N. 3 – Maggio 2004 – Memorie

 

 

Barbara Caruso

Università di Messina

 

 

 

 

COSTITUZIONE E POTERE COSTITUENTE IN CARL J. FRIEDRICH

 

 

 

 

 

 

 

 

Sommario: 1. Premessa. – 2. Brevi accenni al metodo: una premessa necessaria. – 3. La definizione di costituzione come processo politico. – 4. I limiti sostanziali della costituzione: la costituzione reale. – 5. Il potere di emendamento costituzionale e l’accordo sui principi fondamentali. – 6. Lo snodo fondamentale: il potere costituente come sostituto operativo del concetto di sovranità. – 7. Conclusioni.

 

 

 

1. – Premessa

 

L'idea di costituzione e di potere costituente rappresentano due aspetti fondamentali del pensiero politico di Carl Joachim Friedrich[1]. Teorico del costituzionalismo moderno, studioso dei processi istituzionali, inventore della formula del c.d. “federalizing process”, Friedrich si avvicina, fin dalle sue prime opere, allo studio ed alla definizione dei concetti politici: l'approccio, critico nei confronti delle teorie del diritto naturale e del formalismo giuridico, è sostanzialmente volto ad evidenziare il carattere dinamico dei processi politici e a coglierne i dati qualificanti.

Il suo interesse verso gli elementi del costituzionalismo è di conseguenza determinato non dal loro proporsi come fatti normativi o ipotesi speculative, ma dalla loro natura essenzialmente politica. In questa prospettiva, essi sono concepiti quali momenti peculiari di un fenomeno più ampio, rappresentato dal processo di costituzionalizzazione di una comunità, vale a dire dal suo organizzarsi in società politica.

Se questa è la chiave di lettura principale della tematizzazione friedrichiana e se, d'altro canto, si vuole mantenere valido l'assunto che costituzione e potere costituente rappresentino il momento di passaggio nel quale si realizza il raccordo fondamentale tra la dimensione politica e la dimensione giuridica del diritto[2], emerge, allora, in tutta evidenza, la non casualità della scelta di tale autore in un contesto nel quale s'intende riflettere sulle possibili ridefinizioni delle forme d’organizzazione della società politica: ogni teorizzazione a questo riguardo non dovrebbe prescindere dall'analisi e dalla ricerca sulla natura e sul significato concreto che tali concetti assumono in un dato momento storico e che rappresentano, pertanto, l'irrinunciabile punto di partenza e il fondamento da indagare per capire ed interpretare le ragioni e le dinamiche delle relazioni esistenti tra governanti e governati.

Gli appunti che seguono intendono esporre gli argomenti che qualificano la teoria di Friedrich alla luce dei risultati cui egli perviene sulla base di un processo di riconcettualizzazione delle definizioni di costituzione e di potere costituente. Tale indagine, al di là della neutralità del puro interesse scientifico, si presenta invero ricca di suggestioni perché, nello specifico del pensiero politico dell'autore, costituzione, potere costituente e gruppo costituente non soltanto rappresentano i concetti fondanti la comunità politica, ma, allo stesso tempo e secondo suo esplicito intento, sono interpretati in modo tale da creare i presupposti per una teoria alternativa alle dottrine dello Stato e della sovranità. Teoria che, nel processo federativo - il c.d. “federalizing process” - inteso come principio di organizzazione politica delle comunità, trova la sua formulazione definitiva.

 

 

2. – Brevi accenni al metodo: una premessa necessaria

 

L'approccio metodologico costituisce la premessa indispensabile per intendere le coordinate della teoria oggetto di studio. Il contesto nel quale Friedrich inquadra i fenomeni politici è essenzialmente dinamico: i modi di organizzazione di una comunità come i valori e i principi di riferimento non sono espressioni statiche, ma variano con il mutare e l'evolversi dei tempi. Non può esistere in quest’ambito un principio, una legge certa, verificata e verificabile, che possa aiutare lo studioso nell'indagine. Le variabili dell'equazione sono tali da impedire una loro classificazione in termini quantitativi. Il problema è dato dal fatto che i dati della politica sono diretta espressione ed evolvono all'evolversi della comunità, che a sua volta interagisce costantemente in termini diacronici e sincronici con la realtà che la circonda. Ne segue che l'analisi dei processi, se considerati in termini fissi ed astratti, porta a risultati ogni volta diversi a seconda delle condizioni e dei presupposti storici, politici, economici e culturali esistenti nella comunità nella quale essi hanno origine.

L'incertezza del risultato induce Friedrich a concentrarsi sull'analisi del processo e sulle variabili che ne condizionano l'evoluzione. E', infatti, l'azione politica, la politica nel suo costante divenire che deve essere oggetto di studio e non il risultato più o meno stabile, ordinato o duraturo cui l'azione politica dà luogo[3]. Nel movimento è, dunque, la sostanza dei fenomeni politici.

