Vanda Fiorillo

Università di Napoli “Federico II”

 

I POTERI DIVISI, COME «I DIVERSI MODI DI PENSARE IL DIRITTO»[1].

LA DIVISIONE DEI POTERI NELLA REPUBBLICA DEMOCRATICA DI JOHANN ADAM BERGK

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Sommario: 1. I princìpi fondativi della Repubblica democratica. – 2. La divisione fra i quattro poteri della Repubblica democratica: il legislativo, l’esecutivo, il giudiziario e l’organizzativo.

 

 

 

1. – I princìpi fondativi della Repubblica democratica

 

In questo lavoro ci si propone di analizzare il principio-cardine della costituzione della Repubblica democratica (die demokratische Republik), la particolare forma di governo propugnata dal critico radical-democratico di Kant, Johann Adam Bergk[2]. Tale principio è dato dalla divisione fra i quattro poteri dello Stato: il legislativo, l’esecutivo, il giudiziario e l’organizzativo.

Al fine di trattare il tema della divisione dei poteri nel giacobinismo kantiano[3] di Bergk, si deve tuttavia preliminarmente fissare i criteri filosofico-politici, che fondano tale forma di governo. A questo proposito, bisogna innanzitutto osservare che mediante la combinazione concettuale di repubblica e democrazia, Bergk supera per primo la «tradizionale incompatibilità, da Kant intesa in senso dicotomico, tra forma statale repubblicana e forma statale democratica»[4], elaborando, così, un modello di democrazia rappresentativa, basata sulla divisione dei poteri, con legislativo eletto a suffragio universale maschile e femminile[5].

Per una piena intelligenza delle finalità perseguite dalla Repubblica democratica di Bergk, occorre, però, un’ulteriore premessa. Ciò perché l’analisi del principio della divisione dei poteri, – così come, del resto, nel caso di tutte le altre creazioni politiche di questo autore – dovrà necessariamente svolgersi sul duplice livello concettuale della saggezza politica (Weisheit) e della prudenza politica (Klugheit), della teoria e della prassi. L’intera opera bergkiana è percorsa, infatti, dalla costante dialettica fra le due concezioni strettamente complementari della politica, che caratterizzavano l’illuminismo tedesco, e più specificamente dal rapporto fra le due forme della filosofia politica dell’epoca, ossia fra la 1) dottrina della saggezza (Weisheitslehre), e quella 2) della prudenza (Klugheitslehre). La prima, la dottrina della saggezza, viene concepita da illuministi come Bergk quale diritto naturale, e più precisamente quale teoria dei doveri naturali, mentre la seconda, la dottrina della prudenza, coincide, per tali autori, con la politica in senso stretto. Perciò, nella concezione della Aufklärung, la prima disciplina, ossia il diritto naturale, rappresenta la parte propriamente teorica della politica, svolgendo questa il compito di indicare quali siano i doveri da ottemperare all’interno della società civile. Viceversa, la seconda disciplina, la prudenza politica, ha l’obiettivo di dare istruzioni su come soddisfare i doveri nella prassi, perseguendo così nella maniera più vantaggiosa i fini morali che ci si propone. Suggerendo i mezzi più opportuni per adempiere gli obblighi sociali, la politica o dottrina della prudenza si configura, insomma, come la parte applicativa della dottrina della saggezza, pensata come etica dei doveri naturali. Con ciò, anche nell’opera di Bergk, la prudenza assolve una funzione prettamente subordinata rispetto alla saggezza. Senza dubbio consueta ai pensatori politici tedeschi della fine del diciottesimo secolo è, allora, non soltanto la distinzione fra teoria e prassi, fra il piano moral-razionale della saggezza politica ed il piano empirico della prudentia, ma anche l’indiscussa prevalenza della teoria dei doveri, certa nei suoi risultati, sulla soltanto probabile dottrina della prudenza o, in altre parole, la predominanza della morale sulla politica. Per illuministi quale Bergk, inoltre, queste due differenti concezioni della politica comportano distinti criteri di giudizio dell’esistente: mentre la prudenza viene radicata sul binomio utile-disutile, la saggezza è contraddistinta, per loro, dalla coppia concettuale giusto-ingiusto; quest’ultima, ovviamente, prevalente sul primo. Pertanto, dato il rapporto di subordinazione della politica alla morale, non è certo un caso che Bergk deplori che gli storiografi a lui contemporanei giudichino degli «avvenimenti e delle azioni umane», distinguendo «in base all’utile e al dannoso», e non, come invece dovrebbero, «in base al giusto e all’ingiusto»[6].

Sulla base di questa premessa, nel X Saggio della sua opera maggiore, le Ricerche sul diritto di natura, pubblico e delle genti, dal titolo significativo Sulla forma di governo più giusta ed opportuna, Bergk afferma: «per forma di governo di una repubblica democratica io intendo il governo del popolo o dei suoi rappresentanti in base ad una costituzione saggiamente e prudentemente organizzata»[7]. Com’è chiaro, il governo popolare è l’unico, per Bergk, in grado di mostrare, per mezzo di una costituzione repubblicana[8] fondata sulla separazione dei poteri, la forma giuridica richiesta dalla ragione[9], ravvisando, in tal modo, nella saggezza o teoria dei doveri la propria «creatrice»[10].

La saggezza politica fa sì che tutti i mezzi necessari all’organizzazione di una tale forma statale siano improntati ai crismi etico-giuridici del diritto esterno, che Bergk interpreta kantianamente come il criterio formale di compatibilità fra le libertà razionali, regolando esso tanto la libertà morale interiore delle massime, quanto la libertà giuridica esteriore delle azioni[11]. In tal senso, nella prospettiva bergkiana, «il concetto di diritto comprende (…) in sé tanto il dato morale, quanto quello giuridico, poiché esso determina puramente ciò che può accadere nella sfera della libertà in base a leggi»[12].

Su tali basi, un siffatto ordine etico-giuridico «affida all’attività autonoma degli uomini tutto ciò che [li] riguardi, [vale a dire] tutto ciò che assicuri i loro diritti e favorisca la loro destinazione»[13]. Infatti, attenendosi a quel supremo «dovere», il quale prescrive «che il popolo applichi esso stesso il diritto attraverso il governo»[14], la Repubblica democratica si presenta come la sola forma di Stato che rispetti pienamente l’autonomia morale degli individui. Quest’ultima consiste nella coltivazione della forma più importante di libertà contemplata dagli illuministi tedeschi[15], ossia nell’indisturbato esercizio della libertà morale o Bildung[16], mirante – com’è noto – al pieno sviluppo delle energie individuali.

