N. 3 – Maggio 2004 – Lavori in corso – Didattica

 

 

Il diritto romano in Albania: insegnamento e strumenti

 

NATASHA SHEHU

Università di Tirana

 

 

1. – Vorrei trattare dell’insegnamento del diritto romano nella storia più recente dell’Albania. In primo luogo vorrei sottolineare l’influenza diretta o indiretta avuta dal diritto romano nella formazione dello Stato moderno di Albania.

Con la dichiarazione di indipendenza, sin dal 1912, si è proceduto a delineare le linee del diritto della nuova realtà politico-costituzionale che si andava delineando con specificità proprie che dovevano segnare il distacco dalla precedente appartenenza alla Grande Porta[1].

Il “complesso” di insicurezza e di accerchiamento che ne conseguì spinse gli Albanesi ad arroccarsi intorno ai propri costumi come simbolo della propria specificità ed identità. Essi videro perciò nel kanun la fonte di diritto che salvaguardava ed esaltava la loro appartenenza ad una entità etnica e culturale diversa da quelle dei popoli viciniori e dai quali in gran parte temevano di venire fagocitati. Si può dire che sorse una vera e propria ‘psicosi’ causata dal timore di venire aggrediti e di perdere i propri territori. Fu questo stato d’animo a spingere gli Albanesi a vedere di buon occhio l’intervento dell’Italia e persino, da parte di qualcuno, a giustificare il ‘fascismo’ e la sua politica espansionistica e di occupazione usurpatrice e repressiva.

In questo quadro ideologico e teorico il diritto romano, legato alle antiche tradizioni illiriche, fu visto come un importante punto di riferimento. Rivendicando l’origine dal diritto romano del proprio diritto (quello dei kanuni) gli Albanesi intendevano sottolineare la propria differenziazione dagli slavi e dai musulmani.

Fu perciò stabilito un parallelismo tra kanun e diritto romano o, meglio, tra kanun e principi del diritto romano. L’identificazione che ne seguì fu esaltata e strumentalizzata dal fascismo il quale per farsi accettare si propagandò come difensore contro eventuali invasori (in particolare i Serbi) e come ripristinatore del diritto degli Albanese attraverso la valorizzazione delle radici comuni che risiedevano nel diritto romano. Come esempio di questa visione propagandistica possiamo leggere alcune pagine nelle quali vengono evidenziati i legami tra kanun e diritto romano come base dell’identità albanese e come salvaguardia di essa[2].

In tal modo si arrivò alla fine di un processo partito dalla dichiarazione di indipendenza della Prima Repubblica del 1912, la quale aveva rinviato espressamente al kanun come fonte del diritto albanese.

Le vicende successive sono note. La Conferenza degli Ambasciatori dette un diverso assetto, con molte mutilazioni territoriali, all’Albania, distruggendo ogni velleità di ripristino della Grande Albania. L’Albania fu configurata come Principato ed il modello dell’ordinamento divenne quello tedesco. In esso il diritto romano aveva ugualmente un ampio spazio.

In conclusione possiamo dire che la presenza o quanto meno l’influenza del diritto romano nell’esperienza e nel diritto albanese si realizzò attraverso una duplice via:

1.         attraverso l’influsso sul kanun;

2.         attraverso il peso del diritto tedesco.

 

 

2. – Riguardo al kanun occorrerebbe un’analisi complessa che non mi è possibile affrontare in questa sede, dove credo sufficiente fare notare che in realtà il costume albanese ha articolazioni molteplici e che, perciò, bisognerebbe esaminare ogni singolo kanun per un’analisi completa delle sue caratteristiche, che pur in un quadro di riferimento spesso omogeneo presentano aspetti e regole differenti da kanun a kanun.

In essi l’influenza del diritto e della tradizione romana sono ugualmente considerevoli per due motivi: al Sud per l’influenza della tradizione bizantina, conosciuta soprattutto attraverso l’opera di Harménopoulos[3], al Nord per il collegamento con una tradizione di matrice anche romana conservata gelosamente nel costume locale, come indice della propria identità[4].

Al riguardo va evidenziato che la peculiarità del diritto albanese non venne meno neanche durante i cinque secoli di tradizione musulmana. Infatti il diritto e le visioni musulmane certamente penetrarono nel diritto degli Albanesi ma non sino al punto di assorbirlo e di annientarne le peculiarità; le quali, invece, furono riconosciute ufficialmente dall’Impero Ottomano.

In generale si può dire che vi era stretta assonanza tra la posizione del pater familias del diritto romano e la concezione ed il ruolo che i kanuni assegnavano all’uomo ed in particolare al padre all’interno della famiglia albanese.

Così come è singolare un’altra coincidenza e probabile influenza del diritto romano riguardava l’età del matrimonio, la quale anche nei kanuni si faceva risiedere nel raggiungimento della pubertà. Ciò dipese dal fatto che anche gli Albanesi concepirono il matrimonio in funzione della procreazione, sicché  requisito essenziale fu ritenuta la capacità fisiologica e non quella psicologica. Anche in Albania, come in tutto l’arco dell’esperienza giuridica romana invalse la pratica, invero frequente, di matrimoni ‘precoci’, la cui validità era tuttavia riconosciuta solo al momento del sopraggiungere della pubertà; secondo il costume, infatti, la donna prima del raggiungimento della pubertà poteva essere sposata e andare a vivere con il marito, però i rapporti maritali potevano essere instaurati solo dopo il raggiungimento della maturità sessuale e solo da quel momento il matrimonio veniva riconosciuto[5].

In altri casi si nota piú l’influenza delle concezioni greche. Emblematico è il fidanzamento (fejesa) considerato come una forma di pre-matrimonio di difficile scioglimento e che, pertanto, non era riconducibile agli sponsalia romani. Il fidanzamento secondo i kanuni creava il vincolo tra i fidanzati a vivere in matrimonio, nel senso che la donna fidanzata era ritenuta ‘occupata’ e, quindi, non piú libera di avere un altro marito.

La pubblicazione nel 1929 del Codice civile, detto Codice Zogu[6], costituì un nuovo elemento per il confronto e lo studio del diritto romano. Esso, a somiglianza di molti altri codici civili dell’epoca, seguiva uno schema e aveva materie che affondavano le radici proprio nel diritto romano.