Ogni atto politico è, tuttavia, orientato al raggiungimento di uno scopo determinato. In polemica con la Wertfreiheit di Weber e di Pareto, per Friedrich sono i valori che muovono gli individui a porre in essere una determinata azione piuttosto che un’altra. Essi tuttavia vanno concepiti come “fatti” e, in quanto tali, valutati alla stregua di tutti gli altri dati oggetto d’analisi da parte delle scienze sociali[4].

I valori che la scienza politica prende in considerazione, tuttavia, non sono né i valori strumentali dei relativisti, né i valori intrinseci dei dogmatici: quelli che effettivamente rilevano ai fini dell'indagine del Nostro sono soltanto quei valori che hanno un’object-like existence, un’esistenza oggettivata. In altre parole, si tratta di quella serie di motivazioni che, concretamente, hanno determinato il verificarsi di determinati fatti e sono diventati operativi nelle scelte poste in essere dagli individui all'interno della comunità. I dati di fatto della politica, dunque, si fondano tanto sull'esperienza interiore quanto su quella esteriore e soltanto un concetto d’esperienza che li richiami entrambi può avere validità per la scienza[5].

La questione dei valori gioca un ruolo di estrema importanza all’interno dell’impostazione speculativa di Friedrich. Essa spiega, in primo luogo, il ridimensionamento che l’autore opera rispetto alla trasformazione dei principi ideali in obiettivi politici. Tale ridimensionamento dipende dal fatto che, conformemente all'assunto, gli obiettivi dell'azione politica sono strettamente collegati al sistema di credenze esistente in una data comunità. Il “pareggiamento” - per usare l'espressione di Sartori - tra valore reale e valore ideale nella realtà esistenziale, consente a Friedrich di mantenere l'orientamento ai valori dell'agire politico, evitando, al tempo stesso, che il suo contenuto ideale si cristallizzi in dogmi assoluti, eterni, immutabili. Ogni atto politico è orientato al raggiungimento di uno scopo determinato. Ora, ogni scopo contiene in sé un valore in quanto presuppone la scelta di realizzare un obiettivo piuttosto che un altro. Qual è, allora, il ruolo che gli obiettivi occupano in un tale contesto? La giustizia, l’uguaglianza, la libertà sono certamente fini cui dovrebbe tendere ogni azione politica. La realizzazione di tali valori, la loro realtà esistenziale tuttavia, è strettamente connessa all’ambiente storico-organizzativo della comunità e, dunque, essi non possono valere come immutabili. In altri termini, non sempre gli obiettivi di una determinata società politica corrispondono ai principi generali ed astratti ai quali si sostiene che l'azione politica debba necessariamente orientarsi: la giustizia di un atto, la legittimità dell'azione politica sono termini che vanno analizzati, per Friedrich, in relazione al soggetto che è chiamato ad esprimere tali giudizi di valore, vale a dire la comunità politica, in quanto sono soltanto i suoi «particolari valori, convinzioni e scopi [che esprimono] il contesto all'interno del quale gli obiettivi generali e i compiti dello Stato possono essere realizzati»[6]. Ora, non solo tali credenze e convinzioni mutano con il passare del tempo, ma gli individui stessi che compongono la società in una determinata epoca storica sono portatori di valori diversi tra loro, talvolta perfino contrastanti: «Non esiste nessun ordine di grado, nessuna chiara gerarchia dei valori. L’uomo organizzato in una comunità politica rifiuta di decidersi. Egli preferisce (…) perseguire allo stesso tempo una molteplicità di scopi, alcuni dei quali possono essere tanto in contrasto tra loro da elidersi reciprocamente in termini logici. Anche l’uomo politico adegua l’ordine della gradazione dei suoi valori alla situazione che muta (...). Il razionalista politico può lamentarsi di questo, ma egli dovrà ammettere che l’uomo è evidentemente disposto a vivere con una molteplicità di obiettivi e di scopi. (…). Ciò significa, nello stesso tempo, che non è possibile formare una lista di priorità valida sempre e ovunque»[7].

Tale “oggettivizzazione” dei valori, tuttavia, non porta necessariamente alla negazione di un piano deontologico di riferimento. Ad esso, certamente, appartiene la natura “ideale” del valore, che si riferisce sostanzialmente alla dimensione etica della comunità, ma non necessariamente a quella politica: «il valore [la sua natura ideale] è una particolare dimensione dell’essere: vale a dire la dimensione del “dover essere”. Questo “dover essere” può o non può essere realizzato; molto spesso nelle norme etiche e giuridiche esso non è realizzato. Ma questa mancanza di realizzazione non inerisce al valore o alla norma. (…) La norma “non uccidere” implica che “la vita è un valore”, che “la vita dovrebbe esserci”. Essa resta un valore tanto se nessuno è ucciso e la norma è, quindi, completamente realizzata, quanto se molti sono uccisi»[8].