In tale quadro, Bergk – propugnando un’etica intramondana ispirata al cristianesimo pietista dell’azione – sostiene che nella loro vita terrena gli uomini, «in lotta con loro stessi e con gli altri»[17], siano gli unici artefici del perfezionamento della loro individualità e dell’acquisizione della virtù, in quanto non dall’aiuto di formazioni politiche esterne, ma unicamente dal loro sforzo personale essi possono sperare «la liberazione» dalla loro «irragionevolezza» e dal loro «disvalore»[18]. Ed il nucleo concettuale di quest’antropologia dinamica, fondata sulla rivalutazione della condizione esistenziale dell’uomo, a prescindere da qualsiasi dogma od istituzione, viene icasticamente reso dall’affermazione: «noi siamo tutto attraverso noi stessi»[19].

In sostanza, nella trattazione della Repubblica democratica si può già individuare il perno teorico intorno al quale ruotano tutte le creazioni politiche bergkiane: il concetto di ascesi intramondana dell’individuo, ottenuta attraverso il lavoro, la lotta e l’impegno personale; concetto, questo, che valorizza ogni fare autonomo dell’uomo come rilevante per la salute dell’anima.

Di conseguenza, lo Stato deve essere ossequioso della destinazione terrena del Mensch, venendo perciò definito come «un mezzo ascetico (ein ascetisches Mittel) per attirare e costringere gli uomini ad operare il giusto»[20]. In altri termini, il potere statuale, e segnatamente la Repubblica democratica – secondo Bergk, l’unica forma di governo che ottemperi al generale parametro moral-razionale, dato dal diritto esterno – è «un mezzo ascetico», ossia uno strumento posto al servizio dell’ascesi intramondana dell’uomo, dovendo il suo ufficio limitarsi per il resto all’applicazione del diritto stesso, anche facendo ricorso alla coazione.

In un simile contesto, se l’individuo si configura come il massimo scopo dello Stato, il quale altro non è che «un istituto di uomini e per gli uomini»[21], è proprio dal fondamentale umanesimo politico di Bergk che si evince il principio teorico-morale giustificativo del suo giacobinismo. Tale principio è condensato nell’affermazione: «tutto ciò che è un prodotto dell’attività umana deve sottoporsi all’esame di tutti»[22].

Con ciò la stessa sovranità popolare – che Bergk ci restituisce in termini rousseauiani, equiparandola all’esercizio della «volontà generale»[23] – riceve una fondazione morale, nel senso che viene legittimata a partire dalla Bildung, come indisturbata ed incessante attività di formazione del carattere umano.

In quest’ottica, al pari del moderno concetto di proprietà[24], anche le istituzioni politiche democratiche possono essere concepite come una prosecuzione della personalità umana nel mondo fenomenico. Esse – proprio perché interpretabili come un ampliamento dell’ego individuale nella sfera socio-politica – debbono essere necessariamente sottoposte al controllo dei cittadini. Ed è soprattutto a causa della peculiare concezione dello Stato, quale “prodotto dell’attività umana”, che il pensiero tedesco moderno sulla società e le istituzioni, dalla fondamentale connotazione umanistica, finisce per ribaltare nel valore il rapporto politico individuo-Stato. Tant’è vero che per una simile prospettiva teorica, non è tanto lo Stato a soggiogare l’individuo, quanto piuttosto quest’ultimo a valersi del primo come suo strumento, allo scopo di conseguire la propria destinazione terrena, data dal pieno ed armonico sviluppo delle proprie forze individuali.

E specialmente il carattere umanistico, e quindi morale, palesato dalla filosofia politica della Aufklärung, giustifica la prevalenza concettuale del dovere sul diritto soggettivo, la quale connota, peraltro, anche il giusnaturalismo bergkiano, benché esso sia chiaramente ispirato alle teorie dei diritti umani della coeva Francia rivoluzionaria. E’ a questo proposito sostenibile, infatti, che soltanto alla centralità teorica del dovere possa corrispondere la centralità dell’individuo in formazione (gebildet) all’interno della vita socio-politica. Ciò soprattutto per la motivazione – riportata dallo stesso Bergk – per cui la morale (la quale coglie la natura del dovere)[25] valorizza l’interiorità del soggetto agente, riferendo l’azione direttamente a lui «e alla sua coscienza»[26], mentre il diritto ravvisa come suo principale oggetto il rapporto interindividuale, vale a dire l’agire umano «in relazione alla libertà degli altri»[27], rapportandosi dunque all’uomo solo mediatamente[28].

Sulla scorta di siffatti canoni filosofico-morali, la Repubblica democratica – creata dalla saggezza politica – non soltanto ottempera alle esigenze razionali del diritto, ma si rivela anche come la forma regiminis maggiormente conforme ai dettami della prudenza, se si considera che «opportuna è quella forma di governo che più di tutte favorisca la destinazione dell’uomo in questo mondo»[29].

 

 

2. – La divisione fra i quattro poteri della Repubblica democratica: il legislativo, l’esecutivo, il giudiziario e l’organizzativo

 

In un simile contesto, al fine di consentire la libera espressione della personalità dell’individuo in formazione (gebildet) all’interno della sfera pubblica proprio mediante il perseguimento dello scopo fondamentale, che accomuna la società civile allo Stato[30], ovvero la repressione dell’ingiustizia[31] e la salvaguardia dei diritti umani[32], la Repubblica democratica ha, secondo Bergk, il dovere di uniformarsi alle ideali condizioni del patto fondativo[33], introducendo una costituzione repubblicana, l’unica «giuridicamente organizzata»[34].

Riprendendo probabilmente il principio della divisione dei poteri da Montesquieu – il cui pensiero politico aveva ricevuto larga diffusione nella Germania illuministica[35] – Bergk si fa assertore di un criterio giuridico-politico, condiviso da liberali e da giacobini insieme[36], asserendo che «in una costituzione morale la separazione dei poteri è un dovere»[37].

Più precisamente, tale separazione fra i poteri dello Stato si configura come il principio fondamentale sancito dalla costituzione, la quale al precipuo scopo «di soddisfare le pretese della saggezza»[38] politica o teoria dei doveri, deve presentare le medesime qualità che caratterizzano il diritto, prime fra tutte l’universalità, la necessità, il disinteresse, la libertà e la reciprocità[39].

Tant’è vero che l’esercizio del diritto deve essere universale, e ciò non può avvenire che per mezzo di leggi astratte. Si pone, pertanto, la necessità di creare un potere legislativo[40]. Inoltre, l’applicazione delle norme giuridiche non può che essere disinteressata, ossia imparziale, nel senso che le massime del diritto devono venire emesse in base a leggi date. Perciò, si richiede la presenza di un potere giudiziario[41]. L’attuazione del diritto deve essere, poi, necessaria, e ciò presuppone l’operare di un potere esecutivo[42].

