizzazione della corona, nella triplice forma della corona de rennu, della corona de curatore e della corona de villa, si rivela in tutta la sua varia membratura, per i diversi fini politici, amministrativi, giudiziari di queste riunioni e di questi tribunali».

[35] E. Besta, La Sardegna Medioevale, II, Le istituzioni politiche, economiche, giuridiche, sociali, cit., 97. La stessa osservazione è fatta da Aldo Checchini, Note sull’origine delle istituzioni processuali della Sardegna medioevale, Aquila 1927, ora in Id. Scritti giuridici e storico-giuridici, II, Storia del processo-Storia del diritto privato, Padova 1958, 13, il quale però scrive “mos sardicus”. Entrambi gli Autori ricavano la informazione da Pasquale Tola, Codex Diplomaticus Sardiniae, I, parte II, Torino 1861 (in Historiae Patriae Monumenta, Tomo X), sec. XIV, doc. LXXVI, 740: «in corona more Sardico».

[36] F.C. Casula, La Sardegna aragonese, I, La corona d’Aragona, cit., 125: «Nello Stato sardo il potere era diviso fra il “giudice” e l’assemblea generale del popolo chiamata corona de logu, espressione delle riunioni curatoriali chiamate coronas de curatoria» e (126) «La corona de logu era l’essenza stessa e il fondamento dello Stato indigeno sardo, l’organo istituzionale che ne assicurava la continuità al di là e al di sopra delle case regnanti. Era formata dai rappresentanti delle curatorie eletti dai villaggi – riuniti in assemblea nel capoluogo del proprio distretto».

[37] R. Carta Raspi, La Sardegna nell’alto medioevo, cit., 218: «Il principio della sovranità popolare era così ben radicato, che queste corone esercitavano le loro funzioni incominciando dai più piccoli aggruppamenti della villa, presieduti dal maiore de villa, a quelli della curatoria, presieduti dal curatore, a quelli straordinari presieduti dal Giudice o da un suo rappresentante (generalmente l’armentariu o anche il curatore del distretto della capitale), a quelli che costituivano la corona de logu, l’assemblea generale di tutto il Giudicato (logu)»; Id., Storia della Sardegna, Milano 1971, 653: «si chiedeva il consenso delle popolazioni, per mezzo delle corone locali fino a quella de Logu […] si procedeva per gradi, conforme all’organizzazione politico-amministrativa del territorio del Giudicato: le città, le curatorie, i villaggi che le costituivano. E si procedeva, naturalmente, in senso inverso. Ogni villaggio convocava i propri abitanti (di sesso maschile) che si riunivano in corona, e, a conclusione della adunanza, eleggevano un delegato. In un secondo tempo, i delegati delle ville venivano convocati in corona de Curatoria, beninteso, in quella di cui i villaggi facevano parte: e designavano il rappresentante, che, con quelli prescelti dalle singole altre curatorie, interveniva alla corona de Logu che si svolgeva nella città giudicale».

[38] R. Turtas, La Chiesa durante il periodo aragonese, in M. Guidetti, a cura di, Storia dei Sardi e della Sardegna, II, Il Medioevo. Dai Giudicati agli Aragonesi, cit., 280.

[39] Pare che la “Corona” con funzioni giudiziarie sia indicata come “sinotu”, categoria anche questa imperiale romana: A. Mastino, La romanità della società giudicale in Sardegna: il Condaghe di san Pietro di Silki, in Atti del Convegno nazionale La civiltà giudicale in Sardegna nei secoli XI-XIII. Fonti e documenti scritti, Sassari 2002, 41: «il termine sinotu appare esattamente conservare la parola σύνοδος bizantina, nel senso di concentramento di più persone, viaggio (σύν-όδός), traduzione evidentemente dell’originario conventus romano (cum-venio), che designa le sessioni giudiziarie presiedute dal proconsole o dal suo legato nella capitale Carales oppure in sede decentrata nelle città principali». Il giorno della convocazione della corona giudiziaria è chiamato sa die de sinotu. Dopo alcune considerazione svolte giunge alla conclusione che «il kertu del governo giudicale potrebbe dunque essere l’esito lontanissimo del processo provinciale romano, trasferito ora alla competenza del giudice logudorese e da questi in parte delegato ai curatores delle 19 curatorie».

[40] A. Checchini, Note sull’origine delle istituzioni processuali della Sardegna medioevale, Aquila 1927, ora in Id. Scritti giuridici e storico-giuridici, II, Storia del processo-Storia del diritto privato, cit., 10, l’autore rileva che per determinare in maniera esatta la derivazione degli istituti processuali sardi dal «tronco latino» occorre ricostruire, in maniera approfondita, «le corrispondenti istituzioni giuridiche romane»; cfr. M. Viora, Recensione a Note sull’origine delle istituzioni processuali della Sardegna medioevale, Aquila 1927, in Studi Sassaresi, VI, 1928, 182-184, il Viora concorda con le conclusioni e posizioni del Checchini «Siamo, dunque, davanti a due tribunali di identica composizione: è logico perciò inferirne la derivazione del secondo, cioè del tribunale sardo, dal primo, il tribunale romano»; cfr. G. Pittiu, Il procedimento giudiziario nei Condaghi e nella Carta de Logu, in Studi Sardi, anno IV, fasc. 1, 1940, 33, l’autore respinge le tesi di Brandileone e Di Tucci concordando con Checchini riguardo all’«origine» delle istituzioni processuali sarde dal diritto romano. Viene esclusa (34) ogni «influenza germanica e saracena, il diritto sardo di questo periodo conserva ancora elementi del diritto romano, che la Sardegna aveva vissuto intimamente durante i cinque secoli della pace romana, pur assumendo caratteristiche proprie» e si osserva (42-43) come «la corona de logu si teneva in occasione del sinotu, che era l’assemblea del giudice, degli ufficiali dello stato, dell’alto clero, dei maggiorenti e del popolo per la trattazione di affari di natura politica, amministrativa, giudiziaria, religiosa […] il sinotu rappresenta la continuazione delle assemblee romane provinciali, e la corona sarda nel nome, nella composizione e nel funzionamento, riproduce perfettamente gli elementi e i caratteri del conventus giudiziario romano»; L. Lo Schiavo, Ordinamento giudiziario e sistemi di giustizia nella Sardegna medievale, in I. Birocchi - A. Mattone, a cura di, La Carta de Logu d’Arborea nella storia del diritto medievale e moderno, Roma-Bari 2004, 117-118: «infondata la tesi di una diretta influenza nell’isola delle legislazioni germaniche […] Nessuno discute più […] il permanere di un consistente fondo romano nei costumi giudiziari della Sardegna bizantina e di quella giudicale […] La ripartizione delle competenze giudiziarie nella Sardegna giudicale trova piena corrispondenza con l’ordinamento provinciale tardo-romano».

Sulla “dimenticata” rilevanza dei “Concili provinciali” nell’Impero romano, vedi G. Lobrano, Per ri-pensare giuridicamente le «Città» e, quindi, l’«Impero»: I «Concili provinciali», in Ius Romanum [http://iusromanum.eu] 2, 2017, 1-31.

[41] P. Tola, Codex Diplomaticus Sardiniae, I, parte II, sec. XIV, doc. CL, cit., 817-861, in particolare notare parte dell’intitolazione del Tola alla pace del 1388: «Atto solenne di pace tra il re Don Giovanni di Aragona ed Eleonora Giudicessa di Arborea, col concorso delle città, ville, e comuni dipendenti da quest’ultima, e dei Sardi di lei fautori e aderenti»; G. Zirolia, Ricerche storiche sul governo dei giudici in Sardegna e relativa legislazione, cit., 99: «esempio raro di libertà popolare, il modo con cui nei nostri giudicati si otteneva la vera espressione del voto dei cittadini […] Quando Eleonora di Arborea conchiuse il trattato di cui si discorre col re Don Giovanni  di Aragona ebbe necessità del voto del suo popolo»; vedi A. Mattone, Eleonora d’Arborea, in Dizionario Biografico degli Italiani, 42, Roma 1993, 412-413, scrive: «Il trattato era già stato pregiudizialmente approvato, secondo gli ordinamenti pubblici giudicali, dai sindaci, “actores et procuratores” delle città, delle curatorie e delle incontrade, “congregati” ad Oristano, nel refettorio della chiesa di S. Francesco, nell’assemblea della Corona de Logu, cioè l’istituzione abilitata a discutere e a ratificare i capitoli di pace. Ad esso sono infatti allegate le ratifiche dei rappresentanti delle città e dei villaggi, sia giudicali, sia quelli dei territori incorporati, alle condizioni fissate, e l’elenco degli abitanti che riuniti in assemblea avevano dato al loro sindaco e procuratore la potestà di sottoscrivere l’atto»; L. D’Arienzo, Gli studi paleografici e diplomatistici sulla Sardegna, in Archivio Storico Sardo, XXXIII, cit., 135: «sono riportati in appendice al testo della pace, i documenti notarili stilati in occasione delle assemblee, convocate nelle curatorie sarde, al fine di raccogliere il consenso della «naciò Sardesca» alla stipulazione del trattato».

[42] La Carta de Logu di Arborea, promulgata dal Giudice Eleonora tra l’anno 1389 e l’anno 1392, è l’aggiornamento e ampliamento della Carta emanata dal padre di Eleonora, Mariano IV (Giudice dal 1347 al 1375) e già rivisitata dal fratello di Eleonora, Ugone III (Giudice dal 1375 al 1383).

Circa la prova fornita anche dalla Carta de Logu della forte presenza e incidenza del diritto romano negli ordinamenti giuridici della Sardegna giudicale, vedi F. Sini, Comente comandat sa lege. Diritto romano nella Carta de Logu d’Arborea, Torino 1997, 1-156, il quale dimostra come il diritto romano sia riscontrabile nel testo normativo arborense in tutti i suoi 198 capitoli, sottolineandone la particolare evidenza in alcuni di essi, 3, 77, 78, 97, 98, dove la giudicessa-reggente Eleonora Bas-Serra richiama esplicitamente il diritto romano, con un rinvio a sa lege e a sa ragione; cfr. Id., Influssi del diritto romano sulla «Carta de Logu» di Arborea, in I. Birocchi - A. Mattone, a cura di, La Carta de Logu d’Arborea nella storia del diritto medievale e moderno, cit., 50-71. Il Sini analizza alcuni capitoli della Carta de Logu, raffrontandoli con frammenti del Corpus Iuris Civilis, per mostrarne l’effettiva aderenza al diritto romano. In questo saggio, in una prospettiva strettamente romanistica, l’autore dimostra «l’esistenza di influssi del diritto romano giustinianeo sulla Carta de Logu di Arborea»; Id., Notazioni (e/o rimeditazioni) su diritto romano e Carta de Logu de Arborea, in Diritto @ Storia 11, 2013 (http://www.dirittoestoria.it/11/D&Innovazione/Sini-Notazioni-rimeditazioni-diritto-romano-Carta-Logu-Arborea.htm), in particolare vedere il § 3.1. Legittima difesa nella Carta de Logu e diritto romano; cfr. ancora nello stesso senso A. Rota, Aspetti giuridici della Carta de Logu di Eleonora d’Arborea, in Archivio Storico Sardo di Sassari, I, 1975, 15: «strettamente aderente alle proprie istituzioni originarie, vissute un tempo sull’eredità del diritto romano».

Vedi anche E. Cortese, Diritto romano e diritto comune in Sardegna , in Appunti di storia giuridica sarda, Milano 1964, 134: «L’ancoramento della civiltà sarda alla romanità non era dunque lasciato alle «sopravvivenze» bizantine nelle consuetudini, ma era in qualche misura mantenuto vivo da un ius commune destinato a modellare la prassi attivamente»; cfr. M. Bellomo, La «Carta de Logu» di Arborea nel sistema del diritto comune del tardo trecento, in Rivista internazionale di diritto comune, V, 1994, 7-21, quindi in Id., Medioevo edito e inedito, II, Scienza del diritto e società medievale, Roma, 1997, 149-164 e infine, con alcune varianti con il nuovo titolo La «Carta de Logu» di Arborea nel sistema del diritto comune, in I. Birocchi - A. Mattone, a cura di, La Carta de Logu d’Arborea nella storia del diritto medievale e moderno, cit., dove (p. 9) l’autore mette invece in evidenza «la relazione fra la Carta de Logu e il ius commune quale si può individuare nei capitoli LXVII, ordinamentos de imprestationes e de possessiones, e LXVIII, de qui possiderit».

[43] R. Carta Raspi, La Sardegna nell’alto medioevo, cit., 221: «Come poteva essere, sia pure in quegli anni, una semplice formalità se il re d’Aragona, per maggior garanzia volle impegnare all’adempimento delle clausole del trattato non già il Giudice, ma il popolo, ch’egli sapeva non completamente scaduto dalla sovranità sempre esercitata? Altrettanto invece non poteva dirsi per gli altri feudatari aragonesi e catalani del monarca spagnolo […] Siamo tuttavia alla fine del XIV secolo; e son trascorsi dunque almeno sei secoli, da quando in Sardegna funzionavano le corone».

[44] A. Marongiu, Aspetti della vita giuridica sarda nei Condaghi di Trullas e di Bonarcado (secoli XI-XIII), in Studi economico-giuridici della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Cagliari, XXVI, 1938, ora in Id., Saggi di storia giuridica sarda e politica sarda, Padova 1975, 21.

[45] Per la definizione di legge “generale iussum populi” del giurista Ateio Capitone vedere G. Lobrano, Res publica res populi. La legge e la limitazione del potere, Torino 1996, 121.

[46] M. Caravale, Ordinamenti giuridici dell’Europa Medievale, cit., 508.

[47] G.G. Ortu, Villaggio e poteri signorili in Sardegna. Profilo storico della comunità rurale medievale e moderna, Roma-Bari 1996, 91.

[48] G. Astuti, Feudo, in Enciclopedia del Diritto, XVII, Varese 1968, 292.

[49] A Marongiu, L’istituto parlamentare in Italia dalle origini al 1500, Roma 1949, 15, l’autore (16) definisce lo «Stato feudale» come «ordini sociali costituenti ordinamenti per sè stanti».

