N. 3 – Maggio 2004 – Lavori in corso – Didattica

 

 

La tutela dell’ordine pubblico in Ulpiano ex Senatuconsulto Silaniano

 

NICLA BELLOCCI

Università di Siena

 

 

         Intorno all’anno 10 d.C. sotto l’imperatore Augusto viene emanato il S. C. Silaniano, che il Bonfante definisce “atroce senatoconsulto, documento terribile di una società schiavistica”.

         Il provvedimento dispone la tortura ed il supplizio dei servi che si trovano sotto lo stesso tetto del padrone, qualora egli muoia di morte violenta nella sua casa.

         La crudeltà di tale norma necessita di qualche osservazione per spiegare come una civiltà, sotto certi aspetti così evoluta quale quella augustea, abbia disposto un tanto terribile provvedimento in un Impero, in cui gli schiavi sono ormai considerati non più solo una cosa, ma hanno un rapporto particolare col padrone, un rapporto questo ricco di sfumature, in cui l’umanitarismo non consiste semplicemente nel renderli liberi, ma principalmente in un comportamento personale del buon padrone.

         Ed è noto che il “bravo padrone” può decidere di far esercitare il commercio ad uno schiavo, assegnandogli un peculio, affidandogli, cioè, piena autonomia finanziaria, tanto che può firmare contratti e addirittura stare in giudizio per gli affari del padrone, finché il dominus non si riprende il peculio.

         Lo schiavo è quindi un essere umano, anche se appartenente al patrimonio del dominus, un essere umano a cui il padrone è molto legato, soprattutto se è un suo onnipotente amministratore, o è uno schiavo di fiducia a cui i padroni affidano addirittura il compito di spiare il comportamento degli amici o degli altri domestici di condizione libera.

         Il legame che intercorre fra padrone e schiavo si può, dunque, configurare come interpersonale, anche se lo schiavo è inferiore per natura: una tale concezione della schiavitù sembra mal conciliarsi con la crudeltà del S.C. Silaniano.

         Tuttavia, se la schiavitù è una realtà tanto incontrovertibile quanto particolare, quando si svolge nell’ambito delle mura domestiche essa assume una connotazione speciale.

La domus, infatti, delimita la zona d’immunità dove ognuno può abbandonare le armi e le difese, il luogo domestico e segreto in cui si svolge la vita familiare; è qui che il dominus si deve sentire massimamente sicuro.

E questa sicurezza viene meno quando, come racconta Seneca, “l’ultimo dei tuoi schiavi può avere su di te diritto di vita o di morte”, o allorché si teme addirittura che gli schiavi possano aver ucciso il dominus, allorché, come racconta Plinio, il suo amico cavalier Robusto, essendosi messo in viaggio con alcuni dei suoi schiavi, è scomparso e nessuno l’ha più visto.

I Romani, dunque, vivono in questa epoca in una sorda paura dei loro schiavi, perché, se da una parte, questi è un famigliare che si ama e si castiga paternamente e da cui ci si fa amare, di contro, il suo rapporto col padrone è pericoloso in quanto ambivalente: l’amore può di colpo trasformarsi in odio e questo lo sa bene e lo teme il dominus. E’ perciò che, in modo esemplare, vengono sottoposti a tortura e supplizio gli schiavi qualora il dominus sia morto di morte violenta nella sua casa.

Così delineato il Senatuconsulto Silaniano sottopone a tortura e supplizio quegli illeciti che aggrediscono l’individualità fisica del singolo, cioè del dominus; si tratta, dunque, di un illecito che il codice penale attuale farebbe rientrare nei cosiddetti delitti contro la persona, giacché esso mira a tutelare esclusivamente la vita del soggetto.