Accanto ai tre classici poteri Bergk ne contempla, infine, anche un quarto: il potere organizzativo (die organisirende Gewalt), particolarmente adatto ad una società democratica per la specifica funzione, da esso svolta, di difesa della libertà e della reciprocità nell’esercizio dei diritti. Innanzitutto, questo potere deve garantire che il diritto esterno sia libero, costringendo «ogni [cittadino] a contribuire alla realizzazione di esso»[43]. Esso, inoltre, ricorrendo ai mezzi sensibili della prudenza politica, ha il compito di legare «reciprocamente l’interesse di tutti i cittadini, per costringerli alla garanzia dei diritti di tutti»[44]. In sostanza, l’obiettivo principale di tale potere è quello di tutelare la suprema legge dell’eguaglianza sociale, intervenendo con gli strumenti della coazione legittima, al fine di riparare all’eventuale violazione dell’equilibrio nella convivenza civile, basato sulla corrispondenza fra i doveri morali del neminem laedere e i diritti dei cittadini. In altri termini, qualora il singolo cittadino non adempia spontaneamente l’obbligo morale di astenersi dall’attaccare i diritti dell’altro, allora il potere organizzativo si ingerisce con mezzi coercitivi nella società civile, correggendo con ciò il patologico operare di quel principio di correlatività fra il dovere ed il diritto soggettivo, che definisce il rapporto fra i cittadini. Il quarto potere dello Stato bergkiano svolge, insomma, la particolare funzione di salvaguardare coercitivamente il principio, secondo cui nella sfera pubblica, «ad ogni diritto si contrappone sempre nell’altro un dovere di ritenere il diritto [del primo] sacro ed inviolabile»[45].

Come si evince dalla trattazione bergkiana, sin qui illustrata, delle diverse funzioni dei poteri, è in prima istanza «per una motivazione giuridica»[46], ossia per garantire l’effettiva attuazione del diritto[47], e non per ragioni politiche, che si rende necessaria la divisione dei poteri all’interno di uno Stato repubblicano. Di conseguenza, nella visione di Bergk, è «un dovere istituire, in base ai diversi modi di pensare il diritto, poteri diversi, i quali attuino unitamente una condizione giuridica pubblica, realizzando gli attributi che si conferiscono al diritto, se lo si pensa in maniera integrale»[48].

In altri termini, la separazione dei poteri – da Bergk giustificata in chiave giuridica, e non politica – si configura qui come il mezzo dettato dalla prudenza per convertire nella prassi la forma razionale del diritto, in tutta l’estensione della sua pensabilità[49]. Difatti, all’interno della Repubblica democratica, i poteri divisi non sono altro che modi diversi di pensare il diritto, punti di vista differenti sull’ordine etico-giuridico. Pertanto, la condizione di universale validità del diritto potrà concretizzarsi soltanto se si realizzano compiutamente gli attributi giuridici, impersonati dai differenti poteri dello Stato.

Ciò nonostante, rileva Bergk, finora i legislatori francesi – traendo presumibilmente ispirazione da teorie, quali quella di Montesquieu[50] – «hanno diviso i poteri, in quanto l’unificazione di essi in un [medesimo] soggetto appariva loro svantaggiosa»[51]. Prettamente utilitaristico è, dunque, a parere di Bergk, il principio giustificativo della separazione dei poteri che ha animato fino a quel momento i legislatori francesi, i quali hanno ravvisato nei poteri divisi il mezzo di prevenzione dell’«infedeltà» e della «disonestà nell’amministrazione», nonché del «dispotismo» e dell’«anarchia»[52].

Criticando la legittimazione esclusivamente prudenziale della separazione dei poteri, Bergk commenta a tal proposito che «l’utilità o il danno di questa divisione non è un principio che abbia [mai] conferito universalità e necessità [al diritto]»[53]. Tuttavia, una volta fondato il principio della separazione dei poteri sulla base dei dettami della saggezza – ossia della teoria politica, che prescrive in questo caso il dovere di realizzare nello Stato la forma universale e necessaria della giustizia – Bergk non disconosce di certo gli indubitabili vantaggi dell’applicazione di tale principio[54]. In questo modo, la distinzione fra i quattro poteri dello Stato si rivela non soltanto giusta sul piano della saggezza politica, ma anche opportuna su quello della prudenza, e ciò specialmente se si considera che il pessimismo antropologico di Bergk lo conduce a delineare un potere politico tendenzialmente corrotto ed immorale.

A differenza dal liberalismo kantiano di illuministi come Ernst Ferdinand Klein, i quali credevano possibile che le sparute garanzie costituzionali[55] potessero essere validamente compensate dalla spontanea autolimitazione morale di un sovrano, animato dal «sentimento del giusto e dell’ingiusto»[56] nello spontaneo adempimento del suo dovere di attuazione della giustizia, Bergk ritiene che «per ignoranza, negligenza o passione, l’eccessivo potere trasformi nel despota più ingiusto perfino l’uomo che persegua in ogni momento il bene, rispettando il diritto sopra ogni altra cosa»[57].

Di conseguenza, anche per evitare la degenerazione dispotica dello Stato, la separazione fra le diverse funzioni di esso fa sì che ciascun potere «sorvegl[i] gelosamente l’altro»[58], costringendolo «all’imparzialità e all’esatto adempimento del [suo] dovere»[59]. In breve, «ogni potere deve essere il custode degli altri»[60], cosicché la loro organizzazione divenga a tal punto interdipendente che «la menoma lesione dell’uno comporti il sovvertimento di tutti gli altri»[61].

In estrema sintesi, si può notare che nell’illuminismo radicale di Bergk, la divisione costituzionale fra i quattro poteri dello Stato sia, oltre che giusta, anche opportuna, nel senso che questa mira innanzitutto a soddisfare le esigenze razionali della giustizia, dettate dalla saggezza, quale politica teorica o morale, la quale è vòlta a valutare la convivenza civile nei termini del giusto e dell’ingiusto. La saggezza richiede, poi, a sua volta, l’intervento della prudenza, quale politica pragmatica, che giudica, invece, i fenomeni sociali sulla base di quel canone dell’utile e del disutile, il quale è meramente strumentale alla conversione della giustizia nella prassi. Al pari di tutti gli altri istituti politici bergkiani, insomma, anche la divisione dei poteri opera su di un duplice piano: quello della teoria politica, sul quale i poteri divisi assolvono il dovere (morale) di realizzare la distinta applicazione dei «diversi modi di pensare il diritto»[62], vale a dire delle svariate forme della giustizia nello Stato[63], e quello della prassi politica, dove si attua prudenzialmente il bilanciamento ed il reciproco controllo fra i poteri medesimi, in modo da impedirne l’eventuale abuso.