[50] H. De Boulainvilliers, Lettres sur les anciens Parlements de France que l’on nomme Etats Généraux, IV, London 1753, 127: «Je crois donc pouvoir terminer cette description en disant qu’encore que les philosophes grecs, et particulièrement Aristote, n’ayent aucune idée du gouvernement féodal, qu’en particulier ce dernier ne l’ait pas compris au nombre de ses catégories politiques, on peut regarder comme le chef – d’oeuvre de l’ésprit humain dans ce genre».

[51] A tal proposito si può ricordare il ‘leudesamio’, giuramento con il quale si costituisce un vincolo di fedeltà tra il re e il suo seguito, la comitiva dei suoi fedeli; vedere H. Mitteis, Der Staat des Hoen Mittelalters. Grundlinien einer vergleichenden Verfassungsgeschichte des Lehnzeitalters, 1ª ed. Weimar 1955, tr. it. Le strutture giuridiche e politiche dell’età feudale, Brescia 1962, 61; P.S. Leicht, Storia del Diritto Italiano. Il diritto pubblico, Milano 1972, 112; cfr. M. Bloch, La société féodale, 1ª ed. Paris 1949, tr. it. La società feudale, Torino 1949, 495: «Nella società feudale, il legame umano caratteristico fu quello del subordinato a un capo prossimo»; Vedi F. Ganshof, Qu’est-ce que la féodalité ?, 1ª ed. Bruxelles 1944, tr. it. Che cos’è il feudalesimo?, Torino 1982, l’autore riferito alla Gefolgschaft afferma (6) «gruppi di guerrieri liberi vincolati volontariamente al servizio di un capo e che combattono con lui e per lui in stretta unione». Questa libera volontà di vincolarsi viene sancita come obbligatoria nel 847 dal “Capitolare di Mersen” (o Meerssen, nei Paesi Bassi) testo normativo con il quale il re franco e Imperatore del Sacro Romano Impero, Carlo II “il Calvo”, fa obbligo agli uomini liberi di individuarsi un capo, scelto tra il re o tra i signori più potenti del territorio e prescrive che tale rapporto non possa essere risolto se non per una giusta causa. Questo capitolare è considerato il punto di partenza formale del sistema feudale in quanto costituisce la vera e propria base per l’affermazione di una società di tipo feudale. Nel X secolo, in ambito anglossassone, una norma di uguale tenore letterale, equipara l’uomo privo di un signore ad un fuorilegge. Cfr. M.L. Colish, The Mirror of Language. A study in the Medieval Theory of Knowledge, 1ª ed. Lincoln 1968, rev. ed. Lincoln 1983, 34.

[52] Vedi de T. Sartori-Montecroce, Corso di storia del diritto pubblico germanico, Trento-Venezia 1908, 41: «A differenza dei popoli dell’antichità i Germani avevano trovato il modo di conciliare il principio monarchico coll’idea della libertà popolare e non a torto osserva Montesquieu nella celebre opera sull’Esprit des Lois, esser nata l’idea del regime costituzionale nelle foreste germaniche». Vedi anche F. Schupfer, Delle Istituzioni politiche longobardiche, Firenze 1863, 338: «Immaginava il Montesquieu che il sistema rappresentativo fosse trovato in mezzo alle selve, e credo anch’io che alle schiette, quantunque rozze, consuetudini dei settentrionali se ne debbano riferire le origini anziché alla civiltà antica già corrotta e corrompitrice»; cfr. F.A. de Chateaubriand, La feodalità e la cavalleria in Francia e costumi generali dei secoli XII, XIII e XIV, Milano 1845, 62.

[53] Vedi G. Tamassia, L’elemento germanico nella storia del diritto italiano, Bologna 1887, 14: «Il re è il capo delle genti, non il sovrano territoriale; perché la terra entrerà più tardi come elemento dello Stato germanico; ed anche allora sorvivono i ricordi dell’età nomade».

[54] Sono incisive le parole del cronista burgundo Mario di Avenches nella sua opera Cronica a. CCCLV-DLXXXI, in Th. Mommsen, a cura di, Berlin 1894, anno 569: «Alboneus […] cum omni exercitu reliquens […] Pannoniam […] cum mulieribus vel omni populo suo in fara Italiam occupavit», citato da J. Jarnut, Storia dei Longobardi, Torino 2002, 45; cfr. P. Diacono, Historia Langobardorum, in L. Bethmann - G. Waitz, Hannover 1878 (MGH SS rer. Lang.), I, trad. it. Storia dei Longobardi, in F. Roncoroni, a cura di, Milano 1974, II, 9, 51: «Alboino, senza incontrare alcun ostacolo, entrò nel Veneto, che è la regione più orientale dell’Italia, e occupò la città o meglio il castello di Forum Iulii».

[55] Questo passaggio è ben rimarcato dalle parole del giurista olandese Ugo Grozio (1583-1645) nella sua opera De iure belli ac pacis (1625; ed. Amsterdam 1632) l. I c. 3, § 23: «nexus feudalis. in hoc contractu, qui proprius est Germanicarum gentium, neque usquam invenitur nisi ubi Germani sedes posuerunt».

[56] M. P. Arcari, Idee e sentimenti politici nel medioevo, Milano 1968, 73.

[57] G.P. Bognetti, La costituzione e l’ordinamento dei primi stati barbarici nell’Europa occidentale dopo le invasioni della Romania, in L’età longobarda, IV, Milano 1968, 457-471; P. Delogu, Germani e Carolingi, in L. Firpo, a cura di, Storia delle idee politiche, economiche e sociali, II, Torino 1983, 3-54; A. Cavanna, Diritto e società nei regni ostrogoto e longobardo, in Magistra Barbaritas. I barbari in Italia, Milano 1984, 351-379; W. Pohl, Le origini etniche dell’Europa, Barbari e Romani, tra antichità e medioevo, Roma 2000; K. F. Werner, Nascita della nobiltà. Lo sviluppo delle élite politiche in Europa, Torino 2000; B. Ward Perkins, La caduta di Roma e la fine della civiltà, Bari 2008; P. Geary, Il mito delle nazioni. Le origini medievali dell’Europa, Roma 2009; S. Gasparri - C. La Rocca, Tempi barbarici. L’Europa occidentale tra antichità e medievo, Roma 2012.

[58] L’espressione governo gotico è impiegata da Montesquieu quando, dopo aver asserito che gli antichi non avevano un’idea ben chiara di monarchia, ne intravede una prima forma nelle libere nazioni germaniche che prima della conquista potevano radunarsi per deliberare sul proprio governo, e successivamente alla conquista, con la territorializzazione, lo fecero per mezzo dei loro rappresentanti. Vedi C-L. de Secondat de Montesquieu, De l’esprit des lois, 1ª ed. Genève 1748, livre XI, chapitre VIII, «Voilà l’origine du gouvernement gothique parmi nous» versione in italiano Lo Spirito delle Leggi, commento di R. Derathé e traduzione di B. Boffito Serra, Milano 1989, I, libro XI, capitolo VIII, 321: «Ecco l’origine del governo gotico fra noi»; cfr. P.P. Portinaro, Il labirinto delle istituzioni nella storia europea, Bologna 2007, 171: «Nella storia europea si è definito gotico, alludendo allo sfondamento barbarico del mondo romano, da cui l’ibridazione tra diritto romano e leggi barbariche, un sistema politico in cui la stratificazione e la pluralità conflittuale delle fonti giuridiche ha prodotto una durevole condizione d’incertezza del diritto contro la quale si sono infranti molteplici tentativi di razionalizzazione. Secondo un radicato stereotipo, quello gotico è il mondo dell’arbitrarietà di governo, e dell’irrazionalità amministrativa».

[59] G.B. Ugo, Governo, in Digesto Italiano, XII, Torino 1900-1904, 882: «È naturale che i germani, invadendo le varie contrade d’Europa, vi portassero le loro costumanze e istituzioni […] Alle invasioni barbariche tenne dietro l’istituzione del feudalesimo, il quale nacque dalle concessioni di terre che i conquistatori teutonici facevano ai loro compagni di armi […] a poco a poco si formò una catena ed una scala di concedenti e concessionari, che dall’ultimo vassallo giungeva di gradino in gradino fino al sovrano».

[60] Lo stesso Montesquieu analizzando i capitolari di Carlo Magno, sottolinea la propensione della gente franca e romana, in piena feudalizzazione della società, a mettersi sotto la protezione del re. Vedi C.-L. de Secondat de Montesquieu, De l’esprit des lois, cit., livre XXXI, chapitre VIII, Théories des lois féodales chez le Francs, dans les rapports qu’elles ont avec les revolutions de leur monarchie: «Il est donc aisé de penser que les Francs qui n’étaient point vassaux du roi, et encore plus les Romains, cherchèrent à le devenir; et qu’afin qu’ils ne fussent pas privés de leurs domaines, on imagina l’usage de donner son alleu au roi, de le recevoir de lui en fief, et de lui désigner ses héritiers. Cet usage continua toujours; et il eut surtout lieu dans les désordres de la seconde race, où tout le monde avait besoin d’un protecteur, et voulait faire corps avec d’autres seigneurs, et entrer, pour ainsi dire, dans la monarchie féodale, parce qu’on n’avait plus la monarchie politique» vedi anche livre XXX, Théories des lois féodales chez le Francs, dans les rapports qu’elles ont avec l’établissement de la monarchie, vedi ancora livre XI chapitre VI, «Ce beau système a été trouvé dans les bois», versione in italiano Lo Spirito delle Leggi, commento di R. Derathé e traduzione di B. Boffito Serra, cit., II, libro XXXI, capitolo VIII, Teoria delle leggi feudali presso i Franchi, nel rapporto che hanno con le rivoluzioni della loro monarchia, 1014 : «È dunque facile comprendere come i Franchi che non erano vassalli del re, e ancor più i Romani, cercassero di diventarlo, e come, affinché non fossero privati dei loro dominii, si escogitasse l’uso di dare il proprio allodio al re, di riceverlo da lui in feudo, e di designarli i propri eredi. Quest’uso continuò sempre, ed ebbe luogo soprattutto durante i disordini della seconda dinastia, in cui tutti avevano bisogno di un protettore e di unirsi con altri signori, ed entrare, per così dire, nella monarchia feudale, dato che non esisteva più la monarchia politica» vedi anche libro XXX, Teoria delle leggi feudali presso i Franchi, nel rapporto che hanno con l’istituzione della monarchia, pp. 947-997, vedi ancora, I, libro XI, capitolo VI, 319: «Questo bel sistema è stato trovato nei boschi».

[61] A. Cavanna, Storia del diritto moderno in Europa, I, Le fonti e il pensiero giuridico, Milano 1982, 392.

[62] A. Padoa-Schioppa, Il diritto nella storia d’Europa, I, Il medioevo, Milano 1995, 139; cfr. M. Tangheroni, Vescovi e nomine vescovili in Sardegna (1323-1355), in Studi per la cronotassi dei vescovi delle diocesi d’Italia, Pisa 1972, ora in Id., Sardegna Mediterranea, Roma-Napoli 1983. Per quanto attiene l’integrale feudalizzazione della Sardegna, i re aragonesi volevano intervenire direttamente sulle nomine vescovili, in particolare si fa riferimento ad una lettera inviata da Pietro IV d’Aragona al pontefice (179) «circa l’opportunità che nella Chiesa sarda fossero chiamati a capo delle diocesi persone adatte ai fedeli».

[63] B. Paradisi, Il prologo e l’epilogo dell’Editto di Rotari, in Studi in onore di Edoardo Volterra, I, Milano 1971, 337.

[64] C. G Mor, Lo Stato Longobardo nel VII secolo, in Caratteri del secolo VII in Occidente, I, Settimane di studio del Centro Italiano di Studi sull’Alto Medioevo, V, Spoleto 1958,  278-279: ««Exercitus» che, stanziati stabilmente i longobardi in Italia, si territorializza, ma, erede dell’antica «Gefolgschaft» germanica, è stretto da un legame col suo capo, ormai diventato capo territoriale. È più che evidente che, a base di questo rapporto, v’è un «iuramentum fidelitatis» o «sequimenti»».

[65] A. Marongiu, Il Parlamento in Italia nel Medio Evo e nell’Età Moderna. Contributo alla storia delle istituzioni parlamentari dell’Europa occidentale, Milano 1962, 7.

[66] H. Mitteis, Der Staat des Hoen Mittelalters. Grundlinien einer vergleichenden Verfassungsgeschichte des Lehnzeitalters, 1ª ed. Weimar 1955, tr. it.  Le strutture giuridiche e politiche dell’età feudale, cit., 33: «Il re si pone al vertice della piramide feudale ed il suo potere sovrano si rafforza grazie alla sua posizione di supremo feudatario. Il  diritto feudale diventa il diritto amministrativo dello Stato medievale».

[67] B. Paradisi, Storia del diritto italiano. Le fonti dai Carolingi al sec. X, Lezioni universitarie 1959-60, Napoli 1960, 118; per il rapporto di carattere contrattuale vedi A. Marongiu, Storia del diritto italiano. Ordinamenti e istituti di governo, Modena 1991, 41: «Lo Stato medievale è, più o meno intensamente, nella sua struttura anche uno Stato feudale; uno Stato in cui il funzionamento dei suoi organi dipende piuttosto che dal rispetto di una disciplina giuridica imperativamente uniforme […] da una complicata rete e serie di rapporti d’indole contrattuale […] tra il re e un certo numero di altri simili, affidatisi alla sua protezione».

[68] R. Laschena, Municipio, in Enciclopedia giuridica, XXIII, 1: «l’ordinamento romano dei municipia finisce in via generale con le invasioni barbariche»; cfr. G. Landi, Municipio, in Enciclopedia del diritto, XXVII, Varese 1977, 387: «L’ordinamento municipale fu certamente travolto dove si stabilirono le monarchie barbariche».

[69] A. Marongiu, I Parlamenti sardi. Studio storico istituzionale e comparativo, Milano 1979, 63-64.

[70] A. Marongiu, L’istituto parlamentare in Italia dalle origini al 1500, cit., 43.

[71] A. Marongiu, Il Parlamento in Italia nel Medio Evo e nell’Età Moderna. Contributo alla storia delle istituzioni parlamentari dell’Europa occidentale, cit., 30: «Un unicum, una vera ma isolata anticipazione storica costituisce, infatti, la curia di León del 1188. Qui per la prima volta (la prima di tutta la storia medievale europea) il potere del sovrano accetta e riconosce una diretta ed amplissima partecipazione all’esercizio del suo potere supremo da parte dei vescovi, nobili e ‘buoni uomini’ della città».