Ora, quanto più tali principi si inverano nella cultura e nelle convinzioni profonde di una società, tanto più questa sarà in grado di condizionare i procedimenti politici . La relazione, sebbene fondamentale, resta in ogni caso indiretta e il severo giudizio di Friedrich nei confronti del positivismo giuridico[9] non da ultimo deve essere interpretato come una sostanziale critica per aver reso ancora più evanescente il rapporto tra dimensione etica, dimensione politica e dimensione giuridica della vita della comunità. Attraverso la traduzione dei principi ideali nel sistema di credenze esistente in una comunità in un tempo dato, infatti, egli riesce a mantenere la dimensione del valore nell’ambito politico, senza che quest’ultimo venga riassorbito dal primo, perché scopo dell'azione politica è e resta il soddisfacimento delle esigenze e delle credenze di una comunità e non la diretta realizzazione delle proposizioni etico-religiose che ne sono all’origine. Stabilita, in tal modo, la necessaria relazione, Friedrich esclude ogni possibilità di sopraffazione della dimensione etica su quella politica e, dunque, di “sostituzione” degli obiettivi politici con proposizioni esprimenti verità assolute, principi astratti ed immutabili.

Una volta resa autonoma la sfera politica da quella etica, egli prosegue nell’affermare la sostanziale autonomia della politica anche nei riguardi della dimensione giuridica della comunità e affronta il problema con gli stessi criteri distintivi d’analisi[10]. Il processo di “cristallizzazione” dei concetti giuridici, infatti, l'imporsi progressivo della norma non più come regola volta a stabilire un ordine per la realizzazione di determinati obiettivi, ma essa stessa come principio e fine di una logica autoproducentesi, hanno avuto come conseguenza la dogmatizzazione della dimensione giuridica. Uno dei paradossi più evidenti di tale trasformazione è stata l'identificazione del concetto di legittimità con quello di legalità[11]. Lungi dal costituire un veicolo d’integrazione, la norma così intesa ha contribuito al progressivo allontanamento della regola giuridica dalla realtà storica esistente in un contesto dato. Ciò ha comportato la sostanziale alterazione della natura della dinamica formativa dei processi politici e la loro distrazione dall'obbiettivo originario volto al soddisfacimento delle esigenze della comunità[12]. L'assolutizzazione dei concetti in politica, il verificarsi di un distacco formale quanto sostanziale dei procedimenti politici dalla cultura e dai concreti bisogni di una comunità comporta, in ultima analisi, una perversione dell'atto politico, in quanto esso perde la sua originaria natura operativa per diventare affermazione di verità assiomatiche. Esemplari a questo riguardo sono le riflessioni di Friedrich quando, con l’incarico di consigliere per gli affari costituzionali del Governo Militare d’occupazione statunitense in Germania alla fine della II Guerra Mondiale, in un rapporto sul progetto di costituzione elaborato dalla SED (Sozialistische Einheitspartei Deutschlands) per la Germania, riferisce del colloquio con Otto Grotewohl, rispetto alle obbiezioni sollevate riguardo alla mancata previsione, nel documento, di un organo ad hoc, diverso dal parlamento, per il controllo di costituzionalità delle leggi e per la garanzia dei diritti fondamentali. La risposta del rappresentante della SED che non occorreva, in realtà, preoccuparsi della garanzia dei diritti fondamentali perché, nel momento in cui veniva affermata in Costituzione la completa sovranità popolare, nessuno avrebbe potuto garantire i diritti del popolo meglio del popolo stesso attraverso il potere legislativo, sintetizza in una battuta ciò che Friedrich intende dimostrare come conseguenza del processo di assolutizzazione normativa dei concetti e dei processi politici[13].

 

 

3. – La definizione di costituzione come processo politico

 

Muovendo da tale prospettiva, è evidente come il costituzionalismo, il processo di costituzionalizzazione della comunità politica rappresenti il punto di riferimento fondamentale dell'intera teoria. Cos’è, dunque, una costituzione? Dopo aver passato in rassegna i diversi significati ad essa generalmente attribuiti[14], Friedrich perviene ad una definizione di costituzione in senso funzionale[15], intesa quale insieme organizzato di limitazioni concrete ed efficaci poste all’esercizio del potere da parte del governo e dei gruppi esistenti nella società[16].