 



 

[Un evento culturale, in quanto ampiamente pubblicizzato in precedenza, rende impossibile qualsiasi valutazione veramente anonima dei contributi ivi presentati. Per questa ragione, gli scritti di questa parte della sezione “Memorie” sono stati valutati “in chiaro” dai promotori, dal curatore della pubblicazione e dalla direzione di Diritto @ Storia]

 

[1] Cfr. J.A. BERGK, Untersuchungen aus dem Natur-, Staats- und Völkerrechte mit einer Kritik der neuesten Konstitution der französischen Republik, s. l. 1796, XXI, I, XXI, 287.

[2] Della vita di Johann Adam B. Bergk (nato a Hainichen bei Zeitz in Sassonia nel 1769, morto a Lipsia il 27 ottobre 1834) si sa pochissimo. Dalle scarse notizie biografiche a nostra disposizione si apprende che egli svolse in privato, prevalentemente a Lipsia, la sua attività di erudito, non ricoprendo mai né cariche pubbliche, né specificamente accademiche. In parte sotto il suo nome, in parte sotto pseudonimi (tra i quali Hainichen, Jul. Frey, Eleutheros etc.) pubblicò un considerevole numero di scritti di filosofia popolare, aventi ad oggetto il criticismo kantiano, la psicologia, la filosofia del diritto e della religione. Di particolare interesse risultano essere i suoi trattati giusnaturalistici e di teoria della legislazione, due dei quali (ossia le ventisette Lettere di commento alla Dottrina del Diritto e le Riflessioni sulla Dottrina della Virtù) sono specificamente vòlti alla critica de La Metafisica dei costumi di Kant. Bergk fu, inoltre, traduttore, direttore e redattore di svariati giornali, nonché esperto di commercio librario e di editoria. Per cenni biografici su tale autore cfr. A. RICHTER, voce Bergk: Johann Adam B., in Allgemeine Deutsche Biographie, Bd. II, 2a ed., Berlin 1967, 389; G. SCHULZ, Dr. Johann Adam Bergk, Postfazione a J.A. BERGK, Der Buchhändler oder Anweisung, wie man durch den Buchhandel zu Ansehen und Vermögen kommen kann, Leipzig 1825 [rist. anast., con una Postfazione di G. Schulz, Heidelberg 1983], I-XIV. Interamente dedicati al pensiero politico di Bergk sono i contributi pionieristici di J. GARBER, Jakobinischer Kantianismus (Johann Adam Bergk), in Revolutionäre Vernunft. Texte zur jakobinischen und liberalen Revolutionsrezeption in Deutschland 1789-1810, hrsg. von J. Garber, Kronberg Ts. 1974, 202-209; ed Id., Liberaler und demokratischer Republikanismus. Kants Metaphysik der Sitten und ihre radikaldemokratische Kritik durch J.A. Bergk, in J. Garber, Spätabsolutismus und bürgerliche Gesellschaft. Studien zur deutschen Staats- und Gesellschaftstheorie im Übergang zur Moderne, Frankfurt am Main 1992, 243-281. Nell’ambito della letteratura italiana su Bergk, ed in particolare sul problema del diritto, o meglio del dovere di resistenza in tale autore, si rimanda, invece, a G. TONELLA, Il problema del diritto di resistenza. Saggio sullo Staatsrecht tedesco della fine Settecento, Napoli 2007, su Bergk soprattutto 279-332. Sul concetto di dovere nella visione radical-democratica bergkiana mi permetto, inoltre, di rinviare a V. FIORILLO, Autolimitazione razionale e desiderio. Il dovere nei progetti di riorganizzazione politica dell’illuminismo tedesco, Torino 2000, su Bergk spec. 75-318. Sulle forme dell’agire rivoluzionario in Bergk (rivolta, insurrezione e rivoluzione), cfr., poi, ID., La rivoluzione politica, come dovere morale, nel giacobinismo kantiano di Johann Adam Bergk, in Teoria Politica XVI, 3, 2000, 115-140; ripubblicato in versione tedesca in Der Staat 41, 1, 2002, 100-128. Sull’utopia della società senza Stato in Bergk si veda, infine, ID., La condizione naturale, come utopia della società senza Stato. La prevalenza teorica del dovere sulla coazione nell’illuminismo radicale di Johann Adam Bergk, in Atti e Memorie della Accademia Petrarca di Lettere, Arti e Scienze – APS, nuova serie, LXXX, 2018, Arezzo 2019, 141-162; ristampato in versione tedesca in Rechtsphilosophie. Zeitschrift für die Grundlagen des Rechts 6, 2, 2020, 121-137.

[3] Punti di riferimento imprescindibili per lo studio del giacobinismo tedesco – denominato altresì democraticismo rivoluzionario o illuminismo radicale – sono i contributi di W. GRAB, Die deutschen Jakobiner, in Gedichte und Lieder deutscher Jakobiner, hrsg. von H.-W. Engels, Stuttgart 1971; ID., Ein Volk muß seine Freiheit selbst erobern. Zur Geschichte der deutschen Jakobiner, Frankfurt am Main, Olten, Wien 1984; Id., Eroberung oder Befreiung? Deutsche Jakobiner und die Französenherrschaft im Rheinland, 1792-1799, Trier 1971; ID., Freyheit oder Mordt und Todt. Revolutionsaufrufe deutscher Jakobiner, Berlin 1979; ID., Leben und Werke norddeutscher Jakobiner, Stuttgart 1973, 1-30; Noch ist Deutschland nicht verloren. Eine historisch-politische Analyse unterdrückter Lyrik von der Französischen Revolution bis zur Reichsgründung, hrsg. von W. Grab, U. Friesel, 1a ed., München 1970; e di H. SCHEEL, Deutsche Jakobiner, in Zeitschrift für Geschichtswissenschaft XVII, 9, 1969, 1130-1140; ID., Deutscher Jakobinismus und deutsche Nation. Ein Beitrag zur nationalen Frage im Zeitalter der Großen Französischen Revolution, Sitzungsberichte der deutschen Akademie der Wissenschaften zu Berlin, 2 (1966), Berlin 1967, 3-22. In questo saggio Scheel – riguardando il giacobinismo tedesco in un’ottica prettamente marxista – individua la caratteristica fondamentale di esso nel «suo coerente democraticismo borghese». Tuttavia, per la mancanza nella Germania settecentesca di una classe borghese «politicamente matura», il costituzionalismo ed il repubblicanesimo giacobino avrebbero necessariamente conservato «un carattere astratto», rendendo gli esponenti di tale movimento dei «“giacobini senza popolo” (Lenin)»: ivi, 4 (ora e di seguito tutti i brani in lingua straniera riportati in italiano sono stati tradotti, salvo diversa indicazione, dall’autrice); ID., Die Begegnung deutscher Aufklärer mit der Revolution, Sitzungsberichte des Plenums und der Klassen der Akademie der Wissenschaften der DDR, Berlin 1973, Jg. 1972, Nr. 7, 3-23. Un panorama critico dei principali lavori di Walter Grab e di Heinrich Scheel è fornito da A. KUHN, Der schwierige Weg zu den deutschen demokratischen Traditionen, in Neue politische Literatur, hrsg. von E. Stein, H. Ridder, G. Strickrodt, XVIII, 1973, 430-452. Sul giacobinismo tedesco si rinvia, infine, a M. KOSSOK, Der Begriff des Jakobinismus – Wesen und Erscheinungsformen, in Demokratie, Antifaschismus und Sozialismus in der deutschen Geschichte, hrsg. von H. Bleiber, W. Schmidt, Berlin 1988, 11-24; ed a F. Valjavec, Die Entstehung der politischen Strömungen in Deutschland 1770-1815, con una Postfazione di J. Garber, Kronberg Ts., Düsseldorf 1978 [rist. anast. della 1a ed. del 1951], spec. 180-206.