[72] E. Tavilla, Le radici profonde d’Europa, in Tempi del diritto. Età medievale, moderna, contemporanea, Aa. Vv., Torino 2016, 42: «Gli obblighi di facere possono essere raccolti entro due ampie categorie: auxilium (aiuto, soccorso) e consilium (parere, consiglio). Per auxilium si intende, tipicamente, l’obbligo del sevizio militare a cavallo: il vassallo deve essere pronto ad assistere il signore nelle sue spedizioni belliche e ad obbedire alla sua guida […] Con il termine consilium ci si riferisce invece ad un ampio spettro di attività di assistenza non militare: si va dai pareri espressi dai vassalli nelle corti giudiziarie nobili presiedute dal dominus, sino ai consigli forniti in occasione di provvedimenti normativi (in questi casi, ovviamente, si intende che il dominus rivesta un ruolo apicale: il re oppure un grande signore territoriale)».

[73] J.F. O’Callaghan, Le origini delle cortes di Leon-Castiglia, in The Amercican Historical Review, LXXIV, 5, 1969, ora in G. D’Agostino, a cura di, Le istituzioni parlamentari nell’Ancien Régime, Napoli 1980, 499-500: «La questione della rappresentanza delle città alla corte regia è direttamente connessa con le origini delle Cortes. Le Cortes erano, come suggerisce il nome stesso, la corte del re, benché in forma molto allargata, e come tale poteva agire come corpo consultivo o come tribunale di giustizia. L’assemblea di vescovi, nobili e borghesi diede al re l’opportunità non solo di risolvere problemi politici di interesse generale, ma anche di risolvere un gran numero di liti, specialmente quelle che riguardavano le città» e ancora (501) «per la prima volta abbiamo una testimonianza inequivocabile della presenza di cittadini all’interno di una riunione del consiglio del re. Non sappiamo come erano eletti, né quanti venivano da ogni città, né se erano procuratori  con pieni poteri, sebbene questo sembri improbabile»; cfr. R. Howard Lord, I parlamenti del medio evo e della prima età moderna, in The Chatolic Historical Review, XVI, 1930, ora in G. D’Agostino, a cura di, Le istituzioni parlamentari nell’Ancien Régime, cit., 107: «La pratica di consultazione attraverso parlamenti sembra, nella maggior parte dei paesi, essere sorta da uno sviluppo dell’antica curia regis»; vedere anche J. Lalinde Abadia, Istituzioni rappresentative della Corona d’Aragona (1416-1516), in Atti del IX Congresso di storia della Corona d’Aragona, Napoli, 11-15 aprile 1973, I, Napoli 1978, ora in G. D’Agostino, a cura di, Le istituzioni parlamentari nell’Ancien Régime, cit., 521-537.

[74] A. Marongiu, Il Parlamento in Italia nel Medio Evo e nell’Età Moderna. Contributo alla storia delle istituzioni parlamentari dell’Europa occidentale, cit., 110-111.

[75] F. Calasso, Medioevo del diritto, I, Le fonti, Milano 1954, 239: «La Sardegna, allentati sempre più i vincoli politici con l’Impero d’Oriente, riuscì a mantenersi immune da dominazioni barbariche e perciò a custodire, a suo modo, non diciamo il diritto ufficiale, ma piuttosto la tradizione romano-bizantina».

[76] M. Bloch, La société féodale, 1ª ed. Paris 1949, tr. it. La società feudale, cit., 442. L’autore belga definisce la Sardegna terra (p. 279) «non feudalizzata» e (509) «senza feudalesimo»; cfr. R. Boutruche, Seigneurie et féodalité, I, Le premier âge des liens d'homme à homme, 1ª ed. Paris 1959, tr. it. Signoria e feudalesimo, I, Ordinamento curtense e clientele vassallatiche, Bologna 1961, 207: «soltanto un paese doveva rimanere in disparte: sfiorata dalle influenze esterne e dalle avventure dei conquistatori, la Sardegna rimase un centro signorile e contadino, chiuso di fronte al feudalesimo»; G. VolpeClassi e comuni rurali nel Medioevo italiano, 1ª ed. Firenze 1923, ora in Medio Evo italiano, intr. di C. Violante, Roma-Bari 1992. L’autore pone in rilievo la posizione di ‘singolarità’ della Sardegna in età feudale (146-147) «per le ragioni storiche che misero accanto una Italia longobarda ed una Italia bizantina; regioni di conquista franca, ed altre non tocche da eserciti e da istituzioni carolingie; principati e monarchie accentratori e vigorosi […] e rilassate signorie feudali; isole improntate dall’Islamismo […] ed altre lasciate fino all’XI-XII secolo in isolamento profondo, capaci perciò di svolgere originalmente germi loro propri antichissimi (Sardegna e Corsica)».

[77] Il dibattito storiografico intorno l’origine del feudo in Sardegna vede prevalere nettamente la tesi dell’introduzione del feudo in Sardegna da parte dei Catalano-Aragonesi. F. Ciccaglione, Feudalità, in Enciclopedia Giuridica Italiana, (13) nt. 103; U.G. Mondolfo, Terre e classi sociali in Sardegna nel periodo feudale, in Rivista italiana per le scienze giuridiche, XXXVI, Torino 1903, ora in Il feudalesimo in Sardegna, a cura di A. Boscolo, Cagliari 1967, 296; cfr. F. Loddo Canepa, Ricerche e osservazioni sul feudalesimo sardo dalla dominazione aragonese, in Archivio Storico Sardo, VI, 1910, 50; R. Carta Raspi, La Sardegna nell’alto medioevo, cit., pp. 204-207; R. di Tucci, L’origine del feudo sardo in rapporto con l’origine del feudo nell’Europa occidentale, Cagliari 1927, 6; A. Era, Lezioni di storia delle istituzioni giuridiche ed economiche sarde, Roma 1934, 20; E. Besta, Sardegna feudale, in Annuario della Regia Università degli Studi di Sassari, Sassari 1900, ora in A. Boscolo, a cura di, Il feudalesimo in Sardegna, cit., 185; A. Solmi, Sulla origine e sulla natura del feudo in Sardegna, in Rivista italiana di sociologia, X, fasc. I, Roma 1906, ora in A. Boscolo, a cura di, Il feudalesimo in Sardegna, cit., 148; M. Tangheroni, La Sardegna prearagonese: una società senza feudalesimo?, in Structures féodal et féodalisme dans l’occident méditerranéen (X-XIII siècles). Bilan et perspectives de recherches, Actes du Colloque de Rome (10-13 octobre 1978), Rome 1980, ora in Id., Sardegna Mediterranea, cit., 84; Id., Strutture curtensi, signorie, feudalesimo nella Sardegna medievale, in A. Spicciani e C. Violante, a cura di, La Signoria rurale nel Medioevo italiano, II, Pisa 1988, 63-85; R. Pintus, Il feudo e i feudatari in Sardegna, in Archivio Storico Sardo di Sassari, XII, 1986, 7; G. Meloni, La Sardegna nel quadro della politica mediterranea di Pisa, Genova, Aragona, in M. Guidetti, a cura di, Storia dei Sardi e della Sardegna, II, Il Medioevo. Dai Giudicati agli Aragonesi, cit., 92; G. Sorgia, Introduzione, in Feudi di Sardegna. Registro storico dei feudi del Regno di Sardegna, Sassari 1991, 8; F. Floris, Feudi e feudatari in Sardegna, I, Cagliari 1996, 29. Argomentano al contrario circa la problematica della genesi del feudo: P. Del Giudice, Origine del feudo e sua introduzione in Italia, in Digesto italiano, XI, II, Torino 1893, poi anche in Nuovi studi di Storia e Diritto, Milano 1913, 201-205; G. Curis, Feudo, in Nuovo Digesto Italiano, V, Torino 1938, 1094; A. Soddu, Istituzioni e dinamiche di potere nella Sardegna medievale: Oschiri e i distretti di Ogianu e Monteacuto, in G. Meloni - P.G. Spanu, a cura di, Oschiri, Castro e il Lugudoro orientale, Sassari 2004, 117-132.

[78] B.R. Motzo, Un progetto catalano per la conquista definitiva della Sardegna, in Studi storici in onore di Francesco Loddo Canepa, I, Bologna 1959, 166: «Questa era stata desiderata e perseguita, per decenni, da Giacomo II allo scopo principale di costituire una fonte di forti rendite per la Corona, in secondo luogo per rafforzare la posizione nel Mar Mediterraneo. Si riteneva che l’isola fosse per il Comune pisano origine di grandi ricchezze: ed era veramente così, ma era ricchezza alla cui produzione Pisani e Sardi indigeni collaboravano secondo forme da secoli in vigore, che la conquista aragonese ruppe, per costituirvi il sistema di sfruttamento del più rigido feudalesimo iberico, a cui la popolazione non era avvezza. Le vicende dei primi secoli della dominazione catalana frustarono interamente lo scopo economico, e ridussero l’isola alla ruina. Fu conseguito invece il secondo fine di rafforzare le posizioni catalane nel Mediterraneo».

[79] M. Del Treppo, L’espansione catalano-aragonese nel Mediterraneo, in Nuove Questioni di Storia Medioevale, Milano 1964, 262-263. L’autore riporta la positio studii della storiografia catalana che è concorde nel prospettare con assoluta linearità l’espansione mediterranea quando ogni altra possibilità di espansione era irrimediabilmente preclusa. L’autore è critico nei confronti di questa posizione, e sostiene che la scelta della traiettoria mediterranea, non fu così lineare, dettata dalla preclusione di ogni altra via, ma fu frutto di una scelta ben ponderata e soppesata nelle sue possibili conseguenze, e afferma che (271) «La Sardegna, che con la sua posizione strategica dominava le rotte di quel mare, era necessaria a chiunque vi avesse ambizioni egemoniche, ma il suo possesso escludeva che altri potesse accarezzare identiche ambizioni»; cfr. A. Boscolo, La politica mediterranea dei Sovrani d’Aragona, in Medioevo. Saggi e Rassegne, 3, cit., 40: «l’impresa più importante della Corona d’Aragona e la più notevole sia per il suo aspetto storico-politico, sia per le sue conseguenze, fu l’espansione nel Mediterraneo».

[80] F.C. Casula, Introduzione, in L.L. Brook - F.C. Casula - M.M. Costa - A.M. Oliva - R. Pavoni - M. Tangheroni, a cura di, Genealogie medievali di Sardegna, Cagliari - Sassari 1984, 28.

[81] A. Boscolo, La feudalità in Sicilia, in Sardegna e nel napoletano nel basso medioevo, in Medioevo, I, Cagliari 1975, ora in Saggi di storia mediterranea tra il XIV e il XVI, Roma 1981, 125-126: «A differenza degli altri Regni, in Sardegna, dove non esisteva il feudalesimo prima della conquista aragonese, i concessionari di feudi furono quasi tutti iberici e ugualmente con sudditi iberici, aragonesi, catalani, valenzani, maiorchini, furono ripopolate molte città, mentre i Sardi venivano posti in condizioni di soggezione politica, giuridica, economico - sociale»; cfr. L. Galoppini, Sardegna e Mediterraneo: dai Vandali agli Aragonesi. Antologia di fonti scritte, Pisa 1993, p. 29: «cambiamento sostanziale fu l’introduzione del feudalesimo sistematico […] tutta la Sardegna occupata fu immediatamente divisa in feudi […] A questa «forzata» feudalizzazione sfuggì soltanto il Giudicato di Arborea che conservò la sua autonomia fino al 1410».

[82] F. Floris, Feudi e feudatari in Sardegna, I, cit., 31: «La scelta di utilizzare nel nuovo regno il sistema feudale, per controllarne l’amministrazione e l’economia e per difenderlo, era il frutto di una ponderata valutazione politica nata sulla base di esperienze precedenti fatte dalla corona d’Aragona durante la sua espansione. La scelta fu fatta perché lo sviluppo del feudalesimo appariva la cosa più opportuna».

[83] A. Marongiu, I Parlamenti sardi. Studio storico istituzionale e comparativo, cit., 64, tale definizione è usata dall’autore per indicare i signori che avevano aiutato il re nella conquista militare, per questo acquisivano i «diritti» per il «dominio» e la «proprietà» delle terre conquistate; M. Tangheroni, Il feudalesimo in Sardegna in età aragonese, in Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa, III, 1973, ora in Id., Sardegna Mediterranea, cit., 36-37: «l’introduzione del feudalesimo nell’isola, una volta conquistata, doveva servire a compensare, in buona parte, i partecipanti all’impresa, giacché ogni nobile futuro feudatario doveva farsi accompagnare da un certo seguito d’uomini d’arme. Così come il sevizio militare richiesto agli stessi feudatari doveva essere, nelle speranze del re, il mezzo più economico per garantire la sicurezza dell’avvenuta conquista»; G. Meloni, Genova e Aragona all’epoca di Pietro il Cerimonioso, I, (1336-1354), Padova 1971, 27-28: «Il malumore si diffondeva nell’isola per la politica adottata con evidenza sempre maggiore del sovrano aragonese; l’esigenza di ricompensare quanti della nobiltà del suo regno avevano contribuito alla conquista, sia partecipando di persona sia fornendo validi aiuti finanziari, lo aveva portato a concedere privilegi di vario genere, feudi soprattutto, a danno di quella popolazione sarda».

[84] A. Solmi, Ademprivia. Studi sulla proprietà fondiaria in Sardegna, in Archivio giuridico Filippo Serafini, I-II, Pisa 1904, ora in A. Boscolo, a cura di, Il feudalesimo in Sardegna, cit., 97: «La formula delle concessioni feudali, derivata schiettamente dalle consuetudini aragonesi, è una lunga enumerazione di diritti pubblici e privati, ceduti interamente ai signori feudali».

[85] J. Beneyto Perez, Il diritto catalano in Italia, in Rivista di Storia del diritto italiano, VI, 1933, 423-425; A. Cioppi, L’ordinamento istituzionale del Regnum Sardiniae et Corsicae nei secoli XIV e XV, in A.M. Oliva - O. Schena, a cura di, Sardegna Catalana, Barcellona 2014, 111: «le strutture amministrative portate nell’isola furono, come vedremo, quelle dello stato madre di Catalogna e non già quelle dello stato madre d’Aragona o degli altri regni della Corona. La circostanza è stata in gran parte misconosciuta dalla dottrina, mentre appare di notevole rilievo politico e giuridico se solo si riflette sull’autonomia amministrativa di cui godevano gli stati membri della Confederazione: molto più ampia nel regno d’Aragona rispetto allo stato di Catalogna».

