Si pubblica, col consenso dell’Autore, il Capitolo primo (riveduto nel titolo e aggiornato nell’apparato critico), «D.1.2.1: Gaii praefatio ad Legem Duodecim Tabularum» (1-11) della Tesi di Dottorato di ricerca in Diritto Romano, Diritti Antichi e Storia degli Studi Romanistici - XXVIII Ciclo di CHRISTIAN PUDDU, La citazione della Legge delle XII Tavole nella Compilazione Giustinianea, Roma, Sapienza Università di Roma, Facoltà di Giurisprudenza, 2016, V-273 pp.

Indice del volume

 

 

 

Christian Puddu

Sapienza Università di Roma

 

 

Tra antico e moderno:

il commento di Gaio al codice decemvirale

nelle Pandectae di Giustiniano

 

 

 

 

 

Il libro primo dei Digesta, dopo il titolo iniziale De iustitia ed iure, si apre con la rivendicazione della storia giuridica di Roma da cui l’intero titolo secondo prende il nome: De origine iuris et omnium magistratuum et successione prudentium.

Si apre, difatti, con un frammento tratto dal commento di Gaio alle XII Tavole: «Facturus legum vetustarum interpretationem necessario prius ab urbis initiis repetendum existimavi, non quia velim verbosos commentarios facere, sed quod in omnibus rebus animadverto id perfectum esse, quod ex omnibus suis partibus constaret: et certe cuiusque rei potissima pars principium est. deinde si in foro causas dicentibus nefas ut ita dixerim videtur esse nulla praefatione facta iudici rem exponere: quanto magis interpretationem promittentibus inconveniens erit omissis initiis atque origine non repetita atque illotis ut ita dixerim manibus protinus materiam interpretationis tractare? namque nisi fallor istae praefationes et libentius nos ad lectionem propositae materiae producunt et cum ibi venerimus, evidentiorem praestant intellectum».

La praefatio è celebre ed è oggetto di una letteratura vastissima[1].

Il passo è stato più volte sospettato di alterazione da parte dei commissari giustinianei poiché, ad un’attenta analisi, presenterebbe lacune e contraddizioni tali da far ritenere che il testo originario del II secolo d.C. fosse alquanto diverso da quello che compare nei Digesta[2].

Sono state elaborate, in tal senso, diverse ipotesi ricostruttive volte a restituire l’originaria genuinità all’opera del giurista. Due, in particolare, rivestono un diffuso interesse.

La prima di esse ritiene che la parola prius sia priva di significato nel contesto globale del frammento e vada, pertanto, sostituita con l’espressione p[opuli] r[omani] ius, sicché il passo si aprirebbe con le parole: «Facturus legum vetustarum interpretationem necessario populi romani ius ab urbis initiis repetendum existimavi…..»[3].

In tale prospettiva, la parola prius rappresenterebbe il frutto di un mero errore di copiatura dell’amanuense, il quale avrebbe frainteso l’abbreviazione p.p. inserendo, in luogo dell’originario romani ius, la parola prius. Il passo rappresenterebbe, pertanto, il tipico esempio di errore dettato dall’uso delle abbreviazioni negli scritti giuridici nel periodo classico e pregiustinianeo: «Zu repetedum fehlt ein Substantiv. Num wissen wir, daβ popolus Romanus abgekűrzt wurde P.R[4].

La ricostruzione offerta, generalmente accettata dalla dottrina, non si è, comunque, sottratta ad alcune critiche nella metà del secolo scorso[5] e si palesa non di poco conto poiché, con le sostituzioni operate, può condurre ad una diversa collocazione del tema affrontato da Gaio all’inizio della trattazione.

La seconda ipotesi ricostruttiva ritiene sia, invece, da espungere dall’intero frammento la frase di chiusura «namque nisi fallor istae praefationes et libentius nos ad lectionem propositae materiae producunt et cum ibi venerimus, evidentiorem praestant intellectum»[6], sicché il passo si chiuderebbe con le parole: « quanto magis interpretationem promittentibus inconveniens erit omissis initiis atque origine non repetita atque illotis ut ita dixerim manibus protinus materiam interpretationis tractare?».