Ciò premesso, per la rilevanza che questo provvedimento ha avuto e, parimenti, in considerazione degli ulteriori sviluppi del concetto di schiavitù nei primi due secoli dell’Impero, è comprensibile che la disposizione sia stata oggetto nel tempo di una molteplicità di apporti interpretativi da parte della giurisprudenza e del pretore e di disposizioni imperiali, principalmente nell’arco di tempo che va da Traiano ai Severi, tanto da restare solo il nucleo attorno al quale si raggruppano le successive disposizioni.

Fra queste, massimamente interessanti appaiono gli interventi di Ulpiano, la cui interpretazione del Senatoconsulto Silaniano è spesso innovativa. La ratio della norma è richiamata dal giurista in:

 

D. 29.5.1 pr. (Ulp., l. quinquagesimo ad edictum): “Cum aliter nulla domus tuta esse possit, nisi periculo capitis sui custodiam dominis tam ab domesticis quam ab extraneis praestari servi cogantur”.

        

La sicurezza della ‘domus’ impone e giustifica nel testo il ‘periculum capitis’ da parte dei servi.

         È da notare che qui Ulpiano fa riferimento all’intera ‘domus’, che può essere sicura solo se, in caso contrario, i servi che la custodiscono corrano pericolo di vita.

         Il timore della violenza sovvertitrice ha ispirato dunque l’emanazione del provvedimento e giustifica la sua sopravvivenza ancora in età ulpianea. Dalla sua applicazione deriva la tranquillità non solo per il dominus ma per i domini cioè per gli abitanti liberi della ‘domus’.

         Ma il provvedimento così presentato evidenzia il superamento e la conseguente modificazione del primitivo Senatoconsulto che tutelava esclusivamente il dominus del periodo della violenza servile.

         Ulpiano ripropone, infatti, la norma nell’interesse non solo della difesa personale della vita del dominus, ma dell’intera domus. E il giurista sottolinea che “la domus è sicura laddove lo siano i domini (da sottolineare il plurale usato da Ulpiano). Il sovvertimento dell’ordine della casa si ha non solo quando viene ucciso il dominus ma anche un abitante libero della casa. Questa modificazione ha un suo significato ed una sua precisa ragione,giacché tale uccisione violenta ha i suoi riflessi ed è di rilievo per l’intera famiglia, considerata come la prima cellula di aggregazione sociale, e quindi si può dire che è di rilievo per l’intera societas; di conseguenza turba quell’ordine pubblico che lo Stato deve garantire.

         Si coglie, dunque, in questa preoccupazione un elemento di novità che si rapporta ad un’esigenza di garanzia della sicurezza sociale, a cui massimamente tende questa epoca.

         Si giustifica, perciò, l’estrema durezza della norma e si sottolinea la qualifica di ‘publica’ della relativa quaestio, che comporta caratteristiche peculiari e severe nel procedimento, volto alla soddisfazione di un pubblico interesse, come è attestato in Ulpiano

 

D. 29, 5, 1, pr. (Ulpianus, l. quinquagesimo ad ed.): “Cum aliter nulla domus tuta esse possit…ideo senatusconsulta introducta sunt de publica quaestione a familia necatorum habenda”.

 

Il dispositivo della norma non tutela più, dunque, come si è detto solo la vita del dominus, ma ha un’applicazione lata e rivela la preoccupazione di garantire la sicurezza fra le mura domestiche, dove le insidie dei propri servi rappresentano una grave minaccia alla stessa tranquillità sociale. Ed è per questo che non si da più tanto  rilievo a chi materialmente ha compiuto il delitto, se, cioè, è stato commesso da persone che abitano la casa stessa (domestici) o da estranei; quello che interessa è la necessità di punire gli schiavi, che si trovano eodem tecto al momento dell’uccisione violenta dei domini.

Questo tentativo di reprimere la violenza col far ricorso ad una violenza superiore e – prima facie – ingiustificata, si spiega con l’eccezionale tensione di una società che, pur non essendo più all’epoca dei Severi una società rigidamente schiavistica, come poteva apparire quella augustea, è sconvolta tuttavia da rivolgimenti sociali molto profondi tanto da considerare come esigenza primaria per lo Stato stesso la garanzia dell’ordine pubblico. Questa esigenza è, d’altronde, particolarmente sentita dagli Stati in cui il potere centrale è molto forte.