[86] A. Cioppi, L’ordinamento istituzionale del Regnum Sardiniae et Corsicae nei secoli XIV e XV, in A.M. Oliva - O. Schena, a cura di, Sardegna Catalana, cit., 127.

[87] M. Bloch, La société féodale, 1ª ed. Paris 1949, tr. it. La società feudale, cit., 221: «il re legava a sé coi vincoli del vassallaggio i personaggi cui assegnava le principali cariche dello stato e, soprattutto, le grandi ripartizioni territoriali».

[88] A. Mattone, Il feudo e la comunità di villaggio, in M. Guidetti, a cura di, Storia dei Sardi e della Sardegna, III, L’età moderna dagli aragonesi alla fine del dominio spagnolo, Milano 1989, 335, l’autore divide schematicamente la storia del feudalesimo in Sardegna in tre grandi momenti «il primo che va dal XIV secolo al principio del XV, si identifica con la fase «selvaggia» della conquista, con l’occupazione feudale delle campagne, con la violenta destrutturazione della società rurale isolana. L’introduzione del sistema feudale blocca, infatti, un modello di sviluppo che, almeno nel rapporto tra città e campagna […] iniziava lentamente a mostrare numerose analogie con la coeva esperienza comunale italiana […] il suo esordio coincide con l’«importazione» di una nuova organizzazione politica e amministrativa» e (368) «potere feudale, che giunge ad inquadrare la vita del più remoto villaggio e ad organizzare anche il modo di sfruttamento economico anche delle vaste aree spopolate dei saltus».

[89] U.G. Mondolfo, Gli elementi del feudo in Sardegna prima della conquista aragonese, in estratto dalla Rivista Italiana delle Scienze Giuridiche, XXXII, Città di Castello 1902, 32.

[90] M. Tangheroni, “Il feudalesimo in Sardegna in età aragonese”, in Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa, Pisa 1973, ora in Id., Sardegna Mediterranea, cit., p. 37.

[91] M. Bloch, La société féodale, 1ª ed. Paris 1949, tr. it. La società feudale, cit., 216-218.

[92] Vedi, supra, nt. 59.

[93] Gabriella Olla Repetto, L’ordinamento costituzionale-amministrativo della Sardegna alla fine del ’300, in Il mondo della Carta de Logu, Cagliari 1979, ora in Ead., Studi sulle istituzioni amministrative e giudiziarie della Sardegna nei secoli XIV e XV, cit., 186-189. L’autrice nel descrivere le strutture costituzionali della corona d’Aragona illustra (186) i concetti di «stato estamental» che poggiava su tre classi sociali, e di «monarchia pactista» che poggiava su un patto di forza tra re e sudditi, in cui «il primo era sottoposto alle leggi e doveva rispettare i diritti dei secondi, mentre questi gli dovevano fedeltà e obbedienza». In particolare (191) mette in rilievo il tratto tipico del municipio catalano, denominato «rudimentario», ossia il «potere di amministrazione della giustizia, esercitato dal re, fonte stessa della giustizia»; H. Mitteis, Der Staat des Hoen Mittelalters. Grundlinien einer vergleichenden Verfassungsgeschichte des Lehnzeitalters, 1ª ed. Weimar 1955, tr. it.  Le strutture giuridiche e politiche dell’età feudale, cit., 59: «Centro dell’attività statale è il palatium reale con le cariche di palazzo germaniche»; Per quanto attiene l’amministrazione della giustizia, intesa come prius dell’ordinamento monarchico di tradizione germanico-feudale, vedere V. Piras, “Alcune note e una ipotesi sul ‘potere’ di giudicare”, in Diritto@Storia, 13 (2015), in particolare il § II. 1. Giudicare: la ‘essenza del potere’ nell’ordinamento giuridico del potere regio (monarchico-feudale germanico-inglese) e l’utile arte della confusione. Per quanto attiene alla contrapposizione tra il palatium regio di marca germanica e il forum repubblicano di marca romana vedere G. Lobrano, Il Mediterraneo delle città tra Russia e Sardegna, in Diritto@Storia, n. 16, 2018; cfr. Id., La relazione città-campagna: nella vicenda storica di lungo periodo e nella riflessione contemporanea, in Le campagne e le città. Prospettive di sviluppo sostenibile in area mediterranea, in F. Nuvoli, a cura di, Cagliari 2016, 68-69: «Nell’epoca medievale, le città diventano l’arcipelago repubblicano che emerge dall’inondazione regia-feudale. Né si possono confondere le “città” antiche, repubbliche di cittadini, caratterizzate – anche le più piccole – dalla centralità della piazza, sede dell’assemblea sovrana, con i “borghi” medievali, insiemi di sudditi, caratterizzati – anche i più grandi – dalla centralità del palazzo, sede del signore feudale».

[94] M. Tangheroni, Il feudalesimo in Sardegna in età aragonese, in Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa, Pisa 1973, ora in Id., Sardegna Mediterranea, cit., 23: «la preoccupazione mostrata da Giacomo II di mantenere il precario equilibrio tra le varie componenti della confederazione di stati da lui governata, associando all’impresa sarda anche la nobiltà feudale che suo padre aveva lasciato al di fuori della sua politica espansionistica. La ripartizione di gran parte della Sardegna tra feudatari, per gran parte nobili chiamati a partecipare alla spedizione, si dovette senza dubbio anche a questo motivo […] l’introduzione del feudalesimo nell’isola, una volta conquistata, doveva servire a compensare, in buona parte, i partecipanti all’impresa, giacché ogni nobile futuro feudatario doveva farsi accompagnare da un certo seguito d’uomini d’arme. Così come il sevizio militare richiesto agli stessi feudatari doveva essere, nelle speranze del re, il mezzo più economico per garantire la sicurezza dell’avvenuta conquista».

[95] M. Tangheroni, Il “Regnum Sardiniae et Corsicae” nell’espansione mediterranea della Corona d’Aragona. Aspetti economici, in Atti del XIV Congresso di Storia della Corona d’Aragona, I, Roma 1993, 66; cfr. U.G. Mondolfo, Il regime giuridico del feudo in Sardegna, in Archivio giuridico Filippo Serafini, III, Fasc. I, Pisa 1905, ora in A. Boscolo, a cura di, Il feudalesimo in Sardegna, cit., 202: «l’ordinamento politico del feudalesimo, nella sua forma compiuta, s’inizia veramente con la dominazione aragonese».

[96] A. Boscolo, “Premessa”, in A. Boscolo, a cura di, Il feudalesimo in Sardegna, cit., 1.

[97] E. Besta, “Sardegna feudale”, in Annuario della Regia Università degli Studi di Sassari, Sassari 1900, ora in A. Boscolo, a cura di, Il feudalesimo in Sardegna, cit., 192: «Qui il feudalesimo […] in difetto di un governo solidamente stabilito e quasi come una forza ad esso naturalmente contraria ebbe spinta e direzione dall’alto […] In seguito alle infeudazioni aragonesi si andò formando una nobiltà nuova […] reclutata a preferenza tra le più cospicue case aragonesi e le più fedeli ai re».

[98] M. Caravale, Ordinamenti giuridici dell’Europa Medievale, cit., 473-504.

[99] R. di Tucci, L’origine del feudo sardo in rapporto con l’origine del feudo nell’Europa occidentale, cit., 16: «Il feudo catalano-aragonese opera […] sulla curatoria. Nel primo periodo della conquista i sovrani aragonesi infeudano intiere curatorie poi, con un procedimento graduale di dissoluzione, scompongono la curatoria nei diversi villaggi che ne formavano già la circoscrizione, e dànno in feudo uno o più villaggi , mentre il nome di curatoria perdura ancora come ricordo di una unità ideale»; M. Tangheroni, Su un contrasto tra feudatari in Sardegna nei primissimi tempi della dominazione aragonese, in Sardegna Mediterranea, cit., 7-8: «l’evoluzione sociale dell’isola, avviata in una determinata direzione dall’influenza pisana e genovese e dal fiorente sviluppo autonomo del giudicato d’Arborea, conobbe un brusco cambiamento di rotta a causa del feudalesimo … veniva riprodotta in Sardegna la dicotomia sociale esistente nei regni peninsulari tra le città marittime e la struttura feudale dell’interno. Così nell’isola le città verranno ad essere delle oasi sempre più soffocate dalla circostante organizzazione (politica e socioeconomica) di puro stampo feudale».

[100] F. Artizzu, La Sardegna pisana e genovese, Sassari 1985, vedere cap. IV, 55-56.

[101] U.G. Mondolfo, Il regime giuridico del feudo in Sardegna, in Archivio giuridico Filippo Serafini, III, Pisa 1905, ora in A. Boscolo, a cura di, Il feudalesimo in Sardegna, cit., 203.

[102] G.B. Ugo, Governo, in Digesto Italiano, XII, cit., 882; cfr. M. Bloch, La société féodale, 1ª ed. Paris 1949, tr. it. La società feudale, cit., 4: «Boulainvilliers e Montesquieu consideravano il frazionamento della sovranità tra una moltitudine di piccoli principi o, persino, di signori di villaggi, come la più stupefacente singolarità del Medioevo».

[103] «Sardi qui unum regem se habuisse credebant et modo habent tot reges quot sunt ville in Kallaro […] regno Sardinie jam de terra Sassari propter mala regimina pervenerunt». Vedi A. Arribas Palau, La conquista de Cerdeña por Jaime II de Aragón, Barcelona 1952, 429-431. L’autore riporta, in appendice, il documento LII, contenente il testo integrale della lettera diretta da Ugone II al cardinale Orsini il 19 dicembre del 1325, e commenta che «Los sardos que creían tener sólo un señor – el rey – se han dado cuenta de que tienen tantos como feudatarios catalano-aragoneses hay».

[104] C. Cattaneo, Della Sardegna antica e moderna, 1ª ed. Milano 1846, ora in A. Trova, a cura di, Nuoro 2010, p. 62.

[105] M. Tangheroni, Per lo studio dei villaggi abbandonati a Pisa e in Sardegna nel Trecento, in Bollettino Storico Pisano, XL-XLI, Pisa 1972, ora in Id., Sardegna Mediterranea, cit., 223, e (225) «L’indubbio regresso demografico e l’abbandono di certi villaggi […] sembrano piuttosto da mettersi in relazione con questa importante svolta rappresentata dalle conseguenze della conquista aragonese che con una tendenza interna ed irresistibile della storia sarda»; cfr. C. Livi, La popolazione della Sardegna nel periodo aragonese, in Archivio Storico Sardo, XXIV, 1984, 24 «Il periodo aragonese (1323-1479), specialmente per i primi cent’anni, è per la società sarda, in ogni suo aspetto, un’epoca di crisi e di profonde trasformazioni […] Vi è accordo tra gli studiosi sul tipo di fenomeni che si verificano in questo campo: forte riduzione del numero dei villaggi […] sensibile diminuzione degli abitanti»; A. Terrosu Asole, L’insediamento umano medioevale e i centri abbandonati tra il secolo XIV e il secolo XVII, in A. Terrosu Asole e R. Pacchi, a cura di, Atlante della Sardegna, Roma 1974, 2-3: «Il ’300 ora accogliendo ed ingigantendo alcuni sintomi di crisi che già avevano cominciato a manifestarsi nel secolo precedente ed ora esprimendo tutta una serie di nuovi fatti altamente negativi avrebbe determinato una rottura dalla quale la copertura umana della Sardegna doveva uscire totalmente modificata […] La guerra di occupazione aragonese comportò distruzioni di vario tipo e forse le meno gravi furono quelle causate dagli scontri sul campo i quali, solo durante i primissimi anni, si svolsero con ritmo serrato. Fu piuttosto la presenza nell’isola di un notevolissimo numero di uomini armati che dovrebbe aver agito in modo negativo»; A. Terrosu Asole, Le sedi umane medioevali nella curatoria di Gippi (Sardegna sud-occidentale), Firenze 1974, vedere in particolare il capitolo III intitolato Lo spopolamento e l’abbandono degli abitati, 55-66; R. Turtas, La Chiesa durante il periodo aragonese, in M. Guidetti, a cura di, Storia dei Sardi e della Sardegna, II, Il Medioevo. Dai Giudicati agli Aragonesi, cit., 279: «Alla vigilia della conquista aragonese, la popolazione sarda si aggirava attorno alle 400.000 unità […] La fine del periodo aragonese è, invece, segnata dal fenomeno inverso che, avviato poco prima della metà del secolo XIV, ebbe come risultato una contrazione demografica di proporzioni talmente sconvolgenti da far registrare,sul finire del secolo successivo, l’abbandono di quasi 650 «ville» e la riduzione della popolazione a circa 250.000 abitanti»; J. Day, Gli uomini e il territorio: i grandi orientamenti del popolo sardo dall’XI al XVIII secolo, in M. Guidetti, a cura di, Storia dei Sardi e della Sardegna, II, Il Medioevo. Dai Giudicati agli Aragonesi, cit., l’autore descrive il fenomeno della crescita della popolazione in Europa tra il XI e il XIII secolo, ciò vale anche per la Sardegna ma spiega che (18) «il capovolgimento della tendenza secolare sia avvenuto dopo lo sbarco catalano-aragonese del 1323 e che fosse legato più direttamente agli avvenimenti bellici che a un saldo demografico naturale diventato negativo».