Le ragioni dell'adozione del concetto funzionale di costituzione - ritenuto peraltro dall'autore il solo politicamente valido - discendono da una serie di considerazioni. In primo luogo, esso apre immediatamente ad una dimensione dinamica che tiene conto, in linea con quanto precedentemente affermato, della molteplicità delle variabili che intervengono nel processo di organizzazione politica di una società[17]. Friedrich non cerca un concetto incontrovertibile, statico al quale collegare le norme costituzionali, ma lascia che la definizione descriva il movimento in modo tale che il fine si riassuma nel suo significato operativo. Ne segue che il carattere di costituzionalità di un regime politico si risolve, in ultima analisi, in una semplice questione di grado. In altre parole, la contrapposizione non è tra governi costituzionali e governi incostituzionali ovvero, nel senso formale del termine, tra governi che possiedono una carta o più leggi che costituiscono  un documento costituzionale, bensì tra governi più o meno costituzionali. Il grado di costituzionalità, invero, dipende dall’effettività dei vincoli posti all’esercizio del potere e va, dunque, individuato all’interno di due estremi teorici costituiti rispettivamente dall’assenza di un qualsiasi limite e, per converso, dalla presenza di limiti perfettamente efficaci all’esercizio del potere.

Un’ulteriore conseguenza dell’adozione del concetto funzionale di costituzione è data dalla concreta possibilità di verificare la costituzionalità di un governo, indipendentemente dall'esistenza di un documento scritto. La definizione di costituzione come processo politico significa, in concreto, poterne verificare l'effettiva vigenza, poiché soltanto laddove i limiti al potere sono realmente operanti, si può affermare di essere in presenza di un governo costituzionale. Si rende, in tal modo, possibile l’applicazione di un criterio di verifica di tipo esistenziale: se, infatti, in una determinata comunità politica nessuno - organo o individuo che sia - detiene un potere assoluto, se nella realtà effettiva non esiste alcun sovrano in grado di esercitare un potere illimitato, soltanto allora le restrizioni potranno considerarsi realmente efficaci e, di conseguenza, il tipo di governo sarà costituzionale[18].

L’applicazione, in termini diacronici, di tale criterio consente all’autore di rivisitare l’evoluzione del costituzionalismo come storia della dialettica tra classi dominanti e classi emergenti all’interno della società per l’affermazione di limitazioni efficaci, al fine di impedire l’abuso di potere da parte di ciascuna delle parti in conflitto. Le conseguenze di una tale interpretazione sono essenzialmente due: se, infatti, nella definizione del costituzionalismo non si «guarda tanto a chi deve governare, ma a come si deve governare» ovvero si tende ad identificarlo - secondo la definizione di Matteucci - come la «tecnica giuridica delle libertà»[19], allora non esiste una vera e propria frattura fra costituzionalismo antico e moderno e, dunque, la possibilità di determinare storicamente un’eventuale data d’inizio dell’epoca costituzionale. D’altra parte, non pare ugualmente lecito asserire che, dal diciottesimo secolo in poi, l’umanità abbia vissuto e continui a vivere in un periodo d’ininterrotto costituzionalismo, come l’avvento dei regimi totalitari hanno ampiamente dimostrato. L’equilibrio dei poteri tra le classi all'interno di una società è, infatti, per sua stessa natura instabile: se dalla sua esistenza dipende l’efficacia dei limiti, è chiaro che ogni qual volta tale equilibrio si rompe, insieme ai vincoli del potere verrà meno anche il carattere costituzionale del governo[20].

E’ evidente la diretta filiazione delle teorie di Friedrich da quelle del suo antico maestro Charles McIlwain. Al senso della continuità storica ed alla consapevolezza della stretta connessione esistente tra eventi e idee politiche tuttavia, il discepolo aggiunge le suggestioni derivanti dall’elaborazione di quei principi che hanno caratterizzato il costituzionalismo moderno e contemporaneo: la teoria della separazione dei poteri, articolata nelle due dimensioni funzionale e territoriale e della rappresentanza politica, sebbene quest’ultima non sia assimilabile né tanto meno riferibile, come vedremo, all’idea di sovranità.

 

 

4. – I limiti sostanziali della costituzione: la costituzione reale

 

Ciò che rende reale la costituzione è, dunque, l'effettività dei limiti in essa contenuti. Essenzialmente due sono le tipologie enucleate: i limiti procedurali e i limiti sostanziali. I primi sono l’esplicitazione del principio della separazione dei poteri. Essi sono posti a tutela e a salvaguardia degli ambiti di competenza delle singole istituzioni. Ciò che, tuttavia, rende la costituzione una forza politica, cioè tale da porsi come il parametro di valutazione esistenziale per giudicare del grado di costituzionalità di un governo dato, sono i suoi limiti sostanziali che «esprimono il modo di vivere di un popolo»[21]: essi hanno la funzione di garantire quelli che sono i diritti avvertiti come fondamentali dai membri della comunità politica e che, in genere, si esprimono in forma di statuizioni e dichiarazioni di principio contenute nei preamboli delle carte fondamentali, le quali rappresentano e sintetizzano, a loro volta, la costituzione materiale della società. I limiti sostanziali determinano, dunque, la forza politica di una costituzione ponendosi, a tutti gli effetti, quali parametri di valutazione esistenziale per giudicare del grado di costituzionalità di un governo. In altri termini, essi verificano della conformità, all'interno di una comunità politica, della natura e dei modi di esercizio del potere con ciò che vi è di comune in fatto di valori, credenze, interessi e la cui violazione da parte del legislatore legittimo sarebbe impensabile.

