Si pubblica, col consenso dell’Autore e dell’Editore, il Capitolo Primo «L’intervento dello stato nell’economia: cenni introduttivi» (1-53) della monografia di Francesco Cuccu, Partecipazioni pubbliche e governo societario, Giappichelli, Torino, 2019, Collana Diritto dell’economia diretta da Eugenio Picozza e Raffaele Lener, pp. XII-317, ISBN 9788892120778

Indice del volume

 

 

 

Foto F. CuccuFrancesco Cuccu

Università di Sassari

 

L’intervento dello stato nell’economia: cenni introduttivi

 

 

Sommario: 1. Premessa. – 2. Il capitalismo di stato. – 2.1. Il caso Italia: tra vecchie e nuove forme di intervento statale. – 3. Il generale contesto normativo e culturale. – 4. Le dimensioni e il rilievo del fenomeno. – 5. La natura delle società pubbliche. – 5.1. Le posizioni della giurisprudenza sulla natura delle società pubbliche.

 

 

 

1. – Premessa

 

Lo studio della corporate governance delle società a partecipazione pubblica, la cui disciplina è stata di recente oggetto di un organico intervento legislativo di riordino, fa affiorare tra i ricordi le parole di Aristotele: «[l]a legge è ordine, e una buona legge significa un ordine giusto: ora un numero troppo smisurato non può avere ordine…»[1], tratte dall’opera la Politica, precisamente dal libro VII, ove l’Autore cerca di delineare l’immagine dello stato ideale confrontandola con quella dello stato reale.

In tale opera, il celebre filosofo greco, nella determinazione delle caratteristiche essenziali che lo stato ideale deve possedere, si occupa in dettaglio del tema della distribuzione dei poteri, in tal modo rafforzando la prima intuitiva suggestione di un possibile richiamo che coinvolge molteplici settori del nostro ordinamento giuridico, e certamente anche le dinamiche di governance[2] delle società pubbliche.

Oltre al tema della distribuzione dei poteri, altri elementi comuni sembrano avallare tale possibile collegamento tra le riflessioni dello Stagirita e la materia in analisi. Tra questi, il soggetto – lo stato appunto – le cui azioni sono oggetto di riflessione, la ricerca di una regolamentazione che deve esprimere un adeguato compromesso tra istanze spesso diametralmente contrapposte, e l’anelito verso un ordine ispirato dall’etica.

Come è noto, nella individuazione delle caratteristiche essenziali che lo stato ideale deve avere, Aristotele fa uso del criterio della “medietas”, quel giusto mezzo che nel suo pensiero caratterizza anche la virtù etica. Un senso della “misura”, quindi, quale criterio dell’ordine e della bellezza.

Ebbene, tale misura, da intendersi quale limite e ordine (kósmos), sembra possa utilmente applicarsi anche a un contesto quale quello delle regole delle società a partecipazione pubblica, che nel tempo ha assunto una dimensione “alluvionale”, con regole che spesso hanno oscillato tra due estremi che sono espressione di quel dualismo pubblico-privato che costituisce l’essenza stessa della società pubbliche[3].

E quindi, come nella polis ideale non si può che elevare la “medietas” a criterio costitutivo, così nelle società pubbliche, espressione di un dualismo che trova manifestazione in istanze regolatorie contrapposte, nella ricerca del kòsmos come “ordine”, cioè di un mondo ordinato, in contrapposizione al disordine del chàos, sembra utile ricorrere all’equilibrio, all’armonia di contrari quale criterio ordinante. Un criterio alla luce del quale condurre l’analisi del quadro normativo per le società pubbliche.

Una analisi che vede imprescindibile una preliminare ricostruzione del lungo dibattito, ancora vivo, su alcuni aspetti fondamentali delle società a partecipazione pubblica, quali quello sulla loro natura, quello sulle relazioni tra società ed enti soci, quello sull’eventuale modificazione dello schema causale rispetto alle società di diritto comune, quello sulle modalità di azione della società e sulle responsabilità connesse, e ancora quello sull’ammissibilità di tipi societari differenti da quelli previsti dal codice civile.

Una riflessione, quella sulla rinnovata disciplina delle società pubbliche, che non può infatti non prendere le mosse dal – e inserirsi nel – lungo e approfondito confronto dottrinale e giurisprudenziale sugli aspetti appena ricordati. E, ancora, una riflessione che deve essere condotta tenendo ben fermo l’autorevole insegnamento secondo cui l’ordinamento dei problemi e la formulazione delle relative soluzioni riescono tanto più felici quanto più precisa sia la coscienza dei rapporti tra la fattispecie – giuridicamente considerata – e la struttura del paese. Infatti, solo una analisi condotta alla luce di questa consente di conferire a problemi e soluzioni giuridiche il loro giusto senso e preciso valore. Il rifiuto di una siffatta considerazione, si è detto, avrebbe l’effetto di riportare, in sostanza, a una premessa giusnaturalistica, ossia alla premessa della costanza delle varie fattispecie e delle relative problematiche indipendentemente dalla diversità delle molteplici strutture sociali[4].

Il necessario ossequio a tale insegnamento impone quindi di osservare qui, con irrinunciabile premessa all’analisi dell’impianto legislativo delle società pubbliche, che queste presentano una singolare complicazione, data dall’esistenza di due distinti piani di interessi e relative logiche che ispirano il legislatore. Uno, espresso e manifesto, e un altro, più legato alle logiche del potere che a quelle del diritto, meno facilmente esplicitabile, sebbene a tutti ben noto, e che rimane però sottotraccia[5]. Tale duplicità, carica di contraddizioni, si riverbera inevitabilmente sul complesso di norme in parola, determinando, anche a causa del diverso modo di condizionare le scelte del legislatore, delle distorsioni dell’impianto normativo.

Come è evidente, si tratta di una problematica che  inerisce al dibattito relativo al rapporto tra interesse sociale e interesse pubblico o, meglio, alla commistione tra i due (il secondo dei quali è veicolato nella società dal socio pubblico portatore dello stesso[6]), e che trova collocazione nel più generale e delicato ambito dei rapporti tra stato e mercato[7].

Quest’ultima sembra invero una imprescindibile prospettiva di analisi nel tentativo inquadrare i molteplici profili evocati e dare a essi la giusta collocazione alla luce di quel criterio di ordine sopra indicato.

Una prospettiva che quindi sembra possa utilmente contribuire nel dare ordine e unitarietà a un tema, quello oggetto delle presenti riflessioni, altrimenti difficilmente riconducibile a unità che è solo ingannevolmente offerta dalla denominazione società pubbliche.

Come infatti spesso accade che il successo di una formula linguistica non dipenda dalla bontà e precisione della medesima, piuttosto dalle suggestioni che è in grado di generare, così sembra si possa dire anche per l’espressione “società a partecipazione pubblica”, o la sua corrispondente versione breve “società pubbliche”[8]. Invero, in un panorama dottrinario che presenta un elevato grado di articolazione e complesse differenziazioni, alle quali si aggiunge una eterogenea e composita serie di posizioni giurisprudenziali, su un punto sembra sia possibile rilevare un generale consenso, ossia che non esiste una categoria unitaria di società a partecipazione pubblica[9]. Più che di «società pubblica» come fattispecie unitaria, si è attentamente osservato, ci si trova invece al cospetto di una articolata serie di distinte fattispecie, difficilmente omologabili, ognuna con proprie specificità e collegate problematiche[10].

Tale dato di segno negativo conferma quindi che il punto di partenza della ricerca, che tra l’altro legittimi e spieghi una visione unitaria del tema società a partecipazione pubblica, non può essere rinvenuto nell’individuazione di una precisa categoria unitaria da sottoporre ad indagine, malgrado il rilievo a essa riconosciuto, almeno sotto il profilo nominalistico, nel recente testo unico[11] in materia (d.lgs. 19 agosto 2016, n. 175, recante “Testo unico in materia di società a partecipazione pubblica”, di seguito indicato anche, più semplicemente, TUSPP). Il punto dal quale prendere le mosse sembra possa essere individuato, come accennato in precedenza, nella prospettiva di una particolare forma di intervento pubblico nell’economia[12], di una particolare declinazione del capitalismo di stato. Tale sembra, a modesto avviso di chi scrive, un fondamentale dato di fondo in subiecta materia. Un dato che, attenendo al profilo teleologico di tutta la complessa disciplina in parola, non solo ne giustifica l’esame unitario, ma rappresenta ciò di cui essa si innerva. Il complesso delle norme in parola trova quindi in tale prospettiva una sua ratio e una sua chiave interpretativa di fondo.

Dai rapporti tra stato e mercato, e dalle modalità di intervento del primo nel secondo sembra quindi opportuno prendere le mosse quale imprescindibile prospettiva di analisi del fenomeno[13].

 

 

2. – Il capitalismo di stato

 

L’intervento dello stato nell’economia viene solitamente giustificato con la maggiore efficienza da questo garantita nel raggiungere un maggiore benessere in senso paretiano, a causa del fallimento del mercato. In altri termini, secondo una impostazione che, pur con qualche elemento spurio, ha come sostrato ideologico la teoria economica neoclassica, si dice che le forze economiche lasciate libere di agire non realizzano condizioni tali da poter garantire le auspicate condizioni paretiane di benessere.

Ciò detto, va doverosamente ricordato che non sono mancate considerazioni dissonanti, secondo le quali il settore delle imprese pubbliche si è andato estendendo, in tutti paesi, parallelamente allo sviluppo capitalistico, indipendentemente dalle ragioni di intervento dello stato volto a ristabilire l’ottimale funzionamento del mercato[14].

Accanto a quella testé ricordata, che individua la matrice di tale intervento nella necessità di superare possibili fallimenti del mercato, sono infatti molteplici le teorie formulate per dare una spiegazione all’affermazione del capitalismo di stato.

In termini generali e di estrema sintesi, nel panorama delle teorie formulate in materia, si possono individuare tre – forse quattro – chiavi interpretative e relativi schemi di classificazione.

Secondo il primo di questi, al quale ricondurre quelle posizioni, poco sopra ricordate, che muovono, sul piano concettuale, da premesse proprie della teoria economica neoclassica, e dal lato pratico, dalla necessità di superare i c.d. fallimenti di mercato, l’intervento statale viene letto, in chiave di politica industriale, come una via per promuovere una politica di investimenti tra loro coordinati, allo scopo di renderli per tale via più efficaci[15].

Secondo altra prospettiva, che potrebbe essere definita di politica sociale, l’intervento trova giustificazione e origine nella necessità di perseguire – superando la ristretta visione della sola massimizzazione dei profitti – anche obiettivi sociali[16].

Altre prospettazioni riconducono invece il fenomeno entro meno commendevoli schemi, quali quello della ricerca di una rendita o comunque di utilità, anche in termini di consenso, da parte dei detentori del potere politico[17].

Non è mancato poi chi ha individuato alla base del fenomeno non già esigenze di tipo economico, bensì ragioni di tipo ideologico che portano a privilegiare l’intervento dello stato, magari quale via per attuare politiche di stampo nazionalistico e tenere così lontani gli investitori stranieri[18].

Entrando ora più in dettaglio delle singole teorie cui si è fatto cenno, e procedendo secondo l’ordine già sopra utilizzato, si deve ricordare che, secondo la prospettiva di politica industriale, l’intervento dello stato costituisce un importante strumento per superare i fallimenti di mercato che portano perfettibili investimenti produttivi; fallimenti alla base dei quali vengono solitamente individuate tre principali cause. La prima di queste ha a che fare con i mercati finanziari. Quando questi sono poco sviluppati, infatti, gli investimenti sono grandemente limitati, problema che si avverte in special modo quando si devono affrontare progetti di grandi dimensioni e di lungo periodo[19]. In tali situazioni, nelle quali quindi i privati non hanno risorse economico-finanziarie adeguate, lo stato può perciò intervenire come finanziatore o venture capitalist.

Si tratta invero di una posizione molto nota nella letteratura sul ruolo dell’attività bancaria nello sviluppo dell’attività economica di un paese, secondo la quale le banche di proprietà statale devono adoperarsi per alleviare la stretta creditizia e sostenere i privati nella realizzazione di progetti che hanno buone prospettive di rendimento e che però, in ragione dei livelli di investimento iniziale richiesto, non potrebbero essere altrimenti realizzati[20].

La seconda causa dei fallimenti del mercato è legata a problemi relativi alle infrastrutture del sistema produttivo, e, in termini più generali, al necessario coordinamento tra azione dei privati e interventi del pubblico settore. Invero, l’intervento statale può essere tale da alterare la natura e lo sviluppo degli investimenti produttivi. Si pensi, a tal proposito, a come esternalità di vario tipo possono influenzare e caratterizzare il sistema produttivo di una data area[21]. In altri termini, lo sviluppo di un dato territorio è funzione, anche, delle connessioni del medesimo con gli altri elementi della filiera della produzione[22]. Secondo tale linea di pensiero, l’intervento statale è indispensabile per realizzare i necessari coordinati e complementari investimenti produttivi[23]. Il rilievo del coordinamento delle azioni in parola risulta evidentemente maggiore nelle aree depresse, mentre in quelle caratterizzate da un robusto tessuto produttivo l’intervento statale potrebbe limitarsi a stimolare lo sviluppo di nuovi settori, magari attraverso differenziati trattamenti fiscali,  incentivanti detti settori.

Inoltre, non si possono non menzionare le esternalità derivanti dai costi di sviluppo e ricerca, che alle volte possono essere talmente alti da bloccare lo sviluppo di nuove tecnologie e nuovi prodotti. Anche in tali ipotesi l’intervento dello stato potrebbe essere determinante, magari prevedendo incentivi di carattere fiscale idonei a controbilanciare l’impegno di capitali e risorse private nell’attività di ricerca[24].

Altra variante dello stesso schema è quella che porta a un intervento dello stato che può essere definito come quello che rende disponibili capitali “pazienti”, così rendendo possibile perseguire obiettivi di lungo termine che molto spesso risultano poco appetibili per investitori privati alla ricerca di rendimenti nel breve periodo, o che potrebbero indurre i medesimi, nella ricerca della massimizzazione del profitto, a una eccessiva riduzione dei costi a spese della qualità[25].

Passando quindi alla prospettiva di politica socio-assitenziale, secondo questa, l’intervento dello stato si caratterizza per il perseguimento di obiettivi “non commerciali” che vanno quindi oltre la logica del mero profitto, e che possono pertanto anche entrare in conflitto con l’obiettivo di massima valorizzazione dei titoli[26]. Nel perseguire questo tipo di finalità, lo stato può quindi anche solo assumere la veste di finanziatore[27], e attenuare per questa via alcuni degli effetti determinati da dinamiche imprenditoriali basate sul solo conseguimento del profitto.

Al contrario delle analisi condotte secondo le cennate prospettive di politica industriale e di politica socio assistenziale, quelle che focalizzano l’attenzione sul dato politico del fenomeno sono meno inclini a riconoscere al medesimo meriti ed effetti positivi, e propendono piuttosto per una lettura in chiave negativa, ponendo in rilievo i profili di inefficienza e mancato raggiungimento degli obiettivi[28].

Sono note le spiegazioni solitamente fornite per tali fallimenti dalla dottrina, che  sempre censura l’interferenza della politica che porta a perseguire obiettivi di tipo politico – quali, per esempio, l’impiego di personale in abbondanza rispetto alle esigenze dell’impresa[29] e la selezione del medesimo in base a criteri legati più all’appartenenza politica che al merito – in luogo di quelli di tipo economico. Altre volte le critiche si appuntano su pratiche volte a “distrarre” le risorse dal loro migliore utilizzo per destinarle a beneficio di pochi. Secondo tali censure, i finanziamenti statali alle imprese sono spesso erogati non per il raggiungimento di scopi socialmente utili, ma per massimizzare obiettivi personali per il tramite di accordi di tipo clientelare con esponenti del ceto imprenditoriale[30].

Un prospettiva di analisi, quella appena ricordata, ripresa in parte anche dalla c.d. path-dependance view, che tende a spiegare tanto l’emersione, quanto lo sviluppo di diversi modelli di capitalismo quale effetto di un processo di tipo idiosincratico, in virtù del quale alcuni fattori esogeni genericamente individuati come il contesto istituzionale e il dato momento storico dello stato forgiano le peculiarità di ciascun modello[31]. Nella sua formulazione più generale, tale teoria interpreta la situazione peculiare di ciascun paese come il frutto delle complesse interazioni tra la sfera politica e quella economica. Meglio, tra attori di tali sfere che cercano di preservare i rispettivi interessi di fronte a fasi di cambiamento[32]. Alla base di tale teoria stanno fondamentalmente tre idee. Innanzitutto che il capitalismo di stato nasce nel XX secolo in linea di continuità con l’ideologia e le istituzioni politiche ereditate dal passato. La seconda idea è che il fenomeno vive un momento topico della sua recente evoluzione in occasione della fase di privatizzazione avutasi nelle ultime decadi del XX secolo[33]. Infine, che le caratteristiche culturali, storiche, politiche e istituzionali di ciascun paese sono ciò che forgiano le peculiarità delle soluzioni dei medesimi[34].

Nell’ultimo degli schemi presentati sembra debba trovare collocazione anche la riacquisita centralità – negli ultimi dieci/venti anni –  degli investimenti pubblici e della proprietà pubblica in realtà nazionali di primario rilievo nello scenario geopolitico mondiale, nelle quali lo stato domina settori economici chiave delle rispettive economie.

Il riferimento è, innanzitutto, a quelle compagnie petrolifere pubbliche che controllano oggi i tre quarti delle riserve mondiali di greggio. Si pensi poi a come svariati governi, per tramite di aziende pubbliche o, con schemi meno lineari, di aziende private, intervengono sui mercati globali in settori strategici tra i quali, solo per citarne alcuni, l’aeronautica, la cantieristica e i trasporti navali, l’energia, gli armamenti, le telecomunicazioni, le materie prime, e il petrolchimico. Non si deve infine dimenticare il ruolo primario svolto oggi dai ricchissimi fondi sovrani di investimento[35].

Insomma, sulla scena internazionale primeggia una “nuova” classe di imprese di proprietà dello stato o comunque strettamente allineate con i suoi interessi[36]. Un rinnovato capitalismo ad architettura burocratica declinato di volta in volta sulle specificità delle singole realtà nazionali. Un capitalismo di stato del XXI secolo definito come quel «sistema in cui lo stato svolge il ruolo di attore economico guida e si serve dei mercati soprattutto per trarne benefici politici»[37], e che costituisce un nuovo elemento nella tassonomia di quel fenomeno consistente nella creazione di realtà imprenditoriali dalle dimensioni tali da poterli definire dei “campioni nazionali” che ha noti antecedenti nel passato. Si pensi infatti all’America di fine Ottocento, nella quale il governo permise a imprese private di monopolizzare interi settori industriali, così portando alla creazione di monopoli nel settore petrolifero, in quello dei trasporti, delle ferrovie e del credito. Sempre in riferimento al passato, si possono ricordare le politiche di pianificazione economica centrale adottate in Francia, in Germania e in Gran Bretagna durante la Prima guerra mondiale, che hanno direttamente e profondamente influenzato le attività del settore privato.

Sono quindi molteplici i possibili motivi, e quindi le connesse chiavi di lettura, del capitalismo di stato. Questi vanno dalle considerazioni di politica industriale a quelle di politica socio-assistenziale, senza dimenticare quelle politiche, nel senso di più strettamente legate a interessi della classe politica. Una molteplicità di spiegazioni e collegati fattori nei quali sembra potersi trovare una adeguata giustificazione alla resilienza che caratterizza il fenomeno.

 

 

2.1. – Il caso Italia: tra vecchie e nuove forme di intervento statale

 

Lo sviluppo dell’intervento dello Stato italiano nell’economia sembra avere le proprie premesse fondative in quell’arco di tempo che intercorre tra la costituzione del Consorzio per sovvenzioni su valori industriali (1914) e la nascita dell’IRI – Istituto per la ricostruzione Industriale – (1937)[38].  

Un intervento che nel tempo è significativamente mutato tanto sotto il profilo quantitativo, quanto sotto quello qualitativo. Mentre infatti la vigorosa capacità espansiva del fenomeno portava il medesimo a dimensioni di primario rilievo nel generale contesto economico, anche le forme di tale intervento mutavano. Dai primi organi dotati di parziale autonomia si è infatti passati agli enti pubblici economici per poi adottare il modello società di capitali. Nel tempo è mutata più volte anche la finalità dell’intervento.

I primi interventi erano infatti volti a sostenere e assistere il settore industriale privato impegnato in un gravoso sforzo produttivo imposto dalla prima guerra mondiale, mentre in un secondo momento lo Stato è intervenuto in funzione di soccorso del sistema bancario e industriale durante la recessione degli anni Venti del secolo scorso, per poi rendere il proprio intervento non più congiunturale, bensì strutturale agli obiettivi di politica economica, con la trasformazione dell’IRI in ente permanente.