[106] C. Manca, Fonti e orientamenti per la storia economica della Sardegna aragonese, Padova 1967, 7: «Questa quasi secolare flessione del ciclo economico, documentabile fin dal principio del regime aragonese, contraddice l’originario intento dei conquistatori, che avevano inteso fare della Sardegna un’area di sviluppo produttivo e commerciale» e  (8-9) «Nelle città si stabilirono da padroni i Catalani, i Valenzani, gli Aragonesi, i Maiorchini. Si parla ancora e sempre di Sardegna ma i sardi furono estranei ai traffici che in esse città si svolgevano […] Nell’interno […] gli Aragonesi-Catalani introdussero sistemi di spartizioni di tipo feudale, in gran parte sconosciuti alla Sardegna, forzando le esistenti forme di proprietà e conduzione delle campagne […] Ora, potendo scegliere fra un tipo di controllo diretto, esercitato da ufficiali governativi e sostenuto dalle armi, oppure un tipo di controllo indiretto, esercitato da feudatari aragonesi e catalani fedeli alla Corona, non v’ha dubbio che la soluzione feudale rispondeva a un immediato tornaconto dei conquistatori»; J. Day, L’economia della Sardegna catalana (XIV-XV secolo), in F. Manconi e J. Carbonell, a cura di, I Catalani in Sardegna, Milano 1984, ora in Id., Uomini e terre nella Sardegna coloniale, XII-XVIII secolo, Torino 1987, 63: «La Sardegna catalana è senza dubbio fra i paesi europei più provati dalla crisi economica del basso medioevo: tutti gli indizi testimoniano la profonda decadenza dell’economia sarda nella seconda metà del XIV e nei primi decenni del XV secolo», per quanto attiene al ripopolamento (67) «Una preoccupazione costante della corona, a partire dall’insediamento dei catalani nel Castello di Cagliari, fu la catalanizzazione delle città, che incontrava grosse difficoltà, soprattutto, come abbiamo visto, a causa dello scarso interesse dimostrato dai sudditi al re d’Aragona nell’affrontare l’avventura dell’emigrazione» e (85) «Disgraziatamente per la corona, le entrate pubbliche non bastavano a compensare le perdite per le rendite feudali, avvenute con la concessione di villaggi e terre ai compagni di conquista […] Già nel 1324, l’Infante scriveva al re Giacomo II che non restava al patrimonio una sola palma di terra in tutta l’isola» ancora (86-87) «La Sardegna catalana costituisce un caso esemplare di economia in crisi la cui situazione è aggravata da un fiscalismo pesante e inflessibile […] Le grandi sciagure della Sardegna nel basso medioevo – spopolamento delle campagne, crisi monetarie e finanziarie, decadenza del commercio, «reazione feudale» – si ritrovano anche in Catalogna».

[107] M. Tangheroni, Politica, commercio, agricoltura a Pisa nel Trecento, Pisa 1973, 117.

[108] J. Day, Malthus démenti? Sous-peuplement chronique et calamités démographiques en Sardaigne au Bas Moyen Age, in Annales E. S. C., XXX, 1975, ora in Id., Uomini e terre nella Sardegna coloniale, XII-XVIII secolo, cit., 197, gli storici constatano che «la Sardegna dei secoli XII-XIII fosse nel suo insieme non solamente prospera e tranquilla, ma anche relativamente popolata […] è in questo periodo che l’isola è uscita dal suo secolare isolamento e si è messa al passo dell’Europa. Essa ha preso parte (in modo modesto) allo sviluppo degli scambi, al progresso dell’agricoltura, soprattutto monastica, e al movimento comunale. Le basi di questa prosperità relativa, che aveva suscitato le bramosie degli aragonesi».

[109] M. Tangheroni, Vescovi e nomine vescovili in Sardegna (1323-1355), in Studi per la cronotassi dei vescovi delle diocesi d’Italia, Pisa 1972, ora in Id., Sardegna Mediterranea, cit., 179.

[110] J.-J. Rousseau, Du Contrat Social, 1ª ed. Amsterdam 1762, livre III, chapitre IX: Des signes d’un bon Gouvernement, «je m’étonne toujours qu’on méconnoisse un signe aussi simple, ou qu’on ait la mauvaise foi de n’en pas convenir. Quelle est la fin de l’association politique? C’est la conservation & la prospérité de ses membres. Et quel est le signe le plus sûr qu’ils se conservent & prospèrent? C’est leur nombre & leur population. N’allez donc pas chercher ailleurs ce signe si disputé. Toute chose d’ailleurs égale, le Gouvernement sous lequel, sans moyens étrangers, sans naturalisation, sans colonies, les citoyens peuplent & multiplient davantage, est infailliblement le meilleur; celui sous lequel un peuple diminue & dépérit est le pire», versione in italiano Il contratto sociale, in G. Saitta, a cura di, 1961 Firenze, libro III, capitolo IX: Dei segni di un buon governo, 80: «Per conto mio mi meraviglio che si disconosca un segno così semplice e che si abbia la mala fede di non convenirne. Qual è il fine dell’associazione politica? È la conservazione e la prosperità dei suoi membri. E quale è il segno più sicuro che essi si conservino e prosperino? È il loro numero e la loro popolazione. Non andate dunque a cercare altrove questo segno tanto disputato. A parità di condizioni, il governo sotto il quale, senza mezzi stranieri, senza naturalizzazione e senza colonie, i cittadini popolino e moltiplichino maggiormente, è infallibilmente il migliore. Quello sotto il quale un popolo diminuisca e decada è il peggiore».

[111] F. Loddo Canepa, Lo spopolamento della Sardegna durante la dominazione aragonese e spagnola, in Atti del Congresso internazionale per gli studi sulla popolazione, I, Roma 1933, 3: «Lo spopolamento rapido e progressivo della Sardegna, iniziatosi nei primi tempi della dominazione aragonese, si va accentuando in modo impressionante nella seconda metà del secolo XIV e perdura per tutto il secolo successivo» e (6-7) «Il dominio aragonese ebbe al contrario tutti i caratteri d’un vera conquista militare attuata aspramente e violentemente in danno dei vinti e senza alcuna preoccupazione dei loro più vitali interessi […] Il sistema feudale diventa quindi strumento e base di conquista bellica e di lucro economico; sia da parte della Corona, che se ne vale per premiare i larghi servizi resi dai baroni catalani e aragonesi nelle spedizioni, e per impinguare lo stremato erario con le concessioni onerose; sia da parte dei concessionari, soltanto solleciti di ottenere dai benefici ricevuti, il maggior gettito possibile ed i più larghi proventi».

[112] A. Era, Popolamento e ripopolamento dei territori conquistati in Sardegna dai catalani-aragonesi, in Studi Sassaresi, VI, 1928, 70-71. Si tratta di concessioni immobiliari fatte a catalani e aragonesi, ossia a coloro che parteciparono all’impresa di conquista, ai quali vengono concessi dei guidatici, carte di popolazione, per bloccare la «penuria di abitanti dipendente da molte cause ed anche dal fatto che la popolazione sarda indigena o si allontanò spontaneamente o fu allontanata dai territori novellamente aggregati alla corona. Il ripopolamento fu dunque attivato col richiamo dei guidatici»; A. Era, Provvedimenti per il ripopolamento di Sassari e Alghero nel 1350-61, in Actas del VI Congreso de Historia de la Corona de Aragón, Madrid 1959, 557-558, l’ autore esamina «un gruppo di disposizioni dirette ad agevolare trasferimenti di popolazione tra madrepatria ed il regno novellamente pervenuto alla Corona di Aragona […] La serie continua di insistenti richiami di popolazione in Sardegna, le sempre nuove concessioni offerte, la riluttanza ad accettarle con impegni formali, le aspirazioni a liberarsi dagli impegni contratti, dimostrarono ampiamente, mi pare, che i disegni aulici non erano condivisi dai sudditi della Corona come sarebbe stato necessario per affiancamento».

[113] M. Tangheroni, Archeologia e storia in Sardegna topografia e tipologia. Alcune riflessioni, in Atti del Colloquio internazionale di archeologia medievale, Palermo 1976, ora in Id., Sardegna Mediterranea, cit., 238: «la diversità di destino delle regioni e delle città non immediatamente investite dalla riorganizzazione feudale di tipo aragonese […] la gravità delle conseguenze, di ogni ordine, che l’introduzione del feudalesimo portò con sé e con la sua dicotomia città e campagne», a dimostrazione del suo assunto l’autore cita le curatorie di Gippi e Trexenta che conservano (239) «tratti fortemente tipici della società sardo-pisana, non feudale, in dinamica evoluzione, propria della Sardegna duecentesca»; M. Tangheroni, Per lo studio dei villaggi abbandonati a Pisa e in Sardegna nel Trecento, in Bollettino Storico Pisano, XL-XLI, Pisa 1972, ora in Id., Sardegna Mediterranea, cit., l’autore mette in evidenza due aree risparmiate dai fenomeni negativi (227) «l’assenza di regresso demografico e di abbandono di centri abitati che distingue la storia dell’Arborea e della Marmilla da gran parte del resto dell’isola ci sembra da riportare a due fattori … da una parte la mancata introduzione fino al XV secolo, del feudalesimo, dall’altra la vitalità economica e commerciale»; M. Tangheroni, L’economia e la società della Sardegna (XI-XIII secolo), in M. Guidetti, a cura di, Storia dei Sardi e della Sardegna, II, Il Medioevo. Dai Giudicati agli Aragonesi, cit., 188: «fino alla conquista aragonese, alla sistematica introduzione del feudalesimo, alla peste e al declino dell’economia monetaria, l’insediamento rurale restò solido […] Queste caratteristiche continuano ad apparire evidenti, dopo la metà del XIV secolo, nei territori non ancora soggetti alla corona aragonese, e cioè ai feudatari catalani o valenzani, come le curatorie di Trexenta e Gippi, rimaste soggette al comune di Pisa, o come, e soprattutto, il giudicato d’Arborea»; M. Tangheroni, Due documenti sulla Sardegna non aragonese del trecento, Cagliari 1976, ora in Id., Sardegna Mediterranea, cit., l’autore analizza e prende in esame due documenti riguardanti due aree della Sardegna, le curatorie di Gippi e Trexenta e il giudicato di Arborea. Nel primo documento (248-249) si possono cogliere «le differenze tra la Sardegna aragonese e i territori rimasti pisani; in altre parole possiamo, attraverso il confronto, valutare tutta la portata delle conseguenze dell’introduzione del feudalesimo nell’isola ed anche renderci conto delle diverse prospettive che la società sarda avrebbe avuto di fronte se una brusca svolta non fosse stata determinata alla conquista aragonese […] nella Sardegna aragonese, eccettuate le ‘isole urbane’, la struttura sociale aveva acquistato rapidamente un carattere rigidamente feudale, con la depressione e la progressiva scomparsa di quei ceti alti e medi sardi o sardo-pisani che, come il nostro documento testimonia, erano in via di formazione non soltanto nei principali centri cittadini, ma anche in larga parte dell’isola»; il secondo documento ha un notevole interesse per la storia dell’Arborea (258-259) «contribuisce a chiarire la realtà arborense del XIV secolo, contro non soltanto l’immagine del feudatario ribelle e sleale […] ma anche contro l’immagine romantica di una disperata guerra di poveri indigeni contro l’invasore straniero. Sempre meglio la ricerca sta rilevando che la resistenza arborense, cosi prolungata e pericolosa per il dominio aragonese sulla Sardegna, fu possibile non soltanto per i vizi che potremo dire ’d’origine’ del nuovo edificio politico, e, quindi, per la vastità e profondità delle reazioni suscitate, ma, anche, per le floride condizioni economiche e per la salda struttura sociale del giudicato d’Arborea»; A. Cadinu, I villaggi, in A. Asole, a cura di, La Provincia di Oristano il territorio, la natura, l’uomo, Milano 1997, 152, l’autore riguardo gli insediamenti del territorio arborense afferma che «hanno conosciuto in modo differito e attutito la grave crisi del XIV e XV secolo conseguente all’introduzione del feudalesimo».

[114] F.G.R. Campus, L’insediamento medievale della Sardegna. Dal problema storiografico al percorso della ricerca, in Quaderni bolotanesi, 34, 2008, riguardo la ricerca delle cause dello spopolamento e dell’abbandono dei villaggi l’autore afferma (92) che l’«impoverimento delle popolazioni sia da ascrivere ai cicli di epidemie che colpirono l’isola dalla metà del XIV secolo […] prolungato periodo di guerra che si venne ad innescare dalla metà del XIII secolo sino ai primi decenni del XV secolo […] annullamento politico del regno d’Arborea […] Tuttavia, quello che venne risparmiato dalle guerre e dalle pestilenze fu definitivamente annullato […] dall’imposizione forzata da parte dei catalani di sistemi organizzativi estranei al tessuto sociale dell’isola. Questa strategia, cioè “l’introduzione del feudalesimo” ha avuto come punto di partenza la rottura dei precedenti sistemi territoriali»; Id., Villaggi medievali in Sardegna, in M. Milanese, a cura di, Geridu. Archeologia e storia di un villaggio medievale in Sardegna, Sassari 2001, 13-16; M. Milanese, Vita e morte dei villaggi rurali tra Medioevo ed Età moderna. Archeologia e storia di un tema storiografico, in M. Milanese, a cura di, Vita e morte dei villaggi rurali tra Medioevo ed Età moderna. Dallo scavo della villa de Geriti ad una pianificazione della tutela e della conoscenza dei villaggi abbandonati in Sardegna, Firenze 2006, 9-24; Id., Paesaggi rurali e luoghi del potere nella Sardegna medievale, in Archeologia Medievale, XXXVII, 2010, 247-258.

[115] G. Olla Repetto, L’ordinamento costituzionale-amministrativo della Sardegna alla fine del ’300, in Il mondo della Carta de Logu, Cagliari 1979, ora in Ead., Studi sulle istituzioni amministrative e giudiziarie della Sardegna nei secoli XIV e XV, cit., 239; A. Marongiu, La Sardegna «Spagnola». Un conto che … non s’ha da fare, in Saggi di storia giuridica, Padova 1978, 211, l’autore sostiene la tesi che gli aragonesi con le loro pretese e vessazioni provocarono «l’insurrezione dei Giudici di Arborea prima e dei marchesi di Oristano, poi, e di tutta la popolazione isolana […] ripopolarono di loro fedeli sudditi Cagliari ed Alghero, espellendone gli abitanti»; cfr. M. Tangheroni, Il feudalesimo in Sardegna in età aragonese, in Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa, Pisa 1973, ora in Id., Sardegna Mediterranea, cit., 42: «le reazioni e le resistenze contro le quali urtava la completa affermazione della sovranità aragonese sull’isola appena conquistata nascevano anche in parte proprio dall’introduzione del feudalesimo, struttura sociale e amministrativa calata e imposta meccanicamente dal di fuori e dall’alto, e dal comportamento dei feudatari […] l’organizzazione feudale della Sardegna fu concepita dalla monarchia aragonese prima ancora della conquista», e (48) «Le lunghe, sanguinosissime guerre, che sconvolsero la Sardegna fino all’inizio del XV secolo, erano originate in parte proprio dal tentativo monarchico di ridurre le forze non aragonesi in Sardegna entro un quadro feudale omogeneo e regolare».