Il riconoscimento della potestà del padre e del marito, il riconoscimento della persona, la tutela della proprietà privata e dei diritti reali (di godimento e di garanzia), la successione ereditaria, le obbligazioni ed i contratti, l’istituto della dote e la distinzione dei beni dotali dai beni parafernali etc. sono capisaldi che affondavano le radici nel diritto romano e spesso di esso rispecchiavano la configurazione essenziale. Sono questi punti sui quali l’analisi andrebbe approfondita. Qui mi limito a notare che l’emanazione del Codice Zogu vide anche l’affermazione del diritto romano come materia di insegnamento negli studi giuridici. Affermazione che vide una ulteriore fioritura qualche lustro piú tardi a seguito dell’occupazione italiana.

Essa, come il documento del Koliqi mostra chiaramente, portò con sé addirittura l’esaltazione del diritto romano e spinse gli Albanesi a vantare legami stretti con la tradizione romana nei costumi e nel diritto.

È questa la ragione o almeno una delle ragioni che motivarono la successiva soppressione del diritto romano dall’insegnamento giuridico all’avvento del comunismo, il quale maturò, anche in chiave patriottica, un’avversione generale per gli studi classici, con la quasi totale scomparsa del latino sia nella scuola superiore sia nell’università.

Ne conseguì la scomparsa di testi sulle fonti romane; delle quali era difficile trovare in Albania traduzioni in lingua albanese. Le poche esistenti erano pressoché irreperibili e per lo piú erano prodotte e circolavano all’estero. Ne conseguì anche la scomparsa o l’inesistenza di testi di diritto romano; anzi i pochi in lingua albanese provenivano da altri Paesi, ad esempio dal Kossovo.

Il quadro generale degli studi giuridici registrava la scomparsa degli insegnamenti di diritto romano, da oltre trenta anni. Tuttavia il fascino ed il retaggio degli studi classici resistevano! Alcuni professori, che si erano formati durante il periodo che aveva preceduto la formazione della repubblica popolare Albanese, conservavano solide basi di studi classici e, soprattutto, un’entusiastica adesione alle visioni ed allo spirito di libertà che da essi si acquistava. Qualche professore, titolare dell’insegnamento di storia del diritto, trovava modo di parlare del diritto romano, spiegando agli studenti che il diritto romano aveva posto le radici e i principi ispiratori del diritto albanese. Si risaliva almeno a Giustiniano e si ancorava alla sua ‘legislazione’ (cioè al Corpus Iuris Civilis) gli sviluppi del diritto albanese ufficiale e dei kanuni (vale a dire dei diritti propri delle popolazioni albanesi, formatisi nelle varie regioni dell’attuale Albania, a partire dal 1400 d.C.).

 

 

3. – Con la caduta del comunismo sorse l’esigenza di riformare gli studi in Albania, compresi quelli giuridici, che qui ci riguardano. Interrogandosi sul modo migliore per assicurare una solida formazione per i giuristi si proposero diversi modelli, per lo piú riflesso della organizzazione degli studi operante nei Paesi dell’Europa Occidentale. Si affrontò con nuovo spirito la riforma del corso degli studi della Facoltà di Giurisprudenza, fatta oggetto di dibattito non solo tra professori albanesi, ma anche confrontandosi con professori di altri paesi ed in particolare dell’Italia.

Tra i punti messi in evidenza vi fu la sottolineatura dell’assenza di almeno un insegnamento di diritto romano. Nello specifico nel 1992 a seguito dei contatti avuti con direttore dell’Istituto di diritto romano dell’Università di Bari (prof. Sebastiano Tafaro) fu stabilito l’inserimento (secondo alcuni il ripristino) di un insegnamento curriculare (obbligatorio) di diritto romano con carattere istituzionale. La decisione voluta dai giuristi, fu condivisa dall’intero corpo accademico e (cosa degna di nota!) caldeggiata dai docenti di discipline tecniche (in particolare dal preside della Facoltà di Ingegneria).

La decisione era per molti versi coraggiosa, in quanto non si trovavano in circolazione libri di Istituzioni di diritto romano ed i docenti non potevano fare affidamento sulla lettura delle fonti: vuoi perché non ve ne erano nelle biblioteche ed in commercio, vuoi perché comunque non sarebbero state comprensibili senza la conoscenza del latino, ormai desueto. Per questo il motivo, il nuovo insegnamento fu affidato alla prof.ssa Arta Mandro, storica del diritto albanese, che fu “dirottata”sul diritto romano. Per far fronte alle esigenze del nuovo insegnamento si pensò ad un primo periodo di formazione ed impostazione. Grazie ad un contributo del c.n.r. italiano fu possibile realizzare un soggiorno di studio della docente presso l’Istituto di Diritto romano dell’Università di Bari.

Durante tale periodo furono discussi gli aspetti concernenti l’organizzazione del corso di diritto romano. Ci si rese conto che per i manuali si poteva sopperire in qualche modo procedendo all’adozione di alcuni manuali italiani: ciò era possibile per la sufficiente diffusione della lingua italiana presso gli studenti albanesi.

Emerse però subito un ulteriore problema: quello di consentire agli studenti e, piú in generale, agli studiosi del diritto, anche un approccio diretto alle fonti romane; indispensabile strumento attraverso il quale gli studenti potevano capire da dove e come si erano formate molte dottrine e molti principi, che spesso sono patrimonio corrente della cultura giuridica. Fu ritenuto essenziale abituare lo studente all’analisi diretta del dato testuale. Certo l’ideale sarebbe stato la reintroduzione del latino nelle scuole di base (ginnasio e licei), ma ciò al momento appariva del tutto improbabile e comunque avrebbe spostato di molto nel tempo la soluzione del problema.

Dopo ponderate riflessioni si delineò un progetto di traduzione delle fonti romane. Ci fu una lunga riflessione su quale scegliere per prima, optando infine per la traduzione di un’opera basilare, ma completa. In tale ottica fu automatica la scelta dei due manuali istituzionali pervenutici per intero (o quasi): le Istituzioni di Gaio e quelle di Giustiniano. Tra i due si preferì dare la precedenza alle Istituzioni di Gaio, un’opera semplice ed in grado di offrire il quadro di quello che era stato il diritto proprio della civitas romana (ius proprium civitatis), cioè del ius civile.

Della traduzione si fece carico la stessa prof.ssa Arta Mandro, che vi ha lavorato, in fasi alterne, dal 1994: oggi essa attende ancora di essere pubblicato. La traduzione concerne i quattro i libri dell’opera gaiana; è stata effettuata partendo dagli esemplari di traduzione in italiano e provvedendo al confronto del testo albanese con il testo latino.