La ricostruzione offerta porterebbe, in tal senso, ad intendere diversamente le implicazioni programmatiche-pragmatiche prospettate dal giurista nell’intero brano[7].

Composta, con buona probabilità, intorno al 159 d.C.[8], l’opera originaria di Gaio[9] si presenta come un commento ex professo del codice decemvirale, ove il lemma rappresenta la parte di testo che offre lo spunto al commentatore per l’esposizione critica[10].

E’ certo che il commentario fosse diviso in sei libri[11] e destinato all’insegnamento didattico, come fa pensare, tra l’altro, lo stesso genere adottato, quale probabile completamento del corso istituzionale[12].

La sua struttura parrebbe suggerire che il giurista, nell’esposizione del proprio lavoro, seguisse l’ordine delle tabulae decemvirali[13], racchiudendo in ogni liber il commento di due tavole[14].

La parte iniziale dell’opera contenuta nelle Pandectae risulta, ad una prima lettura, composta da due distinti periodi collegati opportunamente tra loro.

Nella parte iniziale del frammento (Facturus legum vetustarum interpretationem necessario prius ab urbis initiis repetendum existimavi, non quia velim verbosos commentarios facere, sed quod in omnibus rebus animadverto id perfectum esse, quod ex omnibus suis partibus constaret: et certe cuiusque rei potissima pars principium est) Gaio preannuncia che il suo interesse per le leggi antiche, delle quali si sta accingendo ad offrirne l’interpretatio, non è dettato da meri scopi eruditi o antiquari (non quia velim verbosos commentarios facere) ma, al contrario, è diretto alla ricerca e all’estrapolazione (dal passato) di quanto necessario per poter comprendere ed applicare al meglio il diritto vigente.

Le parole del giurista non lasciano adito a dubbi: in tutte le cose è perfetto ciò che consta di tutte le sue parti (sed quod in omnibus rebus animadverto id perfectum esse, quod ex omnibus suis partibus constaret) e di ogni cosa il principio è la parte più importante (et certe cuiusque rei potissima pars principium est).

Chiarissima è la qualificazione che il giureconsulto dà del principium: esso è, innanzitutto, pars, ovvero rappresenta la componente di qualcosa di più grande e complesso (il perfectum), nel quale si inserisce per completarne l’organicità e di cui nulla può venir trascurato.

Ma il principium, nelle parole di Gaio, non è solo pars ma, bensì, potissima pars.

L’utilizzo del superlativo relativo non può dar luogo fraintendimenti: il principium rappresenta, fra tutte le cose, la parte più importante di esse, dalla quale non si può assolutamente prescindere.

Ma vi è di più. Con l’utilizzo dell’espressione cuiusque rei il giurista mette in luce il valore che, in concreto, intende attribuire al principium appena introdotto. Pur parlando, in termini generali, di omnes res il giureconsulto si riferisce, difatti, ad legem, con l’ovvia conseguenza che il principium non può che essere la potissima pars di ogni istituto e sistema giuridico vigente[15] in un sistema pressoché chiuso.

Nella seconda parte del frammento (rem exponere: quanto magis interpretationem promittentibus inconveniens erit omissis initiis atque origine non repetita atque illotis ut ita dixerim manibus protinus materiam interpretationis tractare? namque nisi fallor istae praefationes et libentius nos ad lectionem propositae materiae producunt et cum ibi venerimus, evidentiorem praestant intellectum) Gaio introduce, invece, una similitudine con gli oratori giudiziari.

Si tratta di un’esposizione di natura argomentativa, ove il giurista, in chiave analogica, evidenzia l’importanza di risalire al principio nello stesso modo in cui, nel foro, per coloro che trattano le cause risulta conveniente fare una prefazione iniziale al iudex prima di arrivare a trattare del merito della causa stessa.

In entrambi i casi il risultato a cui si giunge è il medesimo: si introduce più volentieri la materia proposta e, una volta, giunti ad essa si garantisce una migliore comprensione (namque nisi fallor istae praefationes et libentius nos ad lectionem propositae materiae producunt et cum ibi venerimus, evidentiorem praestant intellectum).