L’Istituto nasce infatti con il r.d.l. n. 5 del 23 gennaio 1933 con la finalità di assumere il controllo di alcuni istituti di credito e varie realtà industriali da questi in varia misura partecipate, così dando vita a un ente autonomo di gestione di partecipazioni nella forma della holding pubblica, formula di intervento dell’economia che avrà lunga fortuna, essendo stato lo strumento preferito dallo Stato per quasi mezzo secolo[39].  Un’ente, l’IRI, che, come già detto, dopo una prima fase volta al salvataggio di parti importanti dell’economia italiana, ha visto mutare le proprie funzioni. Infatti, da quelle iniziali di concessione di mutui a lungo periodo a favore di imprese industriali italiane, e di amministrazione e successivo trasferimento delle partecipazioni azionarie (funzioni rispettivamente assegnate alle due sezioni di cui si componeva l’istituto, quella finanziamenti industriali e quella smobilizzi industriali), si passò, una volta conseguito l’obiettivo del risanamento dei conti delle realtà imprenditoriali attratte nella sua sfera, a una nuova concezione del ruolo, che, appunto con il r.d.l. n. 905 del 1937, è divenuto quello di provvedere, con criteri unitari, alla efficiente gestione delle partecipazioni di sua pertinenza.

Un fenomeno, quello dell’azionariato di Stato, che, nella sua rinnovata funzione, trova poi un importante momento di razionalizzazione con l’istituzione del Ministero delle partecipazioni statali (l. n. 1589 del 1956)[40].

Il sistema così venuto a delinearsi nel tempo aveva una struttura piramidale, con alla base le varie società partecipate, al livello intermedio un ente di gestione, e, al vertice, il Parlamento. Un sistema che quindi faceva perno sulla creazione di una vera e propria holding pubblica, che non tardò a presentare preoccupanti fattori di crisi.

Tra questi, innanzitutto, l’estendersi smisurato dei settori di intervento, che ha determinato l’impossibilità del controllo e dell’attuazione di politiche di coordinamento[41].

Un ruolo importante nel determinare la crisi del sistema va poi attribuito alle scelte, di matrice politica e sociale, di abbandonare la prospettiva imprenditoriale, e in luogo di questa abbracciare politiche di sostegno di settori colpiti da importanti crisi strutturali[42]; influenza del potere politico che si è manifestata anche in virtù del collegamento tra questo e i meccanismi di finanziamento da cui dipende il sistema[43].

Non va poi dimenticata, nel novero delle concause della crisi[44] del sistema, la mancanza di quel meccanismo sanzionatorio, presente invece nell’iniziativa privata, in virtù del quale la ristrettezza delle risorse finanziarie rappresenta un limite alla deviazione da modelli virtuosi, e all’abuso dell’organizzazione societaria per fini indiretti. Tale meccanismo sanzionatorio, di tipo economico, si è detto, è stato vanificato dal potere di cui dispone il socio pubblico, in quanto legislatore, di destinare, anche ripetutamente, risorse finanziarie a sostegno della sua impresa[45].

In una prima e lunga fase, quindi, lo Stato non entra nel capitale delle imprese, non si fa azionista, ma opta per la mediazione tecnica dell’ente pubblico[46]. È questo che diventa azionista, e che gestisce le partecipazioni nella forma della holding pubblica, e che quindi fa da collegamento tra Stato e società operative, o società finanziarie di settore. La preferenza per l’ente pubblico trova spiegazione, su un piano pratico-operativo, nelle finalità assegnate all’IRI, pensato e organizzato  come strumento della politica economica dello Stato, e, su un piano teorico, in una asserita incompatibilità fra Stato e società per azioni; il primo appartenendo al diritto pubblico, e relativo a interessi che sovrastano e dominano l’economia; la seconda di pertinenza invece del diritto privato, e quindi propria del regime giuridico degli interessi individuali e degli scopi lucrativi[47].

Per quasi quattro decenni, in una linea di continuità con le scelte fatte nei primi anni Trenta del secolo scorso, ha prevalso la forma dell’ente pubblico economico, espressione – sembra –  di quella linea di pensiero che si poneva quale alternativa, o, secondo le parole di Natalino Irti, quale «terza via» tra gli estremi del liberismo e quelli del collettivismo[48].

Insomma, salvo limitate eccezioni, uno Stato imprenditore, ma non ancora uno Stato azionista.

In tale scenario si inserisce poi, a partire dagli anni Novanta del secolo scorso, un nuovo fenomeno: quello del ricorso a modelli privatistici da parte delle pubbliche amministrazioni nell’opera di trasformazione e riorganizzazione della sfera pubblica[49].

Un cambiamento che è facile mettere in collegamento con i radicali mutamenti che nel frattempo hanno interessato importanti riferimenti ideologici, politici e finanziari.

Sotto il profilo ideologico, le novità nella geopolitica, in particolare quelle dei Paesi dell’Est, hanno portato il liberismo ad affermarsi quale paradigma egemone, imponendo quindi una concezione dello stato minimo.

Sul piano della politica, le ben note derive dell’intreccio tra questa e il mondo dell’impresa pubblica ha determinato una sfiducia collettiva e imposto un cambiamento di modelli e paradigmi.

Infine, le privatizzazioni si presentavano, in una prospettiva di tipo finanziario, quali utili fonti per soddisfare un fabbisogno pubblico in continua crescita.

Sotto la spinta combinata di tali fattori lo Stato muta quindi le modalità di declinazione del proprio ruolo di attore dell’economia, inizia a far uso diretto dello strumento societario, e assume il nuovo ruolo di Stato azionista.

Un fenomeno, quello testé ricordato, nuovo per la realtà produttiva italiana, ma non per la nostra scienza giuridica, che ha iniziato a occuparsene almeno un secolo prima. Si tratta infatti dell’implementazione di quello schema organizzativo, cui spesso ci si riferisce con la locuzione straniera new public management, che prevede il ricorso a strumenti quali le amministrazioni private in pubblico comando, le esternalizzazioni, e, per quanto qui più interessa, le società di diritto speciale[50].

Un processo di trasformazione, quello italiano, indubbiamente ispirato a note politiche di modernizzazione sviluppate presso le pubbliche amministrazioni di altri paesi, tra i quali hanno costituito un sicuro punto di riferimento il programma Reinventing government avviato negli Stati Uniti d’America negli anni Ottanta [51], la cui declinazione italiana è stata presentata solitamente quale risposta a una serie di problematiche di primario rilievo che vanno dall’inefficienza e arretratezza dell’organizzazione amministrativa, alla lievitazione del deficit e del debito pubblico.

Accanto a tali fattori viene spesso indicata, quale protagonista della creazione di tale nuovo modello, anche la spinta innovatrice esercitata dal diritto comunitario sul diritto interno.

In tale contesto di un continuo – anche se graduale – divenire, anche l’esperienza italiana più recente ci ha consegnato nuove forme di intervento dello Stato nell’economia, nelle quali questo agisce in stretta collaborazione con investitori privati[52].

Infatti, accanto al tradizionale modello secondo il quale le politiche di intervento sono implementate sulla base dell’azione unica dello Stato, con sempre maggiore frequenza ci si trova in presenza di realtà caratterizzate da una ibridazione tra pubblico e privato, nelle quali alle volte la partecipazione dei privati si innesta in una situazione di controllo e comunque di partecipazione maggioritaria dello Stato, altre volte, invece, tale rapporto si inverte, e lo Stato si trova in una posizione di minoranza che comporta quindi cessione del controllo. A tali ultime soluzioni possono essere assimilate, almeno sotto taluni profili, quelle situazioni nelle quali istituti finanziari statali finanziano in modo significativo soggetti totalmente in mano privata[53].

Tali nuove forme di intervento dello stato nell’economia sono, secondo taluni, una diretta conseguenza della crisi finanziaria globale che ha avuto inizio nel 2008 [54], e che ha portato molti governi al salvataggio di importanti realtà imprenditoriali, così assumendo il ruolo di azionista, alle volte di maggioranza, altre di minoranza, delle medesime. Ma tali forme sono anche, evidentemente, il portato delle politiche di privatizzazione avviate a partire dagli anni Novanta del secolo scorso

 

 

3. – Il generale contesto normativo e culturale

 

I mutamenti delle concezioni del ruolo dello Stato nel processo economico, che hanno portato a un sempre più frequente ricorso allo strumento societario[55], hanno indubbiamente ricevuto una spinta decisiva, anche, dalla disciplina costituzionale dei rapporti tra iniziativa economica pubblica e iniziativa privata.

Le disposizioni cui fare riferimento sono, come è ben noto, gli artt. 41 e 43 della nostra Carta costituzionale.

Nell’interpretazione di tali norme costituzionali emergono due distinte tendenze. Da un lato quella per cui l’intervento statale può e deve essere letto solo in funzione delle esigenze dello stato neocapitalistico[56]; dall’altro, quella, che sembra preferibile, per cui l’imprenditorialità pubblica si pone con una sua specificità e occupa un suo autonomo spazio[57].  

In effetti, nella Costituzione l’iniziativa economica può essere assunta tanto dai privati, come da pubblici operatori, e ciò senza che si renda necessaria una preliminare determinazione delle rispettive sfere d’azione. Tanto si può desumere dall’indistinto riferimento «all’attività economica pubblica e privata» contenuto al terzo comma dell’art. 41 [58]

Nella Carta costituzionale sembra quindi trovare una equilibrata composizione il conflitto ideale tra liberismo e dirigismo, la cui possibilità di convergenza era per il vero già testimoniata, nell’esperienza storica occidentale, dalla politica americana del New Deal, e che comunque non poteva dirsi del tutto estranea neanche all’Italia, nella quale si era già a lungo sperimentata un’economia interventista[59].

L’assetto costituzionale italiano assume quindi dei tratti singolari. Tra questi, una rideterminazione delle linee di confine tra libertà economica dei privati e governo politico dello sviluppo economico, per effetto della quale, all’affievolimento del primo corrisponde una più forte legittimazione del secondo.

La Costituzione abbandona il primato dell’iniziativa economica privata su quella pubblica per riaffermare il primato dell’economia di mercato, anche quale limite alla direzione politica dello sviluppo economico e come criterio di condotta per l’attività economica pubblica[60].

Una libertà, quella dell’iniziativa economica privata affermata al primo comma dell’art. 41, che non ha quel carattere di inviolabilità riconosciuto invece alle libertà civili proclamate agli artt. 13 e ss.

Una posizione, si diceva, di assoluta parità tra l’iniziativa privata e quella pubblica che è l’effetto di quanto disposto al terzo comma della disposizione in parola («la legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali»), e che ha portato ad affermare che «come vi è il principio di libertà della iniziativa economica privata, espressamente enunciato nel primo comma dell’art. 41 [61], così deve intendersi sussistente un analogo principio di libertà della iniziativa economica pubblica»[62]. Una possibilità, quindi, quella dell’intervento pubblico nell’economia, che incontra sì alcuni limiti, ma non di tipo quantitativo, bensì solo qualitativo. Infatti, tale intervento non è libero nelle modalità, che devono comunque sempre rispettare i canoni della concorrenza. Lo Stato, allorché interviene nell’economia, è infatti tenuto al rispetto delle medesime regole di condotta previste per gli operatori privati[63]

L’esistenza di un principio di libertà dell’iniziativa economica pubblica trova poi implicita conferma all’art. 43 Cost., ove vengono fissati dei limiti all’intervento pubblico per le ipotesi di sostituzione di questi ai privati in forma autoritativa o in forme espropriative. Ipotesi nelle quali la legge deve giustificare le specifiche ragioni dell’intervento[64].  

Gli artt. 41 e 43 Cost. fissano quindi le regole fondanti del sistema ad economia mista: l’attività economica è pubblica e privata[65]. E in tale generale quadro normativo si collocano le disposizioni del codice civile, che affrontano il tema sotto un duplice profilo: quello dell’imprenditore e quello della società per azioni.

Dal lato dell’attività economica, viene previsto uno statuto generale dell’imprenditore cui assoggettare soggetti privati e pubblici[66]. Sotto il profilo societario, si prevede espressamente le società con partecipazione dello Stato o di enti pubblici.

Il codice civile offre quindi l’alternativa tra ente pubblico economico e società controllata o partecipata dallo Stato o da altro ente pubblico. Il primo sottoposto al regime generale dell’impresa, la seconda a quello societario.

 In conformità a tale generale quadro regolamentare, quindi, per un lungo periodo, si è affermata una linea di intervento che ha visto lo Stato, sfruttando un modello organizzativo privato, farsi produttore ed erogatore diretto di beni e servizi. Ciò almeno fino a quando l’affermarsi, da un lato, delle critiche alle tesi keynesiane sul welfare state, e, dall’altro, delle teorie della public choice, secondo le quali l’azione dello stato tende a essere catturata da interessi politici e sindacali, il clima culturale è decisamente cambiato, e tale forma di intervento diretto dello Stato è entrato in crisi, lasciando il passo a massicci programmi di privatizzazione.

Oltre a quelli appena sopra ricordati, tra i molteplici fattori che, con azione convergente, hanno all’epoca contribuito a imporre tale linea di pensiero, vanno ancora menzionati, per limitarci a un livello molto generale dell’analisi, e individuare quindi solo le macro-dinamiche relative, il già cennato declino del modello socioeconomico che per decenni si è proposto quale alternativa a quello capitalistico, plasticamente rappresentato dal crollo del muro di Berlino, e l’avvento di una nuova rivoluzione industriale stimolata dal processo di innovazione che ha interessato le tecnologie della informazione e della comunicazione, per arrivare poi alla digitalizzazione dei processi produttivi. In tale contesto, quindi, gli ultimi decenni del secolo scorso sono stati dominati da un pensiero economico che aveva tra i propri elementi fondativi la privatizzazione[67].

Un ritorno al più recente passato sembra debba essere però registrato in tempi più vicini, e segnatamente quelli della recente crisi finanziaria, in occasione della quale, anche allargando lo sguardo a una visione internazionale, si è spesso assistito a ripetuti interventi dello stato a tutela della stabilità del sistema economico-finanziario. Una reviviscenza che trova probabilmente causa anche nel mutamento dei paradigmi normativi sovranazionali. Con il Trattato di Lisbona, infatti, l’art. 3 del Trattato UE ha visto mutare la propria formulazione, ed è stato proclamato, tra gli obiettivi fondamentali dell’Unione, quello dello «sviluppo sostenibile dell’Europa, basato su una crescita economica equilibrata e sulla stabilità dei prezzi, su un’economia sociale di mercato fortemente competitiva, che mira alla piena occupazione e al progresso sociale, e su un elevato livello di tutela e di miglioramento della qualità dell’ambiente».

Negli ultimi anni, quindi, dopo un lungo periodo nel quale il pensiero dominante indicava la via dell’abbandono dell’intervento statale, ha ripreso invece vigore un opposto convincimento, sicuramente anche quale effetto delle critiche valutazioni che si appuntano sul paradigma della globalizzazione che ha fortemente condizionato i modelli culturali e sociali delle economie occidentali a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso.

In conseguenza della disillusione determinata dagli effetti dei processi di privatizzazione e, soprattutto, in ragione degli effetti dei ripetuti episodi di fallimenti del mercato seguiti da robusti interventi di salvataggio da parte dello stato, il consenso di cui godeva la dominante linea di pensiero pro-privatizzazioni si è dunque significativamente ridotto. In tale mutato scenario, di rinnovato vigore dell’intervento pubblico, si presentano necessariamente nuove sfide culturali, ideologiche e istituzionali. Sfide che, per quel che attiene alle presenti riflessioni, si traducono in fondamentali interrogativi. Quale futuro si prospetta per l’impresa pubblica? Vi sono settori per i quali l’intervento pubblico deve essere ritenuto indispensabile? In altri termini, dove andrà a collocarsi il “pendolo” dell’intervento pubblico nell’economia?    

 

 

4. – Le dimensioni e il rilievo del fenomeno

 

Non si può prescindere da una, seppur limitata, ricostruzione delle dimensioni del fenomeno, e ciò perché queste sono sicuramente tali da rendere chiare le ragioni del rilievo del tema e del connesso interesse.

Una ricostruzione che però, fatalmente, sconta le difficoltà date dalla limitata disponibilità e dalla perfettibile qualità delle informazioni relative. Una qualità del dato informativo che è innanzitutto determinata dalle finalità per le quali esso viene raccolto e organizzato, che portano, di volta in volta, a raccogliere e ad aggregare dati in relazione a confini di rilevamento non sempre coincidenti, circostanza che quindi molte volte rende particolarmente critico il raffronto dei dati.

Ovviamente, anche le stesse notevoli dimensioni del fenomeno contribuiscono a rendere complicata la raccolta delle informazioni, che molte volte risente inoltre della mancanza di un adeguato spirito di collaborazione da parte dei soggetti oggetto della rilevazione.

Tali cennate difficoltà risultano immediatamente evidenti semplicemente ricordando come, allorché si voglia anche solo individuare il semplice numero complessivo delle società partecipate pubbliche, le cifre presentate da differenti report variano significativamente le une dalle altre[68].

Le fonti sulle quali si può fare affidamento sono essenzialmente di due tipi. Da un lato quelle che possono essere definite di tipo istituzionale, e, dall’altro, quelle di tipo economico-finanziario[69].

La prima tipologia analizza il fenomeno essenzialmente dalla prospettiva degli enti partecipanti, ai quali sono imposti doveri informativi verso determinati ministeri e la Corte dei conti. Gli adempimenti informativi imposti si appuntano essenzialmente su alcuni dati procedurali e contabili, e la loro comunicazione assolve, sostanzialmente, una funzione di trasparenza e controllo finanziario. Per quanto riguarda i ministeri, la raccolta è eseguita dal Dipartimento del tesoro del Ministero dell’economia e delle finanze (di seguito MEF), nella cui banca dati sono confluiti, a partire dal 1° gennaio 2015,  i dati fino a quel momento raccolti dal Dipartimento della funzione pubblica[70].

Per quanto concerne la magistratura contabile, è alle sezioni regionali di controllo di questa, ai sensi di quanto disposto all’art. 1, commi 166-170, della l. 23 dicembre 2005, n. 266, che gli uffici di revisione economico-finanziaria degli enti locali devono inviare una relazione sul bilancio di previsione e sul rendiconto dell’esercizio di competenza che contempli anche un profilo informativo sulle partecipazioni. Sulla base di tale prospetto informativo la Corte dei conti predispone utili report in materia di società partecipate[71].

Le fonti di tipo economico-finanziario adottano invece una differente prospettiva di analisi del fenomeno, che guarda appunto al medesimo non già dall’angolazione del soggetto partecipante, bensì di quello partecipato. I soggetti cui fare riferimento sono essenzialmente due: l’ISTAT[72] e Unioncamere[73], che, rispettivamente, elaborano dati raccolti tramite indagini dirette e dati presenti nei bilanci depositati presso gli uffici del registro.

È chiaramente intuibile che l’eterogeneità delle finalità delle varie raccolte, caratterizzate da differenti approcci metodologici, come anche da non coincidenti ambiti di estensione delle rispettive indagini, ha reso molto complicato il lavoro di raffronto tra i vari dati disponibili, che pertanto hanno offerto sempre una ricostruzione limitata, se non parziale, del fenomeno in analisi.

Nell’ottica del necessario rafforzamento del monitoraggio e del controllo sul fenomeno delle partecipazioni pubbliche, come anche di un miglioramento qualitativo e quantitativo dei dati disponibili, deve essere accolta con favore la notizia dell’accorpamento della banca dati fino a poco tempo fa tenuta dalla Corte dei conti con quella del MEF[74]. Se a ciò si aggiunge che, a decorrere dal 1° gennaio 2015, ai sensi di quanto già disposto dal comma 4, art. 17, del d.l. 24 giugno 2014, n. 90, le informazioni in possesso del MEF devono essere integrate sulla base delle risultanze delle rilevazioni effettuate dall’ISTAT, si può osservare in atto un virtuoso processo di integrazione della raccolta dei dati – implementato anche nel recente TUSPP – che contribuirà senza dubbio all’ottimizzazione della raccolta e dell’esito della medesima.

Infatti, su tale profilo interviene, opportunamente, anche la disciplina dettata dal recente TUSPP, al cui art. 15, co. 3, si prevede la tenuta, affidata alla struttura competente per il controllo e il monitoraggio sull’attuazione del medesimo TUSPP individuata nell’ambito del Ministero dell’economia e delle finanze, di un elenco pubblico, accessibile anche in via telematica, di tutte le società a partecipazione pubblica esistenti, utilizzando, a tal fine, le informazioni della banca dati già presente presso il medesimo ministero.

Certo, l’assestamento metodologico della raccolta del dato informativo, perché questo sia tale da assicurare il carattere sistematico della raccolta e, quindi, un proficuo utilizzo dei dati  per le varie finalità di trasparenza, di controllo – anche degli equilibri di finanza pubblica –, di revisione della spesa, ecc., dovrà trovare necessario completamento nelle precise linee di azione della struttura in parola, alla quale è infatti tra l’altro rimessa la non irrilevante scelta sui dati e documenti da comunicare in aggiunta rispetto a quelli già comunicati al MEF ai sensi di legge. Insomma, per l’efficacia del sistema avranno un ruolo determinante le concrete modalità di declinazione di tale potere nel definire il modello standard informativo.

