Rinolfi-foto-2019Attualità del diritto romano.

A proposito del recente libro di R. Cardilli,

Fondamento romano dei diritti odierni *

 

 

CRISTIANA M.A. RINOLFI

Professore aggregato di Diritto romano

Università di Sassari

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* R. Cardilli, Fondamento romano dei diritti odierni [Studi su origine ed attualità del sistema romano, N.S. 1], G. Giappichelli Editore, Torino 2021, LXV-567 pp. – ISBN: 978-88-921-4049-3.

 

 

 

Tra le recenti pubblicazioni, segnalo il volume di Riccardo Cardilli, Fondamento romano dei diritti odierni, Torino 2021, che inaugura la Nuova serie della collana Studi su origine ed attualità del sistema romano, a cura di Id. – Pierangelo CatalanoGiovanni LobranoAntonio SaccoccioFrancesco SiniFranco Vallocchia. L’opera, che segue l’ordine sistematico dell’Imperatore Giustiniano rispetto ad alcuni concetti fondamentali, si dipana sullo sfondo della felice nozione lapiriana di «diritto romano vivente» e costituisce una compiuta analisi critica della realtà giuridica contemporanea alla luce del sistema giuridico romano capace di rimuoverne “i veli e gli impedimenti”.

Le PREMESSE si aprono con Diritto romano e diritti odierni, dove si espongono alcune delle critiche rivolte al diritto romano mosse dalle ideologie comparse nella storia europea del XX secolo: il marxismo (e in seguito il leninismo), il nazionalsocialismo e il normativismo. Si tratta di concezioni profondamente differenti tra loro ma che concordano nell’intendere il sistema giuridico di Roma antica foriero di contenuti valoriali ingiusti. L’Autore, tuttavia, rileva che questa stigmatizzazione non sia effettivamente rivolta al ius Romanum come tale: il biasimo di Karl Marx, e delle teorie marxiste-leniniste era diretto al diritto romano borghese, ovvero alla reinterpretazione di stampo liberale realizzata dalla Scuola storica del diritto, laddove la condanna dei nazionalsocialisti attaccava il diritto romano quale diritto straniero e vigente, confondendolo con il diritto privato borghese elaborato dalla pandettistica tedesca e codificato nel Bürgerliches Gesetzbuch; mentre il normativismo formulato da Hans Kelsen reputa imprescindibile, al fine di costruire una scienza giuridica positivistica “pura”, liberarsi dai condizionamenti del diritto romano (confuso, anche in questo caso, con la sua “re-interpretazione” pandettistica), che rappresenta un sistema viziato da una visione soggettivistica in quanto costruito sull’attività della giurisprudenza che conciliava le soluzioni giuridiche ai valori propri della società in cui operava. Il giuridico contemporaneo, di forte connotazione statualista, esclude il diritto romano («la grammatica profonda del diritto odierno») dagli strumenti atti al miglioramento delle società in favore di altri, quale l’economia, per questo Cardilli auspica come i giudizi negativi rivolti al ius Romanum non siano dimenticati al fine di evidenziare a contrario come tale sistema giuridico «non sia in realtà, né il demonio della conservazione e dell’immobilismo, né un totem di cui liberarsi, né un contenuto messianico di liberazione delle società moderne dai mali che le affliggono» (XXII). Il diritto romano, se esattamente inteso da un punto di vista concettuale, si conferma, invece, quale solido mezzo di critica al diritto odierno, atto a svelarne i condizionamenti ideologici sottesi della contemporaneità giuridica, a superare i problemi generali del diritto e a combattere ingiustizie e diseguaglianze (questi ultimi derivanti sia dagli schemi giuridici che a partire dal XIX secolo hanno fatto da base alla società capitalistica, ovvero la proprietà privata dei mezzi di produzione e il libero contratto di lavoro; sia dal modello del debito, della obbligazione, scelto dall’attuale capitalismo finanziario). Nel contributo seguente si riflette sulle connessioni tra Il diritto romano e i «Fondamenti del diritto europeo», evidenziando come l’accorto legislatore” collocando, non senza qualche obbiezione, questo insegnamento universitario in seno alle materie di diritto romano, riconosce il ius Romanum quale base del diritto dei paesi dell’Europa «senza per questo però esaurire i possibili filoni identitari del modello giuridico europeo» (XLIV). I propugnatori delle maggiori critiche sollevate dall’inquadramento di «Fondamenti del diritto europeo» nel Settore Scientifico Disciplinare Ius/18 insistono sulle presunte difficoltà intorno a quale diritto romano si debba far riferimento, in quanto, sulla base di un intendimento statico, sostengono l’esistenza di differenti diritti romani emersi in specifiche fasi della plurisecolare storia di tale esperienza giuridica. L’Autore, però, nota come il ius Romanum rapportato al diritto europeo debba essere colto in modo ampio e duttile «nella sua pienezza storica e nelle sue innumerevoli trasformazioni e modificazioni come espressione esso stesso dell’idea di sistema» (XLVI). Nonostante i pregiudizi, di cui la condanna kelseniana appare un paradigma, che hanno ostacolato la “valorizzazione” del diritto romano quale “formidabile strumento di critica” del dato giuridico odierno, si è avuta una proficua fase di studi intorno agli anni ’70-’90 del secolo scorso – di cui si offre una panoramica – che, procedendo a una rilettura della scienza del diritto romano, specialmente attraverso l’affrancamento dalla “gabbia concettuale pandettistica” che pervade la dogmatica non soltanto occidentale, ha permesso di aprire un dialogo con la cultura giuridica attuale. Il diritto romano che si presenta “a-nazionale” permette infatti, come era nell’intento originario di «Fondamenti del diritto europeo», di superare i condizionamenti ideologici dei singoli Stati d’Europa, in quanto il suo sistema valoriale costituisce un «forte fattore identitario della cultura giuridica europea (e non solo)» (LXIII).