[4] Cfr. J. GARBER, Politische Spätaufklärung und vorromantischer Frühkonservatismus. Aspekte der Forschung, Postfazione a F. VALJAVEC, Die Entstehung der politischen Strömungen in Deutschland 1770-1815, cit., 561. Sul repubblicanesimo democratico di Bergk ci si riferisca alle lucide osservazioni di H. GOERLICH, M.A. WIEGAND, Die verspätete Republik. Transformationen republikanischen und demokratischen Denkens im Auftakt der Staatsrechtslehre, in Republik, Rechtsverhältnis, Rechtskultur, hrsg. von K. Gräfin von Schlieffen, in Verbindung mit H. Dreier, M. Morlok, H. Schulze-Fielitz, Tübingen 2018, soprattutto 49-51.

[5] Con accenti innovativi Bergk ammette lo stesso suffragio femminile, facendo perno sul diritto, da lui kantianamente interpretato come il fondamentale elemento di universalizzazione delle eguali libertà degli esseri umani. Difatti, per l’illuminista radical-democratico, «la differenza naturale di sesso non autorizza a nessuna differenza di diritto, il quale deve essere eguale per tutti gli esseri umani, consistendo [esso] nella limitazione dell’arbitrio di tutti ad un’eguale condizione»: J.A. BERGK, Briefe über Immanuel Kant’s Metaphysische Anfangsgründe der Rechtslehre, enthaltend Erläuterungen, Prüfung und Einwürfe, Leipzig u. Gera 1797, XXII, 187. Secondo Bergk, quindi, la mancata considerazione giuridica delle donne potrebbe basarsi esclusivamente sulla dimostrazione paradossale «che esse non sono degli esseri umani»: ivi, 186-187. Sulla cittadinanza attiva delle donne in Bergk cfr. V. FIORILLO, La cittadinanza democratica: il modello di Johann Adam Bergk, in Il cittadino e lo Stato, a cura di V. Mura, Milano 2002, 52-53. Sul suffragio femminile in Bergk si rinvia, inoltre, alle puntuali notazioni di V. MURA, Prefazione a Il cittadino e lo Stato, cit., 9-10, il quale rileva che nel democraticismo rivoluzionario di questo pensatore, «per la definizione del concetto totalmente inclusivo di cittadinanza (…) risultano essere del tutto irrilevanti fattori quali la proprietà o la differenza sessuale. È così che la riformulazione radicalmente egualitaria del principio kantiano di indipendenza fa assurgere il cittadino di Bergk a categoria socio-politica universale, identificandolo non più con il soggetto proprietario, ma piuttosto con quello morale, con il Mensch. Su tali basi, Bergk arriva coerentemente a teorizzare (e a giustificare) la possibilità del suffragio universale maschile e femminile all’interno della peculiare forma di governo da lui propugnata: la repubblica democratica»: ivi, 10.

[6] Cfr. J.A. BERGK, Untersuchungen, cit., X Versuch, 112. Sulla divisione formale della filosofia politica tedesca del diciottesimo secolo si rinvia per tutti all’interessante contributo di D.M. MEYRING, Politische Weltweisheit. Studien zur deutschen politischen Philosophie des 18. Jahrhunderts, Philosophische Dissertation, Münster 1965, 17 ss.

[7] J.A. BERGK, Untersuchungen, cit., X Versuch, 100.

[8] Riprendendo tale divisione da Kant (sul punto cfr., ad esempio, I. KANT, Per la pace perpetua (Progetto filosofico), in ID., Scritti di filosofia politica, trad. it. a cura di G. Solari e G. Vidari, Firenze 1967 [2a rist., Firenze 1975], sez. II, I articolo definitivo, 96-102), Bergk distingue la costituzione repubblicana da quella dispotica (despotisch), la quale è «contraria al diritto», in quanto viola il principio della separazione dei poteri, facendo sì che il popolo non sia «legislatore di se stesso (autonomo)», bensì «schiavo (eteronomo)»: J.A. BERGK, Die Theorie der Gesetzgebung, Meissen 1802, § XIX, 170.

[9] Nel giacobinismo di Bergk, di conio kantiano, il diritto oggettivo esterno non costituisce un ordine meramente empirico, ma funge, piuttosto, da parametro moral-razionale in base a cui deve orientarsi il comportamento sociale degli individui nell’esercitare i loro diritti ed adempiere i loro doveri. Per questo motivo, il diritto oggettivo viene definito dall’autore come «una legislazione esterna», la quale «non può né deve comandare o vietare niente altro che ciò che la ragione, che essa rappresenta, vuole che sia comandato o vietato»: cfr. ivi, § XV, 144. Sulla concezione bergkiana del diritto oggettivo mi permetto di rimandare a V. FIORILLO, Il diritto, come ‘minimo etico’. Il rapporto fra dovere giuridico e coazione nel giacobinismo filosofico di Johann Adam Bergk, in Politica, Diritto, Utopia. Atti del Convegno Italo-Tedesco (Arezzo, Accademia Petrarca, 30 novembre – 1 dicembre 2019), a cura di G. Dioni ed I. Pizza, Arezzo 2021, 1-19; in corso di pubblicazione, in versione tedesca ed in forma rimaneggiata, con il titolo: Die Vernunft als „die Quelle aller Verbindlichkeit“. Das Verhältnis zwischen Rechtspflicht und Zwang im philosophischen Jakobinismus von Johann Adam Bergk, in Zwischen äußerem Zwang und innerer Verbindlichkeit. Recht und Literatur in der Aufklärung. Akten der Tagung (München, Carl Friedrich von Siemens Stiftung, 12-14 Juni 2019), hrsg. von S. Lepsius u. F. Vollhardt, München, pp. 19 (in corso di stampa).