Delle molte difficoltà superate è difficile dare qui conto. Esse derivano principalmente dal tentativo di trovare nel vocabolario giuridico albanese i termini piú vicini a quelli romani; alcuni dei quali sono spesso scomparsi e si riferiscono a concetti di difficile intelligenza da parte dei giovani albanesi. Non mi dilungo ulteriormente sugli aspetti tecnici e sull’esigenza di rendere comprensibili alle giovani generazioni istituti scomparsi dai codici e dal diritto privato odierno.

Il piano di traduzione, come si è detto, prevedeva di proseguire con le Istituzioni di Giustiniano. Esse per alcuni versi si sono proiettate piú di altre opere classiche sul diritto successivo ed ancora oggi trovano molti riscontri nel diritto albanese. Perciò può servire ad una utile comparazione e soprattutto può fornire lo strumento piú efficace per la formazione dei giovani studiosi del diritto. Il progetto è tuttavia rimasto fermo a lungo, perché non si riusciva a trovare chi fosse disposto a procedere alla traduzione.

Nel 1999 mi è stato chiesto se avessi voluto attendere alla traduzione del manuale istituzionale di Giustiniano. Ciò perché in aprile mi ero laureata in Giurisprudenza anche in Italia (ero già laureata in Albania), a Bari, con una tesi in diritto romano. Ho accettato e spero di potere portare a termine il compito assunto. Ad oggi ho completato la traduzione del primo libro e ho già messo mano a quella del secondo libro. L’impegno maggiore l’ho posto nel rendere adeguatamente il testo latino nella lingua albanese, la quale ha sovente altri etimi o istituti diversi. Penso di potere dare, così, un testo fedele sia all’originale latino, sia alla mentalità ed alla terminologia contemporanea. Però la cura maggiore è stata posta nel tradurre nella maniera più vicina possibile al testo latino. Il primo libro è stato già pubblicato.

Nel frattempo è maturata l’idea di proseguire il lavoro con l’aggiunta di note storiche e dottrinarie e di porre le disposizioni latine a confronto con le norme del diritto attuale (in particolare del Codice Civile e della nuova Costituzione Albanese) e dei kanuni.

Dopo la traduzione degli altri tre libri, sarebbe molto utile fornire un lessico latino-albanese dei principali termini ricorrenti nel manuale giustinianeo e preparare una tavola di raffronto tra gli istituti scomparsi e quelli che, in qualche modo, trovano riscontro nel diritto albanese. L’obiettivo è quello di fornire allo studente ed allo studioso lo strumento per cogliere la formazione dei principi e la loro evoluzione dal diritto romano sino ad oggi.

In conclusione, vorrei sottolineare la circostanza che ormai il diritto romano è stato saldamente reintrodotto negli studi del corso di laurea in diritto e che vi è perciò la necessità di passare da un insegnamento nel quale il docente impartisce le nozioni di diritto romano, ad un percorso nel quale lo studente possa partire dalle fonti per procedere attraverso un apprendimento critico e formativo.

 

 

appendice

 

Instituti i Studimevet Shqiptare

Istituto di Studi Albanesi

 

ernesto koliqi

Presidente del Reale Istituto

 

il diritto albanese del kanun e il diritto romano*

 

 

Quando, lo scorso anno 1941, all'epico aprirsi della primavera vittoriosa, su tutto l'immenso arco delle Alpi Albanesi s'addensarono minacciose e bene armate, fidenti sopratutto nelle posizioni e nel numero incomparabilmente superiori, le truppe Serbe, poche ma salde divisioni del nostro esercito, attestatesi sulla breve pianura fra Scutari e i monti e nella valle del Drin ne contennero l'impeto e poi le ricacciarono.

Ma il fronte era immenso, le insidie vi si potevano celare innumerevoli, le infiltrazioni di bande potevano divenir pericolose.

Allora venne finalmente soddisfatto il desiderio delle stirpi della montagna, e ad ogni uomo si concesse un pane e un fucile. Come per incanto in tre giorni, una popolazione primitiva che non ha telegrafo, radio, ferrovie, automezzi, strade, che non ha mai fatto prove di mobilitazione, si trovò in armi al comando dei suoi capi ereditari, pronta a battersi per i suoi confini; occupò i valichi, li difese arditamente, li bagnò ancora una volta del suo sangue ma molto più di quello del nemico secolare.

Meraviglia? prodigio? - Nò, per chi conosce il saldo organamento delle stirpi della montagna albanese, la meravigliosa disciplina che le regge in caso di emergenza, lo spirito eroico di cui è informata la psicologia di quella gente.

Tale organamento, tale disciplina, tale spirito eroico, con tutti i principi che ne sono come i canoni, con tutte le norme pratiche che ne determinano le attuazioni, nel laconico linguaggio albanese si comprendono in un solo termine: il Kanun, la legge tradizionale.

La commovente ospitalità del montanaro albanese, vero tipo del gentiluomo povero, che priverebbe sè, le sue donne, i suoi bambini, dell'ultimo tozzo di pane per imbandirlo “col sale e col cuore” all'ospite, e patirebbe di veder la sua famiglia spenta a fucilate, e le rovine della sua casa coperte di rovi dalla soglia al focolare piuttosto che lasciar l'ospite indifeso - non è che un canone di questa legge.

Da esso è ispirata la tradizionale fedeltà dei “Kawas” albanesi noti in tutto il Levante; da esso la vigorosa e potente eloquenza dei vecchiardi e dei capi raccolti in giro a consiglio lasciando le armi nei fasci; da esso il minuzioso poetico cerimoniale degli sposalizi, impregnato di reconditi sensi.

Tutta la vita del montanaro albanese, la sua mentalità, la sua prontezza al sacrificio della vita senza esitazione per l'onore e per il dovere, le sue relazioni famigliari, i suoi contratti, le sue, contese, le sue rappresaglie, la sua partecipazione alla politica interna ed estera - è regolato da questa legge; tutto è Kanun, ereditato dai padri, più incancellabile che se fosse fuso in dodici tavole di bronzo: nessuno l'ha scritto ma nessuno lo cancellerà mai dall'animo albanese finchè un popolo schipetaro ci sarà, come ci fu da trenta secoli sull'altra sponda dell'Adriatico.

L'alta concezione morale e civica, lo spirito eroico che è l’anima di questa legge tradizionale, l'unica sopravvissuta in Europa, ci richiama spontaneamente i ricordi dell'antichità classica, e sopratutto quelli, degli “antiqui mores” romani e delle leggi che ne vennero ispirate, e ci invita a studiare quali relazioni e quali legami di dipendenza possono intercorrere fra essi.