IUS NATURA LIBERTAS prende l’avvio con I. Ius a iustitia appellatum est, studio che pone a confronto il concetto di giustizia, connesso con l’etica, presso gli antichi e i moderni. Per le società antiche, in misura diametralmente opposta rispetto alla realtà contemporanea, si registra una prospettiva fortemente comunitaria, dove il gruppo sociale condizionava il singolo individuo. L’ottica individualista e soggettiva che pervade la cultura giuridica odierna, in cui l’etica appare nettamente distinta dal diritto, è frutto di un lungo percorso: nel medioevo, in relazione alla condotta del singolo, il Cristianesimo sostituì il giudizio sociale con un giudizio morale basato sui valori del culto; successivamente, lo Stato moderno, ambendo ad acquisire il medesimo ruolo della religione, stabilì dei precetti etici “minimi” volti a sanzionare gli illeciti; a partire dal XVII secolo con il giusnaturalismo che riconobbe centralità al subiectum iuris, poi con il Rechtssubjekt della Scuola Storica, in Germania si arrivò alla deriva propria della società liberale dell’Ottocento che propugnò per il diritto privato un modello basato sull’individuo e sulla sua volontà, preparando così le basi all’ascesa di totalitarismi e al superamento del sistema statale quale mediatore del conflitto di classe proprio della società borghese nella prima metà del XX secolo. In merito al sistema romano, nella nozione offerta da Ulpiano[1] che, sebbene per Kelsen sia soltanto una Leerformel, la giustizia è intesa quale “virtù soggettiva universale”, ovvero qualità che potrebbe appartenere a ogni essere umano. In Roma antica, quindi, si intendeva la giustizia secondo una prospettiva dinamica, tesa ad attribuire a ciascuno quanto spettante e capace potenzialmente di innovare e migliorare il diritto attraverso l’attività di iustitiam colere svolta dai giuristi[2], in base al contenuto sostanziale e non alla validità formale. Cardilli passa poi all’esame di altre fonti antiche rimarcando la compenetrazione tra diritto, società e morale ed escludendo la distinzione secondo la visione kantiana dei doveri sul piano giuridico da quelli etico-morali propria della realtà giuridica odierna. In particolare, in Cicero, De off. 3.64-66, la ripartizione in officium e in obligatio deriva non a livello di contrapposizione del contenuto della condotta ma in relazione alla responsabilità, così pure in D. 13.6.17.3 (Paulus, libro vicensimo nono ad edictum), le nozioni beneficium, officium e obligatio posseggono significati diversi, funzionali alla riflessione tecnica del giurista in merito al regime contrattuale e alla volontà dei contraenti, e in D. 16.3.31 pr. (Tryphoninus, libro nono disputationum), in cui i concetti di bona fides, aequitas e iustitia subiscono uno slittamento di accezione nello specifico contesto della disputatio retorica. Segue poi II. Ius civile, XII Tavole e interpretatio prudentium, ricerca mirata a comprendere come le leges Duodecim Tabularum incisero nella interpretazione pontificale a fronte della testimonianza di Pomponius, libro singulari enchiridii (D. 1.2.2.38) per cui nei Tripertita di Sesto Elio Peto Cato il testo normativo sarebbe stato congiunto alle interpretationes (… lege duodecim tabularum praeposita iungitur interpretatio …). Secondo Jhering, dal periodo postdecemvirale fino a Sesto Elio, i pontefices avrebbero ancorato l’interpretatio al dettato legislativo al fine di rivendicarne la forza creatrice[3]. Cardilli, constatando nelle fonti una costante richiamo della interpretazione pontificale ai verba legis, procede a una verifica intorno a questa presunta vincolatività della Legge delle XII Tavole anche nei secoli successivi al 450 a.C. Dopo aver escluso l’esistenza, paventata in letteratura, di due distinte fasi dell’interpretazione pontificale postdecemvirale in riferimento alle tecniche utilizzate (450-300 a.C. e 300-200 a.C.), l’Autore individua in tale interpretatio un collegamento al vocabolario delle XII Tavole finalizzato non a chiarirne il significato (come avverrà in seguito alla laicizzazione della giurisprudenza), ma teso a fissarne il senso allorché si fosse dovuto ampliare o circoscrivere il dettato legislativo. L’appiglio alle leges Duodecim Tabularum si manifesta anche quando i pontefici crearono nuovi atti giuridici che dovevano trovare accettazione presso i cittadini con la recezione moribus; in tal modo il collegio, in aggiunta alla sua auctoritas, coglieva la «sua legittimazione ex ante (quella del iussum populi)»(78). Si deve, così, negare sia l’esistenza di una tendenza “positivistica” nell’interpretazione pontificale assimilata alla prospettiva odierna, dove il giurista è subalterno alla norma giuridica, sia il carattere legislativo del ius civile successivo all’emanazione delle XII Tavole, a fronte del rapporto tra ius civile/mores/lex/interpretatio. In III. Ius gentium e societas vitae. Il sistema romano si afferma come si possa intendere maggiormente «la autonoma forza creativa del contratto concluso, nella quale la percezione di essa come ius non è mediata da un riconoscimento legale» (81) soltanto affrancandosi da una visione “ordinamentale e statual-legalista” del negozio giuridico. A tal fine si dà conto delle soluzioni giurisprudenziali totalmente originali adottate intorno al III-II sec. a.C. per riconoscere tutela alla prassi dei traffici commerciali dell’area del Mediterraneo tra Romani e stranieri, secondo una prospettiva conservata dai Sabiniani (Gaius, Inst. 3.135 ss.), risalente quasi sicuramente a Quinto Mucio Scevola, che si distingueva dalla visione “appiattente” di Ulpiano, il quale annoverava tali contrattazioni tra le conventiones iuris gentium (Ulpianus libro quarto ad edictum, D. 2.14.5, D. 2.14.7 pr.-1). I giuristi repubblicani individuarono ‘forme’ di contrattazione commerciale, tipizzate sulla base del principio consensualistico, in tal modo appagavano le esigenze economico-sociali delle parti di diversa cittadinanza e ne valorizzavano giuridicamente la conventio, atta a costituire un vincolo in termini di oportere ex fide bona. Nel sistema romano si riconobbe, così, rilevanza all’accordo tra le parti, ovvero al requisito del “minimo comune giuridico”, al fine di permettere la tutela del pretore peregrino, senza considerare quale forma, in base ai diversi costumi commerciali, assumessero le contrattazioni, e si interpretò la complessa realtà in chiave universale di ius gentium, inteso quale diritto consuetudinario, poiché preesistente nella prassi commerciale, e sovranazionale, capace di regolare i rapporti tra tutti gli uomini[4]; questa prospettiva sovranazionale, se ricondotta all’odierna realtà degli scambi commerciali, permetterebbe di «riacquistare una capacità di lettura con occhiali concettualmente adeguati a dare veste tecnica ad essa» (96). Il contributo successivo, IV. Libertà naturale e ius naturale, esamina il concetto di libertas naturalis presente nelle fonti giuridiche del II e III sec. d.C. La prima testimonianza analizzata è Gaius, Inst. 2.66-69, il quale includeva la cattura di ferae bestiae, volucres e pisces in seno ai modi di acquisto fondati sulla ratio naturalis. Secondo tale lettura, si trattava di un dominium non definitivo poiché l’animale, se fosse stato in grado di svincolarsi dalla cattività e di riottenere la sua libertà naturale, sarebbe tornato a essere animal nullius. Il giurista antoniniano, poi, sulla base della comune ratio naturalis, poneva in relazione tale modo di acquisto del dominium a quello della preda di guerra, senza però far riferimento a una disciplina analoga rispetto all’estinzione della proprietà. La visione antropocentrica e potestativa fu ribaltata nelle Res cottidianae, in un frammento (O. Lenel nr. 491) dove si approfondisce l’argomento secondo una angolazione tutta polarizzata sull’animal. Qui il caso degli homines liberi caduti in potestas hostium è posto in relazione con quanto detto in materia di animali selvatici non soltanto in riferimento al momento dell’acquisto del dominium, ma anche, attraverso una terminologia in uso in altre fonti in materia di postliminium, alla sua estinzione, nel caso di riacquisto della pristina libertas. Ulpiano svilupperà la tematica gaiana della libertas naturalis, considerata spesso in letteratura sul piano fattuale e non giuridico, in seno alla nuova “categoria storica” di ius naturale (libro primo institutionum, D. 1.1.4). Nel frammento del giurista severiano si affronta l’argomento secondo un approccio storico per cui dapprima esisteva il ius naturale, che attraeva il concetto unitario di homines titolari di libertà naturale, e successivamente vi fu l’avvento del ius gentium, con cui si istituì la distinzione liberi-servi. Se per Gaio la nozione di libertas naturalis è funzionale per segnare il momento dell’estinzione del dominium e della potestas hostium, ma sempre in seno al diritto delle genti, nell’ottica ulpianea questa è funzionale per contrapporre ius naturale e ius gentium. La libertà naturale, pur non essendo azionabile processualmente, è collocata così da Ulpiano in ambito giuridico in quanto, una volta riconquistata, non è contestabile. Nelle codificazioni civili europee, il diritto delle persone ruota intorno alla costruzione delle capacità giuridiche individuali in cui l’essere umano assume un ruolo laterale rispetto alla nozione astratta di soggetto di diritto, laddove nel sistema giuridico romano gli homines erano concretamente i singoli individui i quali, secondo specifici status, componevano i gruppi sociali; perciò la nozione di libertas naturalis deve essere recuperata dal giurista odierno, al fine di comprendere le articolate condizioni giuridiche assunte dagli uomini in seno alle comunità civili. L’opera prosegue con V. Actio e ius, indagine incentrata, per usare l’autorevole espressione di Riccardo Orestano[5], sul “problema dell’azione” che – nota Cardilli – si può risolvere liberandosi dalla idea di azione quale atto ancillare di “difesa” del diritto soggettivo, frutto dei condizionamenti ideologici del diritto privato borghese. A tal fine, si esamina nel suo divenire storico il complesso ruolo dell’actio nel diritto romano, con particolare riguardo per un frammento di Celso, il quale si adopera a discernere gli elementi distintivi dell’istituto (libro tertio digestorum, D. 44.7.51: Nihil aliud est actio quam ius quod sibi debeatur, iudicio persequendi). Per il giurista l’azione, osservata nel suo momento dinamico, non è mezzo accessorio del diritto, ma è ius. Essa appare, quindi, “strumento propulsivo” per la partecipazione dei cittadini (e dei peregrini nel processo formulare) al dicere ius magistratuale, aperto alle istanze per la tutela sia di quanto già previsto dal sistema giuridico, sia di nuove situazioni. Le Istituzioni giustinianee[6] ripresero la concezione celsina dell’azione, ma ne ridussero le potenzialità poiché restrinsero il sistema aperto alle sole situazioni annoverate nella codificazione, secondo una prospettiva che in sostanza è presente nei moderni codici. La scienza giuridica odierna, quindi, avrà il compito di «dare concretezza in termini di actio esercitata dai singoli al ius-sistema, dando così forza a quei principi portanti che lo alimentano e ciò a prescindere ed indipendentemente dai singoli ordinamenti giuridici e dalla loro codificazione dell’azione come difesa dei diritti soggettivi in essi formalmente (e quindi anche delimitatamente) riconosciuti» (133).