Malgrado quanto appena osservato, in attesa di dati che in futuro saranno magari più completi e meglio elaborabili, quelli, pur frammentari, fino a ora a disposizione consentono una prima agevole considerazione. L’analisi del numero delle società a partecipazione pubblica ha segnalato nel tempo, da almeno un decennio a questa parte, una netta tendenza verso l’aumento delle medesime, malgrado i ripetuti interventi, va detto molte volte velleitari[75], volti a conseguire una razionalizzazione del fenomeno[76] da ottenersi anche per tramite di una significativa riduzione del dato numerico. Un obiettivo di riduzione che avrebbe dovuto esser conseguita per via di un’attività di dismissione e liquidazione i cui termini di attuazione, come è noto, sono passati più volte senza che in realtà nulla cambiasse.

Una realtà quindi, quella delle partecipate pubbliche, almeno fino agli interventi normativi volti alla razionalizzazione dettati al T.U 175/2016, in continua espansione[77], e ciò anche al netto della considerazione per la quale la crescente attenzione al fenomeno ha determinato una più ampia emersione del medesimo[78], e quindi i numeri in crescita sono molto probabilmente in parte, e solo in parte, dovuti al conteggio di realtà in passato già presenti, ma sfuggite alla rilevazione, a causa appunto di un sistema di rilevazione che nel tempo si è andato sempre più affinando e perfezionando.

L’evoluzione del dato numerico, quindi, si presenta perfettamente in linea col ricordato mutato approccio ideologico. Il pendolo dell’intervento dello Stato nell’economia sembra quindi essersi spostato, e spostarsi sempre più, verso un maggiore impegno statale, con una inversione di tendenza rispetto alla non lontana stagione delle privatizzazioni, all’esito delle quali si era invece assistito a un forte disimpegno statale.

Prima che un esteso programma di privatizzazioni modificasse significativamente lo scenario, infatti, larga parte dei settori di mercato registravano una importante presenza dell’intervento pubblico. Il sistema imprenditoriale pubblico era invero presente nel settore industriale-manifatturiero, in quello bancario, assicurativo, siderurgico, metallurgico, petrol-chimico, e, ancora, tale intervento pubblico interessava settori quali quello delle infrastrutture e dei grandi servizi pubblici a rete. Lo Stato controllava, direttamente o indirettamente, circa il 45 per cento del settore industriale, e oltre l’80 per cento di quello bancario e assicurativo[79]. Come detto, però, lo Stato ha poi dismesso il controllo delle principali leve economiche e imprenditoriali, aprendosi alle logiche del mercato e della concorrenza.

Un processo di dismissione che ha portato a una notevole contrazione di un fenomeno che è comunque sempre rimasto di primario rilievo nel contesto economico nazionale.

Al lettore non è certamente sfuggito che, fino a ora, si è parlato in termini generali di società a partecipazione pubblica, e di un ruolo di finanziatore, imprenditore e azionista dello Stato, termine quest’ultimo che si è usato in un senso molto ampio, tale da ricomprendere in sé ogni soggetto riconducibile alla sfera pubblica. A tal proposito è però doveroso introdurre ora una distinzione in due blocchi di realtà che, seppure unitariamente inquadrabili quali società a partecipazione pubblica, si distinguono per il differente soggetto proprietario. Da un lato, infatti, possiamo porre le società che hanno lo Stato come azionista[80], cioè società che sono partecipate da amministrazioni centrali[81], e, dall’altro, le società il cui soggetto titolare delle partecipazioni è un ente la cui sfera di azione è ristretta a un più o meno esteso ambito territoriale locale. Siffatta distinzione sul profilo proprietario porta con sé altre e significative diversificazioni sui dati dimensionali. Del primo gruppo fanno infatti parte società di notevoli dimensioni, il cui numero è tutto sommato contenuto. Del secondo gruppo fanno invece parte società molte volte dalle dimensioni contenute, e di contro molto numerose. Altra fondamentale differenza sta nei risultati economici prodotti. Al primo gruppo infatti appartengono società che, con alcune limitate eccezioni[82], producono utili, e quindi non costituiscono un peso per le finanze pubbliche, che anzi, traggono importanti risorse dai dividendi incassati. Il gruppo delle partecipate locali, di contro, presenta un ammontare passivo che grava, con riflessi decisamente negativi, sulle casse pubbliche[83]

La generalissima distinzione tra società pubbliche utilizzata è ovviamente suscettibile di ulteriore precisazione tassonomica, che porta quindi a distinguere società partecipate dal Ministero dell’economia e delle finanze (MEF) e società partecipate da altri ministeri (in realtà, oggi, è azionista il solo MEF) o amministrazioni centrali; distinzione suscettibile di ulteriore precisazione in ragione del configurarsi della partecipazione come diretta o indiretta, e quindi detenuta da società a loro volta partecipate da società del primo o del secondo gruppo.

Una ulteriore possibile puntualizzazione della classificazione in parola è quella proposta dall’ISTAT, che distingue in base alla tipologia del legame di partecipazione al capitale della pubblica amministrazione, e che porta quindi alla tripartizione tra partecipate prossime della P.A., unità controllate non prossime della P.A., e unità partecipate da controllate pubbliche. Le prime sono quelle nelle quali una amministrazione pubblica detiene una quota di partecipazione. Le seconde sono invece società non controllate direttamente dalla P.A., ma indirettamente, tramite altre unità appartenenti a un gruppo la cui controllante ultima è una P.A. La terza tipologia individua tutte le unità partecipate da controllate pubbliche, cioè dall’insieme delle controllate individuate dalle due precedenti tipologie[84].

Allargando lo sguardo oltre i confini nazionali, e osservando il fenomeno su una scala globale, sembra che si possano tenere ferme le considerazioni appena sopra sviluppate. Infatti, malgrado negli ultimi decenni vi sia stata – anche in tale più vasto scenario – una diffusa e significativa attività di privatizzazione, le imprese statali continuano a svolgere un ruolo di primario rilievo nelle economie di numerosi stati. In termini aggregati, queste rappresentano il 20 per cento del totale degli investimenti e il 5 per cento della forza lavoro. Per rendere ancora più evidente il rilievo delle imprese statali, ai dati appena ricordati si può aggiungere che, in alcuni paesi, a queste è legato circa il 40 per cento del valore della produzione[85].

 

 

5. – La natura delle società pubbliche

 

Il tema della natura della società in mano pubblica è sempre stato molto vivo e partecipato[86]. Una vivacità ben comprensibile in ragione del diretto collegamento tra tale tema e il regime giuridico cui fare riferimento[87], e ciò malgrado la constatazione, anche ad opera della Corte costituzionale[88], di come la dicotomia tra ente pubblico e società di diritto privato sia andata, tanto in sede normativa che giurisprudenziale, sempre più stemperandosi, mercé l’impiego crescente delle seconde per il perseguimento di finalità di interesse pubblico, da un lato, e in virtù delle suggestioni del metodo sostanzialistico per il quale il legislatore comunitario ha in diverse occasioni optato[89], dall’altro lato.

Un dibattito, quello al quale si fa riferimento, da ripercorrere alla luce dell’ammonimento a non attribuire ai concetti di “pubblico” e “privato” un valore normativo assoluto, e che, nel lungo tempo nel quale ha avuto modo di svilupparsi, ha sempre fatto perno su alcuni elementi e determinate posizioni[90].

Con una brutale sintesi, utile però per enucleare – in queste battute iniziali – gli elementi essenziali del dibattito, si può dire che lo scontro sia sempre stato tra forma e sostanza[91], o, meglio, tra ragioni che portano a dare prevalenza all’una sull’altra o viceversa. Una contrapposizione plasticamente rappresentata dalle parole di autorevole dottrina già nella prima parte del secolo scorso, secondo la quale, appunto, la società in mano pubblica rappresentava «un travestimento in forma privata di una impresa sostanzialmente pubblica»[92].

Tale sembra quindi il nucleo fondamentale della questione, e non già quello, che ha comunque molto ha occupato la dottrina, della precisa individuazione della linea di confine tra sfera pubblica e sfera privata, magari per via dell’individuazione di una nozione mobile di pubblica amministrazione. Tale seconda modalità di impostazione del problema sembra invero logicamente subordinata alla prima, e quindi destinata a trovare soluzione all’effetto delle scelte in relazione a questa operate.

Procedendo con ordine, è bene prima ricostruire i dati normativi di partenza, che non possono non costituire un vincolante riferimento per le presenti riflessioni.

Un primo punto fermo che deve essere richiamato è quello fissato nella Relazione al codice civile del 1942 (n. 998), ove si legge che, con la scelta della società per azioni, «è lo Stato medesimo che si assoggetta alla legge delle società per azioni per assicurare alla propria gestione maggiore snellezza di forme e nuove possibilità realizzatrici». Al n° 837 della medesima Relazione si legge inoltre che «[v]ero è che lo Stato trova spesso conveniente organizzare le imprese da esso assunte nelle stesse forme dell’impresa privata – specialmente nella forma della società per azioni – nel qual caso non vi è luogo a parlare, in senso formale, di impresa pubblica. Ma anche se l’esercizio dell’impresa viene assunto da un ente pubblico con gestione diretta o se l’impresa si organizza come ente pubblico autonomo, non vi è una ragione aprioristica perché l’impresa pubblica non sia assoggettata alla disciplina del codice civile che vale per l’impresa privata, in quanto quella e questa operino sullo stesso piano».

Una affermazione di principio che ha trovato anche recente occasione per essere ribadita. Il riferimento è all’art. 4, comma 13, secondo periodo, d.l. n. 95 del 2012, ove appunto si stabilisce che «[l]e disposizioni del presente articolo e le altre disposizioni, anche di carattere speciale, in materia di società a totale o parziale partecipazione pubblica si interpretano nel senso che, per quanto non diversamente stabilito e salvo deroghe espresse, si applica comunque la disciplina del codice civile in materia di società di capitali»[93].

Il recente TUSPP ha abrogato tale norma (art. 28, comma 1, lett. q), e introdotto una nuova disposizione di analogo tenore, confermando quindi siffatto principio. All’art. 1, co. 3, si prevede infatti che «[p]er tutto quanto non derogato dalle disposizioni del presente decreto, si applicano alle società a partecipazione pubblica le norme sulle società contenute nel codice civile e le norme generali di diritto privato»[94].

La disciplina codicistica espressamente dedicata alle società pubbliche, come è noto, è andata col tempo perdendo pezzi, e si presenta attualmente in termini veramente ridotti, constando del solo art. 2449 [95]. Già questo potrebbe forse costituire un utile elemento di riflessione per l’interprete, nel senso che dalla stessa mancanza di una disciplina codicistica ad hoc potrebbe inferirsi che per il legislatore i riferimenti normativi devono essere rinvenuti nella disciplina generale delle società, così portando a collocare la fattispecie in un ben preciso settore dell’ordinamento[96].

Tali riflessioni sono però rese meno ferme dalla crescita – che nel tempo si è fatta sempre più serrata – di un robusto corpus di norme dedicate alle società pubbliche che le allontanano per molti e significativi aspetti dalle regole e dai paradigmi del codice civile.

Infatti, a fronte delle poche norme del codice, nel tempo è cresciuta in modo esponenziale la legislazione a carattere speciale.

Certo, non si può pensare che la risposta stia nel semplice dato numerico, perché le norme prima che contate devono essere “pesate”, per eventualmente differenziarle sotto il profilo del valore sistematico[97].

Ciò detto, però, il moltiplicarsi di disposizioni di segno in prevalenza “pubblicistico” in subiecta materia non può non rappresentare un fenomeno col quale confrontarsi, per dare risposta ai dubbi che è in grado di generare. Pare quindi doveroso chiedersi, come in effetti la dottrina ha fatto[98], se la ricordata dichiarazione di appartenenza al diritto privato rappresenti una certa opzione teleologica inderogabilmente posta dal legislatore[99], o se, invece, essa possa degradare a mera affermazione formale, dalla portata normativa pertanto limitata, tanto sul piano organizzatorio-tipologico, come su quello funzionale. È poi parimenti necessario valutare se il numero e la qualità degli interventi derogatori non siano tali – in ragione di un meccanismo per il quale la quantità può, al superamento di una determinata soglia, mutare anche la qualità del fenomeno – da modificarne la portata sistematica.

Tali quesiti, evidentemente, non possono che essere presi in esame in modo parallelo, perché strettamente collegati e con risposte tali da influenzarsi reciprocamente. Interrogativi che portano quindi, secondo una evidente concatenazione logica, a quello, più generale, sulla neutralità, o meno, dell’istituto societario. Una neutralità che legittimerebbe un processo di progressiva “entificazione” pubblica di tali società, svalutando quindi la forma privata societaria, per valorizzare invece il profilo della partecipazione.

In dottrina vi è chi ha spinto tale processo di lettura neutralizzante dell’istituto societario fino al punto di negarne la formale appartenenza al diritto privato, e quindi dichiararne la neutralità rispetto alla dicotomia ente pubblico-ente privato[100]

Secondo una particolare linea di interpretazione del fenomeno, l’impiego dello strumento societario per finalità diverse da quella dell’esercizio in comune di una attività economica allo scopo di dividerne gli utili deve essere ricondotto nello schema del negozio indiretto. I  pubblici poteri, quindi, utilizzerebbero  la società di diritto comune per il perseguimento di finalità che non sono quelle sue tipiche, bensì di interesse generale. Siffatte analisi sono state più volte influenzate da un equivoco di base, che ha spesso condotto a intrecci e commistioni tra l’interesse pubblico dell’ente che partecipa alla società e interesse della medesima. Equivoco che ha portato spesso a pensare che l’interesse pubblico sia in grado – per il tramite del socio che di esso è portatore –  di penetrare nella società fino al punto di permeare di sé l’interesse sociale così da modificarlo o addirittura a esso sostituirsi[101]. In proposito tuttavia autorevole dottrina ha diversamente sottolineato il carattere extra sociale dell’interesse pubblico, di conseguenza ritenendo che la natura pubblica del socio non può mutare il quadro normativo di riferimento[102], che deve quindi essere riportato al diritto azionario comune[103].

La situazione soggettiva dell’azionista non sembra dunque in grado di qualificare astrattamente il tipo[104], ma può tutt’al più, nel dinamico svolgimento del rapporto sociale, caratterizzare in concreto la comunione di interessi di tipo societario[105]. L’interesse pubblico di cui lo stato azionista è portatore, nell’ambito di una articolata e generale politica economica per la realizzazione della quale si ricorre allo strumento della partecipazione azionaria, non deve insomma poter modificare le regole del modello di azione adottato[106].

Considerato il rilievo avuto, pare utile spendere qualche ulteriore considerazione sulla  teoria del negozio indiretto, per meglio individuarne il valore e i limiti.

Per negozio indiretto, come è noto, deve intendersi quella fattispecie nella quale le parti si accordano per la conclusione di un determinato negozio al fine di raggiungere, per tramite di questo, con piena consapevolezza e volontà, scopi diversi da quelli tipici della struttura del medesimo, pur assoggettandosi alle relative forma e disciplina[107]. Una disciplina che vede quindi allargarsi il proprio campo di applicazione, così conferendo allo schema negoziale utilizzato una nuova funzione e nuovi compiti[108].

È altrettanto noto che in dottrina si è limitata la rilevanza del negozio indiretto a quelle ipotesi in cui il perseguimento dell’intento richiede che le parti adottino una condotta che altera il normale corso degli effetti del negozio posto in essere[109]. Cioè in quei casi in cui la discrepanza tra l’intento e la causa si manifesta esteriormente in un comportamento difforme da quello richiesto per l’esecuzione del contratto, ossia che i contraenti pieghino gli effetti del negozio nella direzione dell’intento pratico perseguito, circostanza che evidentemente pone un problema di eventuale violazione della causa del contratto posto in essere. 

Va peraltro ricordato che l’attenzione degli autori si è in particolar modo soffermata sull’analisi delle ipotesi nelle quali la realizzazione dell’intento è affidata a un patto accessorio di carattere interno e di limitata portata giuridica. Più precisamente quelle ipotesi di collegamento negoziale per cui il secondo negozio si occupa di regolamentare gli effetti del primo, e quindi l’intento pratico delle parti rappresenta, in quest’ultimo, il motivo comune delle parti e, per il patto interno, la causa. Condizione necessaria per la validità di siffatto schema ricostruttivo, si è quindi osservato, è che i due negozi possano convivere senza contraddirsi, e quindi che si pongano su posizioni differenti. In altri termini, si rende necessario che il secondo negozio non solo non elida il primo, ma ne presupponga esistenza e permanere degli effetti. E solo di questi ultimi si deve occupare la regolamentazione predisposta dal secondo negozio. Un piegare gli effetti in direzione della volontà delle parti che, nella ricostruzione offerta in dottrina, può anche essere ottenuta in assenza di tale patto accessorio, essendo sufficiente che le parti si rimettano alla reciproca fiducia[110]

Siffatto schema è stato dunque richiamato con riguardo al contratto e al rapporto di società, per i quali, ai sensi di quanto disposto all’art. 2247 c.c., la finalità lucrativa è assunta quale causa per la produzione di determinati effetti giuridici da parte di atti di autonomia privata, pur nella consapevolezza che la ricerca dell’utile non costituisce un obiettivo verso il quale debba necessariamente essere diretta l’attività della società, ossia un vincolo di fine. L’art. 2247 c.c., si è quindi detto, consente, e non impone ai soci di vincolarsi reciprocamente al fine di perseguire il guadagno, e fornisce a tale vincolo una tutela giuridica. Il contenuto imperativo della norma è stato quindi individuato nell’inderogabile riconoscimento a ciascun socio del diritto di esigere dagli altri soci l’adempimento della causa lucrativa, e non nell’imporre la medesima alla società[111].

Secondo tale ricostruzione si hanno quindi due negozi collegati, il secondo dei quali, come ricordato in precedenza, ha per oggetto gli effetti del primo, e precisamente consente di attuare un interesse altro dalla causa lucrativa. Due negozi che vedono le parti su posizioni e con rilievi differenti. Con il primo negozio si vincolano uti socii, con il secondo, uti singuli, con rilievo, in questo secondo caso, limitato ai rapporti interni[112].

Una siffatta ricostruzione, apprezzabile fintanto che riesce a garantire l’effetto di tenere ben distinti i due piani dello schema di ragionamento, mostra però qualche limite, che ne mette in discussione la tenuta complessiva, nella parte conclusiva, ove si fa ricorso allo schema del collegamento negoziale per trovare una lettura unitaria di detti due piani sui quali si articola la riflessione. Una lettura unitaria che però presenta elementi di scarsa linearità, se non di contraddittorietà e di precarietà che lasciano non poche perplessità[113]

Ulteriore ipotesi ricostruttiva del fenomeno società pubbliche muove dalla preliminare considerazione del c.d. “tramonto dello scopo lucrativo nelle società di capitali”[114], che porta quindi all’appianamento del contrasto tra perseguimento dell’interesse pubblico e struttura causale tipica della società[115], così superando la necessità del ricorso allo schema del negozio indiretto. Si osserva che la mancanza di causa non costituisce una ipotesi di nullità della società, né le regole societarie prevedono che il venir meno o la mancata attuazione dello scopo lucrativo determini lo scioglimento della medesima. L’interesse pubblico può quindi trovare diretta attuazione  tramite la società, e ciò perché la struttura di questa presenta uno schema causale neutro, declinabile quindi in perfetta e diretta sintonia con l’interesse pubblico, senza per questo stravolgere la natura della struttura societaria.

Altra via per approdare sempre alla compatibilità di una partecipazione pubblica di maggioranza e lo schema causale della partecipazione societaria è quella seguita da chi preliminarmente osserva che quest’ultimo è il prodotto della interazione e della sintesi di tre fondamentali interessi: quello all’efficienza produttiva dell’organizzazione imprenditoriale, quello alla massimizzazione del profitto e, infine, quello alla massimizzazione del dividendo. Di questi tre interessi, che si pongono in un necessario ordine logico-cronologico, soltanto il conseguimento del primo, si dice, non è lasciato alla discrezionalità della maggioranza dei soci, a differenza degli altri due. Infatti, la libertà relativa all’ultimo, fissata al comma 1 dell’art. 2433 c.c., determina poi anche analoga libertà dei soci nell’adozione di una politica che influisca sul secondo, rendendo così la forma giuridica societaria compatibile con gli scopi di pubblico interesse[116].

Ad analoga soluzione, ragionando sulla base di una simile ricostruzione del dato di partenza del problema, si è arrivati peraltro osservando come la composizione e la sintesi tra gli interessi perseguiti dall’azionista pubblico e quelli lucrativi sia possibile nella prospettiva di una concezione di tipo istituzionale della società per azioni[117].

E, ancora, si è detto che la coesistenza di interessi di natura diversa trova garanzia anche in un ordinamento societario improntato a una logica contrattualistica, nel quale quindi la società rappresenta il naturale luogo di confronto e contemperamento di posizioni diverse[118].

Accertata la compatibilità dello schema societario con lo scopo pubblicistico che anima la partecipazione del soggetto pubblico, risalendo la catena di interrogativi in precedenza posti, ci si deve quindi chiedere se l’originario legame, esistente nella disciplina del codice civile, tra forma della società e suo contenuto, sia stato in qualche modo indebolito, se non addirittura spezzato, dall’uso che il legislatore ha nel tempo previsto dello strumento societario. Un uso, per il vero, molteplice, e che sotto il profilo degli scopi perseguiti presenta una varietà eterogenea[119] che non sembra possibile ricondurre a unità.