[10] Cfr. J.A. BERGK, Untersuchungen, cit., X Versuch, 94.

[11] Cfr. J.A. BERGK, Die Theorie der Gesetzgebung, cit., § XV, 140-141.

[12] Ivi, 141.

[13] J.A. BERGK, Untersuchungen, cit., X Versuch, 94.

[14] Ivi, 93: «Dato che ogni costituzione è introdotta, o invero lo deve essere, dal popolo e a favore del popolo, è allora un dovere (Pflicht) che il popolo stesso applichi il diritto attraverso il governo».

[15] Le altre due forme di libertà teorizzate da Bergk sono la civile e la politica. Per quanto concerne la prima, la libertà civile, l’autore giacobino – distinguendola dalla libertà morale interiore di «autodeterminarsi a favore o contro la legge etica» (cfr. ivi, V Versuch, 40) – la radica «sul dovere di far uso delle proprie forze ed inclinazioni originali in questo mondo»: ibidem. In altri termini, la libertà civile riconosce il proprio fondamento morale nel centrale dovere erga seipsum di formazione interiore o Bildung. Viceversa, per quanto riguarda la libertà politica, essa svolge, o può svolgere, il ruolo del tutto strumentale di garanzia della prima. Difatti, secondo Bergk, «soltanto l’impiego [della libertà politica] difende l’uomo dall’oppressione»: ivi, VI Versuch, 49. Tant’è vero che all’interno della società civile, l’insufficienza del senso morale nell’essere umano lo espone costantemente al pericolo di venire turbato nell’esercizio dei propri diritti civili, «se egli non adotta mezzi per stroncare con la forza ogni ingiustizia, assicurando, [così], le manifestazioni delle sue energie»: cfr. ivi, VI Versuch, 46-47. Al pari delle coeve teorie liberali, insomma, anche nel giacobinismo bergkiano – pur se esemplato sul modello rivoluzionario francese – alla politica viene assegnato un compito meramente strumentale rispetto al diritto, quale ordine giuridico-razionale. Sulle forme della libertà in Bergk, la morale, la civile e la politica, mi si consenta di rinviare nuovamente a V. FIORILLO, Autolimitazione razionale e desiderio, cit., 256-254; sulla libertà di stampa in quest’autore, 274-286.

[16] Nonostante ogni facile aspettativa, il giusnaturalismo bergkiano, anche se nato all’ombra del modello francese, si struttura come teoria dei doveri naturali, e non dei diritti umani. Nella classica divisione dei doveri, accolta perciò anche da Bergk, in obbligazioni verso se stessi ed obbligazioni verso gli altri, l’obbligo della Bildung rientra nella classe delle obligationes imperfette della virtù adversus seipsum. Il fine pratico che caratterizza tali obblighi è lo sviluppo ed il perfezionamento delle proprie inclinazioni, tanto fisiche, quanto morali: in breve, l’edificazione interiore dell’individuo (Bildung). A questo riguardo cfr. J.A. BERGK, Die Theorie der Gesetzgebung, cit., § XII 2, 118. Con la delineazione di questo centrale dovere verso se stessi, il pensatore traccia un abbozzo della teoria della formazione del carattere, che in quegli stessi anni Wilhelm von Humboldt avrebbe più estesamente esposto nel suo trattato giovanile Il diciottesimo secolo. Sul dovere di formazione interiore o Bildung nel giacobinismo filosofico di Bergk mi sia consentito di rimandare a V. FIORILLO, La sovranità dell’individuo. Il rapporto fra il dovere di formazione interiore (Bildung) ed i diritti del cittadino nell’umanesimo politico di Johann Adam Bergk, in Metábasis.it. Filosofia e Comunicazione XIV, 28, 2019, in particolare 225-228.

[17] Cfr. J.A. BERGK, Untersuchungen, cit., X Versuch, 91.

[18] Cfr. ibidem.

[19] Ivi, 92. Questo principio viene significativamente ribadito da Bergk in un altro luogo del medesimo paragrafo: «Noi dobbiamo divenire esseri indipendenti, i quali debbono a se stessi tutto ciò che sono»: ivi, 91.

[20] Cfr. ivi, IV Versuch, 34.

[21] Cfr. ivi, VI Versuch, 48 (corsivo dell’autrice).

[22] Ibidem.

[23] Così come in Jean-Jacques Rousseau (cfr. J.-J. ROUSSEAU, Il contratto sociale, a cura di T. Magri, Roma-Bari 1992, libro II, §§ 1 e 2, 89-92), anche in Bergk, la sovranità, in quanto esercizio della volontà generale della nazione, è in primo luogo, inalienabile, poiché «dato che la sovranità consiste nella volontà generale, (...) allora nessun popolo ha il diritto di alienare l’esercizio della medesima»: J.A. BERGK, Untersuchungen, cit., X Versuch, 108. In secondo luogo, «in una nazione la sovranità è indivisibile, in quanto soltanto mediante l’uso della sua sovranità, essa si costituisce in nazione»: ivi, XXII, I, XVIII, 279. Relativamente alla nozione di volontà generale in Rousseau osserva lucidamente Virgilio Mura che essa «è l’elemento chiave dell’impianto teorico rousseauiano: funge da termine primitivo nella definizione della legge e della sovranità (…). L’assemblea dei cittadini è infatti sovrana unicamente durante l’esercizio della ‘ricerca’ e della manifestazione della volontà generale»: V. MURA, Categorie della politica. Elementi per una teoria generale, 2a ed. riveduta ed ampliata, Torino 2004, 331. Sulla teoria politica rousseauiana cfr., inoltre, dello stesso autore, La teoria del potere democratico. Saggio su Rousseau, Pisa 1979.