Il primo saggio di RES PUBLICA, dedicato a VI. Democrazie e repubbliche, riguarda i concetti di diritto pubblico romano accolti dal costituzionalismo latino (contraddistinto per il ruolo superiore della comunità rispetto al singolo, il rafforzato potere popolare attraverso istituti di democrazia diretta, e l’istituzione di un potere negativo), modello costituzionale contrapposto a quello borghese (caratterizzato in particolare dalla separazione dei poteri e il riconoscimento delle libertà individuali quali diritti umani fondamentali). L’affermazione di Catone il Censore (tramandata da Cicero, De re publ. 2.2), secondo cui la res publica Romana, a differenza delle civitates greche, sarebbe nata saeculis et aetatibus constituta per mezzo dell’ingenium multorum, riconobbe natura consuetudinaria a tale costituzione, frutto del contributo dei singoli cives nel corso dei secoli. Tale prospettiva dinamica e sostanziale del diritto, dove «la conflittualità e l’eccezionalità non sono percepite come espressioni esclusive del fatto, del ‘non diritto’, del ‘pregiuridico’, ma sono attratte nel giuridico» (141 s.), appare, così, alternativa a quella odierna, statica e formale. Si passa poi a illustrare le nozioni fondamentali del ius publicum: le tre declinazioni di res publica [1. res publica quale res populi (Cicero, De re publ. 1.39), concetto non orientato sulle forme di governo, che evidenzia la struttura materiale della costituzione dove il popolo, inteso come insieme concreto di cittadini, è centrale; 2. civitas come constituti populi (Cicero, De re publ. 1.41-42), ovvero civitas quale spazio di “esercizio politico reale” del populus; 3. res Romana, espressione attinente al diritto pubblico (D. 1.1.1.2, Ulpianus, libro primo institutionum), dove manca la qualifica di publica, probabilmente a causa della “concezione imperiale ulpianea”]; l’idea concreta di populus connotato dal principio politico-volontaristico (Cicero, De re publ. 1.39); urbs quale constitutio populi, spazio politico aperto e struttura costituente (Cicero, De re publ. 1.41). In merito alla nozione romana di “potere”, rilevante lascito della tradizione di Roma antica, VII. Il problema del potere: imperium contro ‘sovranità’ parte dalla teoria mommseniana che, sebbene intenda l’imperium in modo unitario, in quanto il comando militare sarebbe inseparabile dal potere magistratuale, al contempo afferma al suo interno la addizione di altri poteri. Questa ipotesi ha portato la storiografia giuridica tendenzialmente a individuare, seppur in termini funzionali, la separazione nell’esercizio del potere stesso, minando in tal modo la portata del concetto nodale romano dell’unitarietà dell’imperium. La natura unitaria, indivisibile, concreta e a vocazione universale del potere in Roma antica, scevra dall’idea di una separazione dei poteri, si profilò fin dall’età del Regnum. Secondo questa prospettiva, il potere esisteva soltanto con un titolare “in carne e ossa” che lo esercitava in quanto meritevole a detenerlo in forza del principio volontaristico di investitura. L’imperium, pertanto, come emerge in particolare in Cicero, De leg. 3.3-4, appare atto a consolidare «un rapporto con la comunità di cives in chiave democratica» e al contempo «si proietta (in chiave giuridico-religiosa) in una dimensione spazialmente universale nei confronti degli altri popoli» (158). Si ritorna sul tema dell’imperium populi Romani, in riferimento all’autonomia e alla libertà delle comunità cittadine, in VIII. Città contro Stati; argomento – precisa l’Autore – da non affrontare con il ricorso al principio della divisione dei poteri e secondo la prospettiva del rapporto Stato centrale-autonomie infra-statuali. La complessità del fenomeno dell’espansione romana impedisce di individuare un modello unitario nella gestione delle relazioni con le comunità preesistenti, laddove la politica, successiva alla guerra sociale, tesa a fondare un impero universale attraverso le città, comporta un modello antitetico rispetto alla odierna visione statalista di gestione delle autonomie. Nel sistema giuridico romano si registrano due tendenze, l’amministrazione provinciale in forza dell’imperium populi Romani e il riconoscimento delle autonomie cittadine, quest’ultimo da non intendersi alla luce dell’idea moderna di decentramento della sovranità statale. In materia, la prima fonte analizzata è Cicero, Ad Att. 6.1.15 e 6.2.4, il quale ricorda il modello politico-giuridico predisposto intorno al 94 a.C. da Quinto Mucio Scevola attraverso un editto diretto alle civitates peregrinae della provincia Asiae di cui era governatore. Il proconsole riconobbe ai Greci soggetti nella provincia asiatica la libertà di regolare i rapporti sulla base delle loro leggi (… sibi libertatem censent Graeci datam ) e di scegliersi giudici non romani, facoltà intesa dai Graeci in termini di ατονομα, contemperando in tal modo il rapporto tra imperium populi Romani e civitates peregrinae della provincia. Un’altra importante testimonianza è rappresentata dall’oratio de Italicensibus dell’imperatore Adriano, ricordata da Gellius, Noct. Att. 16.13.6 e 8-9, in merito alla politica di inclusione municipale, che intende i municipes quali cives che, sulla base di una partecipazione volontaria, suis legibus et suo iure uti, diversamente dai cittadini delle colonie, sottoposti al diritto del popolo Romano di cui erano una propagazione. Si passa poi all’analisi del pensiero di Servius Sulpicius filius ricordato da Festus, v. Municeps, p. 126 L. in contrapposizione a Elio Gallo, il quale rilevava la compenetrazione tra cittadinanza municipale e libertà, quest’ultima da intendere in seno alla partecipazione attiva alla propria comunità. Servio figlio considerava le repubbliche municipali come parti del sistema, unitario e intercomunitario, del popolo Romano. Questa prospettiva dove si separano, in modo strutturale, città federate autonome e libere è in antitesi con la visione mommseniana per cui l’autonomia dei municipi è spiegata in termini di decentramento-autonomie delegate, a fronte dell’idea di un’unità sovrana e indivisibile dello Stato-Nazione. In Servius Sulpicius filius si evidenzia il momento partecipativo, “volontaristico-federativo e meritocratico”, dei municipes nella gestio rei populi Romani, «un Impero di città, un popolo di popoli, una repubblica di repubbliche» (189). Il modello dell’esperienza giuridica romana, dove la città emergeva nella sua importanza quale spazio e luogo di condivisione e di “sintesi interetnica, interreligiosa e giuridica”, rappresenta dunque un modello alternativo per fronteggiare l’inadeguatezza dello Stato odierno a gestire la complessità della variegata comunità umana.