Tutte le particolari disposizioni previste dalla disciplina delle società a partecipazione pubblica, vuoi perché si tratta di regole già note al diritto societario (perché per altre fattispecie adottate), vuoi perché non intaccano né la struttura, né i principi cardine delle regole sull’organizzazione e sul funzionamento delle società di capitali, non sembrano, almeno singolarmente prese, idonee a generare un nuovo statuto di natura pubblicistica.

Si tratta infatti, in molti casi, di regole che è possibile trovare operanti in una data realtà societaria, senza che per ciò solo si possa ipotizzare una collocazione di queste ultime al di fuori dei tradizionali schemi del diritto azionario. Nella prassi sono invero frequenti, magari per via di regole statutarie, i casi di limitazioni per le remunerazioni degli amministratori, del numero dei medesimi, o anche relative all’oggetto della società.

Ciò posto, ci si deve allora chiedere anche se tali “deviazioni” dalle regole comuni, secondo una linea di pensiero per cui la “quantità” di un fenomeno, superata una determinata soglia, ne muta la qualità del medesimo, possano appunto, considerata la loro molteplicità, incidere sul profilo qualitativo, e quindi qualificatorio, della fattispecie,

In altri e più generali termini, ci si deve chiedere se nelle molteplici deroghe fissate nel tempo possa essere individuato in filigrana un disegno unitario, un’idea generale di società a partecipazione pubblica che tutte le giustifica.

Per fare ciò si rende necessario quindi entrare più in dettaglio di tali disposizioni “speciali” previste per le società pubbliche, avvertendo però che l’analisi che segue non ha pretese di esaustività e completezza, ritenendo allo scopo sufficiente individuare le tipologie generali di deroga, per ognuna delle quali verrà individuato qualche esempio di un complesso normativo che è molto articolato, anche a seguito del riordino effettuato col d.lgs 175 del 2016.

L’analisi che ci si ripropone di condurre nelle righe che seguono non potrà limitarsi alle regole dettate dal d.lgs. 175/2016, ma dovrà necessariamente prendere in considerazione un più ampio novero di disposizioni, tra le quali alcune non più in vigore, diversamente si rischierebbe di trascurare alcuni tratti caratterizzanti il fenomeno.

Non poche delle cennate abrogazioni sono state espressamente operate dall’art. 28 del TUSPP. In molti casi, probabilmente, si sarebbe potuto parlare di abrogazione tacita, ma, in linea con gli obiettivi di semplificazione e di creazione di una disciplina generale organica, che non possono non trovare declinazione anche in termini di chiarezza del rinnovato quadro normativo[120], il legislatore delegato ha opportunamente optato per una espressa indicazione di quanto delle disposizioni in materia deve intendersi abrogato.

In tale veloce disamina delle specialità delle società in parola sembra naturale iniziare dalle disposizioni che si occupano del profilo “genetico” delle società[121], ossia quelle che regolano, limitandola, la possibilità degli enti pubblici di costituire o comunque partecipare a società di capitali. Tra queste, si possono ricordare l’art. 13 del d.l. 4 luglio 2006, n. 223 [122] (c.d. decreto Bersani), e poi ancora l’art. 3, comma 27 e ss. della l. 24 dicembre 2007, n. 244[ 123], cui ha fatto seguito l’art. 14, comma 32, del d.l. 31 maggio 2010, n. 78 [124].

Si tratta, in termini generali, di disposizioni volte ad armonizzare il profilo in parola, da un lato, con il necessario perseguimento, per ogni ente pubblico, delle proprie finalità istituzionali, e, dall’altro, con il generale principio in materia di concorrenza, volto garantire la struttura concorrenziale del mercato. Disposizioni che sembra non possano legittimare l’ipotesi della costruzione di un sistema diverso e speciale.

Procedendo in tale disamina, di sicuro più significative sono le deroghe relative al momento operativo delle società.

Innanzitutto quelle relative all’oggetto sociale, o, meglio, alle limitazioni a questo relative. Un oggetto sociale che può quindi risultare limitato o esclusivo. Si pensi al già ricordato art. 13 del d.l. 4 luglio 2006, n. 223, ora abrogato dal d.lgs. 19 agosto 2016, n. 175, che però all’art. 4 fissa importanti limitazioni. O, ancora, all’art. 23 bis, comma 9, del d.l. 25 giugno 2008, n. 112 (articolo ora abrogato dal d.P.R. 18 luglio 2011, n. 133 a seguito di referendum popolare).

La prima disposizione stabiliva che le società, a capitale interamente pubblico o misto, costituite dalle amministrazioni pubbliche regionali e locali per la produzione di beni e servizi strumentali all’attività di tali enti o per lo svolgimento esternalizzato di funzioni amministrative di loro competenza, dovevano operare esclusivamente con gli enti costituenti ed affidanti, e non potevano svolgere prestazioni a favore di altri soggetti pubblici o privati, né in affidamento diretto né con gara, e non potevano partecipare ad altre società o enti, ponendo quindi restrizioni all’oggetto sociale, e così sancendone l’esclusività.

La seconda poneva il divieto, per alcune categorie di soggetti titolari della gestione di servizi pubblici locali, e per quelli cui è affidata la gestione delle reti, degli impianti e delle altre dotazioni patrimoniali degli enti locali, qualora separata dall’attività di erogazione dei servizi, di acquisire la gestione di servizi ulteriori ovvero in ambiti territoriali diversi, di svolgere servizi o attività per altri enti pubblici o privati, direttamente, o tramite loro controllanti o altre società che siano da essi controllate o partecipate, e di partecipare a gare.

Ma il diritto societario conosce da tempo esempi di società con oggetto sociale limitato, senza che per ciò solo tali società siano state escluse dal novero di quelle “gravitanti nella galassia societaria”. Si pensi, per esempio, ai casi delle società di ingegneria, delle società tra avvocati e a quelle sportive.  

Nella selva di disposizioni speciali che si appuntano sulle società a partecipazione pubblica si possono poi ricordare quelle dettate in tema di acquisto di beni e servizi, e il pensiero va quindi all’art. 6 del d.P.R. 7 settembre 2010, n. 168, ove si prevede l’obbligo per le società in house e per le società miste, a prescindere dalla quota di partecipazione pubblica, affidatarie della gestione di servizi pubblici locali a rilevanza economica, di applicare determinate regole per l’acquisto di beni e servizi[125].

Non sono mancate restrizioni relative al reclutamento del personale, ipotesi tra le quali si colloca, ad esempio, quanto previsto dalla norma di cui all’art. 7 del d.P.R. 7 settembre 2010, n. 168, per effetto della quale le società miste e quelle in house si devono dotare di particolari criteri e modalità per il reclutamento di personale e per il conferimento degli incarichi[126]. Regola, questa, analoga a quella dettata all’art. 19 del TUSPP.

Innumerevoli sono poi gli esempi di disposizioni che, in un modo o nell’altro, hanno imposto o impongono ancora delle riduzioni e razionalizzazioni della spesa. Si pensi, per fare solo un esempio, all’art. 6, co. 11, del d.l. n. 78 del 2010, in tema di spese per studi e consulenze, per relazioni pubbliche, convegni, mostre e pubblicità, nonché per sponsorizzazioni. Un tema, quello della riduzione della spesa, che ha rappresentato il vero filo conduttore di una serie molto lunga di interventi normativi che, oltre agli aspetti testé ricordati, hanno dettato regole speciali in tema di aumenti di capitale, di riduzione del numero degli amministratori, come anche del loro compenso, incidendo quindi su molteplici profili della governance. Temi per i quali non è possibile, né particolarmente utile, ripercorrere qui la fitta cronologia di provvedimenti legislativi degli ultimi anni[127], e sembra sufficiente ricordare invece, dato il carattere paradigmatico della disposizione, i limiti fissati oggi all’art. 11 del d.lgs. 175 del 2016, ove addirittura si fissa la regola generale dell’amministratore unico e si ribadisce il tetto di € 240.000 per i compensi.

Regole e procedure speciali sono state introdotte, con le Direttive del Ministro dell’economia e delle finanze del 24 aprile e del 24 giugno 2013, anche in tema di selezione dei componenti degli organi sociali delle società direttamente e indirettamente controllate da detto ministero.

Si tratta, in termini generali, di regole ispirate ai criteri del merito, della competenza e della onorabilità. Tra queste, si è previsto l’inserimento di una “clausola di onorabilità” negli statuti delle partecipate dal MEF che prevede più rigidi requisiti di eleggibilità e ipotesi di decadenza degli amministratori rispetto a quanto già previsto nel codice civile, nel Testo unico finanziario, nel Testo unico bancario e nella normativa settoriale rilevante[128]

Qualche tratto di specialità è dato rilevare anche in tema di controlli, per i quali, in deroga a quanto disposto dal codice civile, valgono talvolta schemi e paradigmi “pubblicistici”, in applicazione dei quali vengono quindi coinvolti la Corte dei conti, le autorità amministrative indipendenti[129] e apposite commissioni parlamentari. Invero, in virtù dell’interpretazione dell’art. 100 della Costituzione che ha esteso anche alle società derivanti dalla trasformazione degli enti pubblici economici in società per azioni il controllo della Corte dei conti, questa verifica la gestione economico-finanziaria di un gran  numero di società pubbliche. La nota sentenza della Corte costituzionale n. 466 del 28 dicembre 1993 ha infatti stabilito che il giudice contabile deve controllare le partecipate pubbliche fintantoché perduri la partecipazione maggioritaria dello Stato o di altri enti pubblici al capitale[130].

Infine, numerose sono le norme che ponevano limiti alla partecipazione a società da parte di soggetti pubblici, o che vietavano a questi di fornire capitali o finanziamenti alle medesime. A mero titolo di esempio, si pensi ai commi 27, 28 e 29, art. 3, della l. 24 dicembre 2007, n. 244 – non più vigenti –, con i quali si disponeva il divieto per regioni, province, comuni e gli enti pubblici non economici nazionali, regionali e locali, di assunzione e del mantenimento della qualità di socio in società aventi per oggetto attività di produzione di beni e di servizi non strettamente necessarie per il perseguimento delle proprie finalità istituzionali, o che non producevano servizi di interesse generale, e all’art. 6, comma 19, del d.l. 31 maggio 2010, n. 78 [131], che sanciva il divieto per le amministrazioni pubbliche di effettuare aumenti di capitale, trasferimenti straordinari, aperture di credito, nonché di rilasciare garanzie a favore delle società partecipate non quotate che avessero registrato, per tre esercizi consecutivi, perdite di esercizio ovvero che avessero utilizzato riserve disponibili per il ripianamento di perdite anche infrannuali.

Siffatte norme, però, come la dottrina non ha mancato di sottolineare[132], riguardano la capacità generale degli enti pubblici, e sembra quindi possano dirsi estranee alle dinamiche di governance delle società pubbliche. Insomma, si tratta di limiti esterni all’ordinamento di tali società, e che riguardavano esclusivamente il socio pubblico. Stesso discorso, come vedremo, può essere fatto con riferimento alle previsioni oggi contenute nel testo unico di riordino delle società pubbliche. Si può dunque a questo punto anticipare alcune considerazioni che verranno meglio sviluppate in seguito.

Nella grande varietà di disposizioni ricordate sembra infatti possibile distinguere due “tipi di specialità”. La prima, di tipo, per così dire, “debole”, non opera di per sé una deroga al diritto comune azionario, ma crea un obbligo di facere in capo all’azionista pubblico. Si è detto che in queste ipotesi «il diritto pubblico si ferma alla soglia dell’assemblea societaria»[133], comprime l’autonomia statutaria ma non incide sugli aspetti caratterizzanti dei modelli societari capitalistici adottati. La seconda tipologia di specialità, che quindi potremmo definire “forte”, non prevede invece il filtro dell’assemblea o del consiglio di amministrazione, ma è direttamente imposta da norme di rango legislativo che vanno a incidere sulla organizzazione corporativa di tali società.

Un numeroso complesso di disposizioni a carattere speciale dal quale sembra dunque possibile intravedere in filigrana quattro generali linee di azione e finalità del legislatore.

La prima di queste è quella del conseguimento di obiettivi di finanza pubblica, che, operando per tramite di misure e meccanismi di contenimento e di controllo finanziario, si presenta spesso strettamente legata con quella (seconda linea di azione) che può essere sinteticamente indicata come quella della moralizzazione, tanto da rendere alle volte veramente difficile una distinzione tra le due.

La terza direttrice persegue finalità “antileusive” dei vincoli propri dell’organizzazione e dell’attività degli enti pubblici. È infatti noto come questi, al fine di sottrarsi allo statuto giuridico pubblicistico, spesso facciano ricorso allo strumento societario per lo svolgimento di attività strumentali alla funzione pubblica. Un fenomeno non certo recente, anche se nel tempo sono mutate le forme in cui si manifesta, e che già in passato ha trovato una icastica sintesi verbale nella locuzione “fuga dallo Stato”[134]

Il quarto e ultimo obiettivo che ha guidato il legislatore nel predisporre deroghe allo statuto delle società azionarie è quello della limitazione delle distorsioni concorrenziali del mercato che la presenza delle società pubbliche potrebbe determinare[135].

Obiettivi, tutti, ben presenti al legislatore della riforma che infatti all’art. 18 della legge delega (l. 7 agosto 2015, n. 124) individua, tra gli altri, quali fini prioritarî del decreto legislativo per il riordino della disciplina in materia di partecipazioni societarie delle amministrazioni pubbliche, la tutela e la promozione della concorrenza, la razionalizzazione delle spese con conseguenti minori oneri economico-finanziari a carico delle finanze pubbliche.

Una specialità, quella in analisi, che inoltre, sempre in termini generali, e in una prospettiva diacronica, vede la contrapposizione tra deroghe riferite per lo più a società a statuto singolare, soprattutto nel passato, e tratti di specialità che tendono a generalizzarsi per macrocategorie di società pubbliche, nelle tendenze più recenti[136].

Tutte le particolarità normative ricordate non sembrano mettere in discussione i tratti identificativi dell’istituto societario, né derogano a profili essenziali della sua disciplina[137], così determinando al più specialità e non anomalie rispetto allo schema ordinario, e quindi sempre comunque riferibili al comune diritto azionario e in esso inquadrabili [138].

Le deroghe alla disciplina di diritto comune rinvenibili nel sistema, sebbene significative, per la loro frammentarietà, e il loro carattere a volte episodico, portano a concludere per la mancanza del carattere della sistematicità[139]. Un sistema alternativo che non sembra possa essere recuperato nemmeno per tramite di uno sforzo volto a individuare precise linee di fondo dei vari interventi legislativi in materia.

In altre parole, dal nutrito complesso di disposizioni dedicate al fenomeno società pubbliche non sembra possibile individuare un blocco minimo di regole comuni, da riconoscere quale statuto condiviso per la fattispecie, né, tanto meno, sembra possibile “distillare” da detta variegata serie di  disposizioni dei principî comuni[140].

In tale riflessione sulla natura delle società pubbliche e il loro statuto normativo di riferimento sembra inoltre debba essere riconosciuto carattere dirimente alla acuta considerazione, formulata in dottrina, secondo la quale le società in parola sono iscritte nel registro delle imprese, e vi sono iscritte come società. In altri termini, mercé il sistema di pubblicità legale delle imprese, esse dichiarano la loro natura societaria ai terzi, suscitando in essi il legittimo affidamento circa l’applicazione di un ben preciso statuto normativo[141]. Ebbene, tale affidamento deve essere rispettato[142], pena il conculcare la generale impostazione del nostro sistema  economico-imprenditoriale[143].

Le considerazioni appena svolte sembrano poter trovare una rassicurante conferma nel quadro di una rinnovata, attenta, e convincente proposta di interpretazione della dimensione del diritto commerciale.

Tale teoria, nell’ambito di una generale prospettiva funzionalista del diritto, ha alla base l’idea che il diritto commerciale, quale diritto del mercato – da intendersi quale categoria storica e non ontologica, in un contesto nel quale il mondo della materia ha ceduto il passo al mondo della conoscenza, con conseguente abbandono del c.d. paradigma industriale –  deve essere oggi inteso, nella società appunto post-industriale, quale “diritto dell’informazione”, perché il mercato è un sistema di informazioni decentrate e spontanee che può andare incontro a fallimenti a causa dell’asimmetria informativa che solo il diritto può efficacemente correggere[144].

E allora, se ogni decisione è funzione dell’informazione a essa connessa, il mercato, come anche lo stato e l’etica, vanno letti quali articolati sistemi informativi e, di conseguenza, la scienza giuridica, e così anche l’economia e l’etica, non possono non riconoscere a tale informazione, e agli innumerevoli processi decisionali a essa connessi, il giusto rilievo.

Conseguentemente, nel sistema giuridico si può e si deve individuare una clausola generale di trasparenza informativa che non può non specificarsi poi nei precetti di completezza, verità, chiarezza e completezza, e quindi anche affidabilità dell’informazione.

Una informazione che, come ricordato poco sopra, veicola riferimenti al diritto societario comune, che si impone quindi quale necessario paradigma.

E allora, abbandonare il dato formale, per accogliere approcci sostanzialistici avrebbe l’effetto di rendere meno certi i riferimenti di cui l’agire imprenditoriale necessita, minando alla base quel cennato legittimo affidamento, e così aggiungendo all’impresa ulteriori profili di rischio, oltre a quelli a essa coessenziali e quindi ineliminabili.

In altri termini, l’effetto che si produrrebbe sarebbe quello di  amplificare, oltre la sua ragionevole estensione, la dimensione dell’azzardo, e così in conclusione cancellare quel clima di fiducia minima necessario per favorire le dinamiche imprenditoriali, in favore di dimensioni più rischiose, e quindi – in ragione della minore attrattiva di un mercato così congegnato – dalle ridotte potenzialità di creazione di ricchezza, e in definitiva meno auspicabili nell’ottica dello sviluppo del sistema economico generale.

Pertanto, non pare possibile cedere alle suggestioni del metodo sostanzialistico.

Una conferma della prevalenza del criterio formale sembra rinvenibile anche nella legge, e precisamente all’art. 4 della l. 20 marzo 1975, n. 70, ove di stabilisce che «nessun nuovo ente pubblico può essere istituito o riconosciuto se non per legge», così stabilendo un chiaro principio di forma.

Un ulteriore argomento contro il metodo sostanzialistico, di carattere –  per così dire –  “storico”,  può infine essere rinvenuto nel quarto comma dell’art. 2449 c.c., che, nella formulazione in vigore fino alla novella del 2008 [145], faceva esplicitamente salve le disposizioni di leggi speciali. Una indicazione che, si è osservato, se intesa a richiamare il principio di specialità sarebbe decisamente superflua, e che quindi deve essere intesa nel senso che la partecipazione pubblica in società di diritto privato, eccettuato appunto quanto disposto da leggi speciali, è destinata a trovare la propria regolamentazione sempre e soltanto nelle disposizioni del codice civile[146].

Malgrado, come detto, il testo attuale dell’art. 2449 c.c. non presenti più tale riferimento alle leggi speciali, sembra comunque che la formulazione previgente possa essere utilmente richiamata, a fortiori, nelle presenti riflessioni.

 

 

5.1. – Le posizioni della giurisprudenza sulla natura delle società pubbliche

 

Estremamente variegato si presenta anche il panorama giurisprudenziale in tema di natura delle società pubbliche, non immune da oscillazioni che non hanno certo contribuito a individuare una sicura linea di ricostruzione del fenomeno, e nel quale pare comunque possibile individuare alcune generali linee di tendenza che sembrano seguire i confini dei riparti di giurisdizione.

La giurisprudenza amministrativa – in particolare quella del Consiglio di Stato – non ha individuato profili di incompatibilità tra l’utilizzo del modello societario e le finalità pubbliche, costituendo le società di capitali, si è infatti detto, un «neutro strumento organizzatorio» delle attività pubbliche[147], e indicando spesso quelle a partecipazione pubblica come significativo momento di quel fenomeno di affievolimento dello scopo lucrativo[148]. Considerazioni queste che sono state utilizzate per concludere poi per la natura pubblica di tali società[149]; natura pubblica che è stata posta in diretto collegamento con determinate circostanze, quali il perseguimento di una finalità pubblica, l’impiego di risorse pubbliche, e la presenza di un regime giuridico in deroga allo statuto del diritto azionario.

Nessun valore dirimente è stato invece riconosciuto all’eventuale classificabilità della società quale organismo di diritto pubblico, che ha tutt’al più trovato applicazione come criterio di conferma della natura pubblica già riconosciuta.

Una giurisprudenza, quella del Consiglio di Stato, che, come è noto, ha spesso usato a proprio sostegno alcuni importanti arresti della Corte costituzionale, in particolare la sentenza n. 32 del 1992 e la già ricordata n. 466 del 1993.

Meno lineare, o, se si vuole, maggiormente dialettico è il percorso seguito dalle sezioni unite della Corte di cassazione.