Per questo la normativa proposta da Ulpiano è ancor più rigida e crudele dello stesso S. C. Silaniano, giacché in quest’ultimo si sottopongono gli schiavi, che sono ‘sub eodem tecto’ al momento dell’uccisione violenta del dominus, a tortura e supplizio, laddove in Ulpiano si parla tout court di ‘periculum capitis’.

Se, dunque, la novità dell’interpretazione consiste proprio nell’estendere, fino a tutelare un interesse pubblico, quella disposizione che era nata per difendere esclusivamente la persona del dominus contro l’attentato dei propri schiavi, tutto il pensiero di Ulpiano, che si coglie anche negli altri passi pervenutici sulla sua interpretazione del Silaniano, potrebbe non rispecchiare la portata originaria del senatoconsulto, ma essere conseguenza di questa interpretazione evolutiva che intende punire l’illecito al fine di garantire l’intero ordine sociale.

Sotto questo aspetto, significativo appare D. 29.5.1.24 (Ulpianus l. quinquagesimo ad edictum), nel quale si precisa che per mettere in moto la procedura del S.C. bisogna accertare che l’omicidio sia avvenuto in forma violenta:

 

“Item illud sciendum est, nisi constat aliquem esse occisum, non haberi de familia quaestionem: liquere igitur debet scelere interemptum, ut senatus consulto locum sit”.

 

         La repressione, che giustifica dunque l’applicazione del S. C. Silaniano, è in questo testo esclusivamente collegata alla natura violenta dell’illecito; quell’obbligo, così duramente sancito per difendere in origine esclusivamente il padrone dalla violenza servile, si mostra ora superato nell’intendimento di tutelare l’ordine costituito contro ogni uccisione violenta: ‘occidere aliquem’ – dice Ulpiano in questo testo – non si parla qui solo di ‘domini’ e ‘occidere’ significa proprio l’omicidio commesso in modo violento.

         Altrove, Ulpiano stesso spiega dettagliatamente in quali ipotesi si possa parlare di omicidio violento:

 

D. 29.5.1.17 (Ulpianus, l. quinquagesimo ad edictum): “Occisorum appellatione eos contineri Labeo scribit, qui per vim aut caedem sunt interfecti, ut puta iugulatum, strangulatum praecipitatum, vel saxo, vel fuste, vel  lapide percussum, vel quo alio telo necatum”.

 

L’omicidio è stato commesso ‘vis ac caedis’ ed è solo questo tipo di delitto che  costituisce l’elemento essenziale per l’applicazione del Silaniano. La ratio per cui solo in questa fattispecie si riscontra una turbativa dell’ordine sociale è ancora spiegata da Ulpiano in:

 

D. 29.5.1.21 (Ulpianus, l. quinquagesimo ad ed.): “Quid ergo, si dominus veneno, non per vim necatus esse proponatur, impunitum erit factum? Nullo modo; licet enim cessat Senatusconsultum Silanianum, nec quaestio suppliciumque de his, qui sub eodem tecto fuerunt, habeatur…”.

 

         La differenza fra le due fattispecie sta proprio nel fatto che l’uccisione del dominus nella prima è avvenuta “per vim”, laddove nel testo sopra riportato il dominus è stato ucciso ‘veneno’, e sicuramente chi ha fatto ricorso alla violenza costituisce un pericolo pubblico maggiore per la sicurezza sociale.

         Con ciò si sottolinea, ancora una volta, la pericolosità per la sicurezza dello Stato, che è espressa dalla violenza.