In un simile contesto non può passare inosservato l’interesse che Gaio manifesta per studi e raffronti con esperienze ed istituti giuridici arcaici, anche estranei allo ius romanum, ed, in particolar modo, il suo rapporto con la storia giuridica.

L’attenzione che il giureconsulto professa, in particolare, per gli istituti e le norme desuete è tale da indurre parte della dottrina a qualificare detta peculiarità come una vera e propria particolarità che lo differenzierebbe dal resto della giurisprudenza romana[16].

Il rapporto di Gaio con il passato si inquadra nella consapevolezza che il diritto è un fenomeno dinamico in divenire che non può essere compreso appieno se non una prospettiva storica che sembra essere quella della diacronia tra passato e presente[17].

In tale prospettiva, i frammenti del commento gaiano alle XII Tavole mostrano come il giurista, da una parte, svolgesse un’analisi testuale delle norme decenvirali al fine di una corretta comprensione letterale del testo, mentre dall’altra, evidenziando come lo stesso Gaio rapportasse costantemente quell’analisi – per quanto ci è dato sapere – anche all’esposizione dello sviluppo successivo del diritto[18].

Il giurista, difatti, pur manifestando veri e propri interessi eruditi, si limita ad un mero confronto tra passato e presente senza approfondire, in maniera organica ed esaustiva, l’argomento trattato, limitandosi, all’occorrenza, all’utilizzo di mere frasi di riempimento per completare le fila dell’excursus intrapreso con il proprio lavoro[19].

Gli interessi storici di Gaio parrebbero, quindi, non potersi scindere dall’intensa attività didattica svolta[20].

Nell’ambito dell’insegnamento svolto nelle province[21] Gaio realizza, difatti, una netta separazione tra scienza giuridica, da un lato, e pratica quotidiana, dall’altro, rivolgendo il proprio interesse allo studio dell’oramai consolidato ius civile a dispetto del più volubile diritto pretorio.

In tale prospettiva, l’attenzione e l’interesse per lo ius antiquum rivestono importanza in quanto consentono di comprendere ed applicare al meglio il diritto vigente, in piena sintonia con le finalità che il giureconsulto si prefigge di raggiungere con l’insegnamento.

Nella scuola, invero, la scienza giuridica può aprirsi a nuovi orizzonti ed il maestro può coltivare studi comparativi e utilizzarne sapientemente un cenno nella lezione[22].

Il giurista, non a caso, viene dalla dottrina maggioritaria individuato come “una modesta figura di studioso di provincia” o, ancor più, come “un giureconsulto non classico vissuto ai tempi dei classici”.

Da quanto esposto nelle pagine precedenti non è difficile comprendere la reale finalità a cui fu deputato il frammento tratto dall’opera del giureconsulto nel disegno complessivo delle Pandectae.

I temi di cui Gaio viene fatto portavoce dai commissari dell’Imperatore sono, del resto, molteplici e tutti di straordinaria importanza posti, non a caso, in un momento fondamentale della compilazione: la sua apertura.

Il passo del Gaius noster[23] era, infatti, destinato a costituire il principio della codificazione con l’introduzione sull’«origo atque procesus iuris sui nomia et origo magistratuum e sulla successio prudentium» nonché doveva essere coordinato con le disposizioni delle constitutiones programmatiche emanate nel periodo 530 - 533 d.C.

Ma vi è di più. Il passo del giurista doveva, preliminarmente, essere in sintonia con il contenuto dello ius romanum dei secoli precedenti posti nella medesima opera che si accingeva ad introdurre.

Questo fu reso possibile solo grazie ad un accurato lavoro di rimaneggiamento sul testo originario del giureconsulto, il quale, mirato a rielaborare il contenuto del commento ex professo senza mutarne la struttura portante[24], assicurò il necessario collegamento con il successivo frammento derivato dal liber singulari enchiridii di Pomponio.