Quando il potere di Roma, definitivamente esteso alla costa orientale adriatica, dovette organizzare le varie popolazioni Illiriche che vi costituivano individue collettività, - determinate piuttosto come gruppi etnici a sede non del tutto costante che come provincie a confini precisi, -vi adottò; col solito sapiente intuito pratico, un sistema amministrativo quale richiedeva la natura della nazione ormai unita alle sorti dell'Impero.

C'era un Prefetto per l'Illirico, c'erano colonie romane o castelli di cittadini romani, c'erano legioni, coorti, ali, con proprie sedi, ma l'organizzazione che noi oggi chiameremmo municipale e giudiziaria, fu quella che la sapienza ed equità romana aveva escogitata già almeno dai primi tempi della Repubblica per le provincie della Sicilia, dell'Africa, della Spagna, della Gallia, con la migliore possibilità di collaborazione fra le autorità proconsolari e .quelle locali nel comune interesse, per la più solida garanzia per il buon diritto degli indigeni.

Ogni regione che avesse suo centro commerciale nel capoluogo principale o secondario, era organizzata in “conventus iuridicus”, costituito dai nobili, notabili e giudici della regione, e nelle colonie o quasi colonie dove l'elemento romano si era in gran parte sostituito al precedente, “in conventus civium romanorum”.

Il Prefetto metodicamente perlustrava la regione e, trattenendosi per ispezione nei vari capoluoghi, vi convocava il “conventus” col quale prendeva in esame le cause, specialmente di diritto civile, secondo norme che egli aveva predefinito con un “edictum” ma che si basavano sul diritto romano, su concetti locali e sullo “ius gentium”; in particolare per la procedura, vigeva ampiamente, se non forse esclusivamente, l'istituto della “recuperatio”: ogni cittadino locale che venisse chiamato in giudizio “in ius”) da un romano.o viceversa, come pure il membro di una comunità che venisse chiamato in giudizio dal membro di un'altra, aveva il diritto di scegliersi una specie di giuria di “recuperatores” che curavano il giusto scioglimento del processo nell'interesse dell'accusato.

In seguito, cioè dal periodo degl'Imperatori Illirici in poi, e specialmente dal tempo di Costantino, il “conventus” andò acquistando sempre maggiore importanza tanto da venire a somigliare ad una specie di parlamento provinciale con diritto di presentare lagnanze e proporre migliorièal governo imperiale.

Di tali “conventus” storicamente ne conosciamo tre di giuridici (Salona, Narona, Scardona) e uno “civium romanorum” (Lissus, l'odierna Alessio), ma è supponibile che altri ancora ne esistessero in altri centri.

La decadenza dell'Impero romano bizantino portò veramente con sè un regime che andava facendosi sempre più di tipo feudale, naturalmente però soltanto nei centri, mentre la popolazione illirica ancora organata in tribù (fis), è presumibile andasse acquistando sempre maggiore autonomia fino a reggersi a sè secondo le tradizioni etniche, forse in parte modificate dalle consuetudini impiantate dai romani.

La parola tribù suona male all'orecchio e non rende bene il significato di fis che è un aggruppamento di famiglie di comune origine. Il “fis corrisponde perfettamente alla “gens” dei romani, come ben dimostra il prof. Carlo Tagliavini nella sua pregevole opera “L'Albanese di Dalmazia” (Firenze, OIski, 1937.). Siamo costretti qui all'uso della parola tribù per seguire l'abitudine ormai invalsa negli albanologi.

Le invasioni barbariche specialmente slave, d'altra parte fecero scomparire le popolazioni illiriche dalle pianure, dalle valli e dalle coste, dal nord fin sotto le Bocche di Cattaro, ed influenzarono la costituzione delle tribù illiriche immettendovi, com'è molto probabile, qualche cosa della loro costituzione che aveva già qualche affinità con essa, ma non è affatto da escludersi che anche le costituzioni slave abbiano risentito una forte influenza di quella illirica e, per mezzo suo, forse dei concetti giuridici romani.

Venezia, stabilendosi nelle regioni della costa da Cattaro a Vonizza, vi trovò le città prevalentemente latinizzate, più o meno come quelle di Dalmazia, e alcune città albanesi nell'interno, e alcuni castelli con le regioni dipendenti reggentisi a regime feudale (Bizantino, Slavo, Napoletano), sotto signori albanizzati del tutto o quasi, o addiritura albanesi.

Soltanto qui e là, nella documentazione di quest'epoca e della immediatamente precedente, affiorano vaghe notizie di tribù pastorali e guerriere che si reggono per conto proprio allo stesso modo che le compagnie di ventura della stessa epoca che in Italia costituivano vere comunità indipendenti e ambulanti le quali entravano liberamente al servizio dell'uno o dell'altro signore; così anche tali tribù, transumanti per necessità di sostentamento, sfuggivano ad ogni dominio governativo, e, avvezze ad una vita aspra e combattiva di liberi pastori, offrivano il proprio aiuto militare all'uno o all'altro governo.

Nulla ne sappiamo di preciso dal punto di vista costituzionale e giuridico, ma è molto probabile che si reggessero con uno statuto e un codice tradizionale non scritto, ancora conforme, da una parte, alla psicologia della razza, e dall'altra alla costituzione già consentita da Roma ai “conventus”.

Tali erano le tribù degli Hoti, dei Kastrati, dei Kurbini (una delle anti che di cui si ha memoria fin da epoca illirica e romana), dei Redoni.

Scomparse con l'invasione turca le cittadinanze latino-albanesi, nonchè le signorie locali, l'impervia regione montagnosa rimase presso che indipendente retaggio di tali tribù, che anzi si estesero a regioni prima appartenenti a dinastie feudali come quelle dei signori di Pulati, degli Spani, dei Dushmani, dei Dukagjini e dei Kastriota.

Si venne-così a formare una vasta provincia sotto l'alto dominio della Porta, quasi ufficialmente esente dal Kanun di Solimano il Magnifico, e reggentesi invece con un suo proprio Kanun tradizionale, conosciuto sotto il nome, ormai celebre, di “Kanun di Lek Dukagjini”. Sarebbe però molto più opportuno chiamarlo Kanun delle montagne albanesi.