Nell’ambito di HOMO E PERSONA, si individuano gli IX. Archetipi romanistici del «diritto delle persone». Qui, innanzitutto, si evidenzia come il giurista odierno debba affrontare il tema del ius personarum attraverso differenti prospettive rispetto al concetto invalso di soggetto di diritto, in modo da sviluppare una “coscienza identitaria”. Nell’esperienza giuridica romana dell’VIII sec. a.C., si registra la centralità del modello comunitario in cui il singolo era pienamente inserito in seno ai vari gruppi sociali sulla base dei propri status. In tale periodo l’attività sacerdotale riconobbe al termine homo, presente nei verba di antichissimi atti, un valore universale capace di indicare l’essere umano, indipendentemente dalle diverse posizioni giuridiche personali. Questa operazione linguistica era diretta a disporre nella città appena fondata. in modo unitario e di eguagliamento, gli appartenenti alle comunità preciviche e i mores: così homo nel linguaggio sacerdotale incarnò «la raffinata rappresentazione della realtà umana» (206). Tale nozione in chiave valoriale si rinviene anche nella giurisprudenza laica repubblicana (in particolare nel dibattito sul partus ancillae, dove il ruolo della persona umana fu riconosciuto fin dal concepimento[7]), la quale colse le potenzialità linguistiche del termine latino persona, capace di assumere i vari significati di πρóσωπον provenienti dalle artes ellenistiche (commedia, filosofia, retorica, grammatica). Nelle riflessioni dei prudentes dal II sec. a.C. al II sec. d.C., la nozione di persona e il ius personarum divennero concetti giuridici inderogabili, colti in seno alla sistematica delle Institutiones di Gaio (personae, res, actiones) attraverso un percorso storico contraddistinto da concretezza concettuale. La storia giuridica europea in merito al diritto delle persone, invece, sarà segnata da astrattezza fin dai suoi esordi, quando Sinibaldo Fieschi (1195 ca.-1254) ideò la persona ficta, che scardinò in ambito giuridico l’uomo dalla persona. Secondo Cardilli, pertanto, nella società attuale, connotata da una forte spinta tecnologica che potrebbe rappresentare “una strada senza ritorno”, si dovrebbe riconsiderare la dimensione umana del giuridico proveniente dalla tradizione romana. In materia, la differenza di prospettive tra il sistema romano e quello odierno è sottolineata anche in X. Il fondamento ‘costituente’ della famiglia, che rimarca l’affermazione nel corso del XIX secolo in seno al diritto privato borghese di una nozione di famiglia astratta, in linea con il generale processo di “appiattimento e semplificazione” della realtà giuridica. Nel sistema romano, invece, la familia, precedente alla fondazione dell’urbe, era segnata dall’unitario potere del pater e presentava al contempo, quali aspetti reali, quelli individuati dal modello politico, proposto da Pietro Bonfante, e dal modello economico, colto da Vincenzo Arangio-Ruiz. Tra le fonti significative, si deve ricordare Cicero, De off. 1.53-57, per cui la familia è struttura precittadina naturale, posta a fondamento della res publica, ovvero «fattore di resistenza e di stimolo alla vita della societas volontaria costituita tra i cives» (254). L’importanza della famiglia fu colta anche da Ulpiano[8], il quale, discernendo tra familia proprio iure, communi iure e servorum, evidenziava come nella realtà la famiglia potesse assumere forme differenti e non univoche, senza però dissolversi in virtù dell’essere istituto primigenio del ius naturale, come insegnava lo stesso giurista in altro luogo[9]. Le società odierne sono sempre più orientate a erodere il modello della società borghese, e a ridiscuterne i valori, a fronte di uno diritto statale che mostra difficoltà a racchiudere le complesse declinazioni senza scardinare i caratteri fondamentali della famiglia. La familia, tuttavia, presenta ancora oggi natura di “costituzione materiale”, atta alla difesa dei membri deboli della società; essa assurge al ruolo di “sorgente di vita”, secondo l’espressione di Giorgio La Pira, il romanista che si impegnò a introdurre nell’art. 29 della Costituzione Italiana del 1948 il lascito del ius Romanum[10].

Il sistema di astrazione proprio del diritto borghese ha coinvolto anche le RES, tema aperto con XI. Le ‘res’ e il diritto. Cose e realtà nel sistema romano. Nel sistema giuridico odierno i beni sono intesi in guisa soggettivistica e individualista, secondo una concezione – qualificata da Cardilli come “utopica” –, tesa a figurarsi una realtà modellata dalle scelte di politica del diritto operate da “governi di turno” in merito al ruolo da riconoscere al bene rispetto all’interesse della comunità al suo utilizzo (maggiori prerogative private sulle pubbliche negli stati liberali e viceversa negli stati socialisti), e dove sull’oggetto di diritto incide la volontà soggettiva (e quindi la volontà non solo della persona fisica). La distinzione dialettica soggetto/oggetto di diritto è antitetica alla prospettiva del sistema romano persona/res in cui «non è il diritto che modella la realtà, ma è la realtà che dà forma al diritto» (265), come emerge in particolare in Gaius, Inst. 2.1 ss., in cui le rerum divisiones sono articolate in base alla natura delle res. In Roma antica il vocabolo res fu inteso in senso concreto e duttile, difatti, oltre ai beni materiali, descriveva varie situazioni di natura anche non patrimoniale (vedi, ad esempio, le tre declinazioni di res publica, segnalate supra, e XII tab. 5.3, in riferimento alla successione ereditaria). La forte arbitrarietà della concezione contemporanea in merito alle res richiede una “ripulitura concettuale” alla luce della concretezza concettuale romana, in quanto l’idea che il potere sovrano statuale possa ad libitum imporre ai beni la natura giuridica comporta la produzione di “impossibili giuridici”, come, ad esempio, la privatizzazione delle acque potabili. Si passa poi alla trattazione degli XII. Schemi romani dell’appartenenza e modelli di resistenza nella tradizione civilistica. In merito, si rammenta come nella letteratura romanistica e negli studi di storia del diritto si sia mostrata l’ideologia concettuale presente nel complesso modello borghese della proprietà, a fronte dell’esistenza, in seno alle società che si sono susseguite dall’antichità fino all’era moderna, di una pluralità di forme giuridiche dell’appartenenza. Nel sistema giuridico romano più risalente esistevano sostanzialmente due modelli giuridici, il meum esse ex iure Quiritium e il possidere, a cui si aggiunsero nuovi schemi in età tardo repubblicana, attraverso l’elaborazione di una “complessa dogmatica” che nel Medioevo fu ampliata attraverso nuove forme (ad es., il feudum) e distinzioni (ad es., dominium directum-dominium utile) e con l’accrescimento degli iura in re aliena. I codici liberali del XIX secolo, specialmente il Code Napoléon e il BGB, semplificarono il fecondo e complesso lavorio concettuale della tradizione civilistica fondata sul diritto romano, preservando soltanto i modelli giuridici dell’appartenenza che si coordinavano al paradigma della proprietà individuale; le forme non contemplate dalla codificazione hanno continuato a sussistere specie nel diritto consuetudinario. Momenti di resistenza al modello proprietario di stampo borghese si registrano attualmente in Cina e in Russia, dove l’apertura al modello economico capitalistico ha comportato l’assunzione degli schemi giuridici della proprietà individuale e dei diritti reali su cosa altrui attraverso l’intervento legislativo (ad es.: Codice civile della Federazione Russa del 1994 / Legge della Repubblica Popolare Cinese sui diritti reali del 2007). Tale processo, tuttavia, non ha soppresso gli schemi precedenti né ha assopito l’ampio dibattito critico che ha innestato un dialogo costruttivo con la tradizione romanistica, al fine di interpretare la realtà di nuove forme di appartenenza, specie in riferimento alla concessione a privati della gestione di terra appartenente alla comunità (proprietà collettiva-proprietà pubblica).