Tramite l’excursus storico si rese, da un lato, omaggio alla millenaria storia giuridica di Roma evidenziando il processo che aveva portato fino all’opera di codificazione di Giustiniano e, da l’altro, si ridusse il passo di Gaio a mera premessa, o se si preferisce di praefatio

Il fine perseguito dall’imperatore era, del resto, inequivocabile: «nec in iudicio nec in alio certamine, ubi leges necessariae sunt, ex aliis libris, nisi ab iisdem institutionibus nostrisque digesti set constitutionibus a nobis compositis vel promulgatis aliquid vel recitare velo ostendere, nisi temerator velit falsitatis crimini subiectus una cum iudice, qui eorum audientiam patiatur, poenis gravissimis laborare»[25].

I Digesta erano stati concepiti, fin dal principio, per costituire la sola fonte del diritto vigente, ove ogni lacuna, incertezza o contraddizione sarebbe stata risolta «ex auctoritate Augusta manifestetur, cui soli concessum est leges et codere et inerpretari pena»[26].

Ove fossero state emesse ulteriori interpretazioni del diritto, o piuttosto, stravolgimenti dei testi che lo producevano «ipsi quidem falsitatis rei constituantur, volumina autem eorum omnimodo corrumpernur»[27].

E’ nell’espressione potissima pars, con cui il giureconsulto non esita a qualificare il principium, che, con certezza, si può cogliere la vera essenza del pensiero che Triboniano intese attribuire alle parole di Gaio quale prologo alla raccolta della più illustre giurisprudenza del periodo classico che l’Imperatore si accingeva a consegnare alla storia[28].

Nel pensiero del giureconsulto il diritto non poteva essere compreso se non attraverso la conoscenza della sua origine e della sua evoluzione, acquisendo il sapere del millenario e glorioso passato dell’Urbs, partendo dalla codificazione dei decemviri del V secolo a.C. per terminare con l’opera che si stava ponendo in essere.

Il principium, doveva, pertanto, essere necessariamente inteso in chiave ideologica con il fine ben preciso di sottolineare lo stretto legame tral’inizio del millenario ius romanum e quel che ne era derivato nei secoli, con lo scopo ben preciso di sostenere lo stesso risultato che il giureconsulto si prefiggeva di raggiungere nella sua opera: «facturus legum vetustarum interpretationem necessario prius ab urbis initiis».

La commissione delimitò, in tal modo, sin dal principio, i margini temporali del proprio lavoro: gli urbis initia[29], o, se si preferisce, i «populi romani ius ad urbis initia»[30].

I commissari si limitarono, pertanto, a ridurre la portata del concetto principium-praefatio restringendolo ai soli precedenti storici in genere e, nel caso di specie, all’antefatto.

In tale prospettiva, parrebbe sicuramente genuina la prima parte del frammento, ove il giurista introduce il concetto di principium, mentre lo stesso parrebbe non potersi affermare per la successiva similitudine con cui si chiude il frammento, anche se la medesima si presenta, in ogni caso, in chiara sintonia con i concetti già espressi dal giurista in apertura del passo. Il quanto magis con cui si apre la seconda parte dell’enunciazione farebbe, difatti, pensare che la trattazione circa il principium, sebbene presenti qualche punto di contatto con la praefatio degli oratori giudiziari, sia diversa da essa[31].

 

 

 



[1] Si veda la letteratura indicata da F. Gallo, La Storia in Gaio, in Il modello di Gaio nella formazione del giurista, Atti del convegno torinese del 4-5 maggio 1978 in onore del Prof. Silvio Romano, Milano 1981, 91 ivi nt. 3; da L. Lantella, Potissima pars principium est, in Studi in onore di Cesare Sanfilippo, 4, Milano 1983, 286 ss.; e da S. Schipani, Principia iuris. Potissima pars principium est. Principi generali del diritto. Schede sulla formazione di un concetto, in Nozione formazione e interpretazione del diritto, dall’età romana alle esperienze moderne. Ricerche dedicate al Professor Filippo Gallo, Napoli 1997, 631 ss.; ID., La codificazione del diritto romano comune. Ristampa accresciuta, Torino 1999, 101 ss.

In relazione alla più recente letteratura si veda: M. D’Orta, Diritto e storia: percorsi in sinergia, in Tradizione romanistica e Costituzione, 2006, 783 ss.; F. Sini, Urbs: concetto ed implicazioni normative nella giurisprudenza, in Diritto@Storia 10, 2011-2012 (http://dirittoestoria.it/10/TradizioneRomana/Sini-Urbs-concetto-norme-giurisprudenza.htm); J.F. Stagl, Das didaktische System des Gaius, in Zeitschrift der Savigny-Stifung fűr Rechtsgeschichte. Romanistiche Abteilung 131, 2014, 313 ss.; R. Quadrato, D.1.2.1: Gaio fra storia e retorica, in Scritti per Alessandro Cobino 6, 2016, 113 ss.

[2] F. Pringsheim, in un lavoro degli anni ’30 del secolo scorso, ha dedicato un apposito capitolo al rapporto dell’Imperatore del VI secolo d.C. con le XII Tavole dal titolo Justinian und die XII Tafeln. L’autore, partendo dall’esame del trasferimento del dominio con la compravendita in Inst. Iust. 2.1.41, giunge, nel tentativo di documentare un caso concreto delle tendenze arcaiche dei compilatori, alla conclusione che: «Es liegt nahe andre Fälle aufzusuchen, in denen die Byzantiner i den XII Talfen Anknűpfung fűr ihre Gedanken gesucht haben». Secondo il Pringsheim i commissari di Triboniano non avrebbero, quindi, inventato alcun principio della legislazione decemvirale ma avrebbero, al contrario, fatto riviverne uno già esistente (e sorpassato) nella legislazione vigente del VI secolo d.C. La commissione, in sostanza, conclude l’autore, avrebbe attribuito la paternità di una norma alle XII Tavole senza che la medesima fosse stata, in realtà, contenuta nella legislazione decemvirale. Di contro A. Berger, Vi sono nei Digesti citazioni interpolate delle Legge delle XII Tavole, in Studi in onore di Salvatore Riccobono, 1, Palermo 1936, 585 ss., ha integralmente confutato l’ipotesi del Pringsheim, smentendo le pretese interpolazioni al codice decemvirale compiute dalla commissione tribonianea. L’autore giunge, difatti, alla conclusione che in nessun testo preso in esame dal Pringsheim nella sua ricerca sarebbe possibile riscontrare un’alterazione bizantina che testimoni le tendenze arcaiche di Giustiniano. Il Berger, al contrario, rileva che, talvolta, la medesima commissione ha intenzionalmente soppresso dall’originale del passo inserito nei Digesta la menzione di Lex duodecim tabularum o che, in ogni caso, si è ben guardata dal citarla anche ove se ne presentava l’occasione. Secondo l’autore si fa, difatti, fatica a comprendere perché la commissione tribonianea, chiamata ad operare in base alle direttive della Deo Auctore ed avendo, in forza della medesima constitutio, già compiuto diverse alterazioni, avrebbe avuto la necessità di introdurre in una ventina di frammenti false citazioni del codice decemvirale fino al punto di arrivare a violare la medesima autorizzazione imperiale. Tanto più che, ove pacificamente si ammettesse l’assunto, come, peraltro, già avvenuto in passato da parte della dottrina per tentare di giustificare l’intento di attribuire a taluni principi un’impronta di maggiore autorevolezza, si giungerebbe necessariamente alla conclusione che nelle Pandette vi siano centinaia di citazioni delle XII Tavole; conclusione naturalmente disattesa dal contenuto della compilazione.

[3] T. Mommsen, Gaius ein Provinzialjurist, in Gesammelte Schriften, 2, Juristiche Schriften, Berlin 1905, 33; F. Schulz, Einfűhrung in das Studium der Digesten, Tűbingen 1916, 18; L. Wenger, Die Quellen des römischen Rechts, Wien 1953, 119.

[4] F. Schulz, Einfűhrung in das Studium der Digesten, cit., 18. L’autore, partendo dalla riflessione che il verbo repetere, ha natura transitiva e richieda, pertanto, un complemento oggetto, giunge alla conclusione che la parola prius sia necessariamente fuori luogo nel contesto della frase poiché la priva dell’oggetto rendendola, in sostanza, senza alcun significato concreto. Diversamente, intendendo la parola quale abbreviazione di populi Romani ius si riesce, invece, a fornire al verbo repetere un complemento oggetto ed ad attribuire alla frase un significato di senso compiuto.

[5] A. Berger in Some remarks on D.1.21 and CIL. 6.10298, in IURA - Rivista internazionale di diritto romano e antico 2, 1951, 102 ss., difende la genuinità del termine prius e si schiera contro la ricostruzione del Mommsen che l’originale del frammento di Gaio avesse p(opuli) R(omani) ius. L’autore prende le mosse dall’assunto che la parola prius compare frequentemente nell’opera istituzionale del giurista con lo stesso significato che il termine assume in D.1.2.1, ovvero viene adoperato da Gaio quando nell’approccio ad un argomento di vaste proporzioni un altro argomento avrebbe dovuto essere trattato in precedenza, tenendo ben presente che tutto ciò che per il giurista andava bene per le Istituzioni non doveva essere fuori luogo per il Commentario alle XII Tavole. Tanto premesso, il Berger individua nell’erroneo significato attribuito al verbo repetere la fonte del malinteso posto alla base dell’ipotesi ricostruttiva del Mommsem, così come avvallata dallo Schultz. Secondo l’autore era, difatti, costruzione sintattica di uso frequente in Gaio ed, in generale, nei giuristi classici quella di utilizzare il verbo in senso intransitivo ed in modo impersonale senza che il medesimo richiedesse un sostantivo nella frase. Ma vi è di più. L’espressione populi Romani ius non sarebbe stata, inoltre, familiare nel linguaggio giuridico dell’epoca ed, in ogni caso, mal si sarebbe sposata con il quadro degli istituti trattati da Gaio, i quali non si riferivano prevalentemente all’origine del diritto agli inizi dell’urbe.

[6] Si veda W. Kalb, Das Juristenlatein. Versuch einer Charakterristik auf Grundlage der Digesten, Nürnnberg, 1888, 65; E. Grupe, Zur Sprache der Gaianischen Digestenfragmente, in Zeitschrift der Savigny-Stifung fűr Rechtsgeschichte. Romanistiche Abteilung 17, 1896, 322; G. Beseler, Beiträge zur Kritik der römischen Rechtquellen, 3, Tubinga 1913, 131; E. Albertario, Sulla dotis datio ante nuptias, in Rendiconti del Regio Istituto Lombardo di Scienze e Lettere 8, 1925, 251 ss.

[7] F. Gallo, La Storia in Gaio, cit., 92, partendo dall’osservazione del Casavola, secondo cui nella seconda parte del frammento al principium sia da attribuire il ruolo di antefatto, giunge alla conclusione di considerare alterato, sempre nell’ottica offerta dal Casavola, il passo per poi fornire una nuova interpretazione compatibile con la prima parte del frammento ove il principium è concepito come pars.

[8] O. Lenel, Palingenesia iuris civilis, Lipsia 1889, col. 242.

[9] S. Morgese, Appunti su Gaio ad Legem Duodecim Tabularum, in Il Modello di Gaio, cit., 109 ss., ha ritenuto che il titolo originale dell’opera avrebbe potuto essere Ad Legem Duodecim Tabularum; ovvero Ad Legem Duodecim Tabularum libri sex, o ancora, Ad Legem Duodecim Tabularum libri.

[10] A. Guarino, Il Ragioniere Gaio, in Labeo. Rassegna di diritto romano 35, 1989, 342, ritiene che, prescindendo dalle Res cottidianae (della cui genuinità si dubita) e da altre opere minori, i libri ad edictum, quelli ad edictum provinciale, quelli ad legem duodecim tabularum nonché quelli ad legem Iuliam et Papiam, ci mostrano un giurista (di cui i brani nella palingenesi leneliana, escluse le Istituzioni, sono non meno di 521) molto attento al diritto dei suoi tempi e pienamente in grado di interpretarlo col metodo casistico.

[11] Come si rileva dall’Index Florentinus.

[12] O. Diliberto, Materiali per la palingenesi delle XII Tavole, I, Cagliari 1992, 53.

[13] L. Amirante, Per una palingenesi delle XII Tavole, in Index 18, 1990, 391 ss.

[14] Si veda la letteratura indicata da O. Diliberto, Materiali per la palingenesi delle XII Tavole, cit., 54, nota 140.

[15] F. Gallo, La Storia in Gaio, cit., 91.

[16] F. Schultz, I principi del diritto romano, trad. it. V. Arangio Ruiz, Firenze 1946, 89 ss.

[17] O. Diliberto, Materiali per la palingenesi delle XII Tavole, cit., 58.

[18] O. Diliberto, Materiali per la palingenesi delle XII Tavole, cit., 59.

[19] F. Casavola, Gaio e il suo tempo, in Labeo. Rassegna di diritto romano 12, 1976, 16 ss., rileva che il giurista si differenzia nettamente da Pomponio, il quale presenta un’attitudine storiografica autonoma e non strumentale che lo porta ad aderire al suo oggetto con l’attenzione e la disponibilità di chi privilegia il passato e lo loda. In Gaio, invece, la tecnica dell’inserto storico funziona per verificare il progresso dei moderni sugli antichi, in un continuo e meccanico contrappunto con la conseguenza che al giurista manca quella coscienza storiografica, la quale è altra cosa rispetto alla mera curiosità per le memorie storiche.

[20] F. Gallo, La Storia in Gaio, cit., 94, evidenzia che il dato più significativo è costituito dal fatto che il giureconsulto vede nel diritto un fenomeno storico ed estende tale visione al presente. S. Morgese, Appunti su Gaio ad Legem Duodecim Tabularum, cit., 124, afferma che, anche se non sappiamo se Gaio facesse all’interno della trattazione un vero e proprio confronto con il diritto vigente, sta di fatto che il lettore avrebbe potuto, spesso immediatamente, riconoscere il nucleo o la ratio della normativa vigente nel contenuto delle Tavole e della interpretatio operata su di esse, in quanto il giurista si limitava, normalmente, a riferire la tradizione interpretativa elaborata sulle leggi stesse.

[21] T. Honorè, Gaius, Oxford 1962, 84 ss., ipotizza che il giurista abbia fatto volontariamnete esilio da Roma nelle province dell’Impero per concludere il proprio cammino a Berito.

[22] F. Casavola, Gaio e il suo tempo, cit., 10.

[23] Const. Cordi § 5.

[24] F. Gallo, La Storia in Gaio, cit., 91 ss., ritiene che le ipotesi ricostruttive indicate dalla dottrina non incidano in maniera apprezzabile sulla concezione esposta nel frammento, la quale, proprio grazie alle manipolazioni indicate, risponderebbe alla perfezione agli scopi perseguiti dalla commissione tribonianea.

[25] Const. Tanta § 19.

[26] Const. Tanta § 21.

[27] Const. Tanta § 21.

[28] Const. Tanta § 23: «… in omne aevum valituras et una cum nostris constitutionibus pollentes et suum vigorem in iudiciis ostendedentes in omnibus causis, sive quae postea emerserint sive in iudiciis adhuc pendent nec eas iudicialis vel amicalis forma compescuit».

[29] F. Schultz, Storia della giurisprudenza romana, trad. it G. Nocera, Firenze 1968, 333 ss., rileva che l’idea di cominciare dagli inizi era stata già espressa da Quintilianus nella Institutio oratoria ed, in precedenza, dal greco Ierocle. 

[30] L. Lantella, Potissima pars principium est, cit., 317, abbraccia la tesi dell’interpolazione del frammento gaiano con la contestuale ricostruzione proposta dal Mommsen.

[31] F. Gallo, La Storia in Gaio, cit., 93.