[116] R. Conde y Delgado de Molina, La Sardegna Aragonese, in M. Guidetti, a cura di, Storia dei Sardi e della Sardegna, II, Il Medioevo. Dai Giudicati agli Aragonesi, cit., 265-266: «L’occupazione delle campagne fu feudale […] il progetto di costruire il regno sulle relazioni feudali con i signori preesistenti. Il feudalesimo fu concepito come una struttura politica superiore dotata di energia integratrice […] si scelse il modello feudale. I territori occupati furono frammentati in un numero senza fine di unità che furono infeudate […] il modello fallì come struttura politica superiore», e (267) «Le conseguenze dell’introduzione del feudalesimo in Sardegna furono considerevoli: la principale fu l’accelerazione della destrutturazione della società rurale preesistente. I mezzi di soggezione dei contadini alle loro terre, combinati poi con la spinta alla mobilità per attrarre i resti della popolazione […] spopolarono centinaia di nuclei rurali. E la ormai nota distinzione tra le città catalane e privilegiate, e le zone rurali, sarde e feudalizzate, impedì l’osmosi tra i due tipi di organizzazione».

[117] G. Meloni, La Sardegna nel quadro della politica mediterranea di Pisa, Genova, Aragona, in M. Guidetti, a cura di, Storia dei Sardi e della Sardegna, II, Il Medioevo. Dai Giudicati agli Aragonesi, cit., 94.

[118] E. Putzulu, La concezione storiografica di G. Zurita e la sua narrazione della ribellione arborense, in Atti del VII Congresso di Storia della Corona d’Aragona, II, cit., 125. L’autore considera la ribellione come un unico fatto e ricerca la causa vera nei presupposti giuridici, economici e sociali, mentre l’annalista aragonese Geronimo Zurita, non li prende in considerazione, concepisce il conflitto non come un unico fatto, ma come una sequenza di fatti determinati dagli «stati d’animo dei suoi protagonisti»; cfr. G. Meloni, Genova e Aragona all’epoca di Pietro il Cerimonioso, I, (1336-1354), Padova 1971, 172: «il crescente malcontento delle popolazioni sarde, angariate da una pesante politica fiscale, contro l’Aragona […] In breve il malcontento era diventato aperta rivolta […] quasi tutta l’isola fu interessata alla ribellione e le scorrerie di bande armate organizzate dai ribelli giunsero fino alle porte di Cagliari». Per la ribellione di Sassari vedere A. Solmi, Una pagina di storia sassarese, in Archivio Storico Sardo, IV, 1908. L’autore ascrive la causa della ribellione (376) «ai tributi esorbitanti, che il nuovo dominio imponeva ai soggetti, ed alla cattiva amministrazione» e afferma che (377) «il governo aragonese, prodotto, come si disse, di una occupazione militare, doveva apparire subito nella crudele realtà della sua dispotica asprezza. Le gravi spese della conquista, dovevano in definitiva, essere sostenute dal popolo, poiché i dominatori si affrettavano a cedere ai propri fedeli, in compenso delle loro fatiche e dei loro aggravi, vaste terre a titolo di feudo […] le terre venivano elargite ai fedeli del re con grande liberalità, senza riguardo ai diritti molto profondi d’uso, che vi erano esercitati dai cittadini […] il feudatario si sbizzarriva a imporre la propria legge, il proprio gusto, la propria comodità […] si tratta […] di un feudo regolato dalla legge del sovrano che lo crea e lo moltiplica»; cfr. J. Miret y Sans, “Saqueig de Sasser en 1329”, in Boletin de la Real Academia de Barcelona, VIII, 1908, 424 ss.

[119] A. Marongiu, I parlamenti di Sardegna nella Storia e nel diritto pubblico comparato, Roma 1932, 4.

[120] A. Solmi, Studi storici sulle istituzioni della Sardegna nel Medioevo, Cagliari 1917, 330-333; G. Zirolia, Sugli Stamenti di Sardegna, in Estratto dal Filangeri, XII, 1892, 7: «gli Stamenti furono instituiti per le esigenze della politica, che richiedevano un ordinamento generale per ricondurre all’armonia i vari governi nel sottoporli al dominio straniero; ma la causa intima ne fu la impossibilità di governare dispoticamente tanto per le condizioni del momento, quanto per la natura del popolo. E, benché gli Stamenti non abbiano estrinsecamente nulla di comune con gli istituti che in Sardegna li precedettero, non si potevano in un colpo abbattere le memorie delle antiche libertà ed era necessario che i più potenti e i più notabili partecipassero in qualche modo alla cosa pubblica […] La instituzione dei nostri Stamenti risale al 1355»; G. Curis, Stamenti, in Nuovo Digesto Italiano, XII, Torino 1940, 779: «Stamenti o stati erano i bracci, di cui, sotto la dominazione aragonese, si componeva in Sardegna il parlamento […] L’istituzione del parlamento in Sardegna si deve all’iniziativa dei re aragonesi, nè trova alcun precedente storico nelle istituzioni locali. Invero, le assemblee dei grandi e dei liberi, che si solevano convocare al tempo dei giudicati, non avevano alcun mandato di rappresentanza»; G. Zanetti, Stamenti, in Nuovissimo Digesto Italiano, XVIII, Torino 1980, 92-96; vedere A. Boscolo, I parlamenti di Alfonso il Magnanimo, Milano 1953, l’autore dimostra la volontà di richiamarsi ai modelli parlamentari catalani.

[121] Siamo davanti al contratto di governo o di soggezione (pactum regiminis o subiectionis) medievale feudale, il quale produce esclusivamente il capo, si ottiene massa di sudditi sotto un unico capo. Detto contratto ha la sua antitesi nel contratto di società repubblicano romano, il quale produce esclusivamente la società. Nella societas romana la collettività è adespota, non prevede e non necessità di un ‘capo’. Nella logica medievale feudale la massa dei soggetti, è tenuta legata dagli anelli della catena feudale, è unita dal vincolo feudale; vedere A. Solmi, Stato e Chiesa. Secondo gli scritti politici da Carlomagno fino al Concordato di Worms (800-1122), Modena 1901, 84: «dal feudalesimo emergeva dunque necessariamente il principio monarchico, incarnato nel re o nell’imperatore; principio, che persisteva […] perché i signori stessi sentivano la necessità di un potere ultrafeudale, che impedisse le usurpazioni dei più forti, e il popolo vedeva nel supremo e lontano signore un freno all’arbitrio illimitato del feudatario. L’equilibrio feudale esigeva dunque, che, accanto all’organizzazione signorile dei singoli gruppi territoriali, persistesse l’istituzione della monarchia, chiamata ancora una volta a reggere l’unità sociale»; cfr. A. Marongiu, I Parlamenti sardi. Studio storico istituzionale e comparativo, cit., 65: «concezione contrattualistica di governo legittima, in certo modo, la persistenza del sistema feudale».

[122] A. Marongiu, “Il Parlamento o corti del vecchio regno sardo”, in Istituzioni rappresentative nella Sardegna medievale e moderna, I, Cagliari 1986, 39-40: «Fu una riunione, se non erriamo, totalitaria […] Il Re fece tutto lui, giudicò e condanno lui, e non la massa dei convenuti, che non avrebbe avuto alcun potere o titolo a farlo, ribelli o presunti tali, emanò delle Costituzioni e sancì la presenza alternativa dei feudali nell’isola e nei territori iberici […] Non fu, questo è chiaro, osservata nessuna distinzione tra Aragonesi e Catalani, non fu udita la parola di alcuno dei convenuti. Dovette essere, fu altri lo ha detto, un mosaico di gruppi, disparati e diversi e disordinati: si trattò, se non erriamo non di un vero parlamento ma di una prefigurazione parlamentare»; A. Era, L’autonomia del “Regnum Sardiniae” nell’epoca aragonese-spagnola, in Archivio Storico Sardo, 1957, XXV, 212: «Data da assumere per segnare l’inizio di avveramenti unificatori è soltanto il 1421, quella della riunione del primo Parlamento sardo, effettivamente operante come istituzione giuridica»; F.C. Casula, Profilo storico della Sardegna catalano-aragonese, cit., 34-35: «Dal punto di vista delle presenze, specie dei sardi indigeni, fu un fallimento […] Non c’è dubbio che esso fu una specie di parata politico-dimostrativa». G. Meloni, Il Parlamento di Pietro IV d’Aragona (1355), in G. Meloni, a cura di, Acta Curiarum Regni Sardiniae, 2, Cagliari 1993, 57-66, secondo l’autore non si tratta di una riunione straordinaria ma della prima vera Cort di Sardegna in cui sono riscontrabili i caratteri del primo parlamento sardo.

[123] P. Marica, La Sardegna e gli studi del diritto, II,  Le fonti, cit., l’autore riferito al Parlamento del 1355 afferma che (p. 101) «ebbe una importanza politica eccezionale perché vi si dettarono le cinque costituciones che erano la prima solenne affermazione del potere esclusivo della Corona di Aragona e della soggezione dei sardi. Queste costituzioni infatti, come vedremo, riconoscevano dovuto al Re da tutti i baroni, ecclesiastici e ville, il giuramento di fedeltà e il tributo di vassallaggio».

[124] A. Marongiu, I parlamenti di Sardegna nella Storia e nel diritto pubblico comparato, cit., 14: «È come una nuova pianta importata dagli Spagnuoli desiderosi di dare al loro nuovo regno un colore locale ed ambientale il più che fosse possibile simile a quello che essi avevano lasciato nella penisola iberica». Il Marongiu, cita ad esempio la Sicilia, perché anche qui, quasi contemporaneamente alla Sardegna viene introdotto il modello catalano, ma fa ben notare, che qui esiste già una forma di organizzazione parlamentare, si tratta, quindi di un passaggio graduale ad una nuova forma sempre parlamentare, un aspetto che assicura al Parlamento siciliano «una certa autonomia e forse maggiore indipendenza» rispetto a quello sardo. L’autore fa un parallelo tra i parlamenti impiantati in Sicilia e in Sardegna, e pone l’accento sulla diversità delle «origini», uno consiste nella «trasformazione» di un istituto già presente, l’altro consiste nell’«instaurazione di un nuovo istituto senza precedenti storici diretti». Inoltre ne sottolinea (pp. 15-16) «una fondamentale differenza storica: nella prima essi si svilupparono come un frutto di quel lento evolversi di tutta la vita sociale e dei sistemi giuridici e politici che portò al sorgere dell’istituto parlamentare in quasi tutti i paesi d’Europa; nella seconda, invece, i parlamenti non furono se non la conseguenza dell’instaurato dominio straniero e da cui restarono completamente estranei in principio gli abitanti del paese»; cfr. R. Palmarocchi, Sardegna Sabauda, I, Il regno di Vittorio Amedeo II, Cagliari 1936, 11: «il Parlamento sardo ebbe sempre a soffrire del suo vizio di origine: esso non fu il prodotto di una naturale evoluzione storica, ma un istituto di creazione sovrana che i Re d’Aragona istituirono prima per ragioni politiche […] poi per ragioni finanziarie e fiscali».

[125] A. Solmi, Studi storici sulle istituzioni della Sardegna nel Medioevo, cit., 355, l’autore riguardo il parlamento (352) «presuppone un governo accentrato, posto di fronte a tutte le autonomie feudali o comunali, in quanto reclamano un intervento diretto o rappresentativo delle classi al governo».

[126] Zirolia, Sugli Stamenti di Sardegna, in Estratto dal Filangeri, XII, cit., 15: «Parlaments se celebren conforme a la pratica cathalunya. Questa formola dei re spagnuoli […] palesa di per sè stessa come i nostri Stamenti fossero l’attuazione dei sistemi di governo vigenti nella Spagna»; R. Conde y Delgado de Molina, La Sardegna Aragonese, in M. Guidetti, a cura di, Storia dei Sardi e della Sardegna, II, Il Medioevo. Dai Giudicati agli Aragonesi, cit., 274: «Il Parlamento sardo è un’importazione dai territori iberici, non un’evoluzione di possibili strutture autonome. Quando il parlamento raggiunge la sua pienezza formale, riflette un modello chiaramente catalano»; cfr. A. Cioppi, L’ordinamento istituzionale del Regnum Sardiniae et Corsicae nei secoli XIV e XV, in A.M. Oliva - O. Schena, a cura di, Sardegna Catalana, cit., 128: «introduzione dell’istituto parlamentare, improntato anch’esso al modello catalano, uno dei meno autonomi nel panorama istituzionale della Confederazione iberica».

[127] A. Mattone - C. Ferrante, La Sardegna. Tutta la storia in mille domande, in M. Brigaglia, a cura di, Moncalieri 2011, 37.

[128] A. Mattone, Centralismo monarchico e resistenze stamentarie. I Parlamenti sardi del XVI e del XVII secolo, in Istituzioni rappresentative nella Sardegna medievale e moderna, Acta Curiarum Regni Sardiniae, I, Cagliari 1986, 131: «Nell'isola non vi erano, infatti, le premesse per l’affermazione locale di un’assemblea rappresentativa di ordini»; Id., Problemi di storia del Parlamento sardo, in Assemblee di Stati e istituzioni rappresentative nella storia del pensiero politico moderno (XV-XX secolo), in Atti del convegno internazionale tenuto a Perugia dal 16 al 18 settembre 1982, I, Rimini 1983, 165-172; Id., I Parlamenti, in J. Carbonell - F. Manconi, a cura di,  I catalani in Sardegna, cit., 83-91.

[129] O. Schena, “Interessi cittadini, finanze regie e istituzioni parlamentari nella Sardegna del tardo medioevo”, in Saitabi. Revista de la Facultat de Geografia i Història, 64-65, 2014-2015, 84: «il vero ceto privilegiato, unico e diretto interlocutore della Corona nel Regno»; cfr. B. Anatra, Corona e ceti privilegiati nella Sardegna spagnola, in B. Anatra - R. Puddu - G. Serri, Problemi di storia della Sardegna spagnola, Cagliari 1975, viene descritto il rapporto tra la Corona e i ceti privilegiati, e per ceti si intendono quei (9) «ceti che hanno diritto di rappresentanza nei parlamenti dei regni della Corona d’Aragona, tramite i rispettivi stamenti (o bracci)».