L'ancoraggio dei diritti fondamentali alle convinzioni profonde esistenti tra i membri di una comunità, la negazione di un loro fondamento metapolitico[22], rappresenta un passaggio fondamentale nel pensiero costituzionale di Friedrich. A suo avviso, infatti, i diritti fondamentali degli individui non sono assimilabili a quelli che generalmente la dottrina indica come diritti naturali. I diritti naturali sono stati considerati, nella storia del pensiero politico, come diritti inalienabili, intangibili ed immutabili dell’individuo: il loro fondamento risiede nell’etica cristiana e la loro natura è sostanzialmente “difensiva” in quanto esistenti contro, come limite al governo costituito. L’evoluzione successiva e la sempre maggiore accentuazione delle libertà civili - prosegue - ha dimostrato quanto alla libertà intesa come indipendenza si sia andata affiancando, superandola e trasformandola, la libertà intesa come partecipazione degli individui alla gestione della cosa pubblica. In tempi recenti, poi, si è andato affermando un nuovo concetto di libertà che può realizzarsi soltanto attraverso il governo, «ossia di libertà che gli uomini possono ottenere soltanto attraverso il governo»[23]. Si tratta della libertà dal bisogno e dalla paura. Essa implica un’azione che, tramite il governo, è rivolta alla realizzazione della libertà più importante e che, di fatto, riassume tutte le altre: il riconoscimento dell’intrinseca dignità dell’uomo e il conseguente diritto di esprimere pienamente le sue potenzialità. Ora, queste che Friedrich chiama le dimensioni della libertà, insieme al fatto che i contenuti di tali diritti e di tali libertà continuino a non essere riconosciuti, sia per numero sia per intensità, in tutte le carte dei diritti oggi esistenti, dimostrano quanto possa «essere arduo affermare che i diritti esistono indipendentemente dal loro riconoscimento da parte di coloro che ne beneficiano. Ma io sono portato a sostenere - conclude - che essi esistono, non in modo assoluto, ma da un punto di vista politico»[24].

A prescindere dal fatto che essi possano trovare un giustificazione trascendente nella dimensione etico-religiosa della comunità, ciò che rileva a livello politico è il loro riconoscimento in termini costituzionali, la loro traduzione in limitazioni efficaci all’esercizio del potere. Se, infatti, la costituzione rappresenta il momento culminante del processo di organizzazione del potere, questo deve necessariamente preesistere ai diritti e al loro riconoscimento come fondamentali[25]. Né, d’altra parte, tali diritti sono il risultato di un processo di autolimitazione dello Stato, come vorrebbero i sostenitori dello Stato di diritto[26]: il fatto che essi formino il contenuto di norme positivamente date non garantisce necessariamente l’effettività dei limiti che abbiamo visto essere il carattere qualificante di un governo costituzionale.

I diritti fondamentali sono, dunque, per Friedrich diritti essenzialmente politici[27] proprio per il fatto che essi sono riconosciuti come tali dalla comunità che ha inteso proteggerli da ogni potere. Essi esprimono le convinzioni profonde, i valori essenziali che permeano la società in un determinato momento storico e senza il rispetto dei quali nessun governo potrebbe legittimamente governare. Come abbiamo già avuto modo di dire, Friedrich non esclude per questo l'esistenza di un piano deontologico di riferimento, ma esso riguarda soltanto indirettamente la dimensione politica della comunità. L'effettività di un diritto non dipende né dalla morale, né dalla norma, ma dal grado d’importanza ad esso attribuito da parte dei membri della comunità e s’inserisce in quella che si potrebbe definire la dimensione, dai confini incerti, che divide l’essere dal dover essere. Quanto più profonda sarà la convinzione rispetto all’irrinunciabilità di un diritto da parte della comunità, tanto maggiore sarà l’efficacia dei limiti presenti nella costituzione e dunque la sua forza politica. Le Carte dei diritti sono, allora, il riconoscimento formale della costituzione reale di una determinata società.

La prospettiva adottata permette a Friedrich di collegare direttamente il rispetto e la tutela di tali diritti alla forza politica che la costituzione realmente possiede, e quest’ultima al grado di consenso espresso dalla comunità. Dimensione giuridica e dimensione politica della costituzione si fondono in un unico processo, laddove la costituzione materiale contenuta nelle carte dei diritti diventa un fatto reale e non rimane a livello d’astratta dichiarazione di principio.