In quello che esso ha di comune nelle varie tribù, tale Kanun consta specialmente di un sistema .di principi di morale civile e di diritto costituzionale, enunciati in forma più stringata ancora che non lo fossero le laconiche leggi delle XII tavole, e talmente vividi nella loro trasparente forma metaforica, da poter, gareggiare, all'effetto mnemonico, con le leggi metriche d'altri paesi.

Esso non solo potè sopravvivere ai vari tentativi di unificazione amministrativa e legale dell'Impero turco nel suo ultimo secolo di vita, per effetto dell'interessamento delle potenze europee che vi vedevano un mezzo per fomentare l'automia locale, e soprattutto per la sua corrispondenza alla psicologia del popolo; ma, anche costituitosi lo stato albanese e dotatosi di codici e di leggi, le tribù della montagna seguitarono praticamente a reggersi secondo le norme del Kanun, e, dove non era possibile, a pensare e agire secondo lo spirito del Kanun in contrasto con le leggi.

Purtroppo gli studiosi soltanto dalla fine del secolo scorso cominciarono  ad interessarsene con qualche metodo, e perciò poche notizie abbiamo che vengano a colmare le lacune di secoli interi intorno alla storia del Kanun. Una compilazione poi è ben dubbio se abbia avuto luogo ufficialmente a modo di codificazione all'epoca di Lek Dukagjini, come alcuni pensano, fidandosi del nome corrente di Kanun di Lek Dukagjini; compilazioni di privati raccoglitori se ne ebbero varie, però tutte naturalmente incomplete, non esclusa quella, più ampia di tutte, del Padre Gjecov.

Naturalmente, quando ci si trova di fronte ad una analogia fra il Kanun della montagna albanese e il diritto di un popolo ,che ebbe dei contatti con essa, sarà “sempre da dubitare se si tratti di un'analogia indipendentemente prodottasi nei due ambienti per consimile stato di cose, da consimile stadiodi cultura, in consimile forma di vita. E spesso non sarà possibile sciogliere il dubbio.

Rimane però sempre interessante studiare non solo quelle che sono certamente delle interdipendenze, ma anche quelle che sono affinità psicologiche; anzi forse, a certi effetti spirituali, queste sono più interessanti e importanti di quelle.

 

***

 

La giurisprudenza del Kanun è basata su una concezione morale tutta propria d'una stirpe, a quanto appare, nobile e altera, gelosa della propria personale dignità, indipendenza e onore - prerogative però che vengono intese non meno nel loro significato appariscente ed esterno che nel loro con tenuto sostanziale come vere e proprie virtù.

E' sorprendente l'affinità di sentire che trova con la psicologia ereditata dai padri, il giovane albanese che si ponga a studiare tra gli elaboratissimi scritti di quel più nobile portavoce dell'onestà romana che fu Cicerone, per esempio il trattato “De Officis” dove nel libro primo troviamo un bel quadro nel quale si concentra, l'ideale delle antiche virtù romane.

Cicerone dice tra l'altro che non “si possono dare, intorno ai doveri, precetti saldi, immutabili, conformi alle norme naturali se non da coloro che insegnano l'onestà sola doversi ricercare”. “A questo desiderio di saper la verità va congiunta un'intensa brama d'indipendenza, di modo che un animo ben dotato dalla natura non vuol essere sottomesso ad alcuno se non a chi dà precetti o a chi è investito di giusta .e legittima autorità: “aut docenti aut utilitatis causa iuste et legitime imperanti”. “La ragione naturale ritiene che molto maggiormente si deve osservare la bellezza, l'ordine nei detti e nei fatti, e non si debbano commettere atti indecorosi ed effeminati; che inoltre in ogni pensiero e azione nulla si deve fare e pensare obbedendo al capriccio: tum in omnibus et opinionibus et factis ne quid libidinose aut faciat aut cogitet”.

Si confronti ora questo concetto dell'onestà romana col sentimento dell'onore così vivo nell'animo d'ogni montanaro albanese, anche del più povero e del più ignoto. Certamente, per lui l'onore consiste nella considerazione e nei debiti riguardi che egli pretende secondo quanto per consuetudine gli spetta, e saprà difendere questo suo diritto sacrificandogli i beni, la famiglia e la vita. Ma se si ricerca qual sia concretamente il vero onore nel suo concetto, domandando gli chi egli reputi onorevole, senza dubbio con breve riflessione saprà rispondere ch'è degna d'onore, non meno del valoroso il cui fucile è temuto da tutti, la persona saggia e prudente, quella che non calpesta il diritto altrui, che ritiene inviolabili le promesse fatte, i patti, le tregue, la ospitalità, la protezione una volta accordata; colui che è sempre pronto a tutti i doveri verso la comunità sia nella sede del consiglio che sul campo di battaglia; colui che senza fasto inopportuno, senza stranezze e inuguaglianze di umore, mostra l'equilibrio di chi è padrone di sè stesso, ed è perciò degno di quella piena dignità e indipendenza che compete all'uomo (burrit, viro); mentre colui che vien meno a tali doveri è riputato “i shburrnuem”, direi quasi evirato, degno di portare la gonnella e di aggirarsi fra le conocchie e gli arcolai.

All'albanese, per invitarlo a qualsiasi maggiore atto di valore, a qualsiasi maggior sacrificio e rinuncia, per qualunque dei grandi valori che nella sua mentalità costituiscono l'onestà e l'onore, basterà domandare a jé burrë? es ne vir nec ne?

Quindi alla base di tutta l'etica propria del Kanun noi troviamo la Burrnija che comprende quanto sorpassa l'apparenza e la condotta puramente esterna, nonchè le disposizioni di stretta giustizia per entrare nel regno dello spirito e dell'animo illuminato.

Due virtù fondamentali troviamo fuse nella burrnija, nella concezioné virile della vita, cioè la urtija, che è l'equilibrio mentale, il sapersi comportare con prudenza, con garbo, con misura nei rapporti tra uomo e uomo e la trimnija, il coraggio, il valore ben distinto dalla temerità.

In una società sprovvista di vero governo, nelle necessità più elementari delle umane relazioni, un'importanza affatto sociale rivendica la parola data (fjala e dhânun), la promessa. Kah del shpirti del fiala - dond'esce l'anima esce la parola. Quindi nel mondo albanese la istituzione basilare della Besa che è insieme promessa, parola data, fede giurata, dove si aggiunge il concetto dell'assicurazione sull'onore e spesso anche della tregua e dell'alleanza.