[130] A. Mattone, ‘Corts’ catalane e Parlamento sardo: analogie giuridiche e dinamiche istituzionali (XIV-XVII secolo), in Rivista di Storia del Diritto Italiano, LXIV, 1991, 21.

[131] A.M. Oliva, I parlamenti del Regno di Sardegna, in A.M. Oliva - O. Schena, a cura di, Sardegna Catalana, cit., 139: «in Sardegna la società convocata in Parlamento era quasi esclusivamente catalano-aragonese, l’Assemblea parlamentare fu, quindi, almeno durante i primi Parlamenti l’istituzione rappresentativa di una classe dominante ed i Sardi vi potevano partecipare in forma molto limitata».

[132]A. Marongiu, I Parlamenti sardi. Studio storico istituzionale e comparativo, cit., 35.

[133] R. Howard Lord, “I parlamenti del medioevo e della prima età moderna”, in The Chatolic Historical Review, XVI, 1930, ora in G. D’Agostino, a cura di, Le istituzioni parlamentari nell’Ancien Régime, cit., 105.

[134] A. Marongiu, I Parlamenti sardi. Studio storico istituzionale e comparativo, cit., 259: «Ammettere come tesi giuridica la possibilità per i singoli cittadini di partecipare o di farsi rappresentare uti cives o uti singuli alle assemblee parlamentari sarebbe stato, per quei tempi un anacronismo».

[135] G. Post, Plena Potestas and Consent in Medieval Assemblies: A Study in Romano-Canonical Procedure and the Rise of Representation, 1150–1325, in Traditio, 1, 1943, 355-408.

[136] Vedi, supra, nt. 103.

[137] Vedi, in proposito, la recente antologia di scritti A. Giordano, a cura di, Gli antifederalisti. I nemici della centralizzazione in America (1787-1788), Torino 2011, con introduzione di L.M. Bassani, Gli avversari della Costituzione americana: ‘antifederalisti’ o federalisti autentici?, 9-64.

[138] Il cui massimo esponente è Johannes Althusius, Politica methodice digesta (1603-1614) su cui TH. Hüglin, Sozietaler Foederalismus. Die politische Theorie des Johannes Althusius, Berlin-N.Y. 1991.

Per la differenza tra il “Federalism” anglosassone della Costituzione USA e la “consociatio” althusiana a base romanistica, vedi G. Lobrano, «Federalismo» o «confederazione»? Ripensare e riformare federalismo e autonomia, rileggendo Emilio Lussu, in S. Cherchi - G.G. Ortu, a cura di, Il manifesto di Ghilarza. Perché siamo autonomisti e federalisti, Cagliari 2018, 41-54 (leggibile in www.sinistra-autonomista-federalista-euromediterranea.it, 11 Maggio 2018).

[139] All’inizio del secolo XX, Max Weber (Wirtschaft und Gesellschaft, 1922) rileverà che il ceto sociale (la cosiddetta “borghesia”) uscito vittorioso dalla Grande Révolution, assume a legittimazione del proprio potere precisamente il titolo di “rappresentante” del “Popolo”. Giuseppe Duso (“Introduzione” a H. Hofmann, Rappresentanza-rappresentazione: parola e concetto dall’antichità all’Ottocento, tr. it. dalla 4ª ed. tedesca [Berlin 2003] di C. Tommasi, Milano 2007, 1 s.) scrive «“rappresentare” diviene quasi sinonimo di “dominare”» e, in nota (5), precisa che «Il primo ad aver definito come relazioni di potere tutte le relazioni di rappresentanza (almeno a proposito del potere di un gruppo) è stato Max Weber, allorché […] ha definito la situazione “nella quale l’agire di alcuni rappresentanti appartenenti al gruppo viene imputato a tutti i rimanenti, o deve da questi essere considerato – e di fatto lo è – come ‘legittimo’ e ‘vincolante’ nei loro riguardi” (cfr. M. Weber, Economia e società, a cura di P. Rossi, Milano 1980, I, 290)».

In proposito: G. Lobrano, La alternativa attuale tra i binomi istituzionali: «persona giuridica e rappresentanza» e «società e articolazione dell’iter di formazione della volontà». Una ìpo-tesi (mendeleeviana), in Diritto@Storia, n. 10, 2011-12; Id. - P.P. Onida, Rappresentanza o/e partecipazione. Formazione della volontà «per» o/e «per mezzo di» altri. Nei rapporti individuali e collettivi, di diritto privato e pubblico, romano e positivo, in Diritto@Storia, n. 14, 2016.

[140] A. Marongiu, I parlamenti di Sardegna nella Storia e nel diritto pubblico comparato, cit., 7-8: «Carte e documenti ci mostrano come il Giudice agisse generalmente dopo aver avuto il consenso e l’approvazione degli arcivescovi, vescovi, degli appartenenti alle famiglie più cospicue, i «liberi grandi», ed anche i liberi in genere […] Si tratta di istituzioni originarie radicate nei secoli […] cui ciascuno partecipava per diritto proprio e non come delegato di classi o di popolo e nelle quali le deliberazioni venivano prese seguendo il criterio del consenso dei più tra gli intervenuti»; Id., Storia del diritto italiano. Ordinamenti e istituti di governo, cit., 169: «adottavano le loro decisioni in assemblee (corone), ad un tempo giudiziarie e amministrative»; A. Rota, Aspetti giuridici della Carta de Logu di Eleonora d’Arborea, in Archivio Storico Sardo di Sassari, I, cit., 17: «tradizione dello ius publicum del popolo sardo […] accompagnata e sorretta dalla manifestazione del consenso popolare»; B. Anatra, Dall’unificazione aragonese ai Savoia, in La Sardegna medioevale e moderna, Storia d’Italia, X, Torino 1984, 260: «una tradizione assembleare. Essa si esprimeva in fase di legittimazione della successione giudicale o di importanti decisioni politiche ed aveva luogo, con una embrionale tripartizione, «coram primatibus et nobilibus atque liberis regni»»; O. Schena, Strutture politiche, istituzioni ecclesiastiche e vita culturale nei secoli XI-XIII, in La Sardegna medievale nel contesto italiano e mediterraneo (secc. XI-XV), di O. Schena - S. Tognetti, cit., 10: «era la concorde volontà del popolo riunito in ‘Corona’ (la Corona de Logu) a rappresentare la fonte della sovranità».

[141] A. Solmi, Studi storici sulle istituzioni della Sardegna nel Medioevo, cit., 351: «Queste assemblee venivano convocate dal giudice […] e deliberavano a maggioranza di consensi tra gli intervenuti […] senza mandato di rappresentanza»; Id., Le costituzioni del primo parlamento sardo del 1355, in Archivio Storico Sardo, VI, 1910, 216: «Senza dubbio nell’antico sistema politico dei giudicati, l’autorità regia non era dispotica: le gravi deliberazioni dello Stato si prendevano in adunanze solenni, con l’intervento dei principali ordini dei cittadini dove l’alto clero ed i maiorales avevano il primo posto, ma si trattava di riunioni straordinarie e collettive, che non si fondavano sul principio di rappresentanza, proprio dei parlamenti»; H.G. Koenigsberger, Parlamenti e istituzioni rappresentative negli antichi stati italiani, in Storia d’Italia, Annali, I. Dal feudalesimo al capitalismo, Torino 1979, 597: «Fino al primo ventennio del secolo XIV l’organizzazione della società sarda era stata non feudale […] non vi era dunque una base per un’assemblea rappresentativa dell’isola»; G. Meloni, Il Parlamento di Pietro IV d’Aragona (1355), in G. Meloni, a cura di, Acta Curiarum Regni Sardiniae, 2, cit., 59: «il principio della rappresentanza, caratteristico di una forma parlamentare quale quella che ci interessa, non era in uso»; J. Lalinde Abadia, La «Carta de Logu» nella civiltà giuridica della Sardegna medievale, in I. Birocchi - A. Mattone, a cura di, La Carta de Logu d’Arborea nella storia del diritto medievale e moderno, cit., 29, l’autore nega alla Corona de Logu lo status di istituzione parlamentare: «non era un parlamento – non aveva una rappresentanza cetuale tripartita». Con questa negazione, Lalinde Abadia, implicitamente riconosce la Corona come luogo di “partecipazione” democratica dei cives delle biddas; A.M. Oliva, I parlamenti del Regno di Sardegna, in Sardegna Catalana, in A.M. Oliva - O. Schena, a cura di, cit., 138: «L’integrazione del regno di Sardegna nella struttura istituzionale della Corona d’Aragona ebbe un ulteriore punto di forza nell’introduzione del parlamentarismo di tipo catalano che si fondava sul principio del pactismo, su una concezione contrattualistica del rapporto con la Corona […] Per la Sardegna si trattò di una vera e propria novità che non trovava riscontro nelle assemblee degli stati preesistenti alla istituzione del regno».

[142] A. Mattone, Le istituzioni e le forme di governo, in M. Guidetti, a cura di, Storia dei Sardi e della Sardegna, III, L’età moderna dagli aragonesi alla fine del dominio spagnolo, cit., 223.

[143] E. Besta, Sardegna feudale, in Annuario della Regia Università degli Studi di Sassari, Sassari 1900, ora in A. Boscolo, a cura di, Il feudalesimo in Sardegna, cit., 193: «Le assemblee locali finirono col cedere il posto alla instituzione nuova degli stamenti, dove il braccio militare e l'ecclesiastico ebbero facile predominio. La voce delle classi inferiori o non riusciva a giungere nella sua genuina e schietta espressione fino all'orecchio del sovrano o giungeva inascoltata, paralizzata da altre voci discordi».

[144] Sull’originalità della approvazione della pace mediante la partecipazione collettiva vedere F.C. Casula, La Sardegna aragonese, II, La Nazione Sarda, Sassari 1990, 444-446. In dottrina sono stati notati il parallelo e la continuità tra l’approvazione della pace del 1388 e la competenza municipale alla ratifica dei trattati di tradizione romanistica, a riguardo vedere G. Lobrano, Per ri-pensare giuridicamente le «Città» e, quindi, l’«Impero»: I «Concili provinciali», in Ius Romanum [http://iusromanum.eu] 2, 2017, 28: «Nella provincia sarda dell’Impero romano […] l’istituto conciliare ha grande importanza almeno sino alla fine del secolo XIV, quando nella assemblea delle Città si manifesta persino la antica competenza municipale alla ratifica dei trattati. Nel 1388, il più noto e ultimo vero iudex sardo, Eleonora d’Arborea, sottoscrive con il Re Giovanni I d’Aragona uno storico – almeno per la Sardegna – trattato di pace e questo è ratificato dal concilio delle Comunità locali del ‘Giudicato’».

Parere contrario rispetto alla originalità del modo di approvazione della pace ha espresso M.T. Ferrer i Mallol, La guerra d’Arborea alla fine del XIV secolo, in G. Mele, a cura di, Atti del primo Convegno internazionale di studi, Giudicato di Arborea e Marchesato di Oristano: proiezioni mediterranee e aspetti di storia locale, Oristano 5-8 dicembre 1997, Oristano 2000, 614: «L’approvazione della pace del 1388 da parte delle città e ville sarde è stata interpretata in Sardegna come un fatto eccezionale e quasi la dimostrazione dell’elemento differenziale del giudicato d’Arborea, in cui certe decisioni dovevano prendersi collettivamente. Non c’è nulla né di eccezionale, né di diverso; era una precauzione che si richiedeva, in casi come questo, da parte della Corona catalano-aragonese, come già avvenuto nel 1386, e come dimostra il memoriale di Pietro il Cerimonioso». Rinviando ad altra sede l’esame puntuale delle asserzioni della Ferrer Mallol, dobbiamo comunque notare che la osservazione della “eccezionalità” del ruolo decisionale delle “città e ville sarde” è catalano-aragonese, non sarda (vedi, supra, nt. 35).

[145] A. Marongiu, I Parlamenti sardi. Studio storico istituzionale e comparativo, cit., 9, e (33) «Il parlamento sardo infatti, fino dalle origini, è composto in notevole parte da persone originarie della Spagna, estranee quindi alla Sardegna per stirpe, per tradizioni, per abitudini e per interessi, uniti ad essa solo dopo generazioni per censi, canoni e dignità degli uffici che erano stato chiamati ad esercitarvi […] autonomia quel tanto che il re aveva creduto opportuno concedere e di mantenere».

[146] A. Marongiu, I parlamenti di Sardegna nella Storia e nel diritto pubblico comparato, cit., 9; P. de Francisci, Dal “regnum alla res publica”, in SDHI, X-XI, 1944-45, 151, l’autore nel descrivere il passaggio alla costituzione repubblicana, verso la metà del secolo IV a. C., mette in rilievo delle notevoli differenze: «Il passaggio dalla monarchia primitiva, che si perde nel buio della protostoria, alla repubblica si può rappresentare come la progressiva sostituzione di una formazione fondata sulla volontà di gruppi e di un capo (formazione a base personale) con una organizzazione avente la sua base in un ordinamento concepito come impersonale, cioè con una organizzazione a carattere istituzionale»; Cfr. U. Coli, ‘Regnum’, in SDHI, XVII, 1951, 11, l’autore mette in risalto la «contrapposizione fra regnum, che comporta l’unificazione della massa sotto il potere assorbente del rex, e civitas, che è, invece, la pluralità di cittadini iure sociati. Il re resta al di sopra del gruppo, il quale forma l’oggetto del suo potere».

[147] P. Marica, La Sardegna e gli studi del diritto, II, Le fonti, cit., 103-104: «Fu per ridurla sotto il suo scettro, che Re Pietro dette alla Sardegna il Parlamento. Questa parola perciò non deve trarre in inganno. Non di organo di rappresentanza elettivo e deliberativo come lo si intende oggi, si trattava, ma di un consesso che riunito per iniziativa o con l’assenso della Corona, aveva compiti ben determinati e invalicabili» e (106) «il Parlamento sardo fu un vero e proprio instrumentum regni, un istituto imposto dall’alto di cui il Sovrano si servì per sottomettere il sistema giuridico isolano alla sua volontà di conquistatore e non fu già, come altrove, la conseguenza di una maturazione politica e sociale del paese».