Un percorso che può essere tracciato avendo quale punto di partenza la sentenza n. 4989 del 1995 [150], caso noto anche come “Siena parcheggi”, e relativo a una s.p.a. con partecipazione maggioritaria del soggetto pubblico, costituita appunto dal comune di Siena, ai sensi dell’art 22 della L. 142/90, per la gestione del servizio parcheggi e sosta degli autoveicoli. In tale occasione la Corte ha affermato la netta distinzione tra la sfera del soggetto pubblico e società partecipata, e la assoluta autonomia di quest’ultima. Una conclusione cui si è arrivati attraverso un percorso ermeneutico che ha il proprio fulcro nella disciplina specifica della società oggetto del giudizio. Nella sentenza viene infatti posto in evidenza la mancanza, nelle regole relative (legge e convenzione-quadro), di una disciplina derogatoria rispetto a quella tipica e propria delle società di capitali.

Tale linea di pensiero ha trovato conferma poco tempo dopo – precisamente nel 1997 – con la sentenza n. 2738 [151], con la quale le sezioni unite della Corte hanno fatto applicazione dei medesimi criteri interpretativi al caso, questa volta, di una società totalmente partecipata da enti pubblici[152].

In un primo momento, quindi, è possibile individuare una adesione alla dottrina che attribuisce rilievo preminente al profilo formale, pur sempre sottolineando la necessità di una attenta valutazione della specifica disciplina dell’ente societario di volta in volta oggetto di valutazione.

Tale orientamento è stato però abbandonato in un momento successivo. Il passaggio ad altra soluzione interpretativa è stato inizialmente conseguito attraverso una articolata analisi della concreta fattispecie volta a individuare l’eventuale esistenza di uno speciale regime giuridico idoneo a determinare il particolare inquadramento[153]. Nella ricostruzione di tale speciale regime si è alle volte fatto leva anche sulla nozione di organismo di diritto pubblico[154]. Ma in un breve arco di tempo, compiuto ormai il “salto” concettuale, non sono mancati arresti giurisprudenziali nei quali il percorso argomentativo si fa molto più tranchant, per cui, una volta accertata la partecipazione pubblica totalitaria, se ne è dedotta, senza ulteriore indagine ermeneutica, la natura pubblica della società, e l’attenzione si è spostata sulla natura pubblica o meno dell’interesse perseguito[155].

Secondo altra e più recente posizione, le cui prime manifestazioni – come spesso accade in quei momenti, non traumatici ma “fluidi”, di passaggio da una “sensibilità” giuridica ad altra – invero si sovrappongono temporalmente a quelle, di diverso tenore, appena sopra ricordate, la Suprema corte ha affermato che la società in mano pubblica «non muta la sua natura di soggetto di diritto privato solo per il rapporto di dipendenza con l’ente pubblico, e tutti i rapporti che ne derivano, restano di assoluta autonomia», sicché all’ente pubblico «non è consentito incidere unilateralmente sullo svolgimento di questi e sull’attività della società mediante l’esercizio di poteri autoritativi o discrezionali, non prevedendo la legge alcuna apprezzabile deviazione, rispetto alla comune disciplina privatistica delle società»[156].

Insomma, la Corte di cassazione, pur con qualche limitato cedimento[157], è sempre stata molto poco permeabile alla visione sostanzialistica del fenomeno[158].

Anche se, per completezza, deve essere ricordato che in varie occasioni, essenzialmente al fine di evitare il rischio di un sostanziale svuotamento – o almeno di un grave indebolimento – della giurisdizione della corte contabile in punto di responsabilità degli amministratori, le sezioni unite hanno teso a privilegiare un approccio più “sostanzialistico”, sostituendo quindi il criterio eminentemente soggettivo – che fonda la giurisdizione della Corte dei conti nella condizione giuridica pubblica dell’agente – con un criterio oggettivo che fa leva sulla natura pubblica delle funzioni espletate e delle risorse finanziarie a tal fine adoperate. Si è così affermato che quando è in discussione il riparto della giurisdizione tra Corte dei conti e giudice ordinario rileva primariamente il rapporto di servizio tra l’agente e la pubblica amministrazione, e che per tale può intendersi anche una relazione con la pubblica amministrazione caratterizzata dal fatto di investire un soggetto, altrimenti estraneo all’amministrazione medesima, del compito di porre in essere in sua vece un’attività, a nulla rilevando, sotto tale prospettiva, né la natura giuridica dell’atto di investitura – provvedimento, convenzione o contratto –  né quella del soggetto che la riceve, sia essa una persona giuridica o fisica, privata o pubblica[159].

La posizione della giurisprudenza penale di legittimità è stata probabilmente condizionata dalla preoccupazione che la sottrazione alla sfera pubblica potesse determinare una “fuga” dal diritto penale. La particolare sensibilità generata nel giurista pratico dalle peculiarità delle fattispecie al suo giudizio sottoposte sembra quindi – comprensibilmente – avere in qualche modo influito sulla scelta della ricostruzione del fenomeno, nella quale si è attribuito rilievo predominante  alla circostanza che la società in mano pubblica esercita un pubblico servizio, per arrivare così ad assegnare agli organi della società la qualifica di pubblici ufficiali o incaricati di pubblico servizio[160].

La posizione della Corte dei conti si segnala, rispetto alle precedenti, per il diverso valore in alcune occasioni attribuito al riconoscimento della qualifica di organismo di diritto pubblico. Infatti, come visto, mentre per la Corte di cassazione si tratta di elemento irrilevante, e per il Consiglio di Stato è tutt’al più utile per trovare conferma di una qualifica fondata su altri elementi, per la Corte dei conti si tratta di qualità in grado di attrarre l’ente societario nell’orbita pubblicistica.

La Corte, nello sviluppare tale tipo di ragionamento, prende le mosse ricordando le motivazioni con le quali altri giudici hanno limitato gli effetti della qualifica di organismo di diritto pubblico. Come è noto, tali ragioni trovano fondamento in una precisa differenziazione tra le finalità perseguite dalla normativa comunitaria in tema di appalti, e quelle relative alle disposizioni di natura pubblicistica. Queste ultime, infatti, sono volte al conseguimento della legalità, dell’efficienza e della economicità dell’azione amministrativa, mentre le prime hanno la sola finalità dello sviluppo della concorrenza effettiva nel settore degli appalti pubblici. Affermano però i giudici contabili che la normativa europea, per quanto nata con determinate finalità, non può non costituire un elemento di rilievo ai fini dell’applicazione della normativa nazionale, che potrebbe presentare anche finalità diverse. Ciò, è stato affermato, perché altrimenti si attribuirebbe all’opera di definizione una valenza parziale, così confondendo il profilo attinente all’essenza con quello relativo alle modalità della sua azione. Si è infatti detto che sminuire il rilievo della qualifica di organismo di diritto pubblico sarebbe un errore perché qualsiasi operazione definitoria non può che avere una valenza ontologica, e non meramente funzionale, essendo essa finalizzata a individuare ciò che l’oggetto è nella sua essenza, a prescindere dalle forme assunte.

In altri termini, la Corte dei conti ha criticato la scelta di rimettere la valutazione alla prevalenza degli elementi privatistici su quelli pubblicistici o viceversa, individuando nelle proporzioni di questi ciò che determina la natura dell’ente.

Secondo i giudici contabili, poi, nella normativa comunitaria l’organismo di diritto pubblico è definito facendo riferimento a indici di indiscussa pubblicità, che ne connotano in maniera sostanziale l’essenza, e lo attraggono alla sfera pubblicistica.

Una connotazione sostanzialistica che non può non avere riflessi anche al di fuori della materia degli appalti, e che quindi non è limitata nei suoi effetti dal fine specifico per cui è nata.

Il ragionamento si chiude con quella che sembra, in verità, una petizione di principio, perché si è affermato che «la circostanza che un ente sia soggetto alla normativa europea in tema di appalti trova il suo fondamento nella sua natura pubblica, la quale, a sua volta, lo rende sottoposto ad una serie di disposizioni nazionali».

In definitiva, quello della Corte dei conti altro non sembra che una sofisticata versione di quell’approccio sostanzialistico da sempre caro alla giustizia amministrativa.

 



[1] Aristotele, Politica, libro VII, a cura di C.A. Viano, Milano, 2002, 4.

[2] La locuzione corporate governance, di frequente uso quotidiano tanto per i giuristi quanto per i cultori delle dottrine manageriali, a fronte di un uso smodato, che forse appunto sconfina nell’abuso, presenta, nelle interpretazioni della dottrina una molteplicità di possibili significati, tutti comunque facenti riferimento in un modo o nell’altro a criteri di distribuzione dei poteri. Una ineliminabile polisemia, quella dell’espressione corporate governance, sicuramente dovuta anche ai differenti climi culturali nei quali si è sviluppato il relativo dibattito (v. A. Gambino, Governo societario e mercati mobiliari, in Giur. comm., 1997, I, 788), e alle caratteristiche del sistema finanziario di riferimento (si v. sul punto: G. Rossi, Concorrenza, mercati finanziari e diritto societario, in Riv. soc., 1999, 1305 ss; P.G. Jaeger, P. Marchetti, Corporate governance, in Giur. comm., 1997, I, 625 ss.; M. Maugeri, Regole autodisciplinari e governo societario, in Giur. comm., 2002, I, 88, nt. 2). Secondo E. Wymeersch, Current developments in corporate governance in Europe, in Le nuove funzioni degli organi societari: verso la Corporate Governence?, Atti del Convegno Courmayeur 28-29 settembre 2001, Milano, 2002, 65, «[c]orporate governance is an ambiguos notion. It has no definite meaning. It has become clear that it refers to a process, and not to an objective». W. Bessler, F.R. Kaen, H.C. Sherman, Going Public: A Corporate Governance Perspective, in Comparative corporate governance – The state of the art and emerging research, a cura di K.J. Hopt, H. Kanda, M.J. Roe, E. Wymeersch, S. Pridge, Oxford, 1998, 570, «corporate governance is an intractable term»; L. Enriques, Codici di corporate governance, diritto societario e assetti proprietari: alcune considerazioni preliminari, in Banca impresa società, 2003, 97. Secondo L.A. Bianchi, Corporate governance, in Riv. soc., 1996, 405 (scritto al quale si rinvia per un primo orientamento bibliografico nella sterminata letteratura in materia), la sola ricognizione dei molteplici aspetti giuridici che possono essere ricondotti a tale problematica è già di per sé operazione complessa e articolata. L’espressione in parola, ad ulteriore riprova delle difficoltà che presenta per gli studiosi, «non sembra facilmente traducibile nella nostra lingua; e i tentativi in questo senso non appaiono averne reso il significato in modo preciso. Tanto vale impiegarlo nella forma originale», così P.G. Jaeger, P. Marchetti, Corporate governance, cit., 625. Gli stessi Aa., 643, ricordano che la corporate governance riguarda problemi che solo apparentemente hanno carattere tecnico-giuridici, ma in realtà sono carichi di implicazioni politico-economiche e politico-legislative, e individuano, in subiecta materia, un complicato problema definitorio. Dell’avviso che le incertezze sulla nozione altro non siano che il riverbero della congenita imperfezione dello stesso diritto societario M.R. Ferrarese, Della corporate governance, ovvero dell’imperfezione del diritto societario, in Aa. Vv., Governo dell’impresa e mercato delle regole, Scritti giuridici per Guido Rossi, t. I, Milano, 2002, 387 ss. L’A. svela una sorta di doppiezza semantica nel concetto, che si presenta al contempo come «un contenitore di problemi intrinseci dell’organizzazione societaria e come un repertorio di soluzioni degli stessi», così a 394. Sul tema v. anche J.R. Macey, Corporate governance. Promises kept, promises broken, Princeton-Oxford, 2008, 1 ss.

[3] P. Chiti, Le carenze della disciplina delle società pubbliche e le linee direttrici per un riordino, in Giornale dir. amm., 2009, 1115 ss., parla di disordine legislativo. F. Fimmanò, L’ordinamento delle società pubbliche tra natura del soggetto e natura dell’attività , in www.ilcaso.it, II, 245/2011, e poi anche in Le società pubbliche, a cura di F. Fimmanò, Milano, 2011 (dal quale si cita), 25, definisce “tormentata” la legiferazione in materia di società pubbliche. P. Benazzo, La governance nelle società a partecipazione pubblica tra diritto comune e diritto speciale, in Riv. dir. soc., 2011, 17, parla di una realtà nella quale l’incertezza è «enfatizzata da un dato normativo frammentato, disorganico e, spesso, distonico». Sul punto, per considerazioni analoghe, anche C. Ibba, Le società a partecipazione pubblica: tipologia e discipline, in Le società pubbliche, a cura di C. Ibba, M.C. Malaguti, A. Mazzoni, Torino, 2011, 1.

[4] T. Ascarelli, Tipologia delle società per azioni e disciplina giuridica, in Riv. soc., 1959, 1001

[5] F. Merusi, Sentieri interrotti della legalità, Bologna, 2007, 11, osserva che il Parlamento, costretto a privatizzare, cerca comunque «di non perdere la “presa” su organizzazioni che, almeno formalmente, ha privatizzato.  E si inventa il “diritto privato” speciale che altro non è che una “riserva” di potere ancora pubblico, nascosto sotto apparenti rinvii all’autonomia privata». Sul punto di v. anche F. Fimmanò, L’ordinamento delle società pubbliche tra natura del soggetto e natura dell’attività, cit., 30 ss.

[6] Il risalente dibattito sulla natura delle società a partecipazione pubblica, sui rapporti tra dette società e gli enti soci, sulla presunta o reale modificazione dello schema causale delle società, e sulle modalità di azione delle società pubbliche, non ha perso, col passare del tempo, interesse e vivacità. Sul tema si v. i fondamentali lavori: T. Ascarelli, Appunti di diritto commerciale (Società e associazioni commerciali), Roma, 1983, 350 ss.; G. Frè, Nuovi provvedimenti e nuovi problemi in tema di società azionarie, in Riv. dir. comm., 1936, I, 577 ss; G. Ferri, Azionariato di Stato e natura giuridica dell’ente, in Foro it., 1941, I, 199 ss.; A. Arena, Le società commerciali pubbliche (natura e costituzione) – Contributo allo studio delle persone giuridiche, Milano, 1942; L. Mengoni, Sul concetto di azienda con prevalente partecipazione statale, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1958,  153 ss; M.S. Giannini, Le imprese pubbliche in Italia, in Riv. soc., 1958, 227 ss.; A. Rossi, Società con partecipazione pubblica, in Enc. giur., XXIX, Bologna-Roma, 1988, 1 ss.; F. Goisis, Contributo allo studio delle società in mano pubblica come persone giuridiche, Milano, 2004; M. Renna, Le società per azioni in mano pubblica, Torino, 1997, 1 ss.; R. Rordorf, Le società “pubbliche” nel codice civile, in Società, 2005, 423 ss.; G. Di Chio, Società a partecipazione pubblica, in Dig. disc. priv., sez. comm., vol. XIV, Torino, 1997, 158 ss; G. Cottino, Partecipazione pubblica all’impresa privata ed interesse sociale, in Arch. giur., 1965, e poi anche in Scritti in memoria di Alessandro Graziani, I, Impresa e società, Napoli, 1968, 399 ss., dal quale si cita. Sul tema si segnala anche l’importante sentenza Cass., sez. un., 6 maggio 1995, n. 4989, in Foro it., 1996, I, 1363, con nota di F. Caringella.

[7] P. Montalenti, Le società a partecipazione pubblica: spunti di riflessione, in NDS, 2010, 10.

[8] Per una analisi del significato del sintagma “società pubbliche” si v. G. Napolitano, Le società pubbliche tra vecchie e nuove tipologie, in Riv. soc., 2006, 1000 ss. Avverte dell’ambiguità che ha ormai assunto la locuzione “società pubbliche”, in ragione delle svariate tipologie di società ad essa riconducibili, C. Ibba, Le società a partecipazione pubblica, oggi, in NDS, 3, 2010, 20. M. Cammelli, M. Dugato, Lo studio delle società a partecipazione pubblica: la pluralità dei tipi e le regole del diritto privato. Una premessa metodologica, in Studi in tema di società a partecipazione pubblica, a cura di M. Cammelli e M. Dugato, Torino, 2008, 1, parlano di «decine di “tipi” di società (o di singole società), disciplinati da norme e da principi differenti, il cui unico denominatore comune finisce per essere la presenza di un ente pubblico (primario o derivato) nel capitale sociale»; in termini molto simili si esprime anche P. Benazzo, La governance nelle società a partecipazione pubblica tra diritto comune e diritto speciale, cit., 17; M. Clarich, Le società partecipate dallo Stato e dagli enti locali fra diritto pubblico e diritto privato, in Le società a partecipazione pubblica, a cura di F. Guerrera, Torino, 2010, 1 ss. Per la necessità di un riordino della disciplina in subiecta materia si v., in part., Assonime, Principi di riordino del quadro giuridico delle società pubbliche, 2008, consultabile sul sito www.assonime.it; Id., Evoluzione del quadro normativo in tema di società a partecipazione pubblica: misure volte al controllo e al contenimento della spesa pubblica, Circolare n. 21 del 5 luglio 2013, 1 ss., ivi.

[9] M.T. Cirenei, Le società per azioni a partecipazione pubblica, in Trattato delle società per azioni diretto da G.E. Colombo e G.B. Portale, vol. 8, Torino, 1992, 4; C. Ibba, Le società a partecipazione pubblica: tipologia e discipline, cit., 1 ss.; M. Cammelli, M. Dugato, Lo studio delle società a partecipazione pubblica: la pluralità dei tipi e le regole del diritto privato. Una premessa metodologica e sostanziale, cit., 1 ss. A. Mazzoni, Limiti legali alle partecipazioni societarie di enti pubblici e obblighi correlati di dismissione: misure contingenti o scelta di sistema?, in Le società pubbliche, cit., 63, osserva che le società pubbliche sono un classico esempio di pseudo-categoria o di non-categoria.

L’espressione, però, come è noto, è stata usata anche per il recente d.lgs 19 agosto 2016, n. 175, denominato appunto “Testo unico in materia di società a partecipazione pubblica”.

[10] A. Blandini, La nomina e la cessazione dell’organo amministrativo di società pubbliche, in Società, banche e crisi d’impresa. Liber amicorum Pietro Abbadessa, diretto da M. Campobasso, V. Cariello, V. Di Cataldo, F. Guerrera, A. Sciarrone Alibrandi, vol. 2, Società: amministrazione, scioglimento, gruppi, srl, cooperative, Torino, 2014, 919.

[11] G. Rossi, Le società partecipate fra diritto privato e diritto pubblico, in Le “nuove” società partecipate e in house providing, a cura di S. Fortunato e F. Vessia, Milano, 2017, 34 s., giudica improprio l’uso della locuzione “testo unico” per l’essere la materia regolata solo in parte dalle disposizioni del d.lgs 175 del 2016.

[12] A. Mignoli, Società e giurisprudenza, in Riv. soc., 1964, 513; G. Rossi, La società per azioni con partecipazione pubblica, in I grandi problemi della società per azioni nelle legislazioni vigenti, a cura di M. Rotondi, II, Padova, 1976, 1965 ss.; S. Cassese, Azionariato di Stato, in Enc. dir., vol. IV, Milano, 1959, 774; A. Rossi, Società con partecipazione pubblica, in Enc. giur., XXIX, Roma, 1993, 1; A. Arena, Le società commerciali pubbliche (natura e costituzione). Contributo allo studio delle persone giuridiche, cit., 16; G. Ripert, Les aspects juridiques du capitalisme moderne, Paris, 1951, 317 ss.

[13] Le considerazioni riportate nel testo si ispirano a quel concetto epistemologico mirabilmente sintetizzato nelle note parole di A.-G. Haudricourt, La tecnologie, science humaine. Recherches d’histoire et d’ethnologie des techniques, Paris, 1964, 38: «Si l’on peut étudier le même objet de différents points de vue, il est par contre sûr qu’il y a point de vue plus essential que les alters, celui qui peut donner les lois d’apparition et de transformation de l’objet. Il est clair que pour un objet fabriqué c’est le point de vue humain, de sa fabrication et de son utilization par les homes,…».

[14] F.B. Mersi, G. Tabucchi, Introduzione , in L’impresa pubblica, a cura di S. Cassese, A. Giannola, A. Massera, F.B. Mersi, G. Tabucchi, Milano, 1977, 12 s. Per una analisi delle relazioni tra efficienza paretiana e performance del mercato si v. F.M. Bator, The Anatomy of Market Failure, in Quarterly Journal of Economics, 1958, vol. 72, n. 3, 351 ss.

[15] Cfr. R.E. Cameron, France and the Economic Development of Europe, Princeton, 1961, in part. 99 ss.; A. Gerschenkron, Economic Backwardness in Historical Perspective, Cambridge (MA), 1962, 3 ss.; K.M. Murphy, A. Shleifer, R.W. Vishny, Industrialization and the Big Push, in The Journal of Political Economy, 1989, vol. 97, n. 5, 1003 ss.; N. Bruck, The Role of Development Banks in the Twenty-First Century, in Journal of Emerging Markets, 1998, vol. 3, n. 39, 67  ss.; B. Armendáriz de Aghion, Development Banking, in Journal of Development Economics, 1999, vol. 58, 83 ss.; E.L. Yeyati, A. Micco, U. Panizza, Should the Government Be in the Banking Business? The Role of State-Owned and Development Banks, RES Working Papers 4379, Inter-American Development Bank, 2004, 4 ss.; R. Levine, Finance and Growth: Theory and Evidence, in Handbook of Economic Growth, a cura di P. Aghion, S.N. Durlauf, Amsterdam, 2005, 865 ss.