 

 

5. – Il potere di emendamento costituzionale e l’accordo sui principi fondamentali

 

L’amending power - il potere del popolo di emendare la costituzione secondo procedure stabilite[28] - rappresenta la chiave di volta dell'intero sistema. Il mantenimento di un governo costituzionale dipende dalla capacità di adattamento della costituzione alle mutevoli condizioni della società politica: soltanto in questo modo, infatti, non viene meno, col tempo, quell’armonia tra principio e realtà politica tanto necessaria all’effettiva vigenza delle norme costituzionali. Pur optando per un modello rigido di costituzione[29], Friedrich distingue all’interno della carta fondamentale le parti concernenti i principi di organizzazione e quelle che invece tendono a delineare la fisionomia della comunità politica: «E' chiaramente irragionevole collocare una disposizione come quella che la Germania è una repubblica, o che tutto il potere emana dal popolo (art. 1), allo stesso livello della disposizione che tutti i bambini che si diplomano alla scuola normale riceveranno una copia della costituzione (art. 148). (…) La tecnica più semplice per far fronte alla difficoltà sembrerebbe essere una disposizione per cui parti dello stesso documento costituzionale possano essere emendate con metodi differenti»[30].

Perché la previsione di gradi di rigidità diversi? Perché sono essenzialmente due le finalità del potere di emendamento: da un lato, consentire alla carta costituzionale, tramite le necessarie modifiche, di adattarsi quanto più speditamente possibile ai cambiamenti che si verificano all’interno della comunità; dall’altro, garantire e difendere i principi che ne stanno a fondamento da possibili sovvertimenti con la previsione di una particolare procedura di attivazione. Un procedimento di emendamento costituzionale estremamente flessibile, infatti, comporta - come vedremo tra breve trattando della rivoluzione - una serie di conseguenze particolarmente negative per la sopravvivenza di un ordinamento costituzionale: in primo luogo, non garantisce la costituzione dagli attacchi di coloro che intendono distruggere qualsiasi sistema di limitazione del potere; in secondo luogo, esso non ostacola il verificarsi di quel complesso di circostanze che conducono al sovvertimento del governo legittimo. Infine, è da considerare il fatto che l’esclusiva titolarità del potere di emendamento in capo ad un solo organo, l’assemblea legislativa, favorisce, in ultima analisi, l’«applicazione della violenza, nello sforzo di costringere tale corpo ad esercitare il potere di emendamento per la distruzione della costituzione». Per queste ragioni è necessario limitare e disciplinare tale potere: la previsione di un diverso grado di rigidità rispetto al contenuto delle norme esistenti all’interno della carta fondamentale rappresenta una possibile tecnica, ma - aggiunge Friedrich - non è la sola. Le conseguenze negative appena elencate, infatti, gli consentono di elaborare anche una «massima politica pratica», per la quale il potere di emendamento dovrebbe essere diffuso ed attribuito ad organi diversi in «località separate»[31].

La facoltà di emendamento tende a colmare l’eventuale divario tra costituzione formale e costituzione reale causato dall’evoluzione politica della comunità. Essa, tuttavia, agisce efficacemente fintantoché vi sia accordo sui principi fondamentali che presiedono l'organizzazione politica di quella data società e, dunque, fino a quando il governo eserciti il suo potere nei termini e nei limiti costituzionalmente sanciti. Ciò che Friedrich intende con accordo sui principi fondamentali non riguarda né uniformità di opinioni, né parità di condizioni economiche, né tantomeno comunanza di origini culturali e religiose. A tale proposito egli porta l'esempio della democrazia elvetica e dell'esperienza statunitense, realtà nelle quali il costituzionalismo è prosperato a dispetto di qualsiasi divisione culturale, linguistica, religiosa ed economica. In realtà, spiega, l'accordo in una democrazia, deve riguardare gli elementi del costituzionalismo e, dunque, le convinzioni essenziali rispetto alle regole che disciplinano l'esercizio del potere[32]. Ora, poiché tutte le costituzioni dichiarano e, in genere, proteggono le fondamentali libertà degli individui - in special modo la libertà di espressione – si può affermare, sintetizzando in una formula, che l’accordo sui principi fondamentali è the agreement to disagree[33].

 

 

6. – Lo snodo fondamentale: il potere costituente come sostituto operativo del concetto di sovranità

 

La rottura dell'accordo sui principi fondamentali, o in altri termini, sulle regole del gioco, sancisce lo stato di crisi della democrazia costituzionale. Alterando le regole, il governo smette di esercitare costituzionalmente il suo potere. Esso diventa illegittimo in quanto viene meno il riconoscimento, da parte dei membri della comunità, della validità del fondamento della titolarità dell’esercizio del potere. Questo accade in quanto i suoi comandi perdono di autorità, ovvero non sono più in grado di «elaborare le opinioni, gli interessi e le necessità di una comunità»[34]. Il venire meno del consenso annulla ogni motivazione che fonda l'obbligazione politica e nessun tipo di procedura di emendamento costituzionale potrà, a questo punto, «prevenire l’emergenza rivoluzionaria del potere costituente»[35].