La tematica dell’OBLIGATIO è affrontata dapprima attraverso il confronto fra XIII. Obligatio degli antichi e obbligazione dei moderni. Il concetto di obligatio è frutto dell’opera della giurisprudenza romana che, lungo un percorso storico dalle origini sino al I a.C., ha conferito forma unitaria essenzialmente ai due antichi complessi schemi giuridici di derivazione consuetudinaria precittadina e interpretativa, la damnatio (soggezione all’esecuzione personale) e l’oportere (doverosità giuridica). A partire da Quinto Mucio Scevola, la giurisprudenza tardo repubblicana, in seno al genere letterario dei XVIII libri iuris civilis, riorganizzò la materia che fece poi da sfondo alle Institutiones di Gaio. Nel manuale isagogico del giurista antoniniano l’argomento ruota attorno al concetto unitario di obligatio quale schema ordinante (a differenza dell’editto del pretore urbano consolidato da Salvo Giuliano intorno al 129 d.C.), distinto nettamente in due modelli archetipici, le obbligazioni da contratto e quelle da delitto, secondo una singolare sistematica che colloca le fonti delle obbligazioni ex delicto dopo i modi di estinzione delle obligationes contractae. Le Institutiones giustinianee, seppur ricalcandone lo schema, rispetto al giurista, offriranno la definizione di obligatio, secondo una prospettiva debitoria: Obligatio est iuris vinculum, quo necessitate adstringimur alicuis solvendae rei secundum nostrae civitatis iura (I. 3.13 pr.). Qui, così pure in D. 44.7.3 pr., Paulus, libro secundo institutionum (Obligationum substantia non in eo consistit, ut aliquod corpus nostrum aut servitutem nostram faciat, sed ut alium nobis obstringat ad dandum aliquid vel faciendum vel praestandum), nello schema giuridico emerge in modo “sproporzionato” l’elemento della responsabilità, pur essendo intimamente connesso con il debito; si tratta del riflesso della originaria costruzione pontificale dell’obligatio, tesa a imporre ai patres familias un dovere alla prestazione, senza incrinare la pienezza della loro condizione giuridica. Intorno al III-II sec. a.C., questa prospettiva di parità ed eguaglianza ontologica fu intesa in termini universali con l’introduzione dello schema dell’oportere ex fide bona. Al pari del sistema romano, una parte generale delle obbligazioni era presente anche nelle riflessioni dei giusnaturalisti, le cui prospettive sistematiche furono sviluppate dalla Scuola storica del diritto e dalla pandettistica in chiave di ampia astrazione e generalizzazione degli argomenti, per confluire nel BGB dove è presente una parte generale relativa a tutto il diritto privato. Questa parte generale è assente sia nel Codice napoleonico, dove si registra il “protagonismo” del contratto, inteso soprattutto quale modo di acquisto della proprietà, sia nel Codice civile italiano che contiene una parte generale relativa alle obbligazioni. Secondo Cardilli, l’assenza di una parte generale dedicata alle obbligazioni presenta specialmente il rischio di non intendere l’obbligazione come «schema giuridico nel quale libertà ed eguaglianza dell’essere umano sono in modo formidabile coniugate, senza che ciò si declini in una forma di soggezione attuale, ma una doverosità di comportamento» (319). Il pensiero della scienza giuridica odierna in materia è stato particolarmente condizionato da Savigny[11], il quale, seppur cogliendo il rapporto tra libertà e obbligazione secondo la prospettiva debitoria, rileva, alla luce di Kant, la limitazione della volontà del debitore e al contempo valorizza un supposto ‘potere’ del creditore (Herrschaft). La libertà della persona, in tal modo, è avvertita come libertà alla prestazione, dunque limitata in termini quantitativamente accettabili. Si arrivò presso i moderni, in chiave nettamente contraria al sistema giuridico romano, ad accentuare il rapporto giuridico, svalutandone l’obbligazione, intesa come relazione giuridica di diseguaglianza, basata sul potere creditore e dagli effetti esclusivamente patrimoniali. La visione savignana ha inciso, inoltre, sull’idea contemporanea di obbligazione d’interessi quale peculiare forma di obbligazione pecuniaria, astratta dalla sua specifica causale, come si evidenzia in XIV. Debito d’interessi e usura in fructu non est. Contro l’astrazione dei moderni. Qui la prospettiva odierna è raffrontata con la concezione emergente in Roma antica, per cui l’oggetto dell’obbligazione d’interessi fu sempre inteso quale realtà specifica e artificiale, l’usura pecuniae, concettualmente distinta dalla pecunia stessa, e necessitante per la sua assunzione di causa specifica e rigido formalismo. In origine la prassi feneratizia patrizia fu attuata attraverso l’istituto librale del nexum, con cui si potevano prevedere, oltre alla quantità prestata di bronzo, once aggiuntive di metallo da restituire. I limiti unciari, previsti legislativamente a partire dalle XII Tavole (tab. 8.18a), non risolsero, però, il problema dell’indebitamento plebeo, tra le maggiori cause del conflitto tra i due ordini sociali. Il debito d’interessi nacque quando il nexum cadde in desuetudine in seguito alla lex Poetelia Papiria del 326 a.C. che modificava gli effetti personali dell’istituto. Per la funzione creditizia si ricorse allora alla tipizzazione, quale obligatio re contracta, del mutuo informale, il cui schema giuridico non prevedeva gli interessi sulle somme prestate, promessi formalmente attraverso una accessoria stipulatio usurarum, che non produceva una obbligazione autonoma. Quinto Mucio Scevola escludeva l’usura pecuniae dai frutti civili, distinguendola dalla pecunia data a prestito[12], suffragando in tal modo « la profonda consapevolezza dei giuristi romani che il diritto non può alterare la realtà se non fingendo l’esistenza dell’irrealtà sul piano del diritto» (358). Si tratta di una prospettiva concreta, distante da quella moderna che, in chiave di diseguaglianza tra le parti in seno al rapporto giuridico, ritiene gli interessi del capitale finanziario “quasi naturale conseguenza” del prestito di danaro e riconosce a questa obbligazione natura unicamente patrimoniale.