[16] Cfr. Y. Ahroni, The Evolution and Management of State-Owned Enterprises, Cambridge (MA), 1986, 1 ss.; M.M. Shirley, The Reform of State-Owned Enterprises: Lessons from World Bank Lending, a cura di T.W. Bank, Washington, 1989, consultabile on-line sul sito http://documents.worldbank.org, 1 ss.,; C. Shapiro, R.D. Wilig, Economic Rationales for the Scope of Privatization, in The Political Economy of Public Sector Reform and Privatization, a cura di E.N. Suleiman, J. Watwrbury, London, 1990, 55 ss.; M.M. Shirley, J. Nellis, Public Enterprise Reform: The Lessons of Experience, Washington, 1991, consultabile on-line sul sito http://documents.worldbank.org, 1 ss.; O. Williamson, Public and Private Buraucracies: a Transaction Cost Economics Perspective, in Journal of Law, Economics and Organization, 1999, vol. 15, n. 1, 306 ss.

[17] I. Bremmer, The End of the Free Market: Who Wins the War Between States and Corporations?, New York, 2010, trad. it.  La fine del libero mercato. Chi vincerà la guerra tra lo Stato e le imprese?, Milano, 2010, 5.

[18] Cfr. A.O. Hirschman, Shifting Involvements: Private Interest and Public Action, Princeton, 1982, 1 ss.; R.F. Durant, J.S. Legge jr., Politics, Public Opinion, and Privatization in France: Assessing the Calculus of Consent for Market Reforms, in Public Administration Review, vol. 62, n. 3, 307 ss.; D. Stark, Path Dependance and Privatization Strategies in East-Central Europe, in East European Politics and Societies, 1992, vol. 6, n. 1, 17 ss.;  P.P. Kuczynski, Privatization and the Private Sector, in World Development, 1999, vol. 27, n. 1, 215 ss.; G.M. De Paula, J.C. Ferraz, M. Iootty, Economic Liberalization and Changes in Corporate Control in Latin America, in Developing Economies, 2002, vol. 40, n. 4, 482; B. Bortolotti, M. Fantini, D. Siniscalco, Privatisation Around the World: Evidence from Panel Data, in Journal of Public Economics, 2004, vol. 88, n. 1-2, 305 ss.; W.L. Megginson, The Financial Economics of Privatization, New York, 2005, 14 ss.; C.F.K.V. Inoue, S.G. Lazzarini, A. Musacchio, Leviathan as a Minority Shareholder: Firm-Level Preformance Implications of Equity Purchases by the Government, in Academy of Management Journal, 2013, vol. 56, n. 6, 1775 ss.

[19] R. Levine, Finance and Growth: Theory and Evidence, cit., 865 ss.

[20] N. Bruck, The Role of Development Banks in the Twenty-First Century, cit., 67  ss.; E.L. Yeyati, A. Micco, U. Panizza, Should the Government Be in the Banking Business? The Role of State-Owned and Development Banks, cit., 4 ss.; B. Armendáriz de Aghion, Development Banking, cit., 83 ss.; R.E. Cameron, France and the Economic Development of Europe, cit., in part. 99 ss.; A. Gerschenkron, Economic Backwardness in Historical Perspective, cit., 3 ss.

[21] P. Krugman, The Current Case for Industrial Policy, in Protectionism and World Welfare, a cura di D. Salvatore, Cambridge, 1993, 160 ss.; S. Rodrik, One Economics, Many Recipes: Globalization, Institutions, and Economic Growth, Princeton, 2007, 184 ss.; A. Marshall, Principles of Economics, London, 1920, 19 ss.

[22] A.O. Hirschman, The Strategy of Economic Development, New Haven, 1958, passim.

[23] K.M. Murphy, A. Shleifer, R.W. Vishny, Industrialization and the Big Push, cit., 1003 ss. Gli Aa. analizzano la teoria formulata negli anni Quaranta del secolo scorso da P.N. Rosenstein-Rodan, Problems of Industrialisation of Eastern and South-eastern Europe, in Economic Journal, 1943, vol. 53, 201 ss.

[24] S. Rodrik, Industrial Policy for the Twenty-First Century, CEPR Discussion Paper, 2004, 9 ss., consultabile on-line sul sito https://www.sss.ias.edu; Id., One Economics, Many Recipes: Globalization, Institutions, and Economic Growth, cit., 105 s.

[25] O.D. Hart, A. Shleifer, R.W. Vishny, The Proper Scope of Government: Theory and an Application to Prisons, in Quarterly Journal of Economics, 1997, vol. 112, n. 4, 1152. Una visione condivisa da O. Williamson, Public and Private Buraucracies: a Transaction Cost Economics Perspective, cit., 306 ss., che, nell’analizzare la contrapposizione tra governance pubblica e privata, introduce il concetto di probità, ossia la necessità di lealtà e rettitudine, in part. 322.

[26] Y. Ahroni, The Evolution and Management of State-Owned Enterprises, cit., 1 ss.; C. Shapiro, R.D. Wilig, Economic Rationales for the Scope of Privatization, cit., 55 ss.; M.M. Shirley, The Reform of State-Owned Enterprises: Lessons from World Bank Lending, cit., 1 ss. Secondo M.M. Shirley, J. Nellis, Public Enterprise Reform: The Lessons of Experience, cit., 17, «[n]oncommercial objectives include the use of public enterprises to promote regional development, job creation, and income redistribution; they often involve taking on or maintaining redundant workers, pricing goods and services below market (sometimes even below costs), locating plants in uneconomic areas, or keeping uneconomic facilities open».

[27] G.A. McDermott, Embedded Politics: Industrial Networks and Institutionals Change in Postcommunism, Ann Arbor, 2003, 22.

[28] A. Chong, F. López-de-Silanes, Privatization in Latin America: Mythsand Reality, Washington, 2005, xviii e passim; A. Shleifer, State Versus Private Ownership, in Journal of Economic Perspective, 1998, vol. 12, n. 4, 133 ss.; A. Shleifer, R.W. Vishny, Politicians and Firms, in Quarterly Journal of Economics, 1994, vol. 109, 995 ss.

[29] Le partecipate pubbliche «attive» rappresentano lo 0,2 per cento delle imprese, ma la loro quota di addetti è il 5,9 per cento del nostro produttivo. Entrando più in dettaglio al dato occupazionale, mentre la media del nostro sistema produttivo è di circa 3,7 addetti per impresa, il dato relativo alle partecipate sale fino a 123,8. Indubbiamente, alla base di tale dato stanno le caratteristiche strutturali proprie delle attività delle partecipate pubbliche e delle soluzioni organizzative adottate, ma si tratta di un salto dimensionale che legittima il sospetto che vi sia un sovradimensionamento della forza lavoro determinato da esigenze di tipo sociale e politico. Cfr. G. Mele, Società e servizi pubblici locali: diffusione e dimensione economico-finanziaria, in Società pubbliche e servizi locali, a cura di A. Vigneri e M. Sebastiani, Santarcangelo di Romagna, 2016, 138.

[30] M. Faccio, Politically Connected Firms, in American Economic Review, 2006, vol. 96, n. 1, 369 ss.; A.O. Krueger, Government Failures in Development, in Journal of Economic Perpsectives, 1990, vol. 4, n. 3, 3 ss. Vi è stato chi ha messo in evidenza il collegamento tra finanziamenti statali e fattori politici quali elezioni e relative raccolte di donazioni: S. Claessens, E. Feijen, L. Laeven, Political Connections and Preferential Acces to Finance: the Role of Campaign Contributions, in Journal of Financial Economics, 2008, vol. 88, 554 ss.; I.S. Dinç, Politicians and Banks: Political Influences on Government-Owned Banks in Emerging Markets, in Journal of Financial Economics, 2005, vol. 77, 453 ss.; P. Sapienza, The Effects of Government Ownership on Bank Lending, in Journal of  Financial Economics, 2004, vol. 72, n. 4, 357 ss.

[31] A. Musacchio, S.L. Lazzarini, Reinventing State Capitalism. Leviathan in Business, Brazil and Beyond, Cambridge (MA)-London , 2014, 65 ss.

[32] D.C. North, Institutions, Institutional Change and Economic Performance, Political Economy of Institutions and Decisions, Cambridge, 1990, 92 ss.

[33] W.L. Megginson, The Financial Economics of Privatization, cit., 14 ss.; B. Bortolotti, M. Fantini, D. Siniscalco, Privatisation Around the World: Evidence from Panel Data, cit., 305 ss.

[34] L.A. Bebchuk, M.J. Roe, A theory of Path Dependance in Corporate Ownership and Governance, in Stanford Law Review, 1999, vol. 52, n. 1, 305 ss.; D. Stark, Path Dependance and Privatization Strategies in East-Central Europe, cit., 17 ss..; Id., Recombinant Property in East European Capitalism, in American Journal of Sociology, 1996, vol. 101, n. 4, 993 ss.

[35] I. Bremmer, The End of the Free Market: Who Wins the War Between States and Corporations?, cit., XIV.

[36] Tra i tanti esempi possibili, si pensi alla messicana Cemex, terzo produttore al mondo di cemento, alla società mineraria brasiliana Companhia Vale Rio Dolce, realtà a proprietà privata, ma strettamente associate ai rispettivi governi nazionali, e, ancora, si pensi a giganti dell’energia pubblici quali le cinesi National Petroleum Corporation, Petro China e Sinopec, la brasiliana Petrobras, la messicana Pemex, e le russe Rosneft e Gazprom. Un fenomeno – che si caratterizza perché il management risponde innanzitutto a referenti politici, e non agli azionisti – che si è potuto prima osservare in Brasile, Russia, India e Cina (i c.d. paesi BRIC), e che però, all’esito delle operazioni di salvataggio poste in essere in numerosi paesi in occasione della crisi drammaticamente esplosa nel 2008, è oggi presente in svariati altri paesi. Si pensi infatti alle acquisizioni statali di quegli anni di grandi banche e assicurazioni americane, britanniche, e non solo.

[37] I. Bremmer, The End of the Free Market: Who Wins the War Between States and Corporations?, cit., 39.

[38] E. Cianci, Nascita dello Stato imprenditore in Italia, Milano, 1977, 5 ss.

[39] L. Cameriero, Storia e funzione dell’impresa pubblica: dall’IRI alle società pubbliche, in Le società pubbliche in house e miste, a cura di R. De Nictolis e L. Cameriero, Milano, 2008, 1 ss. Significativi esempi dell’importanza dell’utilizzo dello strumento dell’ente pubblico economico sono l’Eni- Ente Nazionale Idrocarburi, istituito con la l. n. 163 del 1953, l’ENEL- Ente Nazionale per l’Energia Elettrica, istituito con la l. n. 1643 del 1962, e ancora l’EFIM-Ente Partecipazione e Finanziamenti Industria Manufatturiera, istituito con il d.P.R. n. 38 del 1962.

[40] Ministero soppresso nel 1993 quale effetto dell’esito di un referendum popolare.

[41] F. Merusi, D. Iaria, Partecipazioni pubbliche, in Enc. giur., XXII, Roma, 1994, 4.

[42] G. Minervini, Società a partecipazione pubblica, in Giur. comm., I, 1982, 182.

[43] F. Roversi Monaco, Indirizzo delle partecipazioni statali e prospettive di riforma, in Studi in onore di Vittorio Bachelet, III, 1987, 487 ss.

[44] Per una indicazione sull’ordine di cifre relative all’impatto sul debito pubblico dei conferimenti in conto capitale erogati dallo Stato si v. utilmente: Commissione di Studio del Ministero del Tesoro (1981-1992), II, Pensioni, privatizzazioni e spesa pubblica, Roma, 1993, 165 s., consultabile on-line al seguente indirizzo http://lipari.istat.it/SebinaOpac/.do?idopac=IST0069709&titolo=Pensioni%2C+privatizzazioni+e+spesa+pubblica#3.

[45] G. Visentini, Partecipazioni pubbliche in società di diritto comune e di diritto speciale, Milano, 1979, 174.

[46] G. Di Chio, Società a partecipazione pubblica, cit., 161 s.

[47] N. Irti, Dall’ente pubblico economico alla società per azioni (profilo storico-giuridico), in Le privatizzazioni in Italia, a cura di P. Marchetti, Milano, 1995, 34, il quale, nel ricostruire il clima culturale degli anni Trenta del secolo scorso, in relazione alla asserita incompatibilità fra Stato e società per azioni parla di un vero e proprio «contrasto ideologico».

[48] Ivi, 37.

[49] Cfr. L. Gallino, L’impresa irresponsabile, Torino, 2005, 50 ss., ove l’A. ricorda l’affermarsi delle teorie neoliberali; D. Harvey, A Brief History of Neoliberalism, New York, 2005, passim; G. Duménil, D. Lévy, Capital Resurgent. Roots of the Neoliberal Revolution, London, 2004, 1 ss.

[50] A. Di Paolo, L'introduzione del New Public Management e della Balanced Scorecard nel processo di riforma dell'Amministrazione pubblica italiana, in Econ. pubbl., 2007, 155 ss.; M. Meneguzzo, Ripensare la modernizzazione amministrativa e il New Public Management. L’esperienza italiana: innovazione dal basso e sviluppo della governance locale, in Azienda Pubblica, 1997, 587 ss.; L.L. Jones, F. Thompson, L’implementazione strategica del New Public Management, in Azienda Pubblica, 1997, 567 ss. Per una analisi non limitata all’esperienza italiana si v. K. Mc Laughlin, S. Osborne, E. Ferlie, New Public Management: Current Trends and Future Prospects, 2002, London, 1 ss.; C. Hood, A Public Management for all Seasons?, in Public Administration, 1991, vol. 69, n. 1, 3 ss.; J. Stewart, K. Walsh, Change in the Management of Public Services, in Public Administration, 1992, vol. 70, n. 4, 499 ss.; P. Dunleavy, C. Hood, From Old Public Administration to New Public Management, in Public Money & Management, 1994, vol. 14, n. 3, 9 ss.; A. Dunsire, Administrative Theory in the 1980s: a View Point, in Public Administration, 1995, vol. 73, n. 1, 17 ss.

[51] Per alcuni fondamentali riferimenti sul tema si v., nell’ampia letteratura dispinibile, D. Osborne, T. Gaebler, Reinventing Government. How the Entepreneurial Spirit is Transforming the Public Sector, New York, 1992, 1 ss.; D. Osborne, Reinventing Government, in Public Productivity & Management Review, 1993, vol. 16, n. 4,  349 ss.; H.G. Frederickson, Comparing the Reinventing Government Movement with the New Public Administration, in Public Administration Review, 1996, vol. 56, n. 3,   263 ss.

[52] Per una analisi comparativa del tema si v. P.A. Hall, D. Soskice, An Introduction to Varieties of Capitalism, in Varieties of Capitalism: the Institutional Foundations of Comparative Advantage, a cura di P.A. Hall, D. Soskice, Oxford, 2001, 1 ss.

[53] A. Musacchio, S.L. Lazzarini, Reinventing State Capitalism. Leviathan in Business, Brazil and Beyond, cit., 2 ss.

[54] I. Bremmer, The End of the Free Market: Who Wins the War Between States and Corporations?, cit., 5 ss., ritiene che la crisi finanziaria del 2008 abbia dato impulso a una preoccupante rinascita del capitalismo di stato.

[55] M.T. Cirenei, Le società per azioni a partecipazione pubblica, cit.,  14.

[56] F. Galgano, La società per azioni. Le altre società di capitali. Le cooperative, Bologna, 1978, 210 ss. Secondo tale prospettiva, per A. Di Majo, L’avocazione delle attività economiche alla gestione pubblica e sociale, in Trattato di diritto commerciale e di diritto pubblico dell’economia, vol. I, La costituzione economica, diretto da F. Galgano, Padova, 1977, 334, si tratta di una interpretazione «irrecuperabile a una logica diversa».

[57] A. Di Majo, L’avocazione delle attività economiche alla gestione pubblica e sociale, cit., 337.

[58] N. Irti, L’ordine giuridico del mercato, Roma-Bari, 2004, 17, ritiene appunto che la decisione di sistema si trovi nell’ultimo comma dell’art. 41, ove lo Stato appare sotto un duplice volto: come soggetto dell’attività legislativa, e come soggetto dell’attività economica, in quest’ultima veste contemplato senza delimitazioni e con pari dignità rispetto alle imprese private.

[59] S. Cassese, La formazione dello Stato amministrativo, Milano, 1974, 17 s.

[60] F. Galgano, Art. 41, in Commentario della Costituzione a cura di G. Branca, Rapporti economici, t. II, Bologna-Roma, 1982, 15 ss.; O. Chessa, La Costituzione della moneta. Concorrenza, indipendenza della banca centrale, pareggio di bilancio, Napoli, 2016, 15 s.

[61] Al primo comma dell’art. 41 Cost. viene riconosciuto un valore caratterizzante l’intera Carta costituzionale. Vi è chi ha sostenuto che si tratti di una libertà da collocare tra i diritti fondamentali, fra i diritti inviolabili dell’uomo garantiti dall’art. 2 Cost., e perciò sottratta all’ipotesi di revisione costituzionale prevista all’art. 138 Cost.: v. per tutti A.M. Sandulli, Manuale di diritto amministrativo, Napoli, 81; U. Rescigno, Costituzione italiana e Stato borghese, Roma, 1975, 21 ss.  In altre parole, nella disposizione  in parola viene individuata una irrinunciabile e immodificabile opzione per un dato sistema economico.

[62] M. Casanova, Svolgimento delle imprese pubbliche in Italia: impresa pubblica e impresa privata nella Costituzione, in Riv. soc., 1967, 754, e poi anche in Impresa e azienda, in Trattato di diritto civile italiano diretto da F. Vassalli, X, 1, 1°, Torino, 1974, 194; G. Oppo, Principi, in Trattato di diritto commerciale diretto da V. Buonocore, sez. I, t. 1, Torino, 2001, 39. Lo stesso Autore, in un lavoro precedente, dubitava però dell’esistenza di una assoluta posizione di parità tra le due libertà: G. Oppo, L’iniziativa economica, in Riv. dir. civ., 1988, I, 314.

[63] F.A. Roversi-Monaco, L’attività economica pubblica, in Trattato di diritto commerciale e di diritto pubblico dell’economia diretto da F. Galgano, I, La costituzione economica, Padova, 1977, 385 ss.; G. Morbidelli, Introduzione, in Codice delle società a partecipazione pubblica, a cura di G. Morbidelli, Milano, 2018, 5 s.

[64] F. Galgano, Art. 41, cit., 17.

[65] R. Di Raimo, Economia mista e modelli di sviluppo: lo Stato imprenditore nell’opera cinquantenaria del Giudice delle leggi, in Impresa pubblica e intervento dello Stato nell’economia. Il contributo della giurisprudenza costituzionale, a cura di R. Di Raimo e V. Ricciuto, Napoli, 2006, XIII.

[66] N. Irti, Dall’ente pubblico economico alla società per azioni (profilo storico-giuridico), cit., 35, il quale, nel suo argomentare, riporta il testo dell’art. 2093 c.c.: «Le disposizioni di questo libro si applicano agli enti pubblici inquadrati nelle associazioni professionali. Agli enti pubblici non inquadrati si applicano le disposizioni di questo libro, limitatamente alle imprese da essi esercitate. Sono salve le diverse disposizioni della legge». Sul punto, più di recente, si v. V. Donativi, Le società a partecipazione pubblica. Raccolta sistematica della disciplina, commentata e annotata con la giurisprudenza, Milano, 2016, 1130.

[67] Cfr. F. Amatori, R. Millward, P.A. Toninelli, Reappraising State-Owned Enterprise – A Comparison of the UK and Italy, New York-London, 2011, 3. Gli Aa. identificano tale approccio ideologico con le prescrizioni provenienti dal Fondo Monetario Internazionale e l’Organizzazione Mondiale per il Commercio, a esse unitariamente riferendosi con la locuzione “Washington Consensus”.

[68] Cfr. B.G. Mattarella, Il riordino delle società a partecipazione pubblica, in Manuale delle società a partecipazione pubblica, a cura di R. Garofoli, A. Zoppini, R. de Nictolis, M. Fratini, G. Guizzi, A. Maresca, F. Massa Felsani, Molfetta, 2018, 6.

[69] G. Mele, Società e servizi pubblici locali: diffusione e dimensione economico-finanziaria, cit., 133.

[70] L’art. 17 del d.l. 24 giugno 2014, n. 90 ha infatti previsto, con decorrenza dal 1° gennaio 2015,  l’accorpamento della banca dati CONSOC (Gestione della partecipazione di pubbliche amministrazioni a consorzi e società) operante presso il Dipartimento della funzione pubblica, con la banca dati gestita dal Dipartimento del tesoro del MEF, istituita ai sensi dell’art. 2, comma 222, della legge 23 dicembre 2009, n. 191.

[71] L’ultimo, in ordine di tempo: Corte dei conti, Gli organismi partecipati degli Enti territoriali – Relazione 2017, (Deliberazione n. 27/SEZAUT/2017/FRG), disponibile on-line sul sito http://www.corteconti.it.