[148] G. Olla Repetto, L’ordinamento costituzionale-amministrativo della Sardegna alla fine del ’300, in Il mondo della Carta de Logu, Cagliari 1979, ora in Ead., Studi sulle istituzioni amministrative e giudiziarie della Sardegna nei secoli XIV e XV, cit., 240.

[149] W. Ullmann, Principles of Government and Politics in the Middles Ages, 1ª ed. London 1961, tr. it. Principi di governo e politica nel Medioevo, Bologna 1972, 15. L’autore enuncia due tesi, del governo e della legge, contrastanti e confliggenti tra loro tanto da escludersi a vicenda. Una è la concezione ascendente del potere, definita popolare, il cui tratto distintivo è la voluntas populi. L’esempio specifico di detta concezione è la Roma repubblicana, in cui i magistrati ricevono il potere dal popolo. L’altra diametralmente opposta, è la concezione discendente del potere, ed è definita teocratica. L’esempio specifico di detta concezione sono i regni germanici; cfr. G. Lobrano, Res publica res populi. La legge e la limitazione del potere, cit., 57-72.

[150] E. Pilia, La dottrina della sovranità nella polemica Gioberti-Tuveri, Cagliari 1924. L’autore riporta le posizioni antitetiche di Gioberti e di Tuveri circa la disquisizione filosofica sull’appartenenza della sovranità. Nel descrivere il Tuveri come strenuo assertore della sovranità popolare, fautore del pensiero democratico, sostiene che egli abbia come fondamento della sua teoria il contesto storico dei giudicati sardi, in cui ravvisa la fonte della sovranità nella volontà del popolo riunito in corona. Il Pilia menziona le fonti dottrinarie dalle quali il Tuveri attinge per la costruzione della sua teoria della sovranità e afferma che egli (p. 13) «pone nel popolo la sorgente umana di sovranità» e sostiene che (19) «la vera sovranità spetta al popolo e si ammette una sola forma di Stato: la democratica» e (27) segue fedelmente «il solco della più schietta tradizione politica sarda, quando imposta la dottrina della sovranità». Infine il Pilia afferma che la concezione del Tuveri trae fondamento dalle dottrine degli Enciclopedisti e dalla scuola monarcomaca inoltre (19) «entra nel circolo delle idee svolte dal Rousseau nel Contratto sociale».

[151] Il confronto scientifico attiene ai metodi alternativi utilizzati per impostare il problema della “migliore forma di governo”, che sono il metodo della proposizione della utopia, e il metodo dei modelli storici da riproporre, contrapposizione-scontro risoltasi a favore di quest’ultimo. All’interno dei modelli storici da riproporre si ‘contendono il campo’ la tesi germanista (aristocrazia-rappresentanza) che ha in Henry de Boulainvilliers il suo alfiere, e quella romanista (democrazia-sovranità del popolo) che trova il suo rispettivo alfiere nell’abate Dubos. La contrapposizione ‘Germani-Romani’ va poi a riversarsi e rinnovarsi nella contrapposizione delle dottrine costituzionali di Montesquieu e di Rousseau; vedi G. Lobrano, Per la comprensione del pensiero costituzionale di J.-J. E del diritto romano, in G. Lobrano - P.P. Onida, a cura di, Il Principio della democrazia. Jean-Jaques Rousseau Du contrat social (1762), Napoli 2012, 39-71. L’autore nella ricostruzione del ‘fondamento’ e della ‘dinamica’ dei due “modelli” alternativi, che vanno ad alimentare due opposte esperienze costituzionali, mette in rilievo le due risposte o meglio le due soluzioni che la scienza giuridica nel corso dei secoli ha sperimentato e proposto. Da un lato quella inglese di chiara matrice germanica che permette la ‘coesistenza’ della unità di governo con l’individualismo conflittuale attraverso il ricorso alla persona giuridica. Dall’altro quella di chiara matrice gius-romanistica/mediterranea che permette agli uomini/soci il perseguimento dell’utilità, sia individuale che comune, attraverso il ricorso alla ‘società, figlia della ‘rivoluzione’ democratica/repubblicana greco/romana.

[152] Specifica ‘forma di governo’ germanica, comune – quindi – in origine ai Franchi come agli Angli, in quanto di “nos pères, les Germains” vedere C.-L. de Secondat de Montesquieu, De l’esprit des lois, cit., livre XXVIII, chapitre XVII, Manière de penser de nos pères, versione in italiano Lo Spirito delle Leggi, commento di R. Derathé e traduzione di B. Boffito Serra, cit., libro XXVIII, capitolo XVII, Modo di pensare dei nostri padri, 875-877. È rilevante constatare come Montesquieu ravvisa nelle leggi dei popoli germanici lo stesso ‘spirito’ così in De l’esprit des lois, livre XVIII, chapitre XXII, «Les lois de ces peuples barbares, tous originaires de la Germanie, s’interprètent les unes les autres, d’autant plus qu’elles ont toutes à peu près le même esprits», Lo Spirito delle Leggi I, libro XVIII, capitolo XXII, 456: «Le leggi di questi popoli barbari, tutti originari della Germania, s’interpretano le une con le altre, tanto più che hanno tutte press’a poco lo stesso spirito»; L. Von Ranke, “Englische Geschicte” in Id., Sämtliche Werke, Leipzig 1870-1872, XVII. Lo storico tedesco indica l’Inghilterra come luogo in cui la “idea germanica” ha trovato le condizioni migliori per il suo completo sviluppo e per dare i suoi risultati come la libertà aristocratica e il regime parlamentare.

[153] A. Padoa Schioppa, Storia del diritto in Europa. Dal medioevo all’età contemporanea, Bologna 2007, 394-397.

[154] J.-J. Rousseau, Du Contrat Social, 1ª ed., cit., livre III, chapitre XII, «Je ne parlerai pas des anciennes Républiques de la Grèce, mais la Républiques romaine étoit, ce me semble, un grand Etat, e la ville de Rome une grande ville», versione in italiano Il contratto sociale, in G. Saitta, a cura di, cit., libro III, capitolo XII, 85 : «Io non parlerò delle antiche repubbliche della Grecia; ma la repubblica romana era, mi sembra, un grande Stato, e la città di Roma una gran città»; Id., Lettres écrites de la montagne, 1ª ed. Amsterdam 1764, Lettre VI, «J’examine, par voie de comparaison avec le meilleur gouvernement qui ait esisté, savoir celui de Rome, la police la plus favorable à la bonne constitution de l’état» versione in italiano Scritti politici, III, Lettere dalla Montagna, Progetto di costituzione per la Corsica, Considerazioni sul governo di Polonia, in M. Garin, a cura di, Bari 1994, Lettera VI, 8: «esamino in base a un paragone col miglior governo che sia mai esistito, cioè quello di Roma, l’ordinamento più favorevole alla buona costituzione dello Stato».

[155] La “grande invenzione” di Rousseau è l’articolazione tra legge del sovrano-popolo e decreti del governo-principe. Vedi J.-J. Chevallier, Le mot et la notion de gouvernement chez Rousseau, in Aa.Vv., Estudes sur le Contrat social, Paris 1964, 291 ss.: «Que Rousseau ait tout enflammé mais rien “inventé” selon un mot de Mme de Staël, est faux, tout au moins en matière de politique […] la distinction du souverain et du gouvernement […] costitute une invention de première grandeur». Vedi anche P. Bastid, Rousseau et la théorie des formes de gouvernement, Paris 1964, in Aa.Vv., Estudes sur le Contrat social, cit., 316, che così prosegue «le pactum societatis qui est à la base de l’Etat n’a plus rien en commun avec le choix d’un chef: c’est l’acte primordial par le quel “un peuple est un peuple»; sempre Bastid (ibid. 315) ricorda che nel Discours sur l’inègalitè del 1755, su questi temi, Rousseau si limitava ancora – come egli stesso riconosce – a seguire la “opinion comune”. Vedi inoltre H. Reiner, Rousseaus idee des Contrat social und die Freiheit des Staatsburgers, in Archiv. Fur Rechts – und Sozialphilosophie 39 (1950), 6 ss. e D. Marocco Stuardi, Alcune osservazioni circa la distinzione tra ‘souveraineté’ et ‘gouvernement’ nella ‘Republique’ e nel ‘Contrat social’ in Il pensiero politico, 23 (1990), 19 ss.

In proposito: G. Lobrano, Res publica res populi. La legge e la limitazione del potere, cit., § C.II.2.a. “Il principio: la convenzione tra uomini liberi ed uguali costitutiva della società pubblica”, 206 ss. nt. 34.

[156] Fonti sulla qualifica di “giacobino” attribuita ad Angioy in A. Mattone - P. Sanna, “La «crisi politica» del Regno di Sardegna. Dalla rivoluzione patriottica ai moti antifeudali (1793-1796)” in Diritto@Storia, n. 6, 2007, «offriva al mondo contadino una lettura colta della originaria usurpazione baronale, sottolineando l’illegittimità degli ordinamenti feudali che si erano sovrapposti ai diritti naturali degli abitanti dei villaggi»; cfr. L. Del Piano, Osservazioni e note sulla storiografia angioiana, in Studi Sardi, XVII, 1961, 95: «l’Angioi aveva cercato di indirizzare in senso giacobino le agitazioni del ’95»; L. Falchi, La questione angioina, in Archivio Storico Sardo, XV, 1924, 125: «con l’odio antifeudale s’era largamente mescolato il sentimento repubblicano».

[157] F.I. Mannu, Su patriota sardu a sos feudatarios, in L. Carta, a cura di, Cagliari 2002, 18. Si tratta di un componimento poetico di quarantasette strofe, che è anche un documento storico e un manifesto politico. Già nella prima strofa è presente il tema centrale della tirannia baronale. Dalla quarta strofa fino alla decima viene descritta l’origine e la realtà della istituzione feudale. Carta nell’apparato critico al testo dell’inno afferma la coincidenza di significato tra “popolo” e “biddas”  (12) «Sas Biddas, le ville o comunità dei villaggi identificate spesso con su Populu, ‘il popolo’» e sostiene (19) «Feudos e Biddas risultano, sotto il profilo giuridico, due realtà antitetiche e conflittuali»; cfr. P. Ausonio Bianco - F. Cheratzu, Su Patriottu  sardu  a sos feudatarios di Francesco Ignazio Mannu, Cagliari 1996, vedi il § II «Feudu, legge inimiga»: oppressione feudale e dominazioni straniere, in particolare (41) «la responsabilità maggiore del mancato sviluppo della società e dell’economia isolana è indubbiamente da attribuire al feudalesimo».

Sull’inno di Mannu vedi anche le osservazioni di G. MannoStoria moderna della Sardegna dall’anno 1773 al 1799, II, Torino 1842, 94; Id. Appendice per gli anni dal 1773 al 1799 alla Storia d Sardegna, Mendrisio 1847, 347.

[158] Per la biografia di Francesco Ignazio Mannu vedere V. Del PianoGiacobini, moderati e reazionari in Sardegna. Saggio di un dizionario biografico 1793-1812, Cagliari 1996, 274-276; per il giacobinismo in Sardegna vedere A. Levi, “Sardi del Risorgimento”, in Archivio Storico Sardo, XIV, 1922, 171-173.

[159] L. Carta, La “sarda rivoluzione”. Studi e ricerche sulla crisi politica della Sardegna tra Settecento e Ottocento, Cagliari 2001, in particolare il § I dal titolo La fase urbana della “sarda rivoluzione” (1793-1795), 7-159.

[160] P. Cuccuru, Un testo giacobino sardo: L’Achille della Sarda Liberazione, in Il Pensiero politico, 12, 1979, 53: «L’opuscolo è anonimo, ma lo si può attribuire con una certa sicurezza all’ambiente dei Giacobini cagliaritani, in gran parte piccoli nobili non feudatari, professionisti e commercianti, che costituiscono il nucleo dirigente della rivolta angioyana»; cfr. A. Contu, L’ombra del mito. Identità e politica nella Sardegna di fine Settecento, in Quaderni bolotanesi, 24, 1998, 213, l’autore riguardo al titolo del pamphlet afferma che «l’identità politica è insomma strettamente fondata sul ricorso a un topos centrale della cultura del Settecento europeo. Il referente mitico-simbolico rappresenta un elemento retorico capace di rafforzare e di legittimare il richiamo alla mobilitazione della «Sarda Nazione» impegnata a riscattare e rivendicare una identità collettiva risalente minacciata dalle pretensioni assolutistiche della Monarchia».

[161] F.I. Mannu, Su patriota sardu a sos feudatarios, in L. Carta, a cura di, Cagliari 2002, 21: «L’argomento del diritto originario delle ‘ville’ è sostenuto con forza anche nel più importante pamphlet antibaronale apparso nel periodo: L’Achille della sarda liberazione»; L. Carta, Reviviscenza e involuzione dell’istituto parlamentare nella Sardegna di fine Settecento (1793-1799), in Acta Curiarum Regni Sardiniae, L’attività degli Stamenti nella “Sarda Rivoluzione”, I, Atti dello Stamento Militare, Cagliari 2000, 223: «il saggio più radicale e più organico di propaganda patriottica e antifeudale tra quelli apparsi durante il triennio rivoluzionario»; cfr. I. Birocchi, La Carta autonomistica della Sardegna tra antico e moderno. Le “Leggi Fondamentali” nel triennio rivoluzionario (1793-96), Torino 1992, 146: «Il documento che senz’altro compendia le aspirazioni costituzionalistiche del periodo è l’Achille della sarda liberazione, sorta di pamphlet […] che presenta un carattere teorico e, insieme, un altro di agitazione politica».

[162] R. Garzia, Canto di una rivoluzione (Appunti di Storia e di Storia letteraria sarda), Cagliari 1899, 60-63; cfr. L. Del Piano, Città e campagna nel periodo rivoluzionario sardo 1793-1812, in Quaderni bolotanesi, 25, 1999, 237: «documento nel quale convergono e si fondono la protesta antiassolutistica della città e quella antifeudale della campagna […] Il terzo paragrafo, articolato in ben 37 punti, è tutto una violenta polemica contro il feudalesimo e contro i feudatari […] prosegue imputando all’oppressione feudale la scarsità della popolazione e la miseria dell’isola».

[163] Pensiamo alla questione italiana della “autonomia differenziata” e alla questione spagnola della “indipendenza” catalana, vedi F.C. Casula, “Introduzione”, in F.C. Casula - E. Rossi, Autonomia sarda e autonomia catalana, Pisa 2006, 21-27.