N. 3 – Maggio 2004

 

 

 

Religione e diritto nella storiografia sovietica (1917-1991) su Roma antica

                           

Maria N. Chelintseva
Università Statale di Mosca
“Lomonosov”

 

 

Sommario: 1. Studi su Roma antica nella Russia prerivoluzionaria e ruolo delle ricerche su religione e diritto. – 2. La Rivoluzione d’Ottobre del 1917, le trasformazioni radicali nello studio e nell’insegnamento della storia antica; riduzione degli studi su religione e diritto romano. – 3. Gli studi di storia romana dopo la “Gran Guerra Patriottica” (1941-1945). Ripresa delle ricerche nel campo della storia e del diritto: Nikolaj A. Maškin. – 4. Gli studi storico-etnografici di Sergej A. Tokarev. – 5. Studi sulla “cultura di Roma antica” negli anni 60-80 del Novecento. – 6. Gli studi sull’ideologia e la cultura della “prima Roma” di Aleksandr I. Nemirovskij – 7. Diritto e religione negli studi di Elena M. Štaerman. – 8. Lo stato attuale delle ricerche nel campo della religione e del diritto di Roma antica.

 

 

 

1. – Studi su Roma antica nella Russia prerivoluzionaria e ruolo delle ricerche su religione e diritto

 

La scienza antichistica russa tra la fine del 1800 e l’inizio del 1900 si sviluppa principalmente nelle università, in una stretta collaborazione con la scienza europea (soggiorni regolari nelle università d’Europa, principalmente in Germania, visite agli scavi in Grecia e in Italia, partecipazione ai congressi e convegni internazionali). Tutto ciò, insieme ad un alto livello di preparazione classica già a partire dal ginnasio, tappa obbligatoria per i rappresentanti dei ceti colti della società russa, permette alla scienza dell’antichità di raggiungere un alto grado di sviluppo e di diventare una scienza a livello europeo, pur conservando i propri tratti caratteristici.

Essa si distingue per il carattere fondamentale degli studi storico-filologici, per la concretezza delle ricerche storiche, per la varietà di scuole e tematiche. Le principali correnti scientifiche sono tre: 1) storico-filologica in senso stretto, che si poneva come scopo immediato la ricostruzione della storia politica dell’antichità (Ivan V. Netušil, Vasilij I. Modestov, Julian I. Kulakovskij, Sergej A. Žebeljov); 2) “culturale”, mirata alla riflessione generale sulla civiltà antica, soprattutto sulla sua vita spirituale, sulle sue idee (Faddej F. Zelinskij, Nikolaj I. Novosadskij); 3) le correnti sociopolitica e socioeconomica, sorte più tardi delle altre, ma già prima della rivoluzione segnate da importanti risultati scientifici (Vladislav P. Buzeskul, Michail I. Rostovtzeff, Michail M. Chvostov)[1].

Si nota una crescita delle ricerche storico-giuridiche, principalmente nel campo del diritto romano e degli istituti giuridici romani, nelle opere di Vasilij I. Sinajskij[2], Fjodor M. Dydynskij[3], Veniamin M. Chvostov[4], Nikolaj P. Bogolepov[5], Iosif A. Pokrovskij[6] ed altri.

Tra gli studiosi che nelle loro ricerche su Roma antica dedicarono attenzione alla religione e al diritto occorre menzionare Ivan V. Netušil (1850-1928), il quale pubblicò negli anni 1894-1902 un’opera in tre volumi sugli istituti politici romani[7], la cui esposizione sistematica è la più dettagliata della letteratura russa. La particolarità di questa opera, come degli altri scritti di questo studioso, sta nell’isolamento degli istituti politici dai rapporti sociali e in una visione generale ipercritica della tradizione romana, dovuta anche allo scarso impiego del materiale archeologico.

Uno studioso di alto rilievo che esaminò la cultura antica nei suoi vari aspetti fu Faddej F. Zelinskij (1859-1944). I suoi numerosi articoli furono raccolti in una pubblicazione di quattro volumi con il titolo caratteristico «Dalla vita delle idee»[8]. Per Zelinskij la cultura e la religione antica sono una sorta di premessa al cristianesimo, le quali, al pari di quest’ultimo, erano volte a soddisfare, in maggiore o minor misura, alcuni bisogni eterni dell’anima umana. Proprio nelle condizioni del mondo antico furono generate le idee che attraverso il cristianesimo entrarono a far parte della cultura moderna. In relazione a ciò Zelinskij considerava l’antichità come una parte vitale della cultura contemporanea. Lo studioso tratta i fatti culturali, spirituali, morali e religiosi come sorti da se stessi, senza tentare di tracciare un legame tra essi e le condizioni materiali e sociopolitiche. Per la sua visione storico-filosofica Zelinskij era uno degli esponenti della corrente religioso-idealistica di storia della cultura. Nel suo tentativo di evidenziare la profondità della cultura antica e di conciliarla con la sua concezione cristiana del mondo, Zelinskij sopravvalutava il grado dell’affinità e dell’influenza delle idee antiche sul cristianesimo.

La valutazione generale della scienza russa dell’antichità si può riassumere così: fu un settore vitale dell’istruzione e della scienza umanistica che ne fungeva da base; possedeva tutti i requisiti necessari (alto livello della preparazione di base, possibilità materiali e politiche per lo svolgimento della ricerca, contatti e interscambi con la scienza occidentale, libertà e varietà di scuole e metodi) per essere considerata una disciplina che aveva raggiunto un livello europeo e il cui sviluppo era coerente a quello mondiale[9].

 

 

2. – La Rivoluzione d’Ottobre del 1917, le trasformazioni radicali nello studio e nell’insegnamento della storia antica; riduzione degli studi su religione e diritto romano

 

La situazione dopo la rivoluzione socialista del 1917 nel campo degli studi classici in generale è caratterizzata da un atteggiamento volto alla loro eliminazione radicale in quanto inutili per la costruzione di una nuova società basata sulla messa in pratica dei principi ideologici marxisti-leninisti; ciò porta allo sterminio fisico e ideologico dei rappresentanti della scuola storica prerivoluzionaria «borghese», ad un isolamento dai contatti con i colleghi occidentali nonché all’impossibilità di effettuare soggiorni o ricerche all’estero. In tal modo il sistema prerivoluzionario di istruzione e ricerca scientifica viene smantellato; inoltre, dopo la guerra civile, nei primi anni di «сostruzione pacifica» del nuovo Stato le sovvenzioni per le ricerche scientifiche in generale vengono ridotte al minimo o eliminate del tutto.

Emigrano degli eminenti rappresentanti della scienza nazionale (basti citare Michail I. Rostovtzeff, Robert Ju. Vipper), altri studiosi si ritrovano costretti di cessare o ridurre sensibilmente la propria attività scientifica a causa dell’incompatibilità delle loro vedute con la dottrina dominante di marxismo-leninismo, la quale è introdotta a livello statale come metodologia obbligatoria. Avviene una trasformazione dell’orientamento dell’attività di ricerca storica: ora essa mira allo studio della cultura materiale, dei rapporti socioeconomici, della storia delle classi oppresse.

Il bolscevismo rinuncia al diritto borghese e di conseguenza anche allo studio del diritto romano, considerato base di esso. Questa situazione, aggravata dal fatto che nella scuola sovietica viene abolito l’insegnamento scolastico della lingua latina e del diritto romano, influenza negativamente anche il livello dell’approfondimento scientifico del diritto romano, la cui ricerca venne ridotta al minimo.

Il predominio dell’ateismo militante, proclamato dallo Stato, porta ad un’interruzione degli studi scientifici sulle religioni, sostituiti da scritti di carattere propagandistico, in cui si presta una maggiore attenzione alla lotta ideologica contro il cristianesimo. Tra le opere esemplari di quel periodo si può menzionare una raccolta di citazioni dagli autori antichi (principalmente di carattere anticristiano), fatta da A. Ranovič[10] ed edita nel 1933, con lo scopo principale di fornire ulteriori mezzi di lotta per chi svolgeva la propaganda contro il cristianesimo, così come gli scritti successivi di questo attivo partigiano dell’ateismo militante, in cui veniva sottolineata la tesi sulla simbiosi della chiesa cristiana con l’apparato dello Stato e sulla sua trasformazione in un baluardo delle classi dominanti.

L’unica organizzazione in cui negli anni ‘20 si svolge principalmente il lavoro di ricerca degli specialisti nel campo di storia antica è l’Accademia Statale di Storia della cultura materiale (GAIMK). Uno dei problemi più attuali elaborati all’Accademia fu quello della storia della tecnologia (come parte fondamentale delle forze di produzione che determinano lo sviluppo del modo di produzione), della schiavitù, del modo di produzione schiavistico in generale. Vi partecipano attivamente Sergej I. Kovaljov, Vladimir S. Sergejev, Pjotr F. Preobraženskij[11].

I primi due sono autori dei primi manuali e libri di studio sulla storia antica scritti in chiave marxista; la storia antica viene presentata in essi come storia delle società schiavistiche[12].

Pjotr F. Preobraženskij, per primo fra gli studiosi di formazione marxista, si occupò dei problemi delle credenze religiose antiche, dei concetti paleocristiani, dei movimenti sociali, dei vari aspetti della cultura antica[13]. Nella sua monografia «Tertulliano e Roma», edita nel 1926 (e ripubblicata, insieme ad altri saggi dello studioso, nel 1965, con una premessa di E. M. Štaerman), presenta un esempio di felice combinazione del suo talento di divulgatore scientifico con una attenta e minuziosa analisi delle fonti e con la critica della metodologia borghese, basata sull’importanza, secondo l’autore, di dare una sintesi del materiale, fecondata da un concetto generale, al posto di un incessante sezionamento del materiale in minime parti che diventa un fine a se stesso; tale impostazione conferisce alla monografia di Preobraženskij un carattere polemico, senza privarla però di un indubbio valore di vera e propria ricerca scientifica, a differenza dei numerosi opuscoli «antireligiosi» di quel periodo. I punti discutibili nelle considerazioni e conclusioni dello studioso, rilevati da E.M. Štaerman[14], sono seguenti: la datazione più tarda, rispetto a quella di F. Engels, adottata nella scienza sovietica, dell’apparizione delle prime comunità cristiane (nei primi decenni del II sec.); il riconoscimento ai ceti medi del mondo romano-ellenistico del ruolo di creatori della base sociale del cristianesimo; e, infine, la conclusione che il lato forte del cristianesimo non era quello ideologico, ma quello organizzativo. Nell’analisi dei singoli particolari dell’ideologia cristiana P. F. Preobraženskij, sulla scia delle tendenze del suo tempo, presta una attenzione particolare al cosiddetto «comunismo cristiano» e considera la dottrina della comunanza dei beni una pietra di paragone per giudicare dell’appartenenza sociale dei seguaci della nuova religione. Polemizzando con lo studioso, E. M. Štaerman osserva che ai tempi dell’Impero romano questa dottrina godeva di una maggior popolarità presso le classi superiori deluse dell’attualità, che idealizzavano il passato remoto e la vita semplice dei «barbari»; essa veniva adoperata per giustificare la proprietà suprema sulla terra degli imperatori e il loro diritto di disporre dei beni dei propri sudditi secondo il proprio arbitrio[15]. Invece per la «gente semplice» era più affine l’ideale della società basato sul principio di piccola proprietà, protetta da abusi sia da parte dei singoli individui, sia da parte dello Stato.

Volendo dare un giudizio generale sulle conclusioni dello studioso, si può constatare che esse sono il risultato dell’influenza sulla scienza russa di allora della teoria del «capitalismo antico» e in generale alla tendenza a modernizzare la storia antica, soprattutto nella valutazione della lotta di classi a Roma sulla base di criteri validi per la lotta del proletariato moderno.

Essendo abolito l’insegnamento del greco e del latino nelle scuole, per far conoscere l’eredità dei classici al vasto pubblico di lettori, tra cui studenti delle prime università sovietiche i quali non avevano ormai alle spalle la solida base della preparazione ginnasiale, si intraprendono le traduzioni in russo delle opere degli scrittori greci e latini. Si pubblicano le antologie di testi e documenti tradotti per gli autodidatti sui vari aspetti della storia antica. In generale l’esposizione della storia antica volge a una sempre maggiore semplificazione per renderla accessibile al nuovo pubblico di lettori, il che spesso porta ad una volgarizzazione del sapere scientifico.