Non espresso e quasi sprovvisto di proprio vocabolo (come concetto affatto elementare) è rimasto il sentimento della libertà personale secondo varie gradazioni (della donna, del giovane, dell'uomo sposato, del pater familias) ma sempre in modo tale da escludere ogni idea di schiavitù (ossia di vincolamento di un uomo al puro vantaggio di un altro senza reciprocità). Povero o ricco, servitore, garzone, pastore, operaio, padrone di casa, ogni albanese è anzitutto un uomo libero al pari di un altro albanese.

Questo perfezionamento di elevate, generose virtù civili, che come una specie di atmosfera cavalleresca s'è conservata nei rifugi della nostra montagna, forma tutto l'ideale della burrnija albanese. Così la santità della parola data, della besa albanese, istintivamente riveste ai nostri occhi quei rudi montanari della stessa aureola dei Regoli di Roma.

Per il confronto più minuto, ricorderemo come i romani, oltre allo spiccato sentimento del diritto e della giustizia, osservando che “summum ius summa iniuria”, grande importanza nella vita sociale davano alla “aequitas”, che comprendeva tutto ciò che è virtù umana all'infuori e al disopra dello stretto diritto.

Una speciale manifestazione della fedeltà, congiunta ad una certa grandezza d'animo, è la protezione che ogni albanese, povero o ricco, debole o potente, si sente onorato di accordare a chiunque gli gridi: “in mano tua” (ndore tande).

I romani ne avevano fatto una specie di istituzione, la clientela secondo la quale il patrono doveva al cliente protezione, appoggio, consiglio.

E' interessante osservare il limite entro cui si contiene tale dovere, esattamente uguale nel diritto romano e nel diritto tradizionale albanese: il rapporto tra patrono e cliente romani era sacro e andava innanzi al vincolo che stringe i parenti, i consanguinei veri e propri nonché a quello che lega gli amici; cedeva solo all'obbligo della protezione verso il pupillo e gli ospiti. Così nel Kanun l'uccisione del padre, del fratello e perfino lo sterminio di un'intera famiglia di cugini, caso gravissimo, può venir perdonata, mentre l'uccisione dell'ospite non si perdona mai.

Il concetto della fortezza romana comprendeva come è noto “et agere et pati fortia”; e tale è pure quello degli Albanesi che onorano non meno il forte ucciso che il forte uccisore; basterebbe sentire le esaltate espressioni dei compianti sul cadavere dell'ucciso “che è morto come i valorosi”.

La “gravitas” dei Quiriti che così vivamente contrastava con la “levitas” dei Greci, la venerazione per l'eredità del passato, la “constantia” che resiste alle correnti innovatrici, il culto per gli “antiqui mores”; per gli “instituta” degli avi, assumono un rilievo troppo netto nella letteratura romana e si manifestano con troppa evidenza in una serie di episodi per negare l'esistenza anche in Roma di una tendenza tenacemente conservatrice. E così tale fortissima tendenza delle vecchie tribù albanesi che si concreta nelle espressioni sacramentali con cui ogni questione si tronca “come ce ne lasciarono legge i nostri vecchi” e “a paese vecchio uso nuovo non si addice”, consentì di conservare fino ad oggi in Albania un solido diritto tradizionale, l'unico ancora esistente in Europa.

Nel primo libro della Repubblica Cicerone affermava, per bocca di Scipione, che delle tre forme di governo - monarchia, aristocrazia e democrazia - nessuna gli pareva buona per sè stessa, e che preferibile a tutte era una quarta forma costituita col moderato temperamento di tutte e tre. Questa quarta forma egli trovava appunto nell'ordinamento della repubblica romana.

E' per lo meno singolare come queste tre forme di governo si contemperino nel reggimento politico della tribù albanese, poichè troviamo il potere monarchico nel bajraktár, il potere oligarchico nel Consiglio degli anziani (pleq) e quello democratico nella “vogjlija” popolo minuto).

Re la tribù non conosce. Il bajraktar è una specie di console, ereditario e a vita, non però fornito di autorità maggiore di quella del console, nè di molte esenzioni come non ne aveva nemmeno il magistrato romano. D'altra parte, anche il capo della vogjlija, il tribuno della plebe, è ereditario senza però diventare un autocrate.

Mentre nelle città latine medioevali d'Albania possiamo riscontrare tre classi sociali (cives, proniarii, nobiles) corrispondenti alle tre classi dei plebei, dei cavalieri e dei senatori in Roma, nell'organamento della comunità montanara abbiamo la più semplice distinzione in due categorie di senatori e di plebei: la direzione degli affari e dei giudizi della tribù è affidata al consiglio degli anziani, e solo straordinariamente all'assemblea generale di tutte le famiglie. Ciò importa dunque che il senato sia un consiglio di ottimati: membri del senato sono di per sè soltanto i capi di certe famiglie che ciò hanno per diritto ereditario: le altre formano la cosidetta vogjlija (popolo minuto), a cui già accennammo.

Però oltre ai pleq (senatori) che sono oxhakut (di famiglia nobile) si possono chiamare altri per urti ossia per le loro personali doti di prudenza. I senatori, dice il Kanun, sono o i primi delle stirpi o i capi delle tribù. Senatori si chiamano anche uomini rinomati per prudenza e esperti in affari giudiziari e politici.

Interessante confrontare tutto ciò con la primitiva costituzione del Senato Romano che aveva le due note categorie di “Patres” o padri di famiglie patrizie e “conscripti” o, secondo il Mommsen, plebei aggiunti.

I senatori, e nei casi di maggiore importanza, tutti i capi di famiglia formano il massimo organo del governo delle tribù, quello che, conservatosi mirabilmente dopo tanti secoli il termine giuridico romano, a somiglianza e in continuazione del “Conventus Juridicus” romano si chiamò il Convento, Kuvênd”.

Alla presidenza di tale consiglio degli anziani albanesi sta come abbiamo detto un capo ereditario, (Duca, Giudice, Casnesio, Bano, Conte, Vojvoda, o più recentemente Bajraktár o Alfiere) con autorità non più ampia di quella che avesse il Console nella Repubblica Romana: egli ha l'autorità di convocare il Consiglio quando occorre e quando qualcuno lo richIeda, così come tale autorità aveva il magistrato romano. La convocazione, come presso i romani avveniva per mezzo d'un araldo di porta in porta in caso d'urgenza così l'araldo albanese di porta in porta nei casi più importanti deve eseguire la convocazione. Del resto come in pieno regime repubblicano romano il capo albanese ha soltanto la presidenza del consiglio, l'esecuzione .di quanto gli viene affidato, e non altro potere che quello d'un “primus inter pares”.