[72] Per tale fonte si v., da ultimo, Istat, Imprese a controllo pubblico in Italia, 2014, e Id., Le partecipate pubbliche in Italia, 23 dicembre 2016 (report contenente dati relativi al 2014), consultabili sul sito http://www.istat.it, e disponibili anche per alcuni anni precedenti.

Il report predisposto dall’ISTAT rappresenta una elaborazione dei seguenti dati:

1) le dichiarazioni sulla struttura delle partecipazioni rilevanti rese alla Commissione Nazionale per le Società e la Borsa;

2) le dichiarazioni degli elenchi dei soci delle società di capitale iscritti al Registro delle imprese;

3) le informazioni desumibili dai bilanci civilistici e consolidati delle società di capitale;

4) le dichiarazioni relative alle partecipazioni detenute dalle amministrazioni pubbliche al Dipartimento del Tesoro (Mef).

5) le dichiarazioni relative alle partecipazioni detenute da regioni, province e comuni alla Corte dei Conti

[73] In verità, il novero dei soggetti cui fare utilmente riferimento per la ricostruzione del fenomeno non si esaurisce con ISTAT e Unioncamere, ma, le pur utili analisi prodotte da questi ulteriori soggetti  presentano solitamente un campo di indagine così limitato dal rendere i dati sì molto utili nel contesto di riferimento, ma difficilmente utilizzabili in una analisi generale del fenomeno società pubbliche. Si pensi, per fare un solo esempio, a Utilitalia, la federazione che riunisce le aziende operanti nei servizi pubblici dell’acqua, dell’ambiente, dell’energia elettrica e del gas, e al suo ultimo rapporto: Utilitalia, La partecipazione degli enti locali nei servizi a rete – Rapporto Utilitatis 2013, Roma, 2015. Non si può qui non ricordare anche il rapporto finale del Commissario alla Spending review Carlo Cottarelli (Commissario straordinario per la revisione della spesa, Programma di razionalizzazione delle partecipate locali, Roma, agosto 2014), lavoro sicuramente particolarmente preciso, anche nel segnalare la difficoltà nel ricostruire un dato generale, completo e definitivo del fenomeno.

[74] Con comunicato stampa 26 maggio 2016, n. 99, è stato diramato il protocollo d’intesa sottoscritto dal Ministro dell’Economia e delle Finanze, Pier Carlo Padoan, e dal Presidente della Corte dei conti, Raffaele Squitieri, con il quale viene costituita la banca dati unica delle partecipazioni detenute dalle amministrazioni pubbliche.

[75] G. Marasà, Considerazioni su riordino e riduzione delle partecipazioni pubbliche nel d. lgs. 175/2016, Relazione presentata al Convegno “Il Diritto commerciale verso il 2020: i grandi dibattiti in corsi, i grandi cantieri aperti, Roma 17-18 febbraio 2017, 21, disponibile on-line sul sito http://www.orizzontideldirittocommerciale.it, osserva che i numerosi tentativi fatti in passato «non hanno prodotto risultati apprezzabili».

[76] Una razionalizzazione, da conseguire innanzitutto per via di un ridimensionamento del fenomeno, che risponde a istanze di matrice comunitaria ispirate a logiche competitive e di efficienza e ad ancora più pressanti esigenze di controllo della finanza pubblica.

[77] Certo, vi sono state alcune importanti operazioni di trasferimento di quote di rilevanti pacchetti azionari, quale quelle, per fare solo alcuni esempi, relative a Poste italiane s.p.a. e a Enel s.p.a. Tali operazioni, però, più che ispirate a una stretta logica di dismissione, sembrano poter più correttamente trovare collocazione in politiche di bilancio dettate dal critico contesto congiunturale, e dalla necessità di ridurre il debito pubblico monstre.

[78] Considerato anche che, soprattutto per la fonte istituzionale, i dati relativi sono funzione di una variabile di inadempimento la cui incidenza sembra essersi ridotta rispetto al passato.

[79] L. Torchia, Il sistema amministrativo italiano, Bologna, 2009, 93.

[80] In questo gruppo figurano sia società per azioni derivanti dalla trasformazione in via legislativa di enti pubblici, sia realtà che hanno avuto sin dal principio forma privatistica.

[81] Tra questi, innanzitutto il MEF. Partecipazioni azionarie hanno poi anche altri ministeri, cui poi si aggiungono quelle detenute da enti e istituzioni di ricerca, enti di previdenza e assistenza, agenzie fiscali, e gli enti produttori di servizi assistenziali, ricreativi e culturali.

[82] Tra queste, è sicuramente ben noto, per la vasta eco che le relative vicende hanno avuto sulla stampa nazionale, il caso della Eur. s.p.a., società di sviluppo immobiliare nata, ai sensi del d.lgs. 17 agosto 1999, n. 304,  dalla trasformazione dell’ente Autonomo Esposizione Universale di Roma.

[83] Un ammontare passivo complessivo che si aggira intorno ai 65 miliardi di euro: cfr. M. Macchia, Le dimensioni del fenomeno, in Le società a partecipazione statale, Rapporto IRPA 2015, a cura di M. Macchia, Napoli, 2015, 27. L’A. riferisce poi che il flusso di dividendi generato dalle dodici grandi partecipate statali ammonta a circa 2,8 miliardi di euro. Tali due cifre, seppure generali e quindi suscettibili di molteplici precisazioni e distinzioni, danno in termini immediati il segno della diversità delle due realtà.

[84] Cfr. Istat, Nota metodologica allegata a Le partecipate pubbliche in Italia, cit., 13  ss.

[85] Cfr. A. Arrobbio, A.C.H. Barros, R.F. Beauchard, A.S. Berg, J. Brumby, H. Fortin, J. Garrido, S. Kikeri, B. Moreno-Dodson, A. Nunez, D.  Robinett, I.F. Steinhilper, S.N. Vani, M. Verhoeven, Marinus; L. De Castro Zoratto, Corporate Governance of State-Owned Enterprises: a Toolkit, World bank Group, Washington, 2014, xxi.

[86] Per una disamina del tema nella sua configurazione prima della codificazione civile del 1942 si v., in part., R. Ravà, L’azionariato dello Stato e degli enti pubblici, in Riv. dir. comm., 1933, I, 324 ss., ove l’A. svolge un’ampia trattazione del tema con numerosi riferimenti di diritto comparato 

[87] È opinione diffusa che quello della disciplina applicabile sia il problema di fondo in materia di società a partecipazione pubblica. V. per tutti C. Ibba, L’impresa pubblica in forma societaria fra diritto privato e diritto pubblico, in AGE, 2015, 409.

[88] Corte cost. 28 dicembre 1993, n. 466.

[89] La Corte si riporta all’art. 2 della direttiva CEE n. 80/723, in tema di trasparenza delle relazioni finanziarie tra gli Stati membri e le loro imprese pubbliche, e all’art. 1 della direttiva CEE n. 90/531, in tema di procedure di appalto degli enti erogatori di servizi.

Un caveat, quello dei limiti degli effetti della qualificazione come soggetto pubblico o privato, efficacemente formulato da A. Blandini, La nomina e la cessazione dell’organo amministrativo di società pubbliche, cit., 919, il quale avverte che «la qualificazione e la considerazione meramente privatistica di queste società, sulla base dell’affermazione dell’applicabilità della ordinaria disciplina societaria “salvo quanto diversamente disposto” è una formula, per certi versi, vuota, e per altri, insoddisfacente, avuto riguardo a una realtà così complessa, e variegata». L’A. riporta in nota altra autorevole affermazione sul tema, che pare utile anche qui ricordare: G. Ferri, Pubblico e privato nelle partecipazioni statali, in Riv. dir. comm., 1988, I, 430: «[p]ubblico e privato operano quindi congiuntamente nelle società a partecipazione statale e si condizionano reciprocamente nello svolgimento dell’attività sociale».

[90] Il riferimento è a M.S. Giannini, cfr. sul punto F. Goisis, La natura delle società a partecipazione pubblica alla luce della più recente legislazione di contenimento della spesa pubblica, in Riv. Corte conti, 2014, 1 ss.

[91] Ricorda C. Ibba, Tipologia e “natura” delle società a partecipazione pubblica, in Le società a partecipazione pubblica, cit., 19, con una considerazione che lo stesso Autore definisce di politica del diritto, che il problema «nasce perché si pretende di rivestire di forma societaria enti ai quali tale veste spesso non si attaglia». A riprova della centralità del punto sin da tempi ormai lontani è utile ricordare le parole di R. Ravà, L’azionariato dello Stato e degli enti pubblici, cit., 340, secondo il quale «l’azionariato degli enti pubblici […] rappresenta un travestimento in forma privata di una impresa sostanzialmente pubblica». Molto efficaci, sul punto, anche le parole dei Giudici della Suprema corte, i quali ci avvertono che problemi si possono determinare «quando il modello giuridico-formale prescelto entra in tensione con il fenomeno economico sottostante, come non di rado accade proprio nel caso in cui lo Stato o altro ente pubblico assume una partecipazione in una società per perseguire in tal modo finalità di rilevanza pubblica»: così Cass., sez. un., 19 dicembre 2009, n. 26806, in Giust. civ., 2010, I, 2497 ss.

[92] R. Ravà, op. loc. ult. cit.

[93] Una disposizione alla quale sembra possibile attribuire valore sistematico, stando anche a quanto affermato dalla Suprema corte, secondo la quale essa rappresenterebbe «una norma di chiusura del sistema»: Cass., sez. un., 13 maggio 2013, n. 11417.  Analogo rilievo viene riconosciuto alla disposizione da C. Ibba, L’impresa pubblica in forma societaria fra diritto privato e diritto pubblico, cit., 412, e, ancora in giurisprudenza da Corte dei conti, sez. contr. Lombardia, parere n. 535 del 27 dicembre 2012, in Dir. prat. amm., 2013, 47. Da ultimo, si v. Cass., sez. un., 1° dicembre 2016, n. 24591, ove si afferma che tale disposizione «elimina qualsiasi dubbio circa l'inquadramento privatistico delle società con partecipazione dello Stato o di enti pubblici».

[94] Secondo Cons. Stato, parere 21 aprile 2016, n. 968, la disposizione ha l’effetto di «assegnare all’intervento di regolazione una valenza prettamente privatistica». Per riflessioni recenti sul valore da attribuire alla disposizione dettata all’art. 1, co. 3, TUSPP, si v. C. Ibba, Diritto comune e diritto speciale nella disciplina delle società pubbliche, in Giur. comm., 2018, I, 958 ss.

[95] Tale norma è stata dichiarata incompatibile con i principi comunitari con sentenza del 2007 della Corte di giustizia della U.E., in quanto, derogando al diritto societario comune, consentiva agli azionisti pubblici di godere di un potere di controllo sproporzionato rispetto alla partecipazione al capitale, così stabilendo regole diverse in ragione della natura del socio, e quindi portando a una restrizione ai movimenti di capitali ai sensi dell’art. 56 Trattato CE: cfr. Corte Giust., 6 dicembre 2007, cause riunite C-463/04 e C-464/04, in Società, 2008, 247 ss., e anche in Giur. comm., II, 2008, 576 ss., con nota di I. Demuro, L’incompatibilità con il diritto comunitario della nomina diretta ex art. 2449 c.c.

[96] Per tale opzione interpretativa C. Ibba, Le società a partecipazione pubblica: tipologia e discipline, cit., 6.

[97] A tal proposito F. Fimmanò, L’ordinamento delle società pubbliche tra natura del soggetto e natura dell’attività, cit., 15, afferma che nessuna delle regole prevista dal codice «è in grado di determinare effetti enucleativi di un “tipo” a sé stante, dotato di una natura giuridica peculiare».

[98] F. Goisis, La natura delle società a partecipazione pubblica alla luce della più recente legislazione di contenimento della spesa pubblica, cit., 4.

[99] F. Cintioli, Disciplina pubblicistica e corporate governance delle società partecipate da enti pubblici, in Le società a partecipazione pubblica, cit., 149, ritiene opportuno appurare se nella società pubblica non si sia verificata una sorta di incidenza finalistica e teleologica del regime pubblicistico sul modello imprenditoriale.

[100] Cfr. P. Pizza, Le società per azioni di diritto singolare tra partecipazioni pubbliche e nuovi modelli organizzativi, Milano, 2007, 649 ss. L’A. ritiene che non sia possibile rinvenire alcuna disposizione, nel codice civile o nelle leggi speciali, che espressamente definisce l’istituto societario come persona giuridica di diritto privato.

[101] Posizione assunta in più occasioni dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato: Cons. Stato, 17 settembre 2002, n. 4711, in Dir. & Formazione, 2002, 1575 ss.; Cons. Stato, 5 marzo 2002, n. 1303, in Giust. civ., 2002, I, 2309 ss.; Cons. Stato, 2 marzo 2001, n. 1206, in Foro it., 2002, III, 425 ss.; Cons. Stato, 20 maggio 1995, n. 498, in Giust. civ., 1995, I, 2271 ss.; Cons. Stato, 30 gennaio 2006, n. 308, in Riv. Corte conti, 2006, 246 ss.

[102] Ritiene irrilevante la persona dell’azionista nella organizzazione della società, e quindi nella natura della medesima G. Ferri, Azionariato di Stato e natura giuridica dell’ente, cit., 205.

[103] N. Irti, Dall’ente pubblico economico alla società per azioni (profilo storico-giuridico), cit., 36; G. Minervini, Contro il diritto speciale delle imprese pubbliche «privatizzate», in Le privatizzazioni in Italia, a cura di P. Marchetti, Milano, 1995, 167. Sul tema si v. inoltre ed in part. B. Libonati, I rapporti tra azionista pubblico e società partecipata, Relazione al Convegno Assonime-LUISS “Le società pubbliche tra Stato e mercato: alcune proposte di razionalizzazione della disciplina”, Roma, 13 maggio 2009, consultabile sul sito http://www.assonime.it; F. Cintioli, Disciplina pubblica e corporate governance delle società partecipate dagli enti pubblici, cit., 2010, 144 ss.; Cass., sez. un., 25 novembre 2013, n. 26283, ove si afferma che «le società di capitali eventualmente costituite o comunque partecipate da enti pubblici per il perseguimento delle finalità loro proprie non cessano sol per questo di essere delle società di diritto privato, la cui disciplina, se non diversamente disposto, riposa tuttora sulle norme dettate dal codice civile». Si tratta di principio da tempo affermato e più volte ribadito nella giurisprudenza della Suprema corte: cfr. Cass., sez. un., 4 gennaio 1993, n. 3; Cass., sez. un., 6 maggio 1995, n. 4989; Cass., sez. un., 6 maggio 1995, n. 4991; Cass., sez. un.,  27 marzo 1997, n. 2738; Cass., sez. un., 6 giugno 1997, n. 5085; Cass., sez. un., 26 agosto 1998, n. 8454; Cass., sez. un., 15 aprile 2005, n. 7799; Cass., sez. un., 31 luglio 2006, n. 17287; Cass., sez. un., 3 maggio 2013, n. 10299; Cass., sez. un., 7 febbraio 2017, n. 3196. L’ipotesi ricostruttiva in parola, è doveroso ricordarlo, ha trovato autorevole formulazione già nei primi anni Trenta del XX secolo. Il riferimento è a T. Ascarelli, Il negozio indiretto e le società commerciali, in Studi di diritto commerciale in onore di Cesare Vivante, I, Roma, 1931,  e poi anche in Studi in tema di contratti, Milano, 1952, 3 ss.

[104] G. Rossi, Impresa pubblica e riforma delle società per azioni, in Riv. soc., 1971, 124, ritiene priva di importanza nella qualificazione della società la disciplina pubblica del socio. Per una analisi del confronto tra interesse sociale e interesse pubblico nelle società a partecipazione pubblica si v., in part. G. Oppo, Diritto privato e interessi pubblici, in Riv. dir. civ., 1994, I, 24 ss., cit.; Id., Scritti giuridici, VI, Principi e problemi del diritto privato, Padova, 1992, 29 ss.; e, più di recente, M. Cossu, La prorogatio dell’amministratore di nomina pubblica nelle società a partecipazione pubblica, in nota a Trib. Terni 22 agosto 2011, in Giur. comm., 2013, II, 270 ss., con ampi riferimenti bibliografici; G. Guizzi, Interesse sociale e governance delle società pubbliche, in La governance delle società pubbliche nel d.lgs. 175/2016, a cura di Id., Milano, 2017,  1 ss.; Id., Interesse sociale nelle società pubbliche, in  I controlli nelle società pubbliche, diretto da F. Auletta, Bologna, 2017, 1 ss., ove ampi riferimenti bibliografici sul tema; F. Massa Felsani, Partecipazioni pubbliche e “tipi” sociali, in Manuale delle società a partecipazione pubblica, cit., 180 ss.

[105] Cfr. sul punto M.T. Cirenei, op. cit., 106 s.; V. Buonocore, Le situazioni soggettive dell’azionista, Morano, 1960, 250 ss.; G. Santini, Tramonto dello scopo lucrativo delle società di capitali, in Riv. dir. civ., 1973, I, 163 ss. e in Studi in memoria di Domenico Pettiti, Milano, 1973, 1409. Per la giurisprudenza si v., da ultimo, Cass., 27 settembre 2013, n. 22209, in Foro it.,  2014, 1, 113 ss.

[106] V. già R. Ravà, L’azionariato dello Stato e degli enti pubblici, cit., 394 ss. Segnala la necessità di ripensare i meccanismi di funzionamento attraverso i quali l’interesse pubblico deve trovare attuazione nell’operare delle società pubbliche F. Massa Felsani, In tema di riforma della governance della RAI , in Dir. inf., 2011, 6 ss.

[107] Per le prime formulazioni della dottrina italiana sul tema si v. G. Messina, Negozi fiduciari, ora in Scritti giuridici, I, Milano, 1948, 69 ss. (lo studio è in verità del 1908); F. Ferrara, Della simulazione nei negozi giuridici, Roma, V ed., 1922, 82 ss.

[108] T. Ascarelli, Il negozio indiretto, in Saggi giuridici, Milano, 1949, 152. È diffuso il consenso in dottrina nell’inquadrare il fenomeno non già quale categoria negoziale, bensì come un atteggiamento delle parti nella conclusione ed esecuzione di un qualsiasi contratto (G. Visentini, Partecipazioni pubbliche in società di diritto comune e di diritto speciale, cit., 42. Dell’avviso che possa configurarsi un negozio indiretto soltanto con riferimento a negozi causali tipici L. Cariota Ferrara, Il negozio giuridico nel diritto privato italiano, Napoli, 1949, 244. Contra E. Betti, Teoria generale del negozio giuridico, Torino, 1960, 304). Non si tratta quindi di una speciale categoria formale di negozi giuridici, né di un tipo di negozio, ma più semplicemente dell’uso di un contratto per il raggiungimento di un obiettivo diverso da quello che gli è proprio secondo la sua causa giuridica, così differenziandosi, secondo dottrina pressoché unanime, dalla simulazione. In quest’ultima, in effetti, il contratto simulato non produce effetti tra le parti e, se queste hanno inteso concludere un differente contratto (contratto dissimulato), sarà questo ad avere effetto tra esse, mentre del negozio indiretto le parti vogliono conseguire gli effetti del contratto concluso, in quanto propedeutici al raggiungimento dell’ulteriore fine cui tendono, che, per volontà delle parti, non assume rilievo giuridico nel negozio utilizzato. Siamo quindi, si è detto, nel dominio dei motivi. Il fine che le parti si ripromettono di perseguire, mercé la conclusione del negozio giuridico, rappresenta del medesimo solo il motivo, e tale rimane. Infatti, le parti vogliono la causa del negozio concluso, e quindi il medesimo, perché di questo vogliono che si producano gli effetti, passaggio necessario per addivenire poi al fine ulteriore (G. Visentini, Partecipazioni pubbliche in società di diritto comune e di diritto speciale, cit., 44 s.). Fine ulteriore che può essere raggiunto seguendo differenti modalità, che sono state puntualmente distinte da attenta dottrina. Tale schema ricostruttivo prevede una iniziale distinzione tra negozi adottati in pieno dalle parti, con tutti i loro effetti, da un lato, e, dall’altro, negozi i cui effetti tipici vengono modificati in funzione del risultato finale dell’operazione contrattuale. Questa generale bipartizione prevede poi ulteriori “ramificazioni” dello schema ricostruttivo del fenomeno. Nell’ambito della prima ipotesi, può aversi il caso che il negozio adottato sia già da sé sufficiente per raggiungere l’effetto desiderato, come anche il caso in cui il raggiungimento di questo richieda un successivo negozio, che ha nell’altro il necessario prius. Anche in relazione alla seconda categoria si procede a una distinzione in due sottoclassi. La prima di queste è quella del negozio suscettibile di essere modificato nella sua struttura senza che si perda la sua fisionomia tipica. La seconda, invece, non consente da sola di raggiungere i risultati voluti, per i quali si rendono quindi necessari accordi ulteriori (cfr. G. de Gennaro, I contratti misti, Padova, 1934, 74 s.).

[109] G. Visentini, Partecipazioni pubbliche in società di diritto comune e di diritto speciale, cit., 46 s.

[110] Ivi, 48.