Riguardo al CONTRACTUS, in XV. Contratto e tipo. ‘Natura contractus’ e ‘forma iuris’ si indaga intorno all’incidenza nel tipo delle istanze di modifica delle parti. I giuristi romani della tarda repubblica e del primo Principato per i contratti causali di ius gentium non distinsero sfere concettuali differenti sulla base dell’autonomia privata. La materia del rapporto tra struttura del contratto tipico e pattuizioni modificative fu affrontato in modo dinamico e concreto, senza creare nuove regole o costruzioni dogmatiche, in quanto difficilmente si considerava erosa dalla volontà delle parti la “sostanza” contrattuale, ovvero i valori sedimentati nel corso del tempo. Questa prospettiva giurisprudenziale si rinviene, in particolare, sia nel ius controversum concernente i patti sociali di ripartizione dei lucri e dei danni[13], in seno al quale, rispetto alla societas consensuale di ius gentium, Quinto Mucio in termini di natura societatis negò efficacia alla pactio creativa di posizioni privilegiate, a fronte della resistenza della regola essenziale più antica sancente l’eguaglianza formale dei soci (laddove Proculo, in materia di arbitraggio di un terzo, liber quinto epistularum, D. 17.2.76, 78 si riferì al ius societatis), sia nelle soluzioni relative ai pacta adiecta in continenti[14], a cui non si riconobbe tutela incondizionata come avverrà, invece, in età dei Severi. Nel II sec. a.C., Giuvenzio Celso, in merito al mandato di credito, fece ricorso al termine forma, di derivazione filosofica, per indicare la struttura contrattuale tipica resistente alle pattuizioni modificative delle parti[15]. Questa qualificazione è da porre in relazione con l’espressione contra iuris forma presente in un parere di un giurista anonimo, criticato da Pomponio, contro la tutela dei patti adiecta in continenti apposti al contratto di deposito modificativi del regime di responsabilità del depositario[16]. In seguito, i giuristi severiani tentarono, in maniera non uniforme, di individuare le sfere inderogabili dei tipi contrattuali, ma, al contempo, crearono delle regole relative ai rapporti tra pacta e contratti tutelati dai iudicia bonae fidei. Papiniano, senza individuare momenti di accidentalità in seno al contratto, riconobbe azionabilità ai pacta successivi alla compravendita riguardanti gli adminicula emptioni, ovvero gli aspetti stratificati nel corso del tempo rispetto alla struttura originaria inderogabile (substantia emptionis)[17]. Ulpiano richiamò la distinzione papinianea substantia/adminicula emptionis in relazione alla regola, da lui individuata, secondo cui si dava tutela in via di azione soltanto alle pattuizioni effettuate durante il perfezionamento del contratto, qualora non fossero contrarie alla natura contractus, ovvero al contenuto contrattuale tipico della compravendita modificabile dai pacta ex intervallo[18]; a riguardo Cardilli ipotizza «una certa tendenziosità ulpianea» nella lettura del pensiero papinianeo, in quanto Ulpiano «prima indica la vera causa, a sua dire, sulla quale Papiniano fondava l’impossibilità di esercitare l’actio ex empto (che era appunto l’aver pattuito successivamente un aliquid extra naturam contractus) e poi reinterpreta tale assunto come conferma della regula» (422). In relazione alla datio tutoris, lo stesso giureconsulto parlò di forma antiquitatis constituta, quale ambito della tutela immodificabile dai privati, preferendo la qualifica forma rispetto a natura, utilizzata in riferimento alla compravendita, poiché, al contrario dei contratti consensuali, in seno al processo storico di formazione della tutela non si sarebbero potuti identificare, i “momenti naturalistici di derivazione”. Il richiamo alla natura si rinviene anche in Paolo, il quale in materia di dote valutava la sedimentazione storica del contenuto tipico dell’istituto unitamente al momento legislativo in termini di ius quod lex naturae dotis tribuit[19]. In altro luogo egli fece riferimento alla natura mandati quale momento contrattuale tipico che poteva essere modificato da pattuizioni successive[20]. Risulta centrale in età dei Severi, anche in questo caso, la struttura tipica profonda degli istituti che nel corso del tempo, rispetto alle emergenti esigenze sociali, doveva essere oggetto di interpretazione giurisprudenziale in senso concreto; in questo periodo, tuttavia, il principio pacta conventa inesse bonae fidei iudiciis[21] corrose il tipo contrattuale. Tali tematiche, a partire dal medioevo (quando i glossatori individuarono in seno al contratto, oltre agli accidentalia, i naturalia, modificabili con pattuizione contraria, e gli essentialia, parti inderogabili e immodificabili), saranno affrontate non secondo la prospettiva concreta della iurisprudentia, ma in chiave monistica. Appare importante, secondo l’Autore, dare rilievo al sistema valoriale della tradizione civilistica basata sul diritto romano che riconosce centralità al processo di tipizzazione contrattuale, specialmente nella realtà giuridica odierna dove «il contratto sembra assurgere sempre di più, nei rapporti sovrannazionali di diritto privato, al rango di autonoma fonte di produzione del diritto» (446). Nel saggio susseguente, XVI. Accordo e reciprocità nel contratto, si rileva come Quinto Mucio Scevola vagliò i nuovi istituti di ius gentium, comparsi intorno al II sec. a.C., e i tipi dei delicta, collocandoli, seppur non in chiave sistematica alla luce dell’obligatio, nell’ambito del ius civile, attraverso la tecnica dell’associazione. Un frammento di Pomponio tramanda un responso muciano che, al fine di fornire all’erede i mezzi giuridici per estinguere senza adempimento l’oportere ex fide bona, derivato da emptio vel venditio vel locatio, gravante sul legatario nei confronti del de cuius, adeguò in modo funzionale l’antica regola di simmetria prout quidque contractum est, ita et solvi debet, prospettando la possibilità di ricorrere al contarius consensus, secondo una angolazione di “lateralità” per cui formalmente non si sarebbe estinto l’oportere dell’heres disposto dal testatore in favore del legatario[22]. Quinto Mucio, così, adattò il principio risalente alla nuova realtà dei contratti di ius gentium enfatizzando il principio del nudus consensus, quale fattore obbligante individuato nel momento genetico atto a estendere l’oportere civilistico ai rapporti contrattuali con gli stranieri, senza però intenderlo in termini di genus ordinante, al pari delle obligationes consensu contractae enunciate da Gaio. Labeone, in seguito, percepì in modo unitario la struttura giuridica dei reciproci oportere assunti nei contratti consensuali, avvertendo il sinallagma come espressione del contratto[23]; Aristone, invece, considerava il συνλλαγμα quale ordito autonomo che ammetteva la tutela in via di azione anche per le conventiones estranee ai contratti tipici[24]. In materia, la concezione di Sesto Pedio, il quale considerò espressamente la conventio (solo implicita nelle riflessioni di Quinto Mucio, Labeone e Aristone) come elemento essenziale di ogni contratto, fu valorizzata da Ulpiano in seno a un modello unitario delle conventiones iuris gentium in cui la conventio era comune a tutti i tipi contrattuali[25]. Entrambi i modelli profilati dalla scienza giuridica romana, sia il principio consensualistico sia la lettura in chiave di sinallagma, furono contemplati nella codificazione giustinianea e divennero oggetto di discussione nella tradizione civilistica successiva, specie intorno al concetto di contratto quale συνλλαγμα. Il modello consensualistico, invece, predominerà, anche se non in modo univoco, nelle moderne codificazioni europee.