         Tale dato trasforma la ratio della norma, che è posta a tutela della garanzia di un interesse pubblico, anche se è ovvio che l’uccisione comminata ‘veneno’ non rimane impunita ma ricade nella fattispecie contemplata dalla lex Cornelia de sicariis et veneficiis, come afferma Ulpiano in:

        

D. 29. 5.3.12 (Ulpianus, l. quinquagesimo ad ed.): “Si quis quem eorum servum servamve ex ea familia, qui eius facinoris noxius erit, receperit vel celaverit sciens dolo malo, in ea causa est, ac si lege, quae de sicariis lata est, facinoris noxius fuerit”.

 

         Conferma, del resto, la salvaguardia di un interesse superiore la rigidezza nell’attuazione della norma, che è attestata da D. 29.5.3.1.

         Le ragioni della esasperata applicazione in questo periodo del Silaniano non vanno contro la progressiva umanizzazione della schiavitù, avvenuta durante i primi tre secoli dell’Impero.

         A questa evoluzione ha certamente contribuito il nuovo atteggiamento “ideologico” dei padroni verso i servi che, più in generale, conduce ad un complessivo miglioramento della condizione servile.

         La nuova interpretazione della norma del S.C. Silaniano si spiega se si considera come argine, come limite alla concezione umanitaristica e si fa rientrare tra le misure di garanzia dell’ordine pubblico.

         Tutto ciò si ricollega all’evoluzione della schiavitù che ha subito modificazioni interne, tanto rilevanti da ammettere una sorta di perseguibilità dello schiavo stesso in talune circostanze di rilievo pubblico.

         Se infatti si considera che lo schiavo è chiamato in questa epoca sempre più a partecipare alla vita pubblica, a svolgere importanti funzioni nell’economia, nella politica e nella cultura, tanto che alcuni sono infinitamente più ricchi e potenti della maggior parte degli uomini liberi, se si riflette sul fatto che essi hanno una vita sociale e pubblica di rilievo, allora si spiega come siano considerati ‘cattivi schiavi’ e, perciò, siano da punire tanto più duramente, allorché si teme che essi abbiano portato turbative talmente gravi a quell’ordine sociale da sconvolgerlo. Se, cioè, partecipano tanto attivamente alla vita sociale sono da punire se non impediscono la turbativa all’ordine pubblico.

         Per questa connotazione pubblica, a nulla serve l’affermazione del padrone che incolpa un servo della propria morte nel tentativo di liberare tutti gli altri, se non si possa provare la verità di quanto egli afferma in punto di morte:

 

D. 29.5.3.1. (Ulpianus, l. quinquagesimo ad edictum): “Si quis moriens dixisset, a servo vim mortis illatam esse sibi, dicendum est, non esse credendum domino, si moriens hoc dixit, nisi potuerit et probari”.

 

Di fronte a queste applicazioni del Silaniano, si potrebbe avvertire un contrasto fra interesse pubblico e quello del singolo, una sorta di ingerenza cioè dell’interesse pubblico con il sacrificio della sfera individuale patrimoniale, se a Roma fosse stata chiara la distinzione fra pubblico e privato, se il privato non avesse indicato solamente “ciò che un uomo può fare senza venir meno ai suoi doveri e al suo comportamento di uomo, investito di funzione pubblica”.

Da questa nuova interpretazione del Silaniano, nella quale è accentuato l’elemento dell’interesse pubblico, discende una serie di conseguenze e di modalità di applicazione, a cui spesso Ulpiano attivamente collabora e di cui altre volte è autorevole portavoce.

Una fra le più importanti è la ricerca della responsabilità, già introdotta da Adriano e che Ulpiano molto spesso ribadisce, considerandola un necessario elemento per l’applicazione della pena S. C. Silaniano.

Questa responsabilità, che sotto certi aspetti era presunta all’epoca augustea, all’età di Ulpiano si riscontra nella precisa circostanza in cui i servi, potendo portare aiuto al dominus, non lo fecero e non impedirono, così, la sua morte violenta.

 

D. 29.5.18 (Ulp., l. quinquagesimo ad edictum): “Quodsi qui, puta, veneno, vel etiam quo alio, quod clam necare soleat, interemtus sit, ad hoc Senatusconsultum vindicta mortis eius non pertinebit, hoc idcirco, quia toties puniendi sunt servi, quia auxilium domino non tulerunt, quotiens potuerunt ei adversus vim opem ferre, et non tulerunt”.

 

La motivazione per cui ‘non pertinebit vindicta mortis eius’, laddove si tratta di uccisione ‘insidiis’ è dovuta al fatto che i servi ‘puniendi sunt’, perché ‘auxilium domino non tulerunt, quotiens potuerunt’.

La responsabilità richiesta, per cui gli schiavi ‘puniendi sunt’, dunque, secondo questa interpretazione del Silaniano, è ricondotta ad un ‘non facere’, all’omissione cioè di un determinato comportamento idoneo ad impedire l’evento criminoso. Si tratta, pertanto, di una sorta di responsabilità penale omissiva, come sarebbe definita nell’attuale sistema penale, nella quale si introduce una fictio di perseguibilità per cui la responsabilità è presunta fino a prova in contrario. Tale sorta di responsabilità si collega direttamente all’aspetto repressivo della norma.

I servi devono essere puniti per il fatto che non hanno impedito che si compisse una violenza quando potevano evitarla, sono perciò corresponsabili nell’evento delittuoso e, quindi, si considerano pericolosi per la sicurezza sociale.

Si introduce, così, un concetto di responsabilità per un comportamento omissivo, che diventa illecito non solo perché i domini sono stati uccisi, quanto perché di tale violenza si sono resi corresponsabili i servi, giacché potendo evitare il verificarsi dell’evento delittuoso non lo fecero, mostrando in tal modo la loro pericolosità nei confronti della famiglia.

Si pensa infatti che colui il quale, potendo evitarlo, ha permesso l’omicidio dei domini, divenendone corresponsabile, a maggior ragione non lo impedirà se l’illecito si verifichi al di fuori delle mura domestiche e non si tratti dell’omicidio dei domini.

Questa sorta di pericolosità sociale, per cui si giustifica l’applicazione del Silaniano, è ancora sottolineata da Ulpiano, allorché tratta del caso in cui il dominus non è ucciso in modo violento, ma si è suicidato alla presenza dei servi, i quali potendo impedirlo non lo fecero:

 

D. 29.5.1.22 (Ulp., l. quinquagesimo ad ed.): “Si sibi manus quis intulit, Senatusconsulto quidem Silaniano locus non est, sed mors eius vindicatur, scilicet ut, si in conspectu servorum hoc fecit, potueruntque eum in se saevientem prohibere, poena afficiantur, si vero non potuerunt, liberentur”.

 

Parimenti, sarà responsabile il servo di più padroni che porta aiuto a uno solo e non impedisce la morte degli altri:

 

D. 29.5.3.4 (Ulp., l. quinquagesimo ad ed.) “Si, quum omnes domini aggressuram paterentur, uni servus opem tulit, an sit excusandus, an vero, quia omnibus non tulit, plectendus? et magis est, ut si quidem omnibus ferre potuit, quamvis quibusdam tulit, supplicio afficiendum; si vero simul omnibus non potuit, excusandum, quia quibusdam opem tulerit. Nam illud durum est dicere, si, quum duobus auxilium ferre non possit, elegit alteri esse auxilio, electione crimen eum contraxisse”.

 

Questa richiesta di corresponsabilità per l’applicazione del Silaniano è talmente innovativa da cambiare la stessa finalità del senatoconsulto, giacché mette a base della sua applicazione non già l’evento oggettivo, costituito dalla morte del dominus, ma l’elemento della pericolosità, che è data dalla corresponsabilità di quei servi i quali potendo portare aiuto ed evitare l’evento violento non lo fecero.

Siamo, dunque, ad uno stravolgimento della norma del Silaniano, nel senso che laddove esso nasce principalmente come mezzo di intimidazione per il chiarimento del delitto – è questa infatti la ragione per cui la quaestio e il supplizio si applicano, all’origine, indiscriminatamente a tutti i servi sub eodem tecto, qualora si verifichi l’uccisione violenta del dominus – con Ulpiano si accentua il suo aspetto repressivo e la pena diventa applicabile solo in caso di responsabilità dei servi quia auxilium domino non tulerunt, quotiens potuerunt, et adversus vim opem ferre et non tulerunt.

Da questo principio derivano come corollari le ulteriori limitazioni all’applicazioni del S. C., proposte da Ulpiano e dovute alle delimitazioni spaziali e personali della norma.

Non staremo, qui, a riproporre tutto l’iter compiuto dall’interpretazione della giurisprudenza, dal pretore, nonché dalle disposizioni imperiali; quello che ci preme mettere in evidenza è il sovvertimento di quell’iniziale automaticità del principio, secondo cui i servi sub eodem tecto, se il padrone è ucciso nella sua casa in ogni caso sono indiscriminatamente sottoposti al supplizio e alla tortura.

Il criterio a cui si rifà Ulpiano è, invece, conseguente a quello della responsabilità per il sovvertimento dell’ordine sociale costituito.

Da qui, la necessità di stabilire le esimenti per l’applicazione del S.C. Silaniano.

In primis, la giurisprudenza si pone il problema di determinare la consistenza dell’espressione ‘sub eodem tecto’.

 

Così Ulpiano si chiede in

 

D. 29.5.1.27 (Ulpianus, l. quinquagesimo ad ed.): “Eodem  autem tecto qualiter accipiatur, videamus, utrum intra eosdem parietes, an et ultra, intra eandem diaetam, vel cubiculum vel eandem domum vel eosdem hortos, vel totam villam?”.

 

Tale difficoltà di individuare un criterio spaziale preciso porta a concludere Ulpiano che appare oltremodo iniquo, se un padrone abbia campi molto estesi e sia stato trovato ucciso nella casa di campagna, applicare il S. C. perché è ovvio che in questo caso i servi potevano non avere sentito e quindi non essere responsabili per non aver soccorso il padrone:

 

D. 29.5.1.30 (Ulpianus, l. quinquagesimo ad ed.): “Si quis in villa agens occisum sit, plus quam iniquum est, si forte diffusa late praedia habeat, de omnibus, qui in ea regione fuerint, servis et quaestionem haberi, et supplicium sumi”.

 

Il giurista individua, dunque, nella fattispecie esposta una delle ipotesi di esclusione della responsabilità, a cui consegue la non applicazione del S. C.

In modo ancor più esplicito si esprime Ulpiano in D. 29, 5, 1, 5, allorché non ritiene che debba applicarsi il Silaniano, se, pur essendo sotto lo stesso tetto, il servo non ha preso parte al delitto.

Altra conseguenza che rende più umano il senatoconsulto è l’esclusione di quei servi che non sono imputabili, perché si trovano in una certa condizione, come ad esempio se sono impuberi, minorati, pazzi, ecc.

I caratteri originari della repressione, quali ci sono descritti da Tacito in Ann. 14.45.1, sono così limitati nel commento di Ulpiano:

 

D. 29.5.1.33 (Ulp. l. quinquagesimo ad edictum): “Impuberi autem utrum in supplicio tantum parcimus, an vero etiam in quaestione? et magis est, ut de impubere nec quaestio habeatur; et alias solet hoc in usu observari, ut impuberes non torqueantur; terreri tantum solent, et habena vel ferula caedi”.

 

La domanda che si pone il giurista se, cioè, all’impubere va risparmiato solo il supplizio o anche la tortura, mostra come alla soluzione si sia arrivati non  in via legislativa ma in via interpretativa da parte della giurisprudenza. Il ‘magis est’ è indicativo della soluzione che Ulpiano preferisce, per cui colui che non è capace non è sottoposto a ‘quaestio’, né coerentemente si dà luogo in questo caso alla tortura.

Il principio su esposto che esenta dall’applicazione del Silaniano chi non è nella condizione di aiutare il dominus, è riproposto in una serie di situazioni simili. Così vale ad esempio per colui che senza dolo si trova in custodia o in ceppi (D. 29.5.3.6), o colui che è affetto da una grave malattia (D. 29.5.3.pr.).

Analogamente è scusato anche il pazzo (D. 29.5.3.11) o il sordo (D. 29.5.3.8), o il muto (D. 29.5.3.10) e il cieco (D. 29.5.3.9).

Fermiamoci, dunque, qui, alle soglie del dominato e dell’epoca post-classica.

Il quadro che si è cercato di tracciare mira a dare una visione della profonda trasformazione della societas nell’ultima epoca classica. Tale trasformazione è alla base del mutamento che la norma del Silaniano subisce grazie anche all’interpretazione di Ulpiano. Quella tutela dell’interesse personale privato che domina ancora l’epoca augustea, sembra evolversi e liberarsi, nel corso del primo e secondo secolo, all’interno di una società che si organizza sulle basi di un ordine sociale costituito e ben tutelato, in cui si sommano l’aspetto pubblico e la dimensione privata.

Conseguentemente, l’interpretazione del Silaniano è giustificata dalla gravità ed eccezionalità dell’incidenza pratica e della pericolosità sociale delle fattispecie sanzionate, ragione per cui la disposizione mira a punire quella forma di violenza che tocca l’ordine costituito, che lo Stato deve proteggere e alla quale la ‘familia’ servile non si è opposta.

La disposizione, pertanto, appare radicalmente modificata non solo nelle sue finalità e nelle sue applicazioni concrete: non è più un mezzo emblematico intimidatorio per chiarire il delitto, ma diventa la pena connessa ad un tipo di responsabilità omissiva in senso ampio. Cambiano così i soggetti attivi e passivi destinatari della norma, giacché sono sottoposti al S. C. non solo i servi del dominus ma anche quelli extranei che sono occasionalmente sub eodem tecto, ed essi sono liberati solo se  mostrano di non essere corresponsabili della morte del dominus, la cui vita devono proteggere non solo dal pericolo dell’azione violenta degli altri servi, né sono più chiamati a tutelare la vita del solo dominus, ma anche dei familiari che abitano con lui. Cambia, altresì, il riferimento spaziale alla domus in cui il delitto è compiuto, che si concepisce non più ‘stricto sensu’, riferentesi cioè a coloro che vivono ‘sub eodem tecto’, ma nel suo significato lato nel quale è compresa l’intera villa con le sue pertinenze, fino addirittura ad ipotizzarsi l’applicazione del Silaniano anche se la morte violenta è avvenuta ‘in itinere’.

La spiegazione di tutto questo, poggia sui particolari rapporti che Roma instaura con quegli individui di ineguale ‘status’ che sono i servi, a cui, tuttavia, attribuisce un ruolo attivo da protagonisti nella sua vita pubblica e di conseguenza riconosce la loro perseguibilità penale qualora violino l’ordine pubblico.

Questo nuovo ruolo dei servi, modifica l’intero quadro sociale e costituisce uno dei punti di grande importanza per la ricostruzione della sua storia nel periodo ulpianeo.

È questa la ragione per cui non è possibile esaminare la schiavitù esclusivamente nell’ambito della vita privata, senza considerarne i limiti al di là dei quali essa svolge una diversa funzione.

È tale aspetto, in quanto portatore di pubblici interessi che intende regolare lo Stato anche mediante la nuova interpretazione del S. C. Silaniano, che si presenta come una pena e un monito per quei servi i quali essendosi resi responsabili della violenza, si siano presentati perciò come massimamente pericolosi per la tutela dell’ordine sociale costituito.