Naturalmente, come in Roma, così anche nelle tribù albanesi il fatto della distinzione fra senato e plebe non poteva mancare di, produrre una qualche diversità di interessi, o rivalità, o almeno una necessità di difesa e di controllo: e come a Roma ci furono i tribuni della plebe, così nella tribù albanese, e specialmente colà dove si esercita più ordinariamente l'autorità del senato cioè nei giudizi, oltre ai senatori possono intervenire i cosidetti estrasenatori (sterpleq); inoltre in qualche tribù, come per esempio in Shala, la plebe rappresentata dai suoi elementi più capaci di farsi ascoltare, cioè coloro che ordinariamente portano le armi in guerra, si è costituita in un corpo bene organizzato avente riconosciuti diritti di intercessione, di sequestro, di decisione “brevi manu”, delle questioni che gli anziani vogliono lasciar trascinarsi indefinitamente; non si può non ricordare la plebe romana che richiedeva parità di trattamento in nome dei suoi oneri e dei suoi meriti militari.

L'uguaglianza di diritti personali nell'ambito delle classi sociali in Roma, almeno in sostanza, esistette sempre, e i romani ci tenevano; l'uguaglianza fra le classi fu l'aspirazione perpetua fino a che la plebe potè aspirare al senato e al consolato.

Gli Albanesi, tutti si considerano uguali, benchè una qualche leggera differenza ci sia fra coloro che sono rodit o fisit (di buona stirpe) e quelli che non lo sono. L'aspirazione della vogjlija o plebe a pareggiare la pleqnija o senato è andata lentamente generalizzandosi.

Nella società civile della tribù albanese, a differenza della società romana, almeno tardiva, non esiste la classe sociale degli schiavi: tutti sono uomini liberi, inalienabilmente liberi, anche se reputino opportuno di prestare i propri servizi col lavoro o colle armi ad altra persona.

Fatta tale eccezione, non poche sono le analogie fra i due diritti per quanto riguarda la libertà e dignità personale; pure nel sentimento di disciplina che è caratteristico del popolo romano, questi aveva vivissimo il sentimento della libertà, quella della patria soprattutto, ma anche quella individuale, come lo dimostrano le leggi che tutelavano i diritti del cittadino romano; ricordare per esempio le Verrine di Cicerone, e il diritto penale secondo il quale le condanne ammesse erano la multa, l'esilio, la morte, ma non le battiture, e solo raramente la prigione; la stessa morte poteva essere quasi sempre evitata andando in esilio. Il romano aveva in orrore l'autorità autocratica.

L'albanese è certo individualista, ma sa attribuire valore alla gerarchia, specialmente se fondata nell'eredità e nell'urtija; ma sopratutto vuole la libertà dei suoi monti, e la libertà individuale: “krye në vedicapo per conto suo, dice egli: il suo diritto penale conosce la gioba o multa e il risarcimento dei danni, o anche l'esilio e la confisca, ma non una vera pena personale, fatta eccezione della fucilazione per certi casi disonorevoli che lo privano d'ogni dignità umana.

L'amministrazione della giustizia nella montagna albanese, conforme a principi di equità in materia civile e criminale e a norme di procedura abbastanza minutamente determinate nel Kanun, è affidata generalmente al consiglio degli anziani.

Ma qui ap.punto ci colpisce maggiormente la conservazione mirabile, dovuta allo spirito di fedeltà alle tradizioni, tutto proprio della razza, dello statuto elargito già da Roma: la “recuperatio”.

Di fatto colui che nella montagna viene citato dal suo avversario al giudizio degli anziani ha il diritto, secondo l'importanza della causa e secondo la sua qualità, di presentare una parota o corpo di garanti e testi a difesa, che avranno influenza capitale nella soluzione della vertenza. Vero è che comunemente tale termine tecnico viene messo in relazione col parallelo “porota” vigente nel vecchio diritto tradizionale slavo; ma non è improbabile, come è stato detto prima da altri studiosi, che da “recuperatio”, attraverso a una semplificazione “paratio”, siano derivati entrambi i termini, sia l'albanese che lo slavo.

Scendendo ora ai particolari, quanto ai testimoni, nel diritto romano antico come consiglio, e nel diritto costantiniano come disposizione imperativa, vigeva il principio che “testis unus testis nullus”; analogamente la parota o corpo dei testi del diritto albanese richiede appunto una pluralità di testi, il più delle volte fino a 12 o 24, perchè, spiega il Kanun, di tutta quella gente, se non il primo, almeno il secondo e il terzo saprà qualche cosa e non vorrà vendere l'anima sua con un giuramento falso.

Altra analogia troviamo nel deferire il giuramento: all'epoca delle “legis actiones” l'una parte poteva, in prova dei fatti da essa allegati, rimettersi alla coscienza dell'altra parte, deferendole il giuramento sulla verità di quei fatti: soccombeva l'avversario se ricusava di prestare il giuramento deferitogli; così pure secondo il Kanun, se l'accusato non confessa, il padrone della cosa rubata o la parte civile, ha diritto di costringerlo al giuramento: o giurare che non se ne sa nulla, o restituire quanto si deve, o presentare il colpevole.

Venendo ora alla descrizione della famiglia e dei vari diritti di essa sia in casa che fuori, ricorderemo che nella famiglia romana il “Pater familias” era il solo supremo regolatore, il solo giudice delle colpe commesse dai sotto 23 posti alla “patria potestas”; aveva un illimitato diritto di correggere e punire i figli (ius vitae et necis). Ciò fino allo scorcio del governo consolare.

Come il padre era l'assoluto signore della famiglia, così egli era l'unico ed assoluto padrone del patrimonio famigliare. Tutto quello che il figlio, posto sotto la patria potestà, acquistava, sia per incarico del padre, sia a sua insaputa, apparteneva al capo della famiglia; il figlio non poteva, meno in casi eccezionali, agire in giudizio in proprio nome.

Analogamente, secondo il Kanun, il padre ha diritto sulla vita dei figli; egli batte, lega, imprigiona e uccide suo figlio e sua figlia, il Kanun non gliene domanda ragione; ha diritto di mandare il figlio a servizio quando vuole; può castigare quelli di famiglia lasciandoli a digiuno, togliendo loro le armi per una o due settimane, legandoli o imprigionandoli in casa, o cacciandoli; egli ha diritto sui guadagni di quei di casa, siano paghe o regali; ha diritto di acquistare, alienare, permutare qualsiasi parte del patrimonio, mentre quei di casa non possono vendere, comprare, permutare cosa alcuna.