Si rende dunque necessaria la creazione di un nuovo ordine politico e questo sarà compito del potere residuale non organizzato di resistenza[36]. Tale è il potere costituente, «l’atto generatore iniziale», che Friedrich descrive come un potere permanente all'interno della comunità, che agisce in modo intermittente nei procedimenti di emendamento costituzionale, ma che esplode in tutta la sua forza creativa dinanzi ad un potere arbitrario. Esso è, dunque, il potere della comunità di fare la rivoluzione[37] e di sostituire al vecchio un nuovo ordine costituzionale: «il est évident que derrière les pouvoirs qui doivent être séparés, il doit exister un autre pouvoir que est un et indivisible. C’est le pouvoir de faire la Constitution, d’établir l’ordre constituionnel et, en cas de besoin, de l’amender et de le transformer même pour lui substituer un autre»[38].

La definizione di potere costituente come forza creativa, come energia rivoluzionaria fondante un nuovo ordine costituzionale richiama, indubbiamente, la terminologia adottata da Carl Schmitt nella sua opera Verfassungslehre[39]. Ma la prospettiva e le finalità attribuite dai due autori a tale potere divergono in modo sostanziale. Per Schmitt «il popolo che non esiste come nazione è soltanto una qualunque unione di uomini affine etnicamente o culturalmente, ma che non necessariamente esiste politicamente»[40], laddove per Friedrich l’affinità etnica e culturale è condizione marginale di esistenza politica rispetto all’accordo sui principi del costituzionalismo. E ancora, mentre per Schmitt «l'atto con il quale il popolo si dà una costituzione presuppone (…) lo Stato»[41], quest’ultimo è per Friedrich una creazione giuridica incompatibile con il costituzionalismo moderno. Lo stesso problema della sovranità troverà, come vedremo, soluzioni differenti: mentre, infatti, per Schmitt «un sovrano deve esserci perché ci sia effettualmente una forma giuridica»[42], Friedrich farà del potere costituente il sostituto operativo del concetto di sovranità.

Per il Nostro, infatti, il potere costituente non si riassume nella decisione fondamentale, non è espressione di una volontà libera ed immediata, ma è vincolato ad un progetto e condizionato dall’esistenza di un consenso reale. L’emergenza rivoluzionaria, infatti, non sempre attiva il potere costituente: le rivoluzioni politiche possono anche non avere come scopo la creazione di un nuovo ordine costituzionale. Tali ad esempio furono la rivoluzione bolscevica o il colpo di stato di Hitler in Germania, il cui obiettivo non fu quello di stabilire un nuovo sistema di limitazione dei poteri, ma, al contrario, di concentrare tutto il potere nelle mani di una élite di governo.

Perché, infatti, un potere rivoluzionario abbia natura costituente è necessaria l'esistenza di due condizioni: la prima, è che esso agisca contro un governo effettivamente arbitrario; la seconda riguarda la finalità dell'azione rivoluzionaria, che deve essere rivolta alla creazione di un nuovo ordine costituzionale. Senza questi due presupposti, non è possibile parlare né di potere costituente, né di gruppo costituente.

Il potere costituente è esercitato dal gruppo costituente. Esso si forma spontaneamente in risposta all'esigenza rivoluzionaria e comprende tutti quei membri della comunità che più si dimostrano in grado di difendere le libertà violate dall’esercizio arbitrario del potere. Essi agiscono in base al consenso della comunità e sono espressione delle esigenze, delle convinzioni e dei valori di questa.

Il gruppo costituente non si configura, tuttavia, come una élite: per Friedrich, infatti, non esistono in politica parametri oggettivi per stabilire l’eccezionalità di una determinata prestazione[43]. Le straordinarie capacità individuali che possono caratterizzare i membri del gruppo, le loro qualità soggettive, dipendono, in ultima analisi, dal grado di compatibilità delle scelte operate con le esigenze e le convinzioni più profonde della collettività di cui si fanno interpreti. Per questo motivo è impossibile stabilire in via definitiva l’esistenza di una élite di governo e questo non perché tutti gli individui siano fondamentalmente in grado di governare o di criticare il governo, ma per la semplice ragione che non è possibile prevedere chi tra gli uomini che vivono nella comunità sia effettivamente capace di governare o realmente interessato a partecipare alla gestione del potere[44]. Il potere costituente - esercitato dal gruppo costituente - è un potere relazionale, generato dal consenso[45] e fondato sulla cooperazione tra i gruppi per il perseguimento del fine comune di stabilire regole certe all’esercizio del potere. In accordo con la teoria del potere costituente[46], è alla comunità che spetta, infine, il giudizio e questa constatazione contrasta con una possibile definizione del gruppo costituente in termini elitari.