[24] Nella maggior parte dei giusnaturalisti moderni, ad esempio in autori come Samuel Pufendorf, la proprietà individuale viene concepita come un’estensione dell’ego del soggetto proprietario per mezzo dell’inclusione di oggetti materiali posti all’esterno della sua persona. Quest’ultima, cioè, «si estende in modo immaginario nel mondo giuridico al di là dei [suoi] confini naturali, rivestendo gli oggetti fisici del medesimo tabù che vale per il suo corpo; la persona diviene violabile nel suo diritto anche in un luogo dove essa non è fisicamente presente»: R. BRANDT, Eigentumstheorien von Grotius bis Kant, Stuttgart, Bad Cannstatt 1974, 11. Sulla nozione pufendorfiana di proprietà, quale istituto del diritto naturale ipotetico o relativo, mi permetto di rinviare a V. FIORILLO, Tra egoismo e socialità. Il giusnaturalismo di Samuel Pufendorf, Napoli 1992, 212-226.

[25] Riprendendo la tradizione giusnaturalistica, prima, ed illuministica, poi, propria dell’area culturale germanica, nella quale l’influenza della nozione stoica di dovere era prevalsa su quella romanistica, ed ispirandosi allo stesso tempo alla filosofia pratica kantiana, Bergk definisce tale nozione in senso radicalmente moral-razionale come «la necessaria sottoposizione del desiderio alla ragion pratica» (cfr. J.A. BERGK, Untersuchungen, cit., I Versuch, 5-6), dove per ‘desiderio’ si intende, a sua volta, «la tensione al soddisfacimento del nostro impulso egoistico» (cfr. ivi, 6). Qui il desiderio offre, quindi, una natura squisitamente sensibile. Pertanto, nell’opera di Bergk, il concetto di dovere, di conio kantiano, è interpretabile in prima approssimazione come il principio razionale di armonizzazione delle passioni.

[26] Cfr. J.A. BERGK, Briefe, cit., III, 19.

[27] Cfr. ibidem.

[28] Nell’evidenziare, sulla scia di Kant, il differente rapporto che il soggetto morale instaura con il dovere, da un lato, e con il diritto, dall’altro, Bergk conferma, perciò, che «prioritariamente, (...) è da immaginare una posizione del soggetto attributivo di valore (...) che non può essere immediatamente esteriorizzata verso l’oggetto (o soggetto del diritto), ma solo mediatamente, attraverso una disposizione interiore, della quale può far certo parte il dovere, ma non già il diritto»: G.M. CHIODI, Precedenza dei doveri sui diritti umani, che peraltro è meglio definire diritti fondamentali, in I diritti umani. Un’immagine epocale, a cura dello stesso G.M. Chiodi, Napoli 2000, 21.

[29] J.A. BERGK, Untersuchungen, cit., X Versuch, 95.

[30] Al pari di molte altre teorie della Aufklärung, anche il democraticismo bergkiano presuppone la distinzione – anche se non ancora fissata dal punto di vista terminologico – fra stato politico e società civile. Il primo, lo stato politico, viene concepito quale apparato coercitivo o coazione legittima, mentre la seconda, la società civile, è intesa come la sfera della Öffentlichkeit, entro la quale i cittadini realizzano i loro interessi privati in una dimensione collettiva mediante un’attività associazionistica e di contrattazione. Più in particolare, tale sfera dovrebbe autoregolarsi moralmente sulla base della sola spontanea osservanza dei doveri fondamentali della convivenza civile, quelli del neminem laedere, i quali prescrivono la non-aggressione dei diritti dell’altro.

[31] Riguardo a quello scopo dello Stato, che viene specificamente individuato da Bergk nell’impedimento dell’ingiustizia, quale violazione dei diritti del proprio concittadino, derivante, a sua volta, dall’inadempimento del dovere radicalmente morale del neminem laedere, si rimanda di nuovo ad H. GOERLICH, M.A. WIEGAND, Die verspätete Republik, cit., 49, i quali pongono in rilievo che nel perseguimento del suddetto scopo, «lo Stato [bergkiano] non soltanto deve esso stesso agire in maniera rigorosamente giuridico(-razionale), ma deve allo stesso tempo promuovere nei cittadini la motivazione all’agire giuridico».

[32] Sullo scopo dello Stato in Bergk cfr. J.A. BERGK, Untersuchungen, cit., III Versuch, 30: «Lo scopo dello Stato è (…), in relazione allo scopo dell’uomo su questa terra, negativo: la non ostacolata e libera operatività di tutte le forze dell’uomo sotto leggi giuridiche; positivo: la tutela dell’uso dei diritti inalienabili ed alienabili dell’umanità mediante l’esercizio della violenza contro tutti coloro che turbino tali [diritti]». Come si vede, nel giacobinismo bergkiano, lo scopo dello Stato è in primo luogo negativo: esso risiede nell’astenersi dall’intervenire nella società civile, qualora essa si autodisciplini moralmente sulla base della sola rete dei reciproci doveri sociali negativi di rispetto dell’ambito di libertà altrui. Per questo motivo, «è dovere dello Stato lasciare tutto alla coscienza dell’agente, finché quest’ultimo non rechi danno ai diritti dell’altro»: ivi, VIII Versuch, 68. L’azione coercitiva del potere sovrano risulta, perciò, superflua, finché nel cittadino sia sufficiente la semplice spinta moral-razionale per tributare il dovuto rispetto alla sfera giuridica dell’altro. Lo scopo dello Stato è, inoltre, positivo, consistendo esso nella tutela coercitiva dei diritti violati. Il democraticismo rivoluzionario di Bergk, infatti, formatosi all’ombra del modello francese, mira soprattutto alla tutela dei diritti umani, benché in prima istanza in modo soltanto morale, vale a dire per mezzo del dovere sociale, quale massimo baluardo razionale dei diritti stessi, e dunque non in modo politico, ossia attraverso l’ingerenza coercitiva dello Stato nella società civile.

[33] Nel repubblicanesimo democratico di Bergk, il contratto sociale perde la sua collocazione logicamente prioritaria rispetto allo stato politico, per acquistare una forma kantianamente deontologica. Giacché esso non viene più concepito come il principio storico o logico di spiegazione dell’origine dello status civilis, origine da rinvenirsi piuttosto nella forza, «allora (...) negli Stati si può presupporre questo contratto soltanto nell’idea (nur in der Idee)»: J.A. BERGK, Briefe, cit., XXIII, 201. In tal senso, il patto esemplifica la forma razionale della politicità, lo Stato nell’idea, vale a dire così come esso deve essere in base a puri princìpi del diritto. Esso funge allora da canone non più logico, bensì deontologico della giustizia nello Stato. È così che il contratto sociale «viene eticizzato, assumendo il rango di norma etico-politica fondamentale», atta a verificare la legittimità dell’istituzione polico-statuale. Su tale punto teorico cfr. W. KERSTING, Der Kontraktualismus im deutschen Naturrecht, in Naturrecht-Spätaufklärung-Revolution, hrsg. von O. Dann, D. Klippel, Hamburg 1995, 105. Per tutti questi motivi, riguardato dal punto di vista dei fondamenti dell’agire, «un contratto istitutivo della società civile è un dovere» (J.A. BERGK, Untersuchungen, cit., IX Versuch, 86), ovvero il vincolo che lega sul piano etico i governanti ai governati nella loro tensione al conseguimento della comune finalità di creare fra essi una condizione di universale validità del diritto.