Solo chi era pater familias” godeva in Roma i pieni diritti civili e politici. E nel Kanun spetta al padrone o anziano di casa prendere parte alla vita della tribù; egli vi rappresenta la famiglia con tutti i diritti e i doveri.

Il giovinetto non ancora in grado di portare le armi, il giovane; diremmo così, armato cavaliere con la consegna del fucile, l'uomo già sposato ma ancora convivente in seno alla famiglia patriarcale sotto l'autorità del nonno, del padre o del fratello maggiore, hanno dei diritti civili minutamente determinati e partecipano secondo una certa gradazione alla vita politica. Però colui solo ha la pienezza dei diritti civili e sopratutto politici che è vero “pater familias” secondo il concetto romano, come pure secondo il concetto romano non l'individuo ma la famiglia è la cellula della società politica..

La donna in Roma non poteva aver mai la “patria potestas” ed era quindi esclusa nel diritto più antico dell'esercizio di tutti i pubblici uffici. Così pure nel Kanun la donna non è ammessa come senatore, accusatore, testimone, membro dell'assemblea generale, erede.

Oltre alla moglie e ai figli sotto l’autorità del “pater familias” romano c'erano anche gli “agnati”, cioè i discendenti in linea maschile (e gli adottati) dal comune padre o nonno. La costituzione della famiglia patriarcale albanese col vecchio padrone della casa si estende analogamente a tutti coloro che come membri della famiglia convivono ancora intorno a un solo focolare.

Alla morte del titolare d'un patrimonio famigliare romano, tutto il patrimonio permaneva e passava in blocco a una o più persone che si dicevano eredi. Morendo il capo della famiglia, nella società primitiva, il gruppo della famiglia forse non si scioglieva ma restava unito sotto un altro capo che era il più immediato discendente del “pater” o una persona diversa ma designata da lui. Così pure nella famiglia montanara albanese ordinariamente alla morte del padre o avo, continua la convivenza e il patrimonio rimane uno; al primogenito spetta il governo della casa dopo la morte del padre, e deve essere interrogato in ogni questione in casa e fuori.

All'erede romano passava non solo l'attivo ma anche il passivo. E secondo il Kanun, se colui che muore senza figli, lascia dei debiti, questi vanno pagati detraendone la somma dalle sue eventuali disposizioni testamentarie, e ciò a cura dei cugini (agnati).

Dall'eredità in Roma erano esclusi i discendenti in linea femminile; così pure il Kanun albanese vuole che l'eredità spetti al nipote del tronco ossia del sangue e non al nipote del latte ossia per via di figliuole.

Presso i Romani in mancanza di agnati (parenti per linea maschile) erano chiamati alla eredità legittima i gentili ossia quella della stessa “gens” o fis, benchè tale disposizione sia presto caduta in disuso. Nella montagna albanese se la casa rimane senza discendenti maschi, il cugino più prossimo prende il dominio del patrimonio. Se il patrimonio vacante non ha cugini in cui ricadere, la stirpe e la tribù, anche solo per ragioni di parentela nel centesimo grado, ha diritto sul terreno e altri fondi del patrimonio.

Queste sono le interdipendenze o meglio le analogie brevemente accennate fra il codice delle montagne albanesi e il diritto romano. Certo esiste una affinità nella concezione generale dei diritti e dei doveri, ed è stata questa affinità che ha spinto gli Albanesi a legarsi fraternamente a Roma.

 

 

 

 



 

[1] La nascita dello Stato autonomo di Albania deve farsi risalire alla proclamazione di indipendenza sotto la spinta di Ismail Kemal Bey a Vlorë, il quale, dopo lotte sanguinose aveva ottenuto l’accoglimento delle richieste albanesi da parte della Turchia il 4 settembre del 1912. Di modo che il 28 novembre dello stesso anno 83 delegati delle componenti cristiane e musulmane poterono dichiarare la nascita della repubblica indipendente di Albania, dopo 500 anni di dominio turco.

 

[2] V. ernesto koliqi, Il diritto albanese del kanun e il diritto romano - Lezione tenuta presso il Reale Istituto di Studi Romani in Roma il 27 marzo 1942, in Studime e TeksteStudi e testi, Dega I – Serie I, Juridike, N. 1 – Giuridica N. 1, pubbl. dell’ Istituti I Studimevet Shqiptare, 1943, pp. 1-27. Data la particolarità del testo e le indicazioni in esso contenute, di là dalla retorica fascista e dalla polica antiserba, mi è parso opportuno riprodurlo nella sua integrità, in calce dedicandogli un’apposita appendice.

 

[3] Vorrei ricordare che il Sud dell’Albania ed in particolare l’Epiro hanno subito una forte influenza del diritto bizantino e che esso si è diffuso attraverso la forse modesta ma certamente diffusa sintesi fatta da Costantin Harménopoulos nell’ Hexabiblos.

 

[4] Il punto è messo bene in evidenza dal Koliqi, loc. cit.

 

[5] Sembrerebbe di scorgervi la proiezione del pensiero dei giuristi romani i quali a piú riprese affermarono che il matrimonio precoce avrebbe conseguito il riconoscimento giuridico solo dopo la pubertà: cfr. D. 36.2.30:  Lab. 3 post. a Iav. epit: quod pupillae legatum est “quandoque nupserit”, si ea minor quam  viripotens nupserit, non ante ei legatum debebitur, quam viripotens esse coeperit, quia non potest videri nupta, quae virum pati non potest. D. 23, 2, 4: Pomp. 3 ad Sab.: Minorem annis duodecim nuptam tunc legitimam uxorem fore, cum apud virum explesset duodecim annos. IJ. 1.10 pr.: Iustas autem nuptias inter se cives romani contrahunt, qui secundum praecepta legum coeunt, masculi quidem puberes, feminae autem viripotentes

 

[6] Le fonti principali di questo codice erano i codici dell’Europa continentale, tra i quali assumevano rilievo particolare il Code Civil di Napoleone, il Codice civile italiano del 1865 ed il Codice svizzero.

 

* Lezione tenuta presso il Reale Istituto di Studi Romani in Roma il 27 marzo 1942, pubblicata a cura dell’Istituti I Studimevet Shqiptare, in Studime e TeksteStudi e testi, Dega I – Serie I, Juridike, N. 1 – Giuridica N. 1, 1943, pp. 1-27.