[111] Ibidem. L’A. prosegue quindi nel ragionamento affermando che tale diritto, al pari di ogni alto diritto soggettivo, è per il titolare una facoltà e non un dovere. Di conseguenza è lasciato alla discrezionalità dei soci, in quanto gli unici legittimati ad attivare i relativi meccanismi sanzionatori, il perseguimento in concreto di uno scopo diverso dalla causa lucrativa. La società diviene dunque lo strumento per il raggiungimento di un fine diverso da quello che forma il contenuto della causa sociale, alla quale i soci non danno concreta attuazione, vuoi semplicemente sulla base di un semplice affidamento reciproco, vuoi ricorrendo al negozio fiduciario. La seconda ipotesi presenta, evidentemente, il problematico rapporto tra causa societaria, che caratterizza il contratto principale, e il fine diverso oggetto del patto accessorio.

[112] G. Visentini, op. cit., 50 ss.

[113] La precarietà dell’interesse perseguito in via indiretta viene messa chiaramente in evidenza da T. Ascarelli, Cooperativa e società. Concettualismo giuridico e magia delle parole, in Riv. soc., 1957, 423, nt. 40.

[114] G. Santini, Tramonto dello scopo lucrativo nelle società di capitali, cit., 151 ss.; G. Marasà, Le società senza scopo di lucro, Milano, 1984, 1 ss.; M.T. Cirenei, Le società a partecipazione pubblica, cit. 189 ss.;  M. Sciuto, P. Spada, Il tipo della società per azioni, in Trattato delle società per azioni diretto da G.E. Colombo e G.B. Portale, vol. 1*, Torino, 2004, 91 ss.

[115] Sul punto si v. B. Libonati, I rapporti tra azionista pubblico e società partecipate, cit., 1 ss., e, da ultimo, F. Massa Felsani, Partecipazioni pubbliche e “tipi” sociali, in Manuale delle società a partecipazione pubblica, cit., 2018, 183, ove l’A., richiamati i dati di diritto positivo che disciplinano l’atteggiarsi dell’interesse della società nel codice civile, e tra questi in particolar modo l’art. 2373 c.c., individua la linea di composizione dell’eventuale conflitto tra interesse del socio e quello della società.

[116] F. Galgano, La società per azioni, in Trattato di diritto commerciale e di diritto pubblico dell’economia, diretto da Id., II ed., vol. VII, Padova, 1988, 488.

[117] G. Cottino, Diritto commerciale, I, tomo II, Padova, 1987, 624; V. Ottaviano, Sull’impiego a fini pubblici della società per azioni, in Riv. soc., 1960, 1013 ss., e poi anche in Studi in memoria di Guido Zanobini, II, Milano, 1965, 304 ss.

[118] R. Rordorf, Le società “pubbliche” nel codice civile, cit., 427.

[119] A. Mazzoni, Limiti legali alle partecipazioni societarie di enti pubblici e obblighi correlati di dismissione: misure contingenti o scelta di sistema?, cit., 61 ss., sottolinea l’alto tasso di erraticità e contraddittorietà che caratterizza la legislazione speciale in tema di società pubbliche, come anche l’estrema eterogeneità dei soggetti e delle fattispecie cui viene riferito tale status.

[120] Chiarezza della disciplina che, tra l’altro, costituiva uno degli obiettivi espressamente fissati dalla legge delega: cfr. art. 18, co. 1, l. 124/2015.

[121] In ragione del rilievo della differenziazione rispetto allo schema costitutivo comune, un discorso a parte meritano, sotto tale profilo, le c.d. società legali, ossia quelle società costituite dalla legge o a seguito di un obbligo di legge, per le quali si v., in part., C. Ibba, Le società a partecipazione pubblica: tipologia e discipline, cit., 2 s.; Id., Le società “legali”, Torino, 1992, 17 ss.

[122] Articolo abrogato dal d.lgs. 19 agosto 2016, n. 175.

[123] Commi abrogati dal d.lgs. 19 agosto 2016, n. 175.

[124] Comma abrogato dalla l. 27 dicembre 2013, n. 147.

[125] V. sul punto infra cap. IV.

[126] Disposizione analoga a quella fissata all’art. 18 del d.l. 25 giugno 2008, n. 112, che però aveva un ambito di applicazione più limitato. Sempre in tema di personale si può ricordare l’art. 3, co. 30, della l. n. 244 del 2007, ove si dispone che le amministrazioni pubbliche costituenti società o enti, comunque denominati, o che assumono partecipazioni in società, consorzi o altri organismi, sono tenute ad adottare provvedimenti di trasferimento delle risorse umane, finanziarie e strumentali in misura adeguata alle funzioni esercitate mediante i soggetti così costituiti e a provvedere alla corrispondente rideterminazione della propria dotazione organica.

[127] Sia permesso sul tema rinviare a F. Cuccu, I limiti ai compensi degli amministratori di società pubbliche tra istanze moralizzatrici ed esigenze di efficienza, in Riv. dir. comm., 2015, II, 191 ss., e Id., La nuova disciplina dei compensi degli amministratori delle società a partecipazione pubblica, in La governance delle società pubbliche nel d.lgs. 175/2016, cit., 155 ss., e poi anche in Manuale delle società a partecipazione pubblica, cit., 413 ss.

[128] In verità, la maggior parte delle società destinatarie non ha adottato la clausola o, anche nei pochi casi di adozione, l’ha successivamente modificata rendendone meno severa la formulazione, come nel caso di Cassa depositi e prestiti s.p.a..

[129] Sull’applicazione, alle partecipate o controllate pubbliche, della disciplina in materia di prevenzione e contrasto della corruzione, e delle regole in tema di obblighi di trasparenza e pubblicità si v. l’art. 11 del d.lgs. 14 marzo 2013, n. 33, l’art. 1 della l. 6 novembre 2012, n. 190, e gli artt. 19 e 24-bis del d.l. 24 giugno 2014, n. 90. Sul tema si v. M. Macchia, Gli obblighi di trasparenza per le società pubbliche: prevale il sostantivo o l’aggettivo, in Giorn. dir. amm., 2014, 767 ss.

[130] S. Sacrepanti, Le regole speciali delle società partecipate, in Le società a partecipazione statale, cit., 74 ss.; R. Perez, I controlli sugli enti pubblici privatizzati, in Le trasformazioni del diritto amministrativo, a cura di S. Amorosino, Milano, 1995, 195 ss.; M. Ramajoli, Il controllo della Corte dei conti sugli enti pubblici trasformati in società per azioni, in Dir. amm., 1995, 205 ss.

[131] Disposizione abrogata dal d.lgs. 19 agosto 2016, n. 175

[132] M. Clarich, Le società partecipate dallo Stato e dagli enti locali fra diritto pubblico e diritto privato, cit., 6.

[133] Le parole sono di M. Clarich, op. cit., 5. Si deve all’A. anche la distinzione tra le due tipologie di specialità ricordata nel testo.

[134] Interessanti riferimenti storici in G. Melis, Storia dell’amministrazione italiana, Bologna, 1996, 191 ss.

[135] M. Clarich, Le società partecipate dallo Stato e dagli enti locali fra diritto pubblico e diritto privato, cit., 7 ss.; C. Ibba, Le società a partecipazione pubblica: tipologia e discipline, cit., 10; A. Mazzoni, Limiti legali alle partecipazioni societarie di enti pubblici e obblighi correlati di dismissione: misure contingenti o scelta di sistema?, cit., 70 ss.

[136] M. Clarich, Le società partecipate dallo Stato e dagli enti locali fra diritto pubblico e diritto privato, cit., 7.

[137] Osservava Aristotele, De generazione et corruptione, 317 ss., che una cosa si “corrompe”, e si genera qualcosa di nuovo, solo quando subisce un cambiamento nei suoi stessi fattori costitutivi, nei suoi elementi permanenti.

[138] Sulla specialità o anomalia determinata dalla deroga si v. G. Marasà, Società speciali e società anomale, in Enc. giur., XXIX, Roma, 1993, 1 ss.

[139] Sul punto cfr. le recenti Cass., 27 settembre 2013, n. 22209 e Cass., sez. un., 25 novembre 2013, n. 26283.

[140] A. Mazzoni, Limiti legali alle partecipazioni societarie di enti pubblici e obblighi correlati di dismissione: misure contingenti o scelta di sistema?, cit., 63.

[141] C. Ibba, L’impresa pubblica in forma societaria fra diritto privato e diritto pubblico, cit., 410 s., e in termini analoghi anche in Id., Tipologia e “natura” delle società a partecipazione pubblica, cit., 19. Sul punto, di recente, Cass., 7 febbraio 2017, n. 3196 ha affermato che «[i]l sistema di pubblicità legale, mediante il registro delle imprese, determina invero nei terzi un legittimo affidamento sull’applicabilità alle società ivi iscritte di un regime di disciplina conforme al nomen juris dichiarato, affidamento che, invece, verrebbe aggirato ed eluso qualora il diritto societario venisse disapplicato e sostituito da particolari disposizioni pubblicistiche».

[142] Per l’esigenza di tutela dell’affidamento dei terzi si v., in giurisprudenza, Cass., 27 settembre 2013, n. 22209, cit., 113 ss.

[143] Ricorda F. Cintioli, Disciplina pubblicistica e corporate governance delle società partecipate da enti pubblici, cit., 164 s., che quel che caratterizza le società di capitali è il loro “rilievo reale”, ricordando appunto che le norme sull’organizzazione delle società sono di ordine pubblico, e sono finalizzate a tutelare gli interessi dei terzi e del mercato.

[144] Per tale teoria che, partendo dalle ricerche in tema di economia dell’informazione di G.A. Acherlof, M.A. Spence e J.E. Stiglitz, ricostruisce il diritto commerciale quale composito sistema informativo, si v. E. Bocchini, Diritto commerciale nella società dell’informazione, Padova, 2011, 1 ss.

[145] Di seguito il testo dell’art. 2449 c.c. vigente fino al 21 marzo 2008, data di entrata in vigore delle modifiche apportate ai sensi dell’art. 13, l. 25 febbraio 2008, n. 34: «Se lo Stato o gli enti pubblici hanno partecipazioni in una società per azioni, lo statuto può ad essi conferire la facoltà di nominare uno o più amministratori o sindaci ovvero componenti del consiglio di sorveglianza.

Gli amministratori e i sindaci o i componenti del consiglio di sorveglianza nominati a norma del comma precedente possono essere revocati soltanto dagli enti che li hanno nominati.

Essi hanno i diritti e gli obblighi dei membri nominati dall’assemblea.

Sono salve le disposizioni delle leggi speciali».

[146] R. Rordorf, Le società pubbliche nel codice civile, cit., 427; C. Ibba, Società pubbliche e riforma del diritto societario, in Riv. soc., 2005, 4.

[147] Cons. Stato, 15 maggio 2002,  n. 2636, in Foro amm.-CDS, 2002, 1310 ss.; Cons. Stato, 7 giugno 2001, n. 3090, in Giust. civ., 2002, I, 1432 ss.; Cons. Stato, 5 giugno 2001, n. 4586, in Giur. it., 2001, III, 179 ss.; Cons. Stato, 2 marzo 2001, n. 1206, cit., 425 ss.; Cons. Stato, 28 ottobre 1998, n. 1478, in Giur. it., 1999, III, 628 ss., e anche in Corriere giur., 1999, 94 ss. In altre occasioni il Consiglio di Stato è arrivato a identiche conclusioni mercé il richiamo del principio della irrilevanza, per la società di capitali, della natura e della persona dei soci: Cons. Stato, 25 giugno 2002, n. 3448, in Foro amm.-CDS, 2002, 1469 ss.

[148] Cons. Stato, 10 aprile 2000, n. 2078, in Foro amm., 2000, 280 ss.

[149] Cons. Stato, 17 settembre 2002, n. 4711, cit.,  1575 ss.; Cons. Stato, 5 marzo 2002, n. 1303, cit., 2309 ss.; Cons. Stato, 2 marzo 2001, n. 1206, cit., 425 ss.; Cons. Stato, 20 maggio 1995, n. 498, cit., 2271 ss.; Cons. Stato, 30 gennaio 2006, n. 308, cit., 246 ss.

[150] Cass., sez. un., 6 maggio 1985, n. 4989, cit., 1363 ss.

[151] Cass., sez. un., 27 marzo 1997, n. 2738, in Riv. it. dir. pubbl. comunit., 1997, 775 ss.

[152] Tale linea di pensiero è stata seguita anche da: Cass., sez. un., 15 aprile 2005, n. 7799, in Foro it., 2005, I, 2729 ss.; Cass., sez. un., 6 maggio 1995, n. 4991, in Riv. corte conti, 1995, 178 ss.; ; Cass., sez. un., 31 luglio 2006, n. 17287, in Foro amm.-CDS, 2006, 3022 ss.

[153] Cass., sez. un., 12 marzo 2007, n. 5593, in Foro amm.-CDS, 2007, 1386 ss.; Cass., sez. un., 9 aprile 2010, n. 8429.

[154] Così in Cass., sez. un., 22 dicembre 2009, n. 27092, in Foro it., 2010, I, 1472 ss. Per organismo di diritto pubblico, ai sensi della direttiva comunitaria 93/37/CE prima, dell’art. 3, co. 26, del d.lgs. 12 aprile 2006, n. 163, poi, e ora dall’art. 3 del d.lgs.18 aprile 2016, n. 50, si deve intendere qualsiasi organismo, dotato di personalità giuridica, istituito per soddisfare specificatamente bisogni di interesse generale aventi carattere non industriale o commerciale, la cui attività sia finanziata in modo maggioritario dallo Stato, dagli enti pubblici territoriali o da altri organismi di diritto pubblico, o la cui gestione sia soggetta a un controllo da parte di questi ultimi oppure il cui organo d’amministrazione, di direzione o di vigilanza sia costituito da membri dei quali più della metà è designata dallo Stato, dagli enti pubblici territoriali o da altri organismi di diritto pubblico.

Di tale figura, costruita per evitare che situazioni di mera privatizzazione formale potessero portare a una sottrazione degli enti pubblici all’obbligo di assoggettare a “gare europee” gli acquisti di beni, la giurisprudenza ha fatto a volte un uso, per così dire, “estensivo”,  non limitandone quindi la rilevanza esclusivamente ai fini dell’applicazione del codice degli appalti pubblici, bensì anche quale strumento di estensione generale della disciplina pubblicistica. Per una critica di tale impostazione si v. M. Libertini, Organismo di diritto pubblico, rischio d’impresa e concorrenza: una relazione ancora incerta, in Contr. impresa, 2008, 123 ss., e, in giurisprudenza, Corte dei conti, sez. regionale di controllo per la Lombardia, 22 febbraio 2016, n. 114.

[155] Cfr. Cass., sez. un., 3 maggio 2005, n. 9096, in Foro it., 2006, I, 1, 195 ss.; Cass., sez. un., 24 novembre 2009, n. 24672, in Foro it., 2010, I, 1521 ss.

[156] In tali termini, per limitarci ai provvedimenti più recenti, si v., in part.: Cass., 22 febbraio 2019, n. 5346; Cass., sez. un., 28 giugno 2018, n. 17188; Cass., sez. un., 27 dicembre 2017, n. 30978; Cass., sez. un., 1° dicembre 2016, n. 24591; Cass., sez. un., 19 aprile 2013, n. 9534; Cass., sez. un., 20 febbraio 2013, n. 4217; Cass., sez. un., 30 dicembre 2011 n. 30167.  Tra i provvedimenti più risalenti, si v., trai tanti: Cass., sez. un., 6 maggio 1995, n. 4989, cit., 1363 ss.; Cass., sez. un., 6 giugno 1997, n. 5085, in Giust. civ. Mass., 1997, 933 ss.; Cass., sez. un., 26 agosto 1998, n. 8454, in Giust. civ., 1999, I, 2024 ss.

[157] Cfr. Cass., 19 marzo 2001, n. 3923, in Giust. civ. Mass., 2001, 520 ss.

[158] La Suprema corte, inoltre, seppure in via incidentale, in un provvedimento nel quale si è infatti data applicazione alla normativa previgente, ha trovato modo di esprimersi anche sul recente TUSPP, ribadendo la preferenza per l’inquadramento privatistico delle società pubbliche. In tale sentenza si legge:«[l]a riconduzione della materia in questione alla disciplina civilistica è attuata oggi dal D.Lgs. n. 175 del 2016 (ovviamente, inapplicabile ratione temporis alla fattispecie), del quale vanno particolarmente segnalate tre disposizioni. Quella del terzo comma dell’art. 1, secondo cui: Per tutto quanto non derogato dalle disposizioni del presente decreto, si applicano alle società a partecipazione pubblica le norme sulle società contenute nel codice civile e le norme generali del diritto privato. Quella dell’art. 12 (Responsabilità degli enti partecipanti e dei componenti degli organi delle società partecipate), a norma della quale “I componenti degli organi di amministrazione e controllo delle società partecipate sono soggetti alle azioni civili di responsabilità previste dalla disciplina ordinaria delle società di capitali, salva la giurisdizione della Corte dei conti per il danno erariale causato dagli amministratori e dai dipendenti delle società in house”. Quella dell’art. 14 (Crisi d’impresa di società a partecipazione pubblica), la quale non solo stabilisce che “Le società a partecipazione pubblica sono soggette alle disposizioni sul fallimento e sul concordato preventivo, nonché, ove ne ricorrano i presupposti, a quelle in materia di amministrazione straordinaria delle grandi imprese insolventi”, ma, soprattutto, testualmente menziona nell’ultimo comma la “dichiarazione di fallimento di una società a controllo pubblico titolare di affidamenti diretti”, facendo così inequivoco ed esplicito riferimento alle società in house, che, appunto, sono le società titolari di affidamenti diretti (cfr. art. 16, comma 1). Disposizioni, queste, che […] definitivamente esplicitano la riconduzione delle società a partecipazione pubblica all’ordinario regime civilistico». Cosi Cass., sez. un., 1° dicembre 2016, n. 24591, ove inoltre, sempre sul tema si precisa che «[l]’inquadramento privatistico delle società con partecipazione dello Stato o di enti pubblici è conforme agli orientamenti espressi sia dalla Corte di giustizia UE – che, con le sentenze Volkswagen (sentenza 23 ottobre 2007, nella causa C-112/05) e Federconsumatori (sentenza 6 dicembre 2007, nei procedimenti riuniti nn. C-463/04 e C-464/04), ha ritenuto collidenti con l’art. 56 del Trattato CE disposizioni che incidano sul principio della parità di trattamento tra gli azionisti – sia dalla Corte costituzionale che, con le sentenze n. 35 del 1992 e n. 233 del 2006 ha ricondotto al diritto privato le disposizioni sulla nomina e sulla revoca degli amministratori e ha sottolineato che l’intuitus personae sotteso al rapporto di nomina degli amministratori esclude la rilevanza immediata dei principi di cui all’art. 97 Cost., comma 2, (buon andamento ed imparzialità)».

[159] Cfr. Cass., sez. un., 3 luglio 2009, n. 15599; Cass., sez. un., 31 gennaio 2008, n. 2289; Cass., sez. un., 22 febbraio 2007, n. 4112; Cass., sez. un., 20 ottobre 2006, n. 22513; Cass., sez. un., 5 giugno 2000, n. 400; Cass., sez. un., 30 marzo 1990, n. 2611.

[160] Nel senso della qualifica pubblicistica degli organi delle società pubbliche si v.: Cass. pen., 21 marzo 2003, n. 22018, in Cass. pen., 2004, 1637 ss.; Cass. pen., 18 dicembre 2002, n. 42817, in Cass. pen., 2003, 3036 ss.; Cass. pen, 8 marzo 2001, n. 20118, in Giur. it., 2002,  1467 ss.; Cass. pen., 23 settembre 2000, n. 10027, in Cass. pen., 2001, 3060 ss., ove si legge che «[a]i fini della individuazione della qualità di pubblico ufficiale, l’Ente delle Ferrovie dello Stato, anche dopo la trasformazione in s.p.a., conserva le connotazioni proprie della originaria natura pubblicistica; conseguentemente non viene meno la qualifica di pubblico ufficiale o di incaricato di pubblico servizio dei dipendenti delle FF.SS., che deve essere valutata in concreto secondo il criterio funzionale di cui agli art. 357 e 358 c.p.»; Cass. pen., 16 marzo 2000, n. 3282; Cass. pen., 14 dicembre 1999, n. 3282, in Cass. pen., 2001, 170 ss.; Cass. pen., 13 gennaio 1999, n. 1943, in Cass. pen., 2000, 1263 ss.; Cass. pen., 9 luglio 1998, n. 10138, in Giust. pen., 1999, II, 485 ss.; Cass. pen., 7 maggio 1996, n. 793, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1997, 1015; Cass., sez. fer, 19 agosto 1993, in Foro amm., 1995, 1479 ss. In dottrina si v. in part. F. Goisis, Gli amministratori e funzionari di società in mano pubblica come pubblici ufficiali ed incaricati di pubblico servizio, in Dir. proc. amm., 2002, 774 ss.; A. Carmona, Dagli enti pubblici alle public companies: un problema insoluto negli artt. 357 e 358 c.p., in Riv. it. dir. e proc. pen., 1993, 187 ss.; A. Mangione, Questioni aperte in tema di qualifiche soggettive nella società per azioni a partecipazione pubblica: il “ritorno” agli “indici sintomatici” della pubblicità, in Riv. pen. economia, 1996, 356 ss.