In tema di RESPONSABILITÀ (PRAESTARE E TENERI) E DAMNUM, l’analisi XVII. La responsabilità contrattuale nel sistema romano, relativamente alla responsabilità contrattuale, mira a valorizzare gli elementi condivisi dagli ordinamenti odierni afferenti al sistema giuridico romanista. Intorno all’inadempimento dell’obbligazione, difatti, nelle codificazioni dell’‘800-‘900, e nella loro interpretazione dottrinale e giurisprudenziale, si rinviene una stretta connessione con le riflessioni della iurisprudentia, sviluppatesi in materia a partire da Quinto Mucio Scevola. Nella realtà giuridica odierna le nozioni fondamentali di colpa, diligenza, forza maggiore e caso fortuito sono derivate dal ius Romanum, laddove quella di impossibilità, quale unico limite alla responsabilità contrattuale, ha assunto solo a partire dal XIX secolo «un ruolo ‘nuovo’ (se vogliamo eccessivo) rispetto al problema dell’inadempimento» (479), a fronte della posizione marginale ricoperta nel diritto romano. Fu specialmente Friedrich Mommsen[26] a introdurre il principio della impossibilità sostituendolo alla regola romana di culpam praestare - casus a nulla praestantur[27], a cui la tradizione civilistica ricorreva fino ad allora per riconoscere la responsabilità contrattuale dell’inadempimento. Sotto l’influenza della pandettistica, la nozione confluì sia nel § 275 del BGB, sia nell’art. 1218 del Cod. civ. it. In Italia e in Germania, l’ampia discussione in seno alla scienza giuridica e alla giurisprudenza in merito all’interpretazione della lettera della legge ha comportato, in modo coerente al sistema a base romanista, da una parte una lettura che, seppur in modo non omogeneo, ha mitigato il principio dell’impossibilità alla luce del concetto di culpa tra i criteri di imputazione dell’inadempimento; dall’altra parte l’arricchimento delle soluzioni, attraverso la mediazione tra le regole normalmente applicate e le esigenze economico-sociali emergenti nel processo di industrializzazione e nella globalizzazione degli scambi commerciali. A fronte della necessità, scaturita dalla realtà capitalista, di una forma illimitata della responsabilità del debitore-impresa, la scienza giuridica ha dibattuto sull’opportunità di non applicare a questa responsabilità il principio della colpa, addossando all’impresa i pericoli tipici, oppure di attribuire una nuova specie di colpa, valutata in base dell’organizzazione preposta dall’imprenditore. Entrambe sono posizioni nel solco dei modelli proposti dai giuristi romani, la prima risalente a Servio Sulpicio Rufo e a Marco Antistio Labeone, la seconda connessa alla tradizione di Quinto Mucio Scevola e Masurio Sabino: «i concetti e le regole, elaborati dai prudentes iuris dei diversi paesi, accentuano nella sostanza connotati omogenei, nei quali le particolarità imposte all’interprete dalle soluzioni codificate sono risolte coerentemente all’unitarietà del sistema che li contiene, dimostrando di seguire in materia ciò che può qualificarsi come un vero e proprio ‘diritto comune’» (518). Si passa a indagare sul XVIII. ‘Damnum’ alla cosa e ‘iniuria’ alla persona, per evidenziare, al fine di una ripulitura concettuale, il momento in cui nella tradizione giuridica romanista le lesioni personali furono attratte nell’ambito della responsabilità aquiliana. Il diritto romano, senza ricorrere al concetto di danno, riconosceva rilevanza giuridica alle lesioni non patrimoniali in seno al delictum di iniuria, a fronte di una nozione “monolitica” di persona. Nella lex Aquilia il termine damnum ricorreva soltanto nel terzo caput, e non era inteso quale clausola generale, fu poi la giurisprudenza, dal III al I sec. a.C., a costruire, grazie al contributo decisivo di Servio Sulpicio Rufo, la nozione unitaria di damnum iniuria datum; tuttavia, restarono estranee dalla tutela della legge aquiliana sia le lesioni personali degli uomini liberi, sia gli interessi extrapatrimoniali. Il giusnaturalismo, invece, a livello concettuale frammenterà il concetto di persona con attribuzioni distinte in base ai diritti soggettivi e, sotto il profilo sistematico, darà ampio spazio al danno aquiliano, tra le molteplici fattispecie di delicta. In particolare Grozio si avvalse in termini generali del concetto di damnum, estendendo la responsabilità aquiliana a ipotesi di lesioni non patrimoniali secondo una prospettiva che sarà sviluppata nel diritto codificato. La realtà giuridica odierna, che intende formalmente gli uomini uguali, inserendo le lesioni personali nell’ambito del danno come se fossero lesioni a cose, individuandole come specifici danni ai vari diritti soggettivi, le quantifica in base alle condizioni socio-economiche del danneggiato, mentre nel diritto romano la sanzione trovava una diversificazione in base agli status giuridici, applicando una disciplina uguale all’interno delle singole posizioni giuridiche, perciò, evidenzia Cardilli, la prospettiva romana mostra «un rigore concettuale maggiore nella considerazione della tutela della persona nella sua monoliticità» (529).

Infine, per EREDITÀ E SUCCESSIONE l’Autore offre alcune XIX. Considerazioni romanistiche su erede e successione, facendo luce sui modelli successori mortis causa del ius Romanum accolti nelle codificazioni moderne alla luce dell’ideologia pandettistica che ha valorizzato sostanzialmente il contenuto patrimoniale dell’eredità e il momento volontaristico del testamento, inteso come tipico negozio giuridico unilaterale. Nel sistema romano, heres (da cui hereditas) è nozione presente dalle origini dell’Urbe, dal contenuto giuridico-religioso, indicante una posizione giuridica preesistente alla successione, connaturata alla qualifica del filius soggetto alla potestas paterna, con possibilità di essere modificata tramite diseredazione. Il diritto ereditario antico di caratterizzava in modo dualistico, facendo coesistere due regimi antitetici mortis causa, testamentario e intestato. La previsione di entrambi i modelli nelle XII Tavole[28] ha ingenerato nella letteratura una discussione circa quale di queste discipline avesse la priorità storica; come evidenzia Cardilli, queste interpretazioni intendono lo sviluppo storico degli istituti in modo lineare, mentre in realtà entrambi le forme successorie erano l’estrinsecazione di due culture diverse coesistenti alle origini: il regime intestato, possessorio e comunitario, espressione della cultura contadina, il regime testamentario, potestativo, derivava dalla parte guerriera e aristocratica della società romana. Con l’ampliarsi degli istituti successori, la giurisprudenza classica forgiò il concetto di successio, al fine di risolvere il problema della morte di un pater familias attraverso l’immagine del succedere. Tale nozione fu concepita quale genus ordinante atto ad accogliere istituti differenti, quali, ad esempio, l’eredità, la bonorum possessio e il fedecommesso universale.

 

 

 

 



[1] D. 1.1.10 pr. (Ulpianus, libro primo regularum): Iustitia est constans et perpetua voluntas ius suum cuique tribuendi.

[2] D. 1.1.1 (Ulpianus, libro primo institutionum): Cuius merito quis nos sacerdotes appellet: iustitiam namque colimus et boni et aequi notitiam profitemur, aequum ab iniquo separantes, licitum ab illicito discernentes, bonos non solum metu poenarum, verum etiam praemiorum quoque exhortatione efficere cupientes, veram nisi fallor philosophiam, non simulatam affectantes.

[3] R. von Jhering, Geist des römischen Rechts auf den verschiedenen Stufen seiner Entwicklung, 2, 5ª ed., Leipzig 1894 [rist., Aalen 1993], 441 ss.

[4] Si veda l’affermazione muciana, tramandata da Cicero, De off. 3.70, per cui la societas vitae è contenuta nei rapporti di ius gentium, ed anche in fiducia e tutela, a dimostrazione delle connessioni intercorrenti tra tale diritto e il ius civile.

[5] R. Orestano, v. Azione I. L’azione in generale, in Enciclopedia del diritto, IV, Milano 1959, 785 ss.

[6] I. 4.6 pr.

[7] D. 7.1.68 pr. (Ulpianus, libro septimo decimo ad Sabinum).

[8] D. 50.16.195.1-3 (Ulpianus, libro quadragensimo sexto ad edictum).

[9] D. 1.1.1.3 (Ulpianus, libro primo institutionum).

[10] Art. 29 co. 1, Cost. It.: «La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio».

[11] F.C. von Savigny: Pandektenvorlesung 1824/1825, a cura di H. Hammen, Frankfurt a. M. 1993, 279 = 201; System des heutigen Römischen Recht, I, Berlin 1840, 338 s.; Das Obligationenrecht als Theil des heutigen Römischen Recht, I, Berlin 1851, 4 ss.

[12] D. 50.16.121 (Pomponius, libro sexto ad Quintum Mucium): Usura pecuniae, quam percipimus, in fructu non est, quia non ex ipso corpore, sed ex alia causa est, id est nova obligatione.

[13] Gaius, Inst. 3.149, D. 17.2.30 (Paulus, libro sexto ad Sabinum), I. 3.25.1-2.

[14] Vedi, ad esempio: D. 19.2.30.4 (Alfenus, libro tertio a Paulo epitomarum); D 18.1.80.3 (Labeo, libro quinto posteriorum a Iavoleno epitomatorum).

[15] D. 17.1.48.2 (Celsus, libro septimo digestorum): Ceterum ut tibi negotium geras, tui arbitrii sit nomen, id est ut cuivis credas, tu recipias usuras, periculum dumtaxat ad me pertineat, iam extra mandati formam est, quemadmodum si mandem, ut mihi quemvis fundum emas.

[16] D. 2.14.7.15 (Ulpianus, libro quarto ad edictum): Sed et si quis paciscatur, ne depositi agat, secundum Pomponium valet pactum. Item si quis pactus sit, ut ex causa depositi omne periculum praestet, Pomponius ait pactionem valere nec quasi contra iuris formam factam non esse servandam.

[17] D. 18.1.72 pr. (Papinianus, Libro decimo quaestionum): Pacta conventa, quae postea facta detrahunt aliquid emptioni, contineri contractui videntur: quae vero adiciunt, credimus non inesse. Quod locum habet in his, quae adminicula sunt emptionis, veluti ne cautio duplae praestetur aut ut cum fideiussore cautio duplae praestetur. Sed quo casu agente emptore non valet pactum, idem vires habebit iure exceptionis agente venditore. An idem dici possit aucto postea vel deminuto pretio, non immerito quaesitum est, quoniam emptionis substantia constitit ex pretio. Paulus notat: si omnibus integris manentibus de augendo vel deminuendo pretio rursum convenit, recessum a priore contractu et nova emptio intercessisse videtur.

[18] D. 2.14.7.5 (Ulpianus, libro quarto ad edictum): Quin immo interdum format ipsam actionem, ut in bonae fidei iudiciis: solemus enim dicere pacta conventa inesse bonae fidei iudiciis. Sed hoc sic accipiendum est, ut si quidem ex continenti pacta subsecuta sunt, etiam ex parte actoris insint: si ex intervallo, non inerunt, nec valebunt, si agat, ne ex pacto actio nascatur. Ut puta post divortium convenit, ne tempore statuto dilationis dos reddatur, sed statim: hoc non valebit, ne ex pacto actio nascatur: idem Marcellus scribit. Et si in tutelae actione convenit, ut maiores quam statutae sunt usurae praestentur, locum non habebit, ne ex pacto nascatur actio: ea enim pacta insunt, quae legem contractui dant, id est quae in ingressu contractus facta sunt. Idem responsum scio a Papiniano, et si post emptionem ex intervallo aliquid extra naturam contractus conveniat, ob hanc causam agi ex empto non posse propter eandem regulam, ne ex pacto actio nascatur. Quod et in omnibus bonae fidei iudiciis erit dicendum. Sed ex parte rei locum habebit pactum, quia solent et ea pacta, quae postea interponuntur, parere exceptiones.

[19] D. 2.14.27.2 (Paulus, libro tertio ad edictum): Pactus, ne peteret, postea convenit ut peteret: prius pactum per posterius elidetur, non quidem ipso iure, sicut tollitur stipulatio per stipulationem, si hoc actum est, quia in stipulationibus ius continetur, in pactis factum versatur: et ideo replicatione exceptio elidetur. Eadem ratione contingit, ne fideiussoribus prius pactum prosit. Sed si pactum conventum tale fuit, quod actionem quoque tolleret, velut iniuriarum, non poterit, postea paciscendo ut agere possit, agere: quia et prima actio sublata est et posterius pactum ad actionem parandam inefficax est: non enim ex pacto iniuriarum actio nascitur, sed ex contumelia. Idem dicemus et in bonae fidei contractibus, si pactum conventum totam obligationem sustulerit, veluti empti: non enim ex novo pacto prior obligatio resuscitatur, sed proficiet pactum ad novum contractum. Quod si non ut totum contractum tolleret, pactum conventum intercessit, sed ut imminueret, posterius pactum potest renovare primum contractum. Quod et in specie dotis actionis procedere potest. Puta pactam mulierem, ut praesenti die dos redderetur, deinde pacisci, ut tempore ei legibus dato dos reddatur: incipiet dos redire ad ius suum. Nec dicendum est deteriorem condicionem dotis fieri per pactum: quotiens enim ad ius, quod lex naturae eius tribuit, de dote actio redit, non fit causa dotis deterior, sed formae suae redditur. Haec et Scaevolae nostro placuerunt.

[20] D. 19.5.5.4 (Paulus, libro quinto quaestionum): Sed si facio ut facias, haec species tractatus plures recipit. Nam si pacti sumus, ut tu a meo debitore Carthagine exigas, ego a tuo Romae, vel ut tu in meo, ego in tuo solo aedificem, et ego aedificavi et tu cessas, in priorem speciem mandatum quodammodo intervenisse videtur, sine quo exigi pecunia alieno nomine non potest: quamvis enim et impendia sequantur, tamen mutuum officium praestamus et potest mandatum ex pacto etiam naturam suam excedere (possum enim tibi mandare, ut et custodiam mihi praestes et non plus impendas in exigendo quam decem): et si eandem quantitatem impenderemus, nulla dubitatio est. Sin autem alter fecit, ut et hic mandatum intervenisse videatur, quasi refundamus invicem impensas: neque enim de re tua tibi mando. Sed tutius erit et in insulis fabricandis et in debitoribus exigendis praescriptis verbis dari actionem, quae actio similis erit mandati actioni, quemadmodum in superioribus casibus locationi et emptioni.

[21] D. 2.14.7.5 (Ulpianus, libro quarto ad edictum).

[22] D. 46.3.80 (Pomponius, libro quarto ad Quintum Mucium): Prout quidque contractum est, ita et solvi debet: ut, cum re contraxerimus, re solvi debet: veluti cum mutuum dedimus, ut retro pecuniae tantundem solvi debeat. Et cum verbis aliquid contraximus, vel re vel verbis obligatio solvi debet, verbis, veluti cum acceptum promissori fit, re, veluti cum solvit quod promisit. Aeque cum emptio vel venditio vel locatio contracta est, quoniam consensu nudo contrahi potest, etiam dissensu contrario dissolvi potest.

[23] D. 50.16.19 (Ulpianus, libro undecimo ad edictum): Labeo libro primo praetoris urbani definit, quod quaedam ‘agantur’, quaedam ‘gerantur’, quaedam ‘contrahantur’: et actum quidem generale verbum esse, sive verbis sive re quid agatur, ut in stipulatione vel numeratione: contractum autem ultro citroque obligationem, quod Graeci συνλλαγμα vocant, veluti emptionem venditionem, locationem conductionem, societatem: gestum rem significare sine verbis factam.

[24] D. 2.14.7.2 (Ulpianus, libro quarto ad edictum): Sed et si in alium contractum res non transeat, subsit tamen causa, eleganter Aristo Celso respondit esse obligationem. Ut puta dedi tibi rem ut mihi aliam dares, dedi ut aliquid facias: hoc sunallagma esse et hinc nasci civilem obligationem. Et ideo puto recte Iulianum a Mauriciano reprehensum in hoc: dedi tibi Stichum, ut Pamphilum manumittas: manumisisti: evictus est Stichus. Iulianus scribit in factum actionem a praetore dandam: ille ait civilem incerti actionem, id est praescriptis verbis sufficere: esse enim contractum, quod Aristo συνλλαγμα dicit, unde haec nascitur actio.

[25] D. 2.14.1.3 (Ulpianus, libro quarto ad edictum): Conventionis verbum generale est ad omnia pertinens, de quibus negotii contrahendi transigendique causa consentiunt qui inter se agunt: nam sicuti convenire dicuntur qui ex diversis locis in unum locum colliguntur et veniunt, ita et qui ex diversis animi motibus in unum consentiunt, id est in unam sententiam decurrunt. Adeo autem conventionis nomen generale est, ut eleganter dicat pedius nullum esse contractum, nullam obligationem, quae non habeat in se conventionem, sive re sive verbis fiat: nam et stipulatio, quae verbis fit, nisi habeat consensum, nulla est.

[26] Fr. Mommsen, Beiträge zum Obligationenrecht, I. Die Unmöglichkeit der Leistung in ihrem Einfluß auf obligatorische Verhältnisse, Braunschweig 1853.

[27] D. 50.17.23 (Ulpianus, libro vincensimo nono ad Sabinum).

[28] XII tabb. 5.4-5: Si intestato moritur, cui suus heres nec escit, adgnatus proximus familiam habeto. 5. Si agnatus nec escit, gentiles familiam (Fontes Iuris Romani Antejustiniani, I. Leges, ed. S. Riccobono, Florentiae 1968, 38).