Ma non si tratta nemmeno di un’entità indistinta, espressione di una volontà unitaria. Se, infatti, il gruppo costituente è tale quando opera per il ristabilimento di un nuovo ordine costituzionale, e se la costituzione è l’insieme dei limiti efficaci all’esercizio del potere di governo a tutela delle libertà della comunità, prima fra tutte quelle di dissentire, ne segue che il gruppo costituente potrà essere soltanto espressione di un accordo sui principi fondamentali del costituzionalismo, non il portavoce di una superiore volontà generale. La dialettica pluralistica che il costituzionalismo deve garantire contrasta con l’attribuzione al gruppo costituente della qualifica di “sovrano”. Il fatto che il fondamento ultimo dell’autorità costituzionale risieda nella comunità nel suo complesso non comporta necessariamente, come vorrebbero le dottrine della sovranità, il manifestarsi di una volontà unitaria distinta e trascendente le volontà dei singoli e dei gruppi[47]. Proprio perché fondato sul consenso, il potere costituente - ed il gruppo costituente che ne è espressione - deve necessariamente tenere conto della non unanimità, delle possibili divergenze che possono verificarsi tra i gruppi in una società in ordine alle questioni che saranno oggetto di decisione. Occorre, pertanto, tenere fermo il concetto che la decisione fondamentale ha come contenuto la definizione dei modi di organizzare l'esercizio del potere nella comunità proprio in considerazione del riconoscimento dell’esistenza al suo interno di diversi centri di potere.

L’idea pluralistica da un lato, e il carattere di permanenza del potere costituente in seno alla comunità dall’altro, conducono Friedrich non soltanto a negare la validità concettuale della “sovranità”, ma anche a considerare come negativi gli effetti della sua applicazione alla dinamica costituzionale. La sua connotazione assolutistica comporta che l’idea di sovranità, ove adottata, provoca un’alterazione del principio della separazione dei poteri, in quanto prevede l’esistenza di un potere superiore agli altri, onnicomprensivo e onnipotente e, dunque, capace in ogni momento di cambiare l’equilibrio esistente. L’organo esponenziale di tale potere è messo così in grado di concentrare su di sé quante più competenze possibili fino al punto da rendere inefficaci i limiti costituzionali. In una tale perversione del sistema, lo stesso potere costituente può essere ridotto all’impotenza, soffocato dall’estensione di un potere di tipo coercitivo che, ergendosi ad unico interprete di una necessariamente vaga “volontà popolare”, ne riduce con tutti gli strumenti a sua disposizione ogni margine di manovra. Le vicende costituzionali relative alla fine della repubblica di Weimar e all'avvento del nazismo in Germania[48] restano, per Friedrich, esemplari a questo riguardo. Dunque, egli sembra concludere, delle due l’una: o si ha un diritto illimitato della maggioranza - in quanto esponente del popolo sovrano - con la conseguente concentrazione del potere in un unico organo e dunque, un sistema non costituzionale; oppure si ha l’emersione immediata del carattere limitato del diritto, del suo essere diritto tra gli altri diritti e potere tra gli altri poteri. Se si vuole che al popolo sia sempre concesso d’essere arbitro del proprio destino, occorre che l’esercizio del potere costituente permanga intatto nella comunità. Ma allora si devono prendere le distanze dal concetto di sovranità e parlare in termini di potere, in particolare di potere costituente. Questo stabilisce regole e limiti al governo senza che la sua efficacia e permanenza all’interno della società politica possa mai venire meno: «il solo modo teoricamente chiaro e ammissibile di porre la questione - conclude Friedrich - è di ammettere che invece di essere diretto da un potere sovrano, un sistema costituzionale riposa sul potere costituente»[49].

 

 

7. – Conclusioni

 

E’, dunque, il potere costituente l’anello di raccordo tra la costituzione politica e la costituzione giuridica di una comunità. Attraverso l’azione costituente, tramite la collaborazione tra gli individui e tra i gruppi per l’adozione delle decisioni comuni, Friedrich delinea un particolare tipo di organizzazione politica senza Stati né Sovrani, basata sul consenso e sulla cooperazione costante tra i suoi membri, che trova nel principio federativo l’elemento ordinante. Non esiste più un unico centro nel sistema: ne esistono diversi, ciascuno con propri poteri e competenze, in relazione dialettica tra loro. Tali sono le comunità politiche nelle quali, sulla scia della Korporationslehre e della teoria dei corpi intermedi, Friedrich riconosce la reale dimensione politica dell’individuo: è qui, in sostanza, che si realizzano in pieno i principi del moderno costituzionalismo della partecipazione dei membri della società alle decisioni, della responsabilizzazione di coloro che tali decisioni sono chiamati ad eseguire, dell’effettivo controllo sulla gestione. Il processo federativo è «principio universale di organizzazione politica»[50] che consente il mantenimento del necessario equilibrio tra autonomia e collaborazione, tra centri e periferie, tra politiche comuni e interessi particolari che caratterizza le relazioni tra le diverse formazioni comunitarie.

Si tratta