[34] Sul punto si rinvia a J.A. BERGK, Briefe, cit., XXV, 231: «Gli uomini sono (...) vincolati dalla loro coscienza e da un dovere coercitivo a vivere sotto una costituzione giuridicamente organizzata per difendere i diritti inalienabili da tutti gli atti di violenza».

[35] Sulla recezione del pensiero politico di Montesquieu nella Germania settecentesca si veda R. VIERHAUS, Montesquieu in Deutschland. Zur Geschichte seiner Wirkung als politischer Schriftsteller im 18. Jahrhundert, in ID., Deutschland im 18. Jahrhundert. Politische Verfassung, soziales Gefüge, geistige Bewegungen, Göttingen 1987, 9-32.

[36] Su tale concordanza di vedute fra liberali e giacobini si leggano le osservazioni di F. VALJAVEC, Die Entstehung der politischen Strömungen in Deutschland 1770-1815, cit., 188, il quale afferma che nella Germania illuministica, i liberali «concordano con i democratici nella [loro] richiesta di divisione dei poteri e di diritti individuali di libertà».

[37] J.A. BERGK, Untersuchungen, cit., V Versuch, 44: «In einer moralischen Constitution ist die Vertheilung der Gewalten Pflicht».

[38] Cfr. ivi, 43.

[39] Su questo punto teorico cfr. ibidem.

[40] Vd. ibidem.

[41] Cfr. ibidem.

[42] Cfr. ibidem.

[43] Cfr. ibidem: «[L’esercizio del diritto] deve essere (…) reciproco e libero, ossia deve vincolare ogni individuo a contribuire alla realizzazione di esso; ciò richiede un potere organizzativo, il quale leghi reciprocamente l’interesse dei cittadini per costringerli alla garanzia dei diritti di tutti».

[44] Cfr. ibidem (corsivo mio).

[45] Ivi, XXII, II Theil, 294.

[46] Cfr. ivi, XXI, I, XXI, 286.

[47] Sul punto cfr. ivi, 287: «I poteri legislativo, giudiziario, esecutivo ed organizzativo sono necessari, e devono essere reciprocamente separati, poiché senza la loro divisione nessun diritto sarebbe effettivo fra uomini sempre inclini all’ingiustizia».

[48] Ibidem: «es ist daher Pflicht, nach den verschiedenen Denkweisen, das Recht zu denken, verschiedene Gewalten zu errichten, die zusammen einen öffentlichen Zustand des Rechts verwirklichen, und die Beyworte, die man dem Rechte, wenn man dasselbe vollständig denkt, giebt, realisiren» (corsivo dell’autrice).

[49] Sul rapporto di subordinazione strumentale della prudenza politica rispetto alla saggezza politica cfr. supra, nota 6 e relativo testo.

[50] E’ a tutti noto il principio squisitamente politico che fonda in Montesquieu la balance des pouvoirs, quello secondo cui le pouvoir arrête le pouvoir. Sulla divisione dei poteri in questo pensatore cfr. MONTESQUIEU, De l’esprit des lois, avec une introduction par V. Goldschmidt, Paris 1979, livre XI, chapitre VI, 294-304.

[51] Cfr. J.A. BERGK, Untersuchungen, cit., XXII, I, XXI, 287.

[52] Cfr. ivi, 286.

[53] Ivi, 287.

[54] Su tale punto teorico cfr. ivi, 288: «Tuttavia, non si possono nemmeno negare i vantaggi della divisione dei poteri, se si conosce l’imperfezione, la debolezza e la malvagità del cuore umano».

[55] Sulla posizione di Klein relativa al modello costituzionale montesquieuiano della divisione dei poteri si rinvia alle notazioni di M. KLEENSANG, Das Konzept der bürgerlichen Gesellschaft bei Ernst Ferdinand Klein. Einstellungen zu Naturrecht, Eigentum, Staat und Gesetzgebung in Preußen 1744-1810, Frankfurt am Main 1998, 339-368, il quale osserva che nel sistema kleiniano «da un punto di vista concettuale, la divisione dei poteri appare essere soltanto un problema di delimitazione fra il potere legislativo e quello esecutivo» (ivi, 350). Il critico sottolinea, inoltre, come «Klein prend[a] in considerazione una limitazione istituzionale del potere monarchico attraverso un mezzo del tutto differente, vale a dire mediante il “potere di controllo” (die aufsehende Gewalt)»: ivi, 348. Sul potere di controllo in Klein cfr. E.F. KLEIN, Grundsätze der natürlichen Rechtswissenschaft nebst einer Geschichte derselben, Halle 1797, § 500, 258, nel quale l’autore liberale afferma che questo potere può essere concepito come un «mezzo», da ascriversi «tanto al potere legislativo, quanto a quello esecutivo», aggiungendo tuttavia che «ci si può figurare anche un potere di controllo che sia destinato alla sorveglianza delle altre branche del potere statale». Ad ogni modo, a parere di Klein, «è consigliabile» che alle persone a cui spetti il potere di controllo – le quali devono essere ovviamente indipendenti dall’autorità sovrana – non sia concessa «nessuna influenza positiva sul governo», ma che piuttosto sia attribuito loro unicamente «il diritto di libera accusa».

[56] Cfr. E.F. Klein, Schreiben an Herrn Professor Garve über die Zwangs- und Gewissenspflichten und den wesentlichen Unterschied des Wohlwollens und der Gerechtigkeit besonders bey Regierung der Staaten, Berlin u. Stettin 1789, 44-45.

[57] J.A. BERGK, Untersuchungen, cit., XXII, I, XXI, 288.

[58] Cfr. ibidem.

[59] Cfr. ibidem. Secondo Bergk, infatti, «l’imparzialità è un requisito essenziale della giustizia»: J.A. BERGK, Die Theorie der Gesetzgebung, cit., § XIX, 167.

[60] J.A. BERGK, Untersuchungen, cit., V Versuch, 44.

[61] Cfr. ibidem.

[62] Cfr. ancora una volta ivi, XXI, I, XXI, 287.

[63] Cfr. ivi, X Versuch, 93: «Svariate sono le forme della giustizia, ed allora anche la loro esecuzione deve essere ripartita fra più persone, la cui cooperazione realizzi il diritto nel mondo fenomenico».