Tirando le somme di questo periodo di transizione si possono citare le parole del professor Eduard D. Frolov, direttore del dipartimento dell’antichità presso la facoltà di storia dell’Università di San Pietroburgo, dalla sua monografia dedicata alla scienza russa dell’antichità: «Verso l’inizio degli anni 40 la scienza russa dell’antichità si trova ridotta ad essere un poligono per le esercitazioni politeconomiche marxiste»[16].

 

 

3. – Gli studi di storia romana dopo la “Gran Guerra Patriottica” (1941-1945). Ripresa delle ricerche nel campo della storia e del diritto: Nikolaj A. Maškin

 

L’inizio del periodo postbellico è segnato dall’apparizione delle opere scientifiche di carattere monografico, basate sulle precedenti ricerche pubblicate negli articoli. I problemi affrontati in essi sono assai svariati (schiavitù come un peculiare sistema socioeconomico, studiato ormai sempre più sulla base delle diverse fonti; agricoltura romana come settore chiave della produzione antica; ordinamento sociale e di classi; la vita delle province romane; vari aspetti del primo cristianesimo) e hanno séguito nella storiografia sovietica successiva.

Vista l’impossibilità degli studi sistematici del diritto romano da parte dei giuristi, dovuta ai motivi indicati sopra, la ripresa delle ricerche in questo campo viene effettuata dagli studiosi di storia, tra cui prima di tutto è necessario ricordare l’attività scientifica di Nikolaj A. Maškin, professore dell’Università Lomonosov di Mosca, autore di un fondamentale manuale universitario sulla storia di Roma antica[17] che presenta anche dei brevi cenni della storia del diritto romano: la divisione del diritto in fas e ius all’età regia, con la constatazione del vasto campo che abbraccia il fas e del suo legame stretto con la religione, come fonte di diritto si indica l’uso, i suoi custodi sono i pontefici; le innovazioni della prima età repubblicana e le leggi delle XII Tavole; lo sviluppo ulteriore del diritto romano in relazione al diritto di proprietà romana dei quiriti; l’influenza dello sviluppo della prosa latina all’età tardorepubblicana sull’elaborazione del linguaggio giuridico; superamento del formalismo rituale con lo sviluppo e l’applicazione delle norme dello ius gentium dovuti alla necessità di rapporti con abitanti delle province e degli altri stati; la nascita della distinzione tra proprietà e possesso; l’apparizione del nuovo tipo di proprietà (pretoria o bonitaria), legata ai cambiamenti nella circolazione dei beni.

Nel capitolo sul principato di Augusto vengono esposte le iniziative legislative riguardanti la famiglia e il matrimonio, la distinzione nella posizione tra liberi e schiavi, tutte volte, secondo l’autore, a rafforzare i capisaldi della società schiavistica romana scossi durante le guerre civili[18].

Un capitolo a parte è dedicato al periodo classico nella storia del diritto romano, in cui avviene la cristallizzazione dei concetti e metodi elaborati nell’età precedente, la liberazione del diritto dalle sopravvivenze dell’età preistorica (nella dottrina sulla capacità giuridica delle persone), dal formalismo nel campo delle obbligazioni[19].

Il capitolo dedicato alla situazione nell’Impero romano d’Oriente nel V-VI ss. contiene anche la descrizione del processo di codificazione giustinianea con cui si era completato lo sviluppo del diritto romano[20].

Il manuale del professor Maškin dà l’esempio dell’applicazione della dottrina evoluzionistica marxista nell’ambito della religione romana, soprattutto nell’interpretazione evoluzionistica delle sue origini e nell’esposizione generale delle tappe del suo sviluppo, ricollegate allo sviluppo economico-sociale. Si nota la mancanza nella religione romana di un sistema e la convivenza dei residui (sopravvivenze) delle credenze e usanze arcaiche (totemismo, culti della gens e della familia, animismo, tabù, atti magici) con le assimilazioni delle idee religiose dei popoli che raggiunsero un livello di sviluppo culturale più alto (latini, etruschi, greci); il rigore formale nell’esecuzione dei riti e nell’osservazione dei divieti; la fusione della religione con lo stato, per cui i sacerdoti svolgevano il ruolo di funzionari statali con determinate mansioni, così come gli alti magistrati avevano certe funzioni religiose. Il lento processo di ellenizzazione della religione romana nel II secolo a. C. viene visto come un adattamento dei concetti romani tradizionali alle nuove condizioni di vita e alla nuova mentalità che portò alla crisi della religione romana, manifestata sia nella diffusione dei culti orgiastici, sia nell’atteggiamento scettico nei confronti della religione tradizionale. Basandosi sulle tesi di Marx ed Engels, l’autore spiega la diffusione dei culti orientali nell’Impero romano del I-II ss. d. C. e l’apparizione del primo cristianesimo come una conseguenza dei processi di disgregazione del regime schiavistico nel campo della politica ed economia, che avevano portato ad una particolare sensibilità delle masse popolari dell’Impero nei confronti delle credenze messianiche e mistiche.

Nella monografia di N. A. Maškin “Il principato di Augusto”[21], la cultura dell’età augustea, di cui fanno parte la religione e la giurisprudenza, viene presentata come un insieme, il cui sviluppo è condizionato da motivi politici. Nel campo religioso l’autore rileva l’aspirazione di Augusto da un lato di ripristinare i mores maiorum, dall’altro di trovare un fondamento religioso al potere monarchico (il che sembra entrare in contrasto con le credenze romane tradizionali).

Lo stato generale delle idee nella società romana alla fine della repubblica rivela, secondo N. A. Maškin, un atteggiamento scettico e perfino ostile nei confronti della religione da parte di alcuni rappresentanti dell’intelligentia, il formalismo degli aristocratici romani nell’eseguire i riti della religione tradizionale dovuto alla diffusione della filosofia ellenistica, dei vari culti e credenze orientali. Il periodo delle guerre civili porta a una maggior serietà nei confronti dei riti religiosi antichi, legata alla speranza di ripristinare per mezzo di essi dei tempi passati in cui gli Dei erano venerati, la vita degli uomini era semplice, i loro costumi erano casti e stabili e lo Stato possedeva un tale vigore da poter dettare la propria volontà agli altri popoli e sottometterli al proprio potere. Questo insieme di idee veniva designato con il concetto della pietas.

La vita religiosa della plebe romana era distinta da un sincretismo, in cui i culti orientali godevano di grande popolarità e vasta diffusione. Il sincretismo nelle credenze portava alla possibilità di unire e combinare i riti delle diverse religioni nei culti esoterici; la penetrazione delle tradizioni monarchiche dell’Oriente ellenistico avevano contribuito all’affermarsi del culto di Cesare. Tra la popolazione delle città italiche le tradizioni religiose conservavano maggiore importanza rispetto a Roma; erano particolarmente venerati i luoghi sacri e le divinità protettrici della vita familiare.

L’autore propone di esaminare la politica religiosa di Augusto nell’ambito del processo di crollo del vecchio sistema legato alla vita di polis, città-stato, il quale viene sostituito con il sistema della monarchia universale. Augusto si presenta come riformatore, o meglio, restauratore della religione romana; egli ricostruisce i templi antichi e consacra agli Dei nuovi edifici di culto; ripristina e appoggia gli antichi collegi sacerdotali; presta una grande attenzione alla religione della familia (il che va in sintonia con la sua politica legislativa). L’innovazione principale consiste nell’introduzione della venerazione del genio di Augusto fra le divinità della casa e della familia. Anche la nuova ripartizione amministrativa della città di Roma in regiones e vici era legata con alcune innovazioni religiose: nel santuario dei lares compitales comincia a essere venerato, fra le altre divinità, anche il genio di Augusto che è considerato il protettore di tutto l’Impero, di ogni famiglia e di ogni persona, in quanto datore di pace. La politica religiosa di Augusto trova una espressione manifesta nel festeggiamento dei ludi secolari; queste festività, insieme ad altre iniziative di Augusto, erano volte a rafforzare la religione romana tradizionale.

L’autore osserva che l’Impero romano era successore delle monarchie universali che cercavano la giustificazione della propria potenza nei simboli religiosi, mentre il ripristino della religione romana poteva avere importanza solo per Roma e l’Italia; siccome l’essenza dell’avvenuta trasformazione politica stava nel fatto che la città-stato cedeva il posto alla monarchia universale, ed avendo la prima un forte legame con l’antica religione nazionale, anche la seconda doveva ricevere una qualche sanzione religiosa. Questi sono, secondo l’autore, i motivi principali delle azioni politiche di Augusto nel campo religioso. Uno dei mezzi di tali azioni era la propaganda religiosa. Augusto non aveva creato un sistema religioso compiuto, ma aveva tentato di riunire ed utilizzare le più svariate correnti e tendenze religiose[22].

Nel paragrafo dedicato alla giurisprudenza l’autore constata l’inizio ai tempi di Augusto dell’epoca cosiddetta classica nel campo di diritto, in cui il pensiero giuridico volge prevalentemente allo studio del diritto, allo stabilire le norme giuridiche generali e al risolvere alcune questioni generali di carattere fondamentale. In base alle poche fonti a disposizione l’autore ritiene possibile sostenere che Augusto prestava una grande attenzione al diritto; usando la propria auctoritas egli aveva dato ai giuristi lo ius respondendi e si era impegnato di persona a risolvere le questioni di carattere fondamentale; egli aveva partecipato all’elaborazione delle questioni giuridiche lasciando comunque una notevole autonomia di giudizi ai giuristi[23].

 

 

4. – Gli studi storico-etnografici di Sergej A. Tokarev

 

La prima rassegna generale delle religioni dei vari popoli e paesi, dalla nascita delle prime credenze elementari alla formazione dei sistemi complessi, cosiddette «religioni universali», frutto del lavoro di molti anni dell’eminente storico ed etnografo Sergej A. Tokarev, è apparsa nel 1964[24]. Nell’Introduzione lo studioso afferma la necessità di conoscere la storia della religione per svolgere la propaganda scientifica dell’ateismo, osservando che nelle rassegne degli studiosi «borghesi» si ignora il legame della storia della religione con la vita materiale della gente; l’evoluzione delle credenze religiose viene spesso presentata come uno sviluppo delle idee in un certo senso autonomo. Il libro è un tentativo di colmare la lacuna nella letteratura marxista e di dare una rassegna generale di storia della religione in relazione allo sviluppo storico dell’umanità. L’opera è suddivisa in 3 parti: religioni della società preclassista e del periodo di transizione alla società di classi (culti tribali); religioni delle società classiste (Stati nazionali); religioni delle società classiste (religioni universali).

Nel capitolo dedicato alla religione romana[25] lo studioso nota l’enorme interesse che rappresenta lo studio della religione romana, sia per il suo carattere estremamente originale, sia per l’importanza che ebbe lo Stato romano e la sua cultura nella storia dell’umanità. La religione romana, nonostante una serie di tratti comuni con quella greca (dovuti in parte alle condizioni storiche affini, in parte all’influenza diretta), si distinse però da un aspetto del tutto peculiare. Lo sviluppo storico della religione romana si presta meglio ad un esame rispetto a quello della religione greca: la sua trasformazione, nel corso della crescita dello Stato romano da una piccola comunità urbana ad un enorme Impero, è ben visibile; in essa persistono fino alla fine numerosi tratti profondamente arcaici, che l’autore cerca di cogliere ed evidenziare.

Nella sua esposizione l’autore cita gli autori antichi (Catone, Cicerone, Agostino), utilizza le opere di Th. Mommsen, G. Boissier, H. Usener, G. Wissowa, E. M. Štaerman. Essa comincia con la descrizione del culto della familia e della gens. La persistenza di questo antichissimo strato delle credenze e dei riti romani si spiega, secondo S. A. Tokarev, con la vitalità dei residui dell’organizzazione gentilizia, soprattutto nelle familiae dei patrizi. Con la fusione dell’antica organizzazione gentilizia in quella statale si verificava la trasmissione delle forme gentilizie del culto a quelle più estese; alcune divinità delle gentes si trasformano in oggetti del culto di tutto lo Stato.

La venerazione del fuoco in veste della divinità femminile dal punto di vista dello studioso può essere considerata una sopravvivenza dell’età di matriarcato.

L’autore sostiene che nella religione romana le tracce di totemismo siano meno presenti rispetto ad altri popoli; i culti e le leggende di questo tipo sono per la maggior parte assimilati dai romani agli italici e agli etruschi.

Lo studioso presta una grande attenzione all’esame dei culti agrari, i quali secondo lui appartengono agli strati più antichi della religione romana, e furono prevalentemente diffusi in campagna e fra plebei (a differenza delle forme gentilizie del culto). Molte divinità del panteon romano, in origine legate all’agricoltura o pastorizia, ebbero in seguito le funzioni più svariate. Con i riti degli agricoltori e pastori era legata per la sua origine la maggior parte delle festività[26].

La complessa composizione del panteon romano, come ritiene S. A. Tokarev, era generata maggiormente dalla varietà e complessità di origini della comunità romana stessa. A parte la questione tuttora discussa sul contributo etrusco nel panteon romano, la maggior parte delle divinità romane sarebbe di origine italica; esse venivano incluse nel panteon romano a mano che cresceva la comunità romana, inglobando nuove tribù e nuovi territori.

L’autore nota che i numerosi di minores invece hanno un carattere completamente diverso, essendo la personificazione dell’attività umana il cui nome derivava dalla funzione da loro svolta; nuove divinità venivano introdotte con l’introduzione dei nuovi mestieri e acquisizioni culturali.

Per la questione degli spiriti protettori degli uomini (geni) e donne (giunoni) lo studioso aderisce alla tesi di E.M. Štaerman che tali idee si erano sviluppate in seguito alla disgregazione dei legami arcaici gentilizi e comunitari; in origine i geni sarebbero stati dei capistirpe e dei protettori della gens[27].

Le grandi divinità erano in parte protettori delle singole comunità e tribù, ma la maggior parte aveva dei nomi che erano delle designazioni astratte riguardanti la vita sociale e statale. L’autore nota che la fantasia mitologica dei romani era estremamente scarsa e l’antropomorfizzazione delle divinità era debole.

Con la crescita dello Stato romano il culto delle singole divinità assume la forma tipica delle società antiche: quella di venerazione delle divinità protettrici della polis[28].

Lo studioso afferma che nel rigore formale dei riti, combinato con l’arte di trarre in inganno le divinità con finzioni di sacrifici si manifesta il carattere nazionale del popolo romano, pratico, avveduto, non incline né agli eccessi né al volo della fantasia poetica.

Viene rilevato nel libro il grande ruolo nella religione e nella vita politica e sociale romana del sistema delle divinazioni, anch’esso segnato da un estremo formalismo; la magia invece non ebbe vasto uso, almeno nel culto ufficiale di Stato.

L’originaria mancanza delle immagini delle divinità rivela di nuovo, secondo l’autore, il carattere della religione romana: puramente razionale, privo di elementi emozionali e poetici. Simboli materiali di alcune divinità erano degli oggetti che un tempo erano stati essi stessi dei feticci. L’autore fa risalire agli etruschi l’usanza romana di eseguire le immagini dei morti.

S. A. Tokarev vede la riflessione del carattere ufficiale della religione romana nel fatto che i suoi sacerdoti erano dei funzionari dello Stato romano, senza però costituire un ceto sociale a sé stante. Lo studioso rivela le sopravvivenze profondamente arcaiche negli istituti del sacerdozio romano: i residui dei sacrifici umani legati al culto agrario della fertilità nell’usanza di uccidere il sacerdote che custodiva il santuario di Diana al lago di Nemi, rex nemorensis, servita da spunto per l’opera monumentale di J. G. Frazer[29]; i residui degli atti sciamanici nelle danze dei salii; le tracce dell’antico culto agrario orgiastico nei riti dei luperci; i numerosi tabù imposti al flamen Dialis[30].

Secondo l’autore, analogamente a tutte le religioni dei popoli antichi, la religione dei romani esprimeva la contrapposizione della comunità romana a tutto l’universo intorno ad essa, tale contrapposizione fu in seguito riversata all’interno della comunità (inizialmente nella discriminazione politica dei plebei dovuta ai motivi religiosi; in seguito l’esclusione degli schiavi, stranieri di origine, dal culto celebrato dai loro padroni, ad eccezione delle feste di Saturnali, nei cui riti l’autore intravede il ritorno ai costumi preistorici).

Nel libro vengono descritte le tappe dello sviluppo storico della religione romana, consistenti, secondo l’autore, prevalentemente nel fatto che, a mano che cresceva lo Stato, includendo nuovi territori, anche il panteon romano veniva completato di nuove divinità. Il graduale ravvicinamento dei romani alla progredita cultura greca ha fatto sì che le divinità romane erano associate e identificate con quelle greche; nel panteon sincretico greco-romano così formato i credenti stessi non distinguevano più l’origine nazionale delle divinità. I culti orientali, invece, visti con sospetto dal ceto patrizio che aveva forti tradizioni locali, venivano accolti e celebrati volentieri dalle masse popolari.

Il culto degli imperatori rappresenta, secondo S. A. Tokarev, un’altra linea della trasformazione della religione romana, dovuta alla necessità politica di rendere il carattere sacro alla nuova forma di governo.

Se nelle masse popolari la venerazione delle antiche divinità tradizionali veniva gradualmente soppiantata da culti orientali, nei ceti colti invece la diminuzione della sua influenza era dovuta alla crescita della libertà del pensiero. L’autore annovera tra scrittori e pensatori antichi quelli che esprimevano un certo scetticismo nelle questioni religiose: Quinto Ennio, Plauto, Cicerone, Lucrezio, Plinio il Vecchio.

 

 

5. – Studi sulla “cultura di Roma antica” negli anni 60-80 del Novecento

 

Alla metà degli anni 50 si verifica una rinascita della scienza russa sull’antichità, dovuta alle trasformazioni generali nella vita sociopolitica e culturale sovietica. Si delinea la svolta da uno schematismo sociologico alla percezione viva dell’antichità classica.

La nuova generazione degli studiosi dell’antichità percepisce la necessità di una conoscenza concreta della storia antica, attraverso le fonti, tramite gli studi della letteratura greca e latina e dei monumenti di cultura materiale. Gradualmente, in quasi vent’anni, verso l’inizio degli anni 70 nelle Università di Mosca e Leningrado fu ripristinata la preparazione normale multidisciplinare degli storici dell’antichità, che includeva studi di filologia classica, archeologia, storia dell’arte. Sul piano scientifico viene ripreso uno studio approfondito della tradizione scritta e materiale antica, prima di tutto dei testi letterari, dei materiali epigrafici e papirologici; raggiunge una grande intensità lo studio dei monumenti archeologici ed artistici, soprattutto alla base degli scavi svolti nell’area settentrionale del Mar Nero.

Negli anni 60-80 appaiono le pubblicazioni che riflettono una svolta avvenuta negli studi su Roma antica: oltre ai tradizionali argomenti sociopolitici e socioeconomici, grazie al ripristino della preparazione classica universitaria multidisciplinare che rende possibili le ricerche basate sull’analisi diretta delle fonti, lo spettro dei temi studiati diventa più vasto e torna a includere anche i vari aspetti culturali, di cui la religione e il diritto sono considerati parte.

L’opera che riunisce i risultati delle ricerche nel campo della cultura svolte negli anni 60-80 è il libro in due volumi con il titolo significativo Kultura Drevnego Rima (Cultura di Roma antica), pubblicato a Mosca nel 1985 a cura di Elena S. Golubzova. Lo scopo della pubblicazione, impostato nella Premessa, è di fornire una riflessione sul nuovo materiale di fonti (archeologico, papirologico, epigrafico ecc.), basata sulla dottrina marxista-leninista; vedere nella nuova luce una serie dei concetti tradizionali della cultura romana; elaborare i problemi più importanti dal punto di vista teorico, tra cui: l’influenza della base socioeconomica sulla formazione dell’ideologia, della psicologia sociale, del sistema di valori della società romana; l’influenza reciproca della sovrastruttura ideologica (in particolare, della tradizione) sulla base socioeconomica; la genesi, lo sviluppo e la decadenza della cultura in relazione alle condizioni dell’esistenza della società; il problema del carattere «aperto» o «chiuso» di una cultura, cioè delle condizioni, delle cause e dei limiti dell’assimilazione degli elementi materiali e spirituali delle altre culture, della loro interazione con la data cultura e della sintesi che ne sorge.

In tale chiave viene esaminata sia l’influenza di Roma sulle province (romanizzazione), sia l’influenza delle province su Roma, nell’interazione dei diversi sistemi e regimi socioeconomici.

Il primo volume dell’opera collettiva è dedicato al «centro del mondo romano». Gli autori studiano il sistema di valori[31], dimostrano l’importanza della religione nei vari periodi della storia romana[32], analizzano i caratteri principali del diritto romano[33], definiscono il posto della scienza nel sistema della mentalità, il ruolo della poesia e dell’arte nella cultura romana.

Nel secondo volume viene esaminata l’evoluzione delle idee patriarcali e il loro ruolo nella coscienza sociale dei romani[34], la riflessione della psicologia sociale nella letteratura dell’età imperiale, viene definito il significato dei concetti di spazio e tempo nella cultura romana[35]. La maggior parte del volume è dedicata alle province romane che avevano subito la romanizzazione, l’ellenizzazione e la barbarizzazione. Sull’esempio delle province del Danubio[36] e della Gallia romana[37] sono analizzati i problemi della cultura e dell’ideologia della città provinciale d’occidente, sull’esempio dell’Asia Minore viene caratterizzata la mentalità dei cittadini e dei contadini delle province romane orientali[38].

 

 

6. – Gli studi sull’ideologia e la cultura della “prima Roma” di Aleksandr I. Nemirovskij

 

Al problema poco studiato dell’ideologia religiosa e di alcuni aspetti della vita culturale di prima Roma è dedicato il saggio[39] dello specialista di storia del Lazio e dell’Italia arcaica, noto etruscologo Aleksandr I. Nemirovskij. Esso rappresenta la seconda parte della ricerca iniziata nell’opera dedicata agli aspetti economico-sociali della prima Roma e dell’Italia arcaica[40] e tratta prevalentemente le questioni religiose. Lo studioso si pone lo scopo di rilevare, attraverso lo studio della religione, le tracce dell’organizzazione sociale romana arcaica e della sua successiva evoluzione, alla base della teoria marxista-leninista dell’apparizione della società di classi e del legame esistente tra l’evoluzione della religione e i processi dello sviluppo socioeconomico. L’autore presenta una rassegna strutturata dei diversi tipi delle fonti da adoperare nella ricostruzione degli aspetti religiosi ed ideologici del periodo arcaico, nonché un’esposizione critica delle più importanti opere degli studiosi moderni in proposito. Nel libro sono esaminati i seguenti problemi: l’aspetto sociale delle idee religiose arcaiche dei romani; le divinità-madri e le leggende matriarcali dell’antica Italia; il culto di Giove, Marte e Quirino e la democrazia militare romana; i cambiamenti nella vita socioeconomica e l’evoluzione dei concetti delle divinità; l’apparizione dell’organizzazione sacerdotale; l’ideologia e la morale della società romana arcaica; le origini della letteratura e dell’arte teatrale. All’opera principale è allegato il saggio di L. A. El’nickij sugli elementi della religione e della cultura spirituale degli etruschi[41].

Nel libro di questo studioso dedicato agli etruschi vi è un capitolo sulla mitologia e religione di questo popolo[42]. L’autore esamina le fonti sulla religione etrusca in relazione al problema della loro affidabilità; si cerca di ricostruire le idee etrusche riguardanti la ripartizione sacrale dello spazio e del tempo e la cosmogonia (templum, limitatio, il concetto dei tre mondi, il fegato di Piacenza), il loro panteon delle divinità e gli eroi della mitologia, i templi e gli altari, il culto dei morti e i ludi funebri, la divinazione degli aruspici; il tutto in una stretta correlazione con la realtà romana che ne aveva fatto un ampio e svariato imprestito nei numerosi campi del culto e del rito.

 

 

7. – Diritto e religione negli studi di Elena M. Štaerman

 

Un particolare interesse presentano le ricerche dell’allieva del prof. Maškin, Elena M. Štaerman, la quale è stata autrice dell’unico saggio sistematico del periodo sovietico dedicato al diritto romano, collocato nell’opera collettiva sulla cultura di Roma antica[43].

Anche nel campo dello studio della religione romana, così come in quello del diritto, il ruolo da protagonista spetta a E. M. Štaerman, la quale da uno studio approfondito della schiavitù[44], attraverso l’esame dell’ideologia delle classi oppresse[45] volge il suo interesse alla problematica giuridico-religiosa. Infatti, è autrice dei numerosi articoli dedicati alla mitologia romana nell’enciclopedia in due volumi sui miti dei popoli del mondo[46], del capitolo sulla religione nel primo volume della già menzionata opera collettiva Kul'tura Drevnego Rima (Cultura di Roma antica)[47], come anche dell’unico saggio pubblicato in epoca sovietica, interamente dedicato allo studio della religione romana[48] (dal punto di vista dei suoi fondamenti sociali). Come nota uno studioso contemporaneo russo della storia romana arcaica[49], solo nelle ricerche di Štaerman è posto nella maniera netta il problema dello studio della religione romana arcaica nel contesto della formazione di civitas, e non solo dell’evoluzione politica.

Già il saggio del 1961, dedicato alla morale e alla religione delle classi oppresse dell’Impero romano, presenta un capitolo sulle idee religiose degli schiavi e dei poveri liberi, basato prima di tutto sui dati epigrafici[50]. È importante citare l’osservazione generale di E. M. Štaerman che «a differenza dei periodi precedenti della storia antica, quando alla base dell’etica non stava tanto la religione, quanto il dovere dell’uomo nei confronti del collettivo cui apparteneva, - gens, familia, comunità civile, - nel periodo dell’Impero le ricerche nel campo della religione e della morale risultano sempre più interconnesse»[51]. Così la morale e la religione diventano elementi fondamentali dell’ideologia non solo dei ceti fedeli al regime esistente, ma anche di quelli che vi stavano in opposizione[52].

La studiosa rileva due tipi di ideologia delle classi sfruttate, di cui il primo è proprio di quelli che sono legati nella maniera più immediata al modo di produzione schiavistico (schiavi e poveri, composti da liberti e nati liberi), mentre il secondo è legato al ceto contadino provinciale. Mentre per i contadini è tipico il culto della comunità dei consanguinei o territoriale che si conservava insieme alla conservazione della comunità stessa e corrispondeva al collettivismo del modo di vivere e di produrre dei contadini, l’ideologia legata ai culti orientali, adottata dal secondo gruppo, rispondeva alle tendenze individualistiche, ai bisogni di alcuni ceti nella mistica che dava la speranza di una liberazione spirituale e salvezza individuale, il che spiega una loro maggiore influenza sulla vita religiosa di tutto l’Impero[53].

Dalla fine del II secolo, i nuovi proprietari privilegiati del ceto militare ed agricolo trapiantano nelle province la venerazione di Giove romano, della triade capitolina e di quelle divinità orientali il cui culto era particolarmente adatto per loro; nella stessa direzione vengono trasformati i vecchi culti della loro patria. Così si diffondono i culti degli Dei-cavalieri, dei re e sovrani celesti, dei vincitori delle forze della terra. Al contempo gli ideologi dell’aristocrazia imperiale si pronunciano contro i culti ctonici, familiari al popolo, siccome la terra viene identificata con la materia proclamata il fondamento del male dalle correnti idealistiche militanti. E. M. Štaerman ritiene poco probabile che sia stata casuale la coincidenza di tale trasformazione dell’atteggiamento nei confronti della terra, un tempo una delle divinità più venerate, e delle altre divinità ctoniche, con la diffusione del culto degli Dei-vincitori delle forze della terra. Evidentemente nelle nuove condizioni rinasce l’antagonismo tra i culti celesti aristocratici e i culti ctonici, risalente all’ultimo periodo della decomposizione della società primitiva; ora però come simbolo delle contraddizioni tra contadini e proprietari terrieri[54].

La studiosa nota un apparente contrasto tra la condizione di alcune classi e gruppi sociali nell’Impero e la loro ideologia. L’ideologia degli schiavi e dei poveri liberi di città aveva le stesse caratteristiche che erano proprie del cristianesimo diventato una visione del mondo ufficiale della nuova formazione feudale. Ma al contempo il ruolo di questi strati nella lotta di classi che aveva posto fine all’esistenza del modo schiavistico di produzione non era determinante; al contrario vi era protagonista il ceto contadino la cui ideologia rifletteva i principi comunitari che sembrano alieni a quei tratti del cristianesimo che ne avevano fatto una religione universale. Ma tale contrasto, secondo la ricercatrice sovietica, non è che illusorio. Il cristianesimo adottato dai contadini era in genere più affine ai culti comunitari che a tutte le varietà del cristianesimo ortodosso, fin dall’inizio sua apparizione. I martiri, i santi e la vergine Maria avevano sostituito le divinità pagane non solo nelle loro funzioni di datori di fecondità della terra e del bestiame, di pioggia e luce del sole, di guaritori, di patroni dei singoli mestieri, ma anche nelle funzioni di protettori delle singole comunità, siccome ogni villaggio aveva il proprio santo prediletto e spesso una propria vergine Maria. Inoltre, le vecchie divinità popolari persistevano come fate, gnomi, sirene, geni della casa, del bosco, nelle forme quasi inalterate. Così il cristianesimo ha dimostrato di essere più flessibile dei filosofi degli ultimi secoli dell’Impero, nell’aver di fatto assimilato gli «dei della terra»[55].

Nella monografia di E. M. Štaerman del 1987, dedicata ai fondamenti sociali della religione romana, è riflessa la sua storia dalle sue origini alla crisi del III secolo. L’evoluzione della religione romana e la sua peculiarità sono caratterizzate in uno stretto legame con la peculiarità del percorso storico di Roma. L’autrice evidenzia il posto della religione nel sistema dei valori di Roma, il suo ruolo nell’ideologia, l’influenza che esercitarono su di essa i contatti con gli altri popoli. Un’attenzione particolare è prestata all’apparizione del culto imperiale. La religione è presentata nella monografia come un fenomeno sociale che esercitò una notevole influenza su tutti i lati della vita di Roma antica. L’autrice adopera una gran varietà di fonti, letterarie ed epigrafiche, fa riferimenti alle scoperte archeologiche e dimostra una profonda conoscenza della dottrina occidentale contemporanea dell’argomento studiato. Per la ricostruzione dello stato arcaico della religione romana vengono tracciati dei paralleli tra i culti arcaici romani e i culti dei popoli «primitivi» dei tempi moderni, seguendo la visione evoluzionistica marxista della storia delle religioni per cui i popoli con un livello socioeconomico di sviluppo analogo («base») avrebbero analoghe anche le «sovrastrutture», in questo caso le credenze religiose.

Nell’Introduzione si fa una rassegna critica della storiografia occidentale degli studi della religione romana, a cominciare da G. Wissowa, il quale, secondo l’autrice, aveva rilevato il ruolo decisivo dello Stato in tutte le fasi dello sviluppo della religione romana; K. Latte al pari di Wissowa rifiuta di adoperare il materiale comparativo e comincia la storia della religione romana dalla religione del «podere contadino», ignorando l’organizzazione gentilizia e i culti ad essa propri, in particolare il culto degli antenati, come in generale tiene poco conto dell’evoluzione sociale e dell’influenza dei fattori sociali. La studiosa approva la critica convincente della teoria di numina, fatta da G. Boyancé, così come della teoria dell’origine greca della religione romana e della maggior parte delle divinità (F. Altheim). La storia della religione romana di J. Bayet presenta, secondo E. M. Štaerman, un’ulteriore tappa nello studio dell’argomento, in cui lo studioso francese tenta di ricollegare le trasformazioni nella religione con le modifiche generali nella mentalità prima dei romani, e poi di tutta la popolazione dell’Impero e quindi con l’evoluzione dell’ordinamento politico, con la politica del governo. J. Bayet adopera anche il materiale comparativo, la cui importanza per lo studio delle prime fasi della religione romana è stata dimostrata nelle ricerche di J. G. Frazer e G. Dumézil[56].

La studiosa nota un’enorme influenza esercitata dalle opere e dai concetti di G. Dumézil sugli storici della religione in generale, e in particolare – della religione romana e spiega questo fatto anche con la tendenza, sempre più evidente, degli studiosi occidentali alle generalizzazioni basate sulla considerazione dei fattori sociali nel loro legame con i fenomeni ideologici, su una protesta più o meno fondata contro il metodo descrittivo e sulla negazione della possibilità di rilevare certe leggi comuni nella storia.

L’autrice nota l’enorme materiale raccolto ed elaborato nelle opere menzionate nonché le preziose osservazioni fatte in proposito; ne rileva però anche alcuni difetti: il rifiuto di usare il materiale comparativo (eccetto le opere di G. Dumézil, il quale adopera dei paralleli solo con divinità e miti dei popoli indoeuropei e dal punto di vista del suo concetto delle tre funzioni), mentre invece, secondo la studiosa, il materiale comparato storico ed etnografico conferma l’affinità delle idee religiose delle più svariate tribù e popolazioni che si trovano nella fase sociale preclassista e in quella della transizione alla società di classi. Soltanto nel corso dello sviluppo successivo le religioni acquistano la loro specificità, anche se pure allora vi si conserva qualcosa della base iniziale. Senza prendere in esame le forme delle religioni delle società stadialmente affini a Roma arcaica, difficilmente si può giudicare delle origini della sua religione. Lo splendore di Roma nei secoli successivi non deve adombrare il fatto che all’inizio della loro esistenza i romani vivevano nello stesso ordinamento degli altri popoli primitivi, e tale ordinamento aveva condizionato anche l’affinità delle credenze.

La seconda obiezione della studiosa consiste nel fatto che gli studiosi della religione romana non prestano un’attenzione sufficiente al rapporto della sua storia con la storia sociale, con le trasformazioni nella struttura della società prima romano-italica, e poi provinciale, con la lotta dei ceti e delle classi, degli strati sociali con la loro ideologia specifica (eccezione: C. Gallini; M. Clavel-Lévêque). Negli studi di F. Bömer sulla religione degli schiavi, volti, secondo E. M. Štaerman, a dimostrare la mancanza di una ideologia o religione particolare degli schiavi, l’autore non tiene conto del fatto che in ogni società classista le forme di sfruttamento ad essa proprie si ripercuotono sulla condizione non solo della principale classe sfruttata, ma anche degli altri strati della società, nella cui ideologia si riflette pure la protesta contro l’ordinamento e la morale della data società. La studiosa sovietica ritiene che non è legittimo giudicare dell’ideologia di qualsiasi classe in una qualsiasi società solo sulla base della condizione sociale di quelli che condividono tale ideologia. Il compito principale è di chiarire che cosa consacra e afferma tale ideologia o contro che cosa protesta, agli interessi di quale classe essa risponde maggiormente. La conclusione di Bömer della contrapposizione sociale non tra schiavi e liberi, ma tra poveri e ricchi, tipica delle obiezioni degli studiosi occidentali contro la percezione da parte degli storici marxisti della struttura sociale di Roma antica, è valutata da E. M. Štaerman come errata: gli storici marxisti parlano della contraddizione tra schiavi e i loro proprietari, e non di quella tra schiavi e liberi, tra cui molti erano per la loro condizione più vicini agli schiavi che ai padroni[57].

L’autrice rileva una grande importanza, per uno studio oggettivo dell’atteggiamento nei confronti della religione delle varie classi e strati sociali della società romana nelle varie fasi della sua storia, dei progressi nel campo della linguistica ed archeologia, che hanno portato alla revisione dell’ipercriticismo riguardante la tradizione romana. La studiosa menziona come significativo in questo senso il libro di E. Peruzzi «Aspetti culturali del Lazio primitivo»[58], soprattutto nel confermare l’autenticità della tradizione sull’influenza della Grecia achea su alcuni istituti religiosi di Roma arcaica, sull’appartenenza etnica delle tribù che popolavano l’Italia, in particolare, dei troiani, sulle antiche curie, sulle leggi dei re romani, sul ruolo della religione nella lotta tra patrizi e plebei. La studiosa ritiene che il superamento dell’ipercriticismo influisce anche sullo studio della religione romana, soprattutto quella arcaica, e dei suoi rapporti con gli istituti sociali di allora[59].

E. M. Štaerman si pone la questione se la religione romana arcaica era tanto peculiare come lo si ritiene spesso, o era in generale simile alle religioni delle altre società stadialmente affini? E se vi si risponde in positivo, ne sorge tutta una serie di questioni derivate: come avvenne la sua evoluzione nella direzione di una peculiarità davvero significativa, sotto l’influenza dell’indubbia peculiarità del percorso storico di Roma in cui si era costituita, in seguito alle vittorie della plebe, una comunità civile antica? Quale posto occupava la religione nel sistema dei valori, nell’ideologia della comunità civile, che cos’era per il collettivo civile in totale, per i suoi singoli strati, per il singolo cittadino? Quali influenze sui concetti religiosi esercitavano i contatti pacifici e militari con gli altri popoli? Che cosa, come e in quale misura era assimilato e che cosa era respinto come non corrispondente al sistema di valori tradizionale? Come la differenziazione del collettivo civile e l’apparizione dei conflitti sociali si rifletterono sul sistema di valori in generale e sulla religione in particolare? Quale ruolo svolse l’apparizione dell’Impero, con la sua nuova base sociale e con la giustificazione religiosa del potere di Augusto e dei suoi successori, nella trasformazione dell’atteggiamento nei confronti della religione dei vari strati sociali? Quali furono le basi e i limiti della diffusione della religione romana nelle province e, dall’altro lato, dell’influenza delle province su Roma? E, infine, come l’evoluzione della religione romana e il suo posto nella vita ideologica dell’Impero prepararono la diffusione del cristianesimo e il suo trionfo definitivo? Tali sono pressappoco le questioni che stanno, secondo E. M. Štaerman, davanti agli studiosi della religione romana e del suo posto nel sistema dell’ideologia e cultura, delle trasformazioni che vi avevano luogo sotto l’influenza dei vari processi sociali, questioni, a cui lei nel suo libro cerca di dar risposta, o almeno di avanzare delle ipotesi, con l’aiuto delle varie fonti – letterarie, epigrafiche, numismatiche, opere d’arte – prese nel loro complesso[60].

Nel primo capitolo dedicato alle radici della religione romana l’autrice prende in esame le scarse notizie sulle credenze più arcaiche delle tribù italiche. Le scoperte archeologiche risalenti al periodo arcaico in Italia attestano l’esistenza del culto delle divinità-madri, del sole, di una divinità celeste, solare e al tempo stesso militare, degli animali, fra cui l’ultimo trova la sua riflessione anche nei nomi di alcune tribù. La studiosa aderisce alle conclusioni di C. Koch[61] che gli epiteti indigetes attribuiti al Sole e a Giove rivelano la loro appartenenza allo strato antichissimo della religione romana, insieme a Vesta, i penati, Fauno, Enea, Romolo, in quanto divinità più venerate. Il termine stesso «indigetamenta», «indigetare» inizialmente stava a significare l’invocazione degli antenati, e in seguito l’ordine dell’invocazione delle divinità in generale, trascritto nei libri pontificali[62].

È discutibile anche la questione dell’antichità del culto della Luna. La tradizione attribuiva la fondazione del suo tempio sull’Aventino a Servio Tullio che aveva fondato anche il tempio di Diana. Siccome Diana in seguito veniva identificata con la Luna, entrambi i templi potevano essere anch’essi identificati. L’usanza stessa di compiere sacrifici pubblici e privati nelle calende, idi e none che coincidevano con le fasi della luna forse attesta il carattere remoto del suo culto che in seguito aveva perso la sua importanza fino ad una ripresa sotto l’Impero. Alcuni fatti permettono di supporre un’esistenza nel periodo remoto del culto delle stelle, riflesso nei riti svolti dagli auguri (p. es. augurium canarium) i quali probabilmente effettuavano anche delle osservazioni degli astri celesti. E. M. Štaerman aderisce alle tesi di G. Gundel che le stelle e le costellazioni che avevano i nomi latini erano noti ai romani sin dai tempi antichissimi, perché importanti allo scopo di definire i tempi dei lavori agricoli.

Tutti i dati citati permettono alla studiosa di avanzare l’ipotesi sull’esistenza in Italia e a Roma nei tempi remoti del culto degli astri proprio di molti altri popoli primitivi[63].

La polietnicità della popolazione dell’Italia arcaica poté ripercuotersi anche in alcuni miti. Sotto l’influenza dei processi etnogenetici andava modificandosi l’essenza delle divinità antiche, il cui culto veniva mantenuto ma il loro carattere e il significato originario si andavano perdendo. Anche il fatto che la stessa divinità poteva essere di uno od altro sesso si spiega piuttosto come il risultato dell’unificazione dei vari componenti etnici e comunità entrate a far parte di Roma che con il carattere vago dei concetti dei romani riguardanti i loro numina impersonali.

Il rito dei Lupercali, i sacrifici delle bambole alla dea Mania vengono interpretati da molti studiosi come un residuo dei riti iniziatici che hanno analogie con riti analoghi delle altre tribù primitive, praticati allo scopo di lustrazione e fertilità, nonché per difendere le greggi dai lupi.

La similitudine tra la religione romana arcaica e le altre religioni stadialmente affini si rivelò anche nell’esistenza dei culti sia esclusivamente femminili (Bona Dea nota anche come Mater Matuta), sia esclusivamente maschili (Ercole e Silvano).

Come gli altri popoli primitivi, i romani davano un’importanza decisiva al nome, perciò occultavano il nome della divinità che difendeva Roma; nell’antichità remota agli schiavi era vietato di rivelare il nome del padrone ad un estraneo.

Così l’autrice crede possibile sostenere che alle sue origini la religione romana, come le credenze affini delle altre tribù italiche, aveva molte caratteristiche comuni con le altre religioni primitive (oltre ai fatti già citati, si può menzionare la venerazione delle sommità e delle pietre, degli alberi)[64].

Nella religione romana, come nelle altre religioni primitive, si dava una grande importanza ai riti di purificazione, che venivano effettuati per motivi più svariati (morte nella familia, purificazione del territorio della città durante la cerimonia degli Ambarvalia, purificazione delle comunità rurali, dei paghi, delle singole proprietà terriere, i ludi, purificazione del gregge e dei pastori ai Palilia). Dopo il ritorno dell’esercito dalla campagna militare venivano purificate le armi e gli strumenti musicali (armilustrium e tubilustrium). Si credeva che la purificazione si potesse effettuare con il fuoco, con l’acqua e con l’aria[65].

E. M. Štaerman ritiene che il culto degli antenati a Roma in quanto culto gentilizio svolse il ruolo non meno importante che presso altri popoli stadialmente affini; prova di ciò sono le maschere degli antenati conservate nelle case, santuari e luoghi di sepoltura, i riti particolari di alcune gentes e familiae le quali ereditarono i culti gentilizi.

La studiosa, adducendo numerose prove, insiste sull’esistenza del culto dei fondatori delle città e capistirpe simile a quello degli eroi greci, dei re e capitribù deificati presso molti altri popoli. Il culto di Romolo, secondo l’autrice, contrariamente a quanto si afferma a volte, è molto risalente. E. M. Štaerman ritiene possibile supporre che un tempo a Roma e in Italia avesse luogo il culto dei re e capitribù deificati e che in questo senso la religione romana nelle sue origini non si distingueva dalle altre religioni delle tribù stadialmente affini.

Sono noti presso i romani anche i cosiddetti «eroi culturali» nelle cui figure si mescolano i tratti degli antichi re e divinità, il che, del resto, è proprio degli «eroi culturali» degli altri popoli. Il fatto che dal culto degli eroi sono rimaste solo delle reminescenze insignificative si può spiegare con la sostituzione di questo culto con l’analogo culto dei lari. Probabilmente Termine, divinità dei confini, era stato un tempo l’«eroe culturale» che aveva introdotto la delimitazione dei campi. Il fatto stesso di celebrare il culto dei lari ai crocicchi, il luogo ritenuto anche presso gli altri popoli particolarmente adatto per la magia, ove apparivano le fate, le «dame bianche» ed altri spettri, attesta la loro essenza ctonica, affine a quella degli eroi. Anche i sacrifici umani un tempo esistenti, sostituiti con l’usanza di appendere le bambole e le palle di lana ai crocicchi allo scopo protettivo, ravvicinano il culto dei lari a quello ctonico degli eroi. I commentatori antichi facevano derivare il culto dei lari dal culto degli antenati che un tempo venivano sepolti dentro le case; i lari si sarebbero trasformati in divinità dalle anime umane. La ricercatrice si oppone alla negazione, espressa da alcuni studiosi contemporanei, del legame dei lari con gli antenati, e alla loro limitazione solo alle divinità del podere o di ogni territorio abitato. E. M. Štaerman non vede la differenza tra gli spiriti di un gruppo determinato e quelli che custodivano il territorio legato indissolubilmente a questo gruppo; così i lari erano strettamente legati sia alla familia e al suo focolare, sia agli alberi e ai boschi sacri a loro, nonché alle strade che dividevano i poderi vicini. Il focolare a sua volta era legato da un lato al culto del fuoco, dall’altro ai morti, la cui venerazione a Roma era assai nota (le feste delle divinità-antenati, manes, Parentalia; quelle delle ombre dei defunti, Lemuria; Caristia, quando si portavano offerte di cibo alle tombe dei parenti le cui ombre venivano a partecipare ai banchetti di famiglia). L’accesso al mondo dei defunti (mundus) stava nel luogo dei comizi ed era coperto con una pietra (lapis manalis); esso si apriva tre volte all’anno, in quei giorni non si poteva intraprendere nulla di ciò che non fosse dovuto ad un’estrema necessità. I lari e i mani in seguito venivano spesso identificati, il che si può vedere nella pratica diffusa sotto l’Impero in Italia e nelle province di venerare le imagines e i lari imperiali. La credenza che tramite certi sacra le anime delle persone si trasformano nelle divinità chiamate animales che sono i penati e i lares viales è, secondo l’autrice, dovuta all’influenza della tarda credenza nell’immortalità dell’anima[66].

Per quanto riguarda quello che spesso viene notato come un tratto specifico della religione di Roma arcaica, e precisamente la mancanza in essa della mitologia, la studiosa ritiene possibile, alla luce dell’avvenuto cambiamento dell’atteggiamento nei confronti della tradizione romana, di prestare una maggiore fiducia alle tracce di mitologia originaria in essa presenti, anche se trasformate ed alterate dalle sovrapposizioni successive. La studiosa cerca di cogliere ed esaminare i residui dei miti degli animali, dei matrimoni sacri tra divinità e uomini, dell’origine degli uomini da alberi, di una delle divinità più antiche di Roma, Giano, il quale, inizialmente considerato il creatore dell’universo, in seguito divenne il primo re degli antenati dei latini, vissuto sul Gianicolo, venerato come dio degli inizi di tutto. La posizione primeggiante originaria di Giano trova la sua conferma nel fatto che il suo sacerdote era il rex sacrorum che aveva sostituito il re che presiedeva al culto. La studiosa prende in esame gli epiteti di Giano e i riti a lui consacrati per rintracciare le funzioni a lui attribuite inizialmente e quelle aggiunte in seguito e avanza l’ipotesi dell’esistenza di un mito cosmogonico, al cui centro stava Giano, dio o re della stirpe antichissima degli uomini[67].

E. M. Štaerman ritiene difficile accettare la supposizione di K. Latte che la religione romana fosse nata dalla religione del «podere contadino», soprattutto tenendo conto del fatto che Roma nacque non dall’unificazione dei singoli oikoi, ma da quella delle comunità basate sui legami di parentela di sangue e del vicinato. Ognuna di queste comunità, così come ogni gens, possedeva i propri culti che combinavano elementi gentilizi e territoriali e gradualmente andavano fondendosi. L’unificazione delle tribù e degli insediamenti in una determinata fase dello sviluppo inizia di solito con la creazione delle unioni di culto (il culto di Iuppiter Latiaris sul monte Albano per i latini, il culto di Feronia per i latini e i sabini, la festa di Septimontium e il rito degli Argei per le comunità entrate a far parte del sinecismo romano). Il grande ruolo dell’acqua e del fuoco, simboli dell’unità della comunità, attesta per la studiosa la priorità dei culti comunitari rispetto ai culti domestici.

L’unificazione dei culti, così come quella delle comunità, era graduale; i culti delle comunità unite venivano dislocati secondo una certa gerarchia – dai culti della comunità romana in generale ai culti delle singole comunità. I culti gentilizi col tempo trasferivano le loro funzioni ai culti delle familiae, le quali, nonostante il potere assoluto del paterfamilias, erano comunità segnate da un legame indissolubile delle persone con la terra da loro lavorata. La funzione del paterfamilias in quanto sacerdote del culto della familia, in primo luogo quello dei lari, era legata ai suoi diritti di proprietà e alla capacità giuridica. L’appartenenza della persona alla familia con rispettivi diritti e doveri era condizionata dalla partecipazione nei suoi sacra. La persona che aveva ereditato o acquistato una familia, era tenuta a celebrare i suoi sacra, mentre i pontefici e i giuristi ritenevano che la familia non dovesse rimanere a lungo tempo senza un padrone, siccome era inammissibile una lunga interruzione nella celebrazione dei sacra. La studiosa ritiene che tale ruolo dei sacra delle familiae era dovuto al fatto che le comunità familiari li avevano ereditati dalle comunità gentilizie. I culti consolidavano le comunità, affermavano un legame indissolubile tra i loro membri, la comunità e la sua terra. Proprio i culti del populus, concetto sorto in una fase molto risalente della storia preurbana e urbana ed inteso come comunità dei cittadini di un territorio determinato, erano primordiali a Roma. La divisione dei sacra in publica, privata e popularia praticata da Festo, con il riferimento a Labeone per l’ultima categoria, considerata interamente da P. Catalano come una tarda introduzione di Labeone nella sua opera sul diritto pontificale, dalla studiosa sovietica viene invece fatta risalire, almeno nelle prime due categorie, per le quali Festo non fa riferimento a Labeone, ad una sistematica arcaica dei tipi di sacra, che rifletteva lo stato di cose effettivo dell’inizio del sinecismo romano, quando ogni comunità celebrava i propri sacra che venivano gradualmente unificati ed adottati dalla comunità-città in via di nascita[68].

Sempre nel periodo del sinecismo romano inizia una certa cristallizzazione dei culti e dei riti, attribuita dalla tradizione prima di tutto all’opera del re Numa. La studiosa ritiene difficile in questo caso confermare o smentire la tradizione, mentre in generale, a giudicare dalle analogie con altre comunità in una fase simile di sviluppo, era un fatto assai solito per la nobiltà gentilizia, i sacerdoti che la rappresentavano e i capitribù o i re, cercare di evidenziare le divinità supreme e di sistemare il culto, siccome loro volevano attribuire il carattere sacro alla loro posizione nella società e consolidare il popolo che aveva appena iniziato a unificarsi. Secondo E. M. Štaerman, possiamo soltanto avanzare delle supposizioni sul carattere delle divinità il cui culto fu stabilito da Numa: generalmente dovevano essere legate al cielo, al mondo dei morti, all’agricoltura, al fuoco, all’acqua. Le feste dedicate a loro erano celebrate sia da singole comunità sia da tutta la popolazione ed erano volte al suo consolidamento. La cristallizzazione del panteon ufficiale seguiva la linea della selezione delle divinità che potevano maggiormente contribuire al consolidamento dei romani; così era particolarmente importante a questo scopo il culto della triade Giove-Marte-Quirino, la cui interpretazione duméziliana dal punto di vista delle tre funzioni non sembra sempre convincente alla studiosa sovietica. Resta fuori dubbio per lei il fatto che Giove era l’antica divinità indoeuropea del cielo e dei suoi fenomeni e che il suo culto in Italia e a Roma era assai risalente, così come la sua polifunzionalità espressa nei numerosi epiteti che potevano riflettere anche una fusione dei vari culti di questa divinità nelle diverse comunità in cui era privilegiata una od altra visione del suo carattere. Esercitava una sua influenza anche la trasposizione delle funzioni delle singole divinità locali di carattere minore sul dio più venerato e popolare (attestata anche presso altri popoli). Nei confronti del culto arcaico di Marte E. M. Štaerman rileva il suo carattere più complesso rispetto alla sola funzione di divinità militare attribuitagli da Dumézil; sarebbe scorretto attribuire alla divinità arcaica di Marte una sola funzione determinata – sia essa agraria o militare, o, come ritengono alcuni, quella di difensore dai pericoli che minacciano la gente da fuori confine della città. Le divinità come Marte svolgevano una funzione protettiva (nei tempi di guerra e di pace) di tutta la comunità. Ne dà conferma anche l’identificazione con Marte delle numerose divinità protettrici delle comunità tribali o territoriali, effettuata nelle province occidentali per mezzo della «gente semplice» italica, soldati, liberti e coloni, i quali, con il loro conservatorismo delle credenze, avevano mantenuto il ricordo di Marte in quanto progenitore e patrono della comunità romana.

In quanto alla terza divinità, Quirino, E. M. Štaerman aderisce all’opinione dei ricercatori moderni che la considerano divinità dell’assemblea dei romani quiriti. Il commento dei romani di Quirino come «Marte pacifico» corrisponde al rapporto tra il collettivo dei cittadini riuniti in assemblea e cittadini raggruppati nell’esercito. L’identificazione del fondatore di Roma, la cui tomba era situata nel luogo dei comizi, con la divinità dell’assemblea popolare, si presenta alla studiosa come del tutto legittima, mentre l’unificazione di Quirino con Giano – Ianus Quirinus – poteva manifestare il legame del principio cosmico con gli istituti civili, oppure l’unità della guerra e della pace come principali stati del collettivo dei cittadini. Il culto di Marte, come quello di Quirino, conferma nel modo più chiaro il carattere comunitario della religione romana arcaica, la sua prevalenza rispetto alla «religione del podere contadino»; la loro promozione a culto principale avrebbe avuto come scopo il consolidamento della comunità romana in via di formazione, fosse stato per iniziativa del solo Numa o di più re[69].

Probabilmente, come presso le tribù stadialmente affini, il potere dei capitribù aveva anche a Roma il carattere sacro, ma con la trasformazione di Roma in città con a capo il re esso divenne più sistematico. Il re svolgeva le funzioni del sacerdote di Giano e di augure. La casa del re era al contempo un santuario in cui erano custodite le reliquie di Marte; accanto alla regia era collocato il tempio di Vesta, le cui sacerdotesse una volta all’anno visitavano il re con l’ammonimento: «Vigila, o re!» La studiosa confuta la posizione dei fautori dell’origine domestica della religione romana i quali facevano corrispondere il re al paterfamilias e le vestali alle figlie che custodivano il focolare della casa, perché non condivide la loro tesi di partenza; inoltre, accettando questa posizione bisogna supporre presso il re l’esistenza dei camilli che aiutavano il padre nel culto dei lari, i quali invece partecipavano al rito dei flamini, mentre non ve ne sono notizie nella descrizione dei riti svolti dal rex sacrorum il quale aveva sostituito il re sotto la Repubblica. Il legame del re con la Vesta risale piuttosto, secondo E. M. Štaerman, alle credenze indoeuropee comuni nella divinità del fuoco che investiva il re del suo potere, credenze che potevano affermarsi a Roma insieme all’accresciuta importanza del potere sacro del re[70].

Il mondo delle divinità, celesti, terrestri e sotterranee, era percepito come analogo alle comunità degli uomini. Le divinità più venerate erano nominate «padri» e «madri». Presso il re degli Dei, Giove, vi era il Consiglio degli Dei, simile al Senato – dii consentes. Gli dei possedevano un loro focolare e la loro Vesta deorum dearumque, i propri servi – famuli divi[71].

Le notizie del mondo dei morti e delle divinità sotterranee sono scarse e poco chiare. In un certo senso le divinità sotterranee svolgevano la funzione di garanti di diritto. La questione stessa sul rapporto nel periodo arcaico del diritto divino e di quello umano è, secondo la studiosa, assai poco chiara. L’autrice cita l’opinione di A. Guarino[72] che le norme di comportamento nella Roma arcaica erano definite dal concetto fatum che includeva tutto ciò che era fas, cioè non nefas e regolava i rapporti all’interno della gens e della familia; in seguito se ne separa lo ius che regola i rapporti tra le gentes e i capi delle familiae e si basa sui «costumi degli antenati» divinizzati. E. M. Štaerman nota che, se la divisione dello ius e del fas parla di una specie di divisione del mondo degli Dei e quello degli uomini, gli ultimi erano legati da una presenza costante dei primi, dall’idea sulla necessità di osservare la «pace con gli Dei» (pax deorum) per non provocare la loro ira con qualche svista o atto sacrilego. Ne consegue una costante aspirazione degli uomini ad indagare la volontà degli Dei, ad ottenere la loro sanzione per una azione, tramite una scienza complessa degli auguri esistente presso varie tribù italiche, o quella degli aruspici etruschi, o attraverso l’interpretazione degli eventuali indizi dati con il colpo di fulmine, fruscio delle foglie ecc. Indagare la volontà degli Dei tramite auspizi poteva sia il capo della familia, sia il re, sia gli auguri, sotto Numa costituiti in un collegio. E. M. Štaerman considera l’atto di creazione dei collegi sacerdotali con a capo il sacerdote-re, insieme alla creazione di un panteon, come volto a santificare il potere del re e a consolidare intorno a lui varie etnie entrate a far parte di Roma[73].

In seguito vengono trattati gli episodi della storia del periodo monarchico legati all’introduzione dei nuovi culti, riti e feste e alla lotta tra il re e i sacerdoti per l’influenza sul popolo. La ricercatrice traccia dei paralleli tra la politica culturale di Servio Tullio, Tarquinio il Superbo e dei Pisistratidi, volta ad affermare il proprio potere e prestigio e il prestigio rispettivamente di Atene e Roma. L’impresa più significativa di Tarquinio il Superbo fu il completamento della costruzione del tempio della triade Capitolina, che aveva definito nei secoli successivi lo sviluppo della religione romana con la sua centralizzazione intorno al culto di Iuppiter Optimus Maximus, garante della gloria e della potenza di Roma. La cacciata dal Campidoglio delle altre divinità di Tito Tazio attesta l’intenzione di Tarquinio di cristallizzare il panteon al massimo e di centralizzare il culto. A conferma di questa supposizione E. M. Štaerman riporta la notizia di Dionigi d’Alicarnasso sul divieto delle cerimonie religiose delle curie, dei villaggi e del vicinato sia in città che in campagna, imposto da questo re[74]. Probabilmente dal periodo del regno di Tarquinio il Superbo cresce il prestigio dei pontefici che costituivano una sorta di consiglio presso il sommo sacerdote – re – e partecipavano insieme a lui nell’elaborazione del diritto[75].

I capitoli successivi del libro sono dedicati ai primi secoli della repubblica; all’ellenizzazione della religione romana e alla crisi della repubblica; al principato di Augusto e all’apparizione del culto imperiale; alla religione dei primi due secoli dell’impero e, infine, alla crisi del terzo secolo.

In conclusione la studiosa constata che il lungo percorso dello sviluppo della religione romana è stato condizionato dall’evoluzione dell’ordinamento socioeconomico e politico della società romana. Sorta inizialmente come religione delle comunità di parenti consanguinei e delle comunità territoriali, dalla cui unificazione era nata Roma, essa era simile alle religioni delle altre tribù stadialmente affini, e il suo sviluppo seguiva la stessa direzione: l’apparizione delle unioni di culto delle tribù, la cristallizzazione del panteon e la complicazione dei riti a misura della separazione dell’aristocrazia e del sacerdozio, il consolidamento del popolo intorno ai santuari e ai culti delle divinità protettrici di Roma, a misura dell’affermarsi di Roma come città e del potere del re, con le sue funzioni sacrali.

I tratti peculiari successivi della religione romana erano il risultato della peculiarità della storia successiva di Roma: la lotta e le vittorie della plebe, il costituirsi di Roma in quanto comunità civile antica. La religione acquista un’importanza particolare durante la lotta tra patrizi e plebei, diventandone uno degli strumenti efficaci, da un lato in quanto sanzione delle leggi alla cui adozione aspirava la plebe, dall’altro in quanto sanzione dei privilegi e del potere dei patrizi nell’ambito non solo politico, ma anche religioso. A misura della parificazione nei diritti dei ceti sociali si va cancellando la differenza tra la religione dei patrizi e quella dei plebei, e la religione diventa uno degli elementi di consolidamento sia delle unità socioeconomiche fondamentali, come familia e comunità dei vicini, sia del collettivo stesso dei cittadini. La sua organizzazione ha determinato i tratti sostanziali della religione romana in quella fase della storia: la mancanza della giustificazione religiosa dell’ordinamento sociale e politico, e, quindi, di un’etica che partisse dal concetto del dovere di ciascuno di servire al bene comune; la separazione del diritto divino da quello umano; l’assenza delle condizioni per la formazione di una forte casta di sacerdoti; un’idea più o meno cosciente di una certa unità del mondo, in cui gli Dei occupano la posizione superiore e gli uomini – quella successiva (idea rielaborata in seguito nel senso di repubblica unita di Dei e uomini) il che dettava una costante attenzione alla volontà degli Dei, l’osservazione della «pace con gli Dei», il compimento obbligatorio dei riti stabiliti per quelle comunità a cui apparteneva il cittadino, ma non portava alla paura davanti agli Dei (tale paura era considerata una «superstizione») e quindi non portava né alla nascita del concetto di «sovrannaturale» né alla punizione per il sacrilegio (eccetto il furto degli oggetti dai templi), né alla limitazione della libertà del pensiero. Il culto collettivo era integrato con quello individuale nel modo organico, così come l’idea dell’«utilità comune» era correlata con l’utile di ogni singolo cittadino, il che in quella fase di sviluppo escludeva l’apparizione del problema del rapporto dell’unità e molteplicità, del cittadino e della città, e quindi di una riflessione religiosa su questo argomento. Insieme a ciò l’aggressione continua di Roma che richiedeva una giustificazione ideologica portava alla scomparsa di una certa mitologia primitiva preesistente e alla creazione e sviluppo del «mito romano», cioè del mito del popolo romano come prediletto dagli Dei e di una missione di Roma volta a conquistare e dominare il mondo per governarlo. Il «mito romano» esercitava un’enorme influenza su tutti i lati della vita del popolo senza pero trasformarsi in un dogma obbligatorio, vi si credeva volontariamente, come in qualcosa di ovvio. La politica religiosa del governo romano serviva agli scopi della sua politica generale: i culti delle città assoggettate venivano assimilati da Roma, mentre i culti romani si diffondevano per l’Italia; durante le guerre e calamità le cerimonie religiose servivano al consolidamento dei cittadini di varia provenienza sociale, a rafforzare la loro fede nella fortuna e favore divino nei confronti di Roma; insieme a ciò venivano troncati i tentativi di un’introduzione spontanea dei riti che entravano in contrasto con i «costumi degli antenati» e delle nuove divinità: gli Dei, così come i nuovi cittadini, potevano essere introdotti nella comunità romana soltanto con il consenso del senato e del popolo.

L’inizio e il progresso della differenziazione sociale aveva portato anche alle trasformazioni nel campo della religione. L’urbanizzazione provocava delle divergenze nella percezione degli Dei da parte dei contadini e dei cittadini; la scissione tra il popolo e la nobiltà si rifletté nel nuovo atteggiamento di quest’ultima nei confronti della religione: l’aristocrazia, staccandosi sempre più dalla comunità romana di un tempo fatta di contadini, tendeva ad un ripensamento filosofico della religione, all’eugemerismo, all’ateismo, alla teoria secondo cui la religione era stata inventata per reprimere il popolo semplice, alla priorità degli istituti umani rispetto a quelli religiosi. Il popolo continuava a credere negli Dei e la sua fede, cosi come il «mito romano», era sfruttata dalla nobiltà allo scopo demagogico. La peculiarità di questo periodo che precedeva l’affermarsi dell’Impero, sta in una straordinaria varietà delle correnti religiose e nel pluralismo dei concetti religiosi. L’esecuzione dei riti prescritti poteva convivere con una negazione aperta dell’esistenza degli Dei; l'eclettismo filosofico – con la fede nell’astrologia, nella magia, nella necromanzia; il riconoscimento della santità dei «costumi degli antenati» - con la negligenza del culto della familia; la diffusione tra ceti superiori della fede nell’immortalità dell’anima e nel carattere divino delle anime dei personaggi eminenti si contrapponeva ora all’idea, dominante in precedenza, del supremo premio per un cittadino consistente nel riconoscimento del popolo, siccome cresceva il disprezzo dell’aristocrazia nei confronti del popolo. La religione cessava di contribuire al consolidamento del collettivo dei cittadini; l’ultimo baluardo di tale unità restava la fede nel «mito romano» che però andava anch’esso indebolendo.

L’affermazione del potere unipersonale richiedeva una giustificazione ideologica che fu data da Augusto e la sua cerchia nell’unificazione del «mito romano» con il «mito di Augusto», il quale avrebbe portato a compimento la missione primordiale di Roma. Il culto imperiale, in parte sorto spontaneamente, in parte diretto dall’alto, percepito nel modo diverso dai vari strati sociali, doveva in qualche misura fornire una nuova giustificazione religiosa dell’ordinamento esistente, consolidare la popolazione dell’Impero. Così furono gettate le basi di una nuova ideologia del «suddito», diverse da quella del «cittadino», e insieme a ciò fu accresciuta l’importanza della religione in generale. La giustificazione dell’ubbidienza alla necessità cosmica e terrena nella sua forma religioso-filosofica viene fornita ai potenti dagli stoici. Ma anche la protesta dei lavoratori contro il regime esistente adotta una forma religiosa e si riflette nella ricerca delle divinità proprie, senza un culto ufficiale, e della propria etica, nella contrapposizione della divinità alle autorità terrene. Altri strati sociali cercavano la libertà spirituale il che portava alla contrapposizione dello spirito alla materia, dell’anima al corpo, del mondo terreno a quello celeste, alla diffusione della fede nell’immortalità dell’anima, nel premio e castigo oltretomba, cioè alla sanzione religiosa dell’etica, la cui apparizione era provocata anche dalla perduta popolarità del «mito romano» e dallo sviluppo dell’individualismo.

Con la delusione nel carattere benefico del regime imperiale i rispettivi umori si affermano. Il mondo terreno viene considerato come una «massa del male», come il regno del fato, dell’alienazione, della disgregazione; una vera liberazione e unificazione si credevano possibili solo nel mondo dello spirito e della divinità. I tentativi degli imperatori di contrapporre al pessimismo generale un rafforzamento del culto imperiale, di trasformarlo in una specie di dogma non ebbero successo. La religione romana, sorta come religione della comunità civile, pur avendo ancora parecchi seguaci, non poteva più soddisfare ai bisogni dei vari strati nelle condizioni della crisi delle città e dell’Impero che poggiava su di esse. Una nuova risposta poteva essere – e fu – fornita solo dal cristianesimo che, da un lato, era consono alle aspirazioni delle masse, e dall’altro aveva creato una giustificazione dogmatica dell’ordinamento sociale e del potere imperiale teocratico[76].

 

 

8. – Stato attuale delle ricerche russe nel campo della religione e del diritto di Roma antica

 

Nel campo degli studi sulla religione e diritto di Roma antica il ripristino, iniziato a partire dagli anni 90, è legato all’attività della scuola scientifica della prof.ssa dell’Università Lomonosov di Mosca Ija L. Majak. Nelle ricerche svolte dalla professoressa insieme ai suoi numerosi allievi l’attenzione maggiore viene prestata agli aspetti giuridico-religiosi di Roma arcaica. L’inizio vi è stato dato con la pubblicazione nel 1983 della monografia della prof.ssa Majak Rim pervych carej. Genezis rimskogo polisa (Roma dei primi re. La genesi della polis romana)[77], libro considerato un modello per la ricerca storica multidisciplinare su Roma arcaica, al momento di transizione dalla preistoria allo Stato, con vasto uso di diverse fonti e storiografia. Sebbene le questioni di religione e diritto non vengano trattate specificamente, nel libro spesso si fanno dei riferimenti agli aspetti giuridico-religiosi della comunità romana arcaica; in particolare, la studiosa approfondisce lo studio della proprietà fondiaria e del potere dello Stato.

 

Un’ulteriore spinta all’intensificazione della ricerca nel campo della storia del diritto romano pubblico e sacro è stata data dal primo colloquio internazionale «Diritto pubblico romano», organizzato a Mosca nell’anno 1994 dall’Associazione degli antichisti di Russia insieme con il Gruppo di ricerca sulla diffusione del diritto romano[78].

Sempre nel 1994 è stata pubblicata un’opera collettiva dedicata ai problemi del diritto sacro in Roma arcaica[79]; in essa viene seguito il lungo cammino del diritto romano, dalle norme sacrali fino agli istituti giuridici della società civile. Vi ha seguito la pubblicazione nel 2001 dell’altra opera collettiva sui collegi sacerdotali di Roma arcaica[80]; entrambe sono uscite a cura del Presidente del Centro Studi di Diritto Romano Leonid L. Kofanov.

Tra gli studiosi i quali, dopo aver avuto la formazione di base presso la cattedra dell’antichità della facoltà di storia dell’Università Lomonosov di Mosca, sotto la guida scientifica della prof.ssa Majak, in seguito si sono occupati degli argomenti giuridico-religiosi di Roma Antica vanno menzionati: Olga V. Sidorovič (Senato dell’età repubblicana; struttura del ceto patrizio repubblicano; aspetti politici della divinatio), Tat’jana A. Bobrovnikova[81] (storia di Roma tardorepubblicana), Aleksandr V. Koptev[82] (schiavitù ed altre forme di dipendenza nel tardo Impero romano), Dmitrij V. Doždev[83] (diritto romano d’eredità, diritto privato romano), Leonid L. Kofanov[84] (diritto delle obbligazioni in Roma arcaica; leggi delle XII Tavole; nascita e sviluppo del diritto romano nei ss. VIII-V a. C.), Valerij N. Tokmakov[85] (l’organizzazione militare di Roma arcaica; il collegio sacerdotale dei salii), Andrej M. Smorčkov (aspetti sacrali della formazione della civitas romana; collegio dei pontefici), Natal’ja G. Majorova (collegio dei feziali; religione e diplomazia in Roma arcaica), Arčil S. Balachvancev (struttura sociale della cittadinanza in Italia all’età dei Giulio-Claudi), Ol’ga P. Smirnova (il collegio delle vestali), Aleksej V. Ščogolev (la legge di lesa maestà nella storia politica di Roma; il concetto giuridico-religioso di maiestas), Jaroslav V. Mel’ničuk (istituto di censura nella Roma repubblicana).

Un particolare interesse presentano gli studi di Andrej M. Smorčkov[86] dedicati ai poteri e al ruolo dei pontefici; in essi l’argomento è stato esaminato nel contesto del problema più ampio dell’influenza che ebbe nella sfera del sacro di Roma antica il fenomeno di comunità civile (civitas). Sono state studiate le funzioni del diritto pubblico e del diritto privato del collegio dei pontefici, i suoi rapporti con le autorità politiche. Sono state rivelate le tracce di una certa diffidenza nei confronti dei pontefici da parte del vertice patrizio dopo la cacciata dei re. Lo studioso nota che la condizione di assoggettamento dei sacerdoti al potere laico corrisponde in tutto ai princìpi più importanti della civitas in quanto fenomeno sociopolitico.

Oggi storici e giuristi russi vogliono riunire insieme tutte le loro forze per far rinascere la scuola storico-giuridica russa del diritto romano, nel quadro della Fondazione «Centro di studi del diritto romano», con sede a Mosca. Il Centro pubblica dal 1996 la rivista Ius Antiquum-Drevneje pravo in cui vengono presentati gli articoli di studiosi russi e stranieri, storici e giuristi, sul diritto greco, romano, la recezione dell’ultimo in Oriente (nei paesi balcanici, in Caucaso e in Russia) e in Occidente, sul diritto romano ed attualità, notizie della vita scientifica (recensioni delle nuove pubblicazioni, cronache dei convegni ecc.) nonché le traduzioni delle fonti di diritto romano.

Per quanto riguarda la religione, l’incremento dell’interesse per il suo studio da parte degli storici dell’antichità è attestato dalla sua scelta come tema per l’ultimo convegno dell’Associazione degli antichisti della Russia (Mosca, Accademia delle Scienze, Istituto di Storia Universale, 23-24 giugno 2003). Durante i lavori del convegno alla religione romana è stata assegnata una sezione a parte, nei cui lavori hanno partecipato studiosi provenienti, oltre che da Mosca, anche da numerose altre città della Russia e dalla Bielorussia.

 

 

 



 

(*) Lezione tenuta il 15 gennaio 2004 nella Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Sassari, nel quadro delle «Conferenze romanistiche sassaresi 2003-2004», promosse per iniziativa del professor Francesco Sini.

 

[1] Istoriografija antičnoj istorii (Storiografia della storia antica), a cura di V. I. Kuziščin, Mosca 1980, 172-173.

 

[2] V. I. Sinajskij, Očerk po istorii zemlevladenija i prava v Drevnem Rime (Saggio di storia della proprietà fondiaria e del diritto in Roma Antica), Vol. I, Jur’jev 1908; vol. II, Kijev 1913.

 

[3] F. M. Dydynskij, Zalog po rimskomu pravu (Il pegno secondo il diritto romano), Varsavia 1872.

 

[4] V. M. Chvostov, Istorija rimskogo prava, 7a ed., Mosca 1919.

 

[5] N. P. Bogolepov, Učebnik istorii rimskogo prava (Manuale di storia del diritto romano), Mosca 1895.

 

[6] I. A. Pokrovskij, Istorija rimskogo prava (Storia del diritto romano) (ried.), San Pietroburgo 1999.

 

[7] I. V. Netušil, Očerk rimskich gosudarstvennych drevnostej (Saggio delle antichità statali romane), Char’kov 1894.

 

[8] F. F. Zelinskij, Iz žizni idej (Dalla vita delle idee), San Pietroburgo, 1905-1907, 1922.

 

[9] E. D. Frolov, Russkaja nauka ob antičnosti (Scienza russa dell’antichità), San Pietroburgo 1999, 398.

 

[10] A. B. Ranovič, Pervoistočniki po istorii rannego christianstva (Le fonti primarie sulla storia del protocristianesimo), Mosca 1933; idem, Antičnyje kritiki christianstva (Critici antichi del cristianesimo), Mosca 1935; idem, Očerki istorii rannechristianskoj cerkvi (Saggi di storia della chiesa protocristiana), Mosca 1941.

 

[11] Istoriografija antičnoj istorii (Storiografia della storia antica), Mosca 1980, 329 ss.

 

[12] V. S. Sergejev, Očerki po istorii drevnego Rima (Saggi di storia di Roma antica), in 2 parti, Mosca 1938; S. I. Kovaliov, Istorija Rima (Storia di Roma), Leningrado 1948; trad. italiana: Storia di Roma, Roma 1965.

 

[13] P. F. Preobraženskij, Tertullian i Rim. Opyty po istorii pervochristianstva i rannechrtistianskoj cerkvi (Tertulliano e Roma. Saggi sulla storia del primo cristianesimo e della chiesa protocristiana), Mosca 1926; Id., V mire antičnych idej i obrazov (Nel mondo delle idee ed immagini antiche), Mosca 1965.

 

[14] E. M. Štaerman, Predislovije (Premessa), in: V mire antičnych idej i obrazov, cit., 6 s.

 

[15] Ibid., 8 s.

 

[16] E. D. Frolov, Russkaja nauka ob antičnosti, cit., 405.

 

[17] N. A. Maškin, Istoria Drevnego Rima (Storia di Roma antica), Mosca 1947.

 

[18] Ibid., 389 ss.

 

[19] Ibid., 571 ss.

 

[20] Ibid., 627 ss.

 

[21] N. A. Maškin, Principat Avgusta. Proischoždenije i social’naja suščnost’ (Il principato di Augusto. Le origini e la sostanza sociale), Mosca 1949; trad. italiana: N. Maskin, Il principato di Augusto, Roma 1956.

 

[22] Ibid., 557 ss.

 

[23] Ibid., 586 s.

 

[24] S.A. Tokarev, Religija v istorii narodov mira (Religione nella storia dei popoli del mondo), Mosca 1964.

 

[25] Ibid., 411-432.

 

[26] Ibid., 411 ss.

 

[27] E. M. Štaerman, Moral' i religija ugnetjonnych klassov Rimskoj Imperii, cit., 25.

 

[28] S. A. Tokarev, Religija v istorii narodov mira, cit., 416 ss.

 

[29] J. G. Frazer, The Golden Bough, London 1911-1915.

 

[30] S. A. Tokarev, Religija v istorii narodov mira, cit., 422 ss.

 

[31] E. M. Štaerman, Ot graždanina k poddannomu (Dal cittadino al suddito), in: Kul’tura Drevnego Rima, cit., vol. I, 22 ss.

 

[32] Idem, Ot religii obščiny k mirovoj religii (Dalla religione della comunità alla religione universale), in: Kul’tura Drevnego Rima, cit., vol. I, 106 ss.

 

[33] Idem, Rimskoje pravo (Diritto romano), in: Kul’tura Drevnego Rima, cit., vol. I, 210 ss.

 

[34] V. M. Smirin, Patriarchal’nyje predstavlenija i ich rol’ v obščestvennom soznanii rimljan (I concetti patriarcali e il loro ruolo nella coscienza sociale dei romani), in Kul’tura Drevnego Rima, cit., vol. II, 5 ss.

 

[35] G. S. Knabe, Istoričeskoje prostranstvo i istoričeskoje vremja v kul’ture drevnego Rima (Spazio storico e tempo storico nella cultura di Roma antica), in Kul’tura Drevnego Rima, cit., vol. II, 107 ss.

 

[36] Ju. K. Kolosovskaja, Rimskij provincial’nyj gorod, jego ideologija i kul’tura (Città romana provinciale, la sua ideologia e cultura), in Kul’tura Drevnego Rima, cit., vol. II, 167 ss.

 

[37] S. V. Škunajev, Kul’tura Gallii i romanizacija (Cultura della Gallia e romanizzazione), in Kul’tura Drevnego Rima, cit., vol. II, 258 ss.

 

[38] E. S. Golubcova, Mirovozzrenije gorožan i krest’jan Maloj Azii (Mentalità dei cittadini e contadini dell’Asia Minore), in Kul’tura Drevnego Rima, cit., vol. II, 303 ss.

 

[39] A. I. Nemirovskij, Ideologija i kul’tura rannego Rima (Ideologia e cultura della prima Roma), Mosca 1964.

 

[40] A. I. Nemirovskij, Istorija rannego Rima i Italii (Storia della prima Roma e dell’Italia), Voronež, 1962.

 

[41] L. A. Jel’nickij, Elementy religii i duchovnoj kul’tury drevnich etruskov (Elementi della religione e della vita spirituale degli etruschi antichi), in: A. I. Nemirovskij, Ideologija i kul’tura rannego Rima, cit., 182 ss.

 

[42] A. I. Nemirovskij, Etruski. Ot mifa k istorii (Etruschi. Dal mito alla storia), Mosca 1983, 164 ss.

 

[43] E. M. Štaerman, Rimskoje pravo (Diritto romano), in Kul’tura Drevnego Rima, Mosca 1985, vol. I, 210 ss.

 

[44] E. M. Štaerman, Krizis rabovladel’českogo stroja v zapadnych provincijach Rimskoj imperii (La crisi del regime schiavistico nelle province occidentali dell’Impero romano), Mosca 1957; idem, Rascvet rabovladel’českich otnošenij v Rimskoj Respublike (La fioritura dei rapporti schiavistici nella Repubblica romana), Mosca 1964; E. M. Štaerman, M. K. Trofimova, Rabovladel’českije otnošenija v Rimskoj Imperii (Italija) (Rapporti schiavistici nell’Impero romano (Italia), Mosca 1971 (trad. italiana: E. M. Štaerman , M. K. Trofimova, La schiavitù nell’Italia imperiale, Roma 1975); E. M. Štaerman, V. M. Smirin, N. N. Belova, Ju. K. Kolosovskaja, Rabstvo v zapadnych provincijach Rimskoj Imperii v I – III vv. (La schiavitù nelle province occidentali dell’Impero romano nei ss. I-III), Mosca 1977.

 

[45] E. M. Štaerman, Moral’ i religija ugnetennych klassov Rimskoj Imperii (Italia i zapadnyje provincii) (Morale e religione delle classi oppresse dell’Impero Romano, Italia e province occidentali), Mosca 1961.

 

[46] Mify narodov mira (Miti dei popoli del mondo), a cura di S. A. Tokarev, 2 voll., Mosca 1980 [2a ed. Mosca 1991]; ma è già autrice dell’articolo sulla religione romana nella prestigiosa Bolšaja Sovetskaja enciclopedija (Grande Enciclopedia Sovietica), vol. 48, 1941, 799 s.

 

[47] E. M. Štaerman, Ot religii obščiny k mirovoj religii (Dalla religione della comunità alla religione universale), in Kul’tura Drevnego Rima (Cultura di Roma antica), cit., 105 ss.

 

[48] E. M. Štaerman, Social’nyje osnovy religii Drevnego Rima (Fondamenti sociali della religione di Roma antica), Mosca 1987.

 

[49] A. M. Smorčkov, Rimskoje publičnoje žrečestvo: meždu carskoj vlast’ju i aristokratijej (Il sacerdozio pubblico romano: tra il potere regio e l’aristocrazia) // Vestnik Drevnej Istorii, I, 1997, 35 s.

 

[50] E. M. Štaerman, Moral’ i religija, cit., 105 ss.

 

[51] Ibid., 6.

 

[52] Ibid., 15.

 

[53] Ibid., 280 ss.

 

[54] Ibid., 289 ss.

 

[55] Ibid., 291 s.

 

[56] E. M. Štajerman, Social’nyje osnovy religii Drevnego Rima, cit., 3 ss.

 

[57] Ibid., 20 ss.

 

[58] E. Peruzzi, Aspetti culturali del Lazio primitivo, Firenze 1978.

 

[59] E. M. Štaerman, Social’nyje osnovy religii Drevnego Rima, cit., 25 ss.

 

[60] Ibid., 28 ss.

 

[61] C. Koch, Gestirnverehrung in altem Italien, Frankfurt a. M. 1933.

 

[62] E. M. Štaerman, Social’nyje osnovy religii Drevnego Rima, cit., 31 ss.

 

[63] Ibid., 33 ss.

 

[64] Ibid., 37 ss.

 

[65] Ibid., 43 s.

 

[66] Ibid., 44 ss.

 

[67] Ibid., 53 ss.

 

[68] Ibid., 57 ss.

 

[69] Ibid., 63 ss.

 

[70] Ibid., 70 s.

 

[71] Ibid., 71.

 

[72] A. Guarino, Storia del diritto romano, Napoli 1981, 118 ss.

 

[73] E. M. Štaerman, Social’nyje osnovy religii Drevnego Rima, cit., 71 ss.

 

[74] Dion. Halic., IV.43.2.

 

[75] E. M. Štaerman, Social’nyje osnovy religii Drevnego Rima, cit., 78 ss.

 

[76] Ibid., 304 ss.

 

[77] I. L. Majak, Rim pervych carej. Genezis rimskogo polisa (Roma dei primi re. La genesi della polis romana), Mosca 1983.

 

[78] Gli atti del convegno sono pubblicati nel primo numero della rivista Ius Antiquum-Drevneje pravo, 1996.

 

[79] Religija i obščina v Drevnem Rime (Religione e comunità in Roma antica), a cura di L. L. Kofanov e N. A. Čaplygina, Mosca 1994.

 

[80] Žrečeskije kollegii v Rannem Rime. K voprosu o stanovlenii rimskogo sakral’nogo i publičnogo prava (I collegi sacerdotali in Roma arcaica. Per la questione della formazione del diritto romano sacro e pubblico), a cura di L. L. Kofanov, Mosca 2001.

 

[81] T. A. Bobrovnikova, Scipion Afrikanskij (Scipione l’Africano), Voronež 1996.

 

[82] A. V. Koptev, Ot prav graždanstva k pravu kolonata: formirovanije krepostnogo prava v pozdnej Rimskoj imperii (Dai diritti di cittadinanza al diritto di colonato: la formazione della servitù della gleba nel tardo Impero romano), Vologda 1995.

 

[83] D. V. Doždev, Rimskoje archaičeskoje nasledstvennoje pravo (Diritto romano arcaico di eredità), Mosca 1993; Rimskoje častnoje pravo (Diritto privato romano), Mosca 1996; idem, Osnovanije zaščity vladenija v rimskom prave (Fondamento per la difesa del possesso nel diritto romano), Mosca 1996.

 

[84] L. L. Kofanov, Objazatel’stvennoje pravo v archaičeskom Rime (VI-IV vv. do n. e.) (Diritto delle obbligazioni in Roma arcaica (VI-IV ss. av. Cr.), Mosca 1994.

 

[85] V. N. Tokmakov, Vojennaja organizacija Rima rannej Respubliki (VI-IV vv. do n. e.) (Organizzazione militare di Roma nella prima Repubblica (VI-IV ss. a. C.), Mosca 1998.

 

[86] Vedi di questo autore, p. es: Kollegija pontifikov i graždanskaja obščina (Il collegio dei pontefici e la comunità civile), in: Religija i obščina v Drevnem Rime, cit., 45 ss; idem, Položenije žrečestva v epochu rannej respubliki (La condizione del sacerdozio all’epoca della prima repubblica), in: Drevneje pravo-Ius antiquum. I, 1996, 42 ss; idem, Rimskoje publičnoje žrečestvo: meždu carskoj vlast’ju i aristokratijej (Il sacerdozio pubblico romano: tra il potere regio e l’aristocrazia), in: Vestnik Drevnej Istorii, I, 1997, 35 ss.; idem, Kollegija pontifikov (Il collegio dei pontefici), in: Žrečeskije kollegii v Rannem Rime, cit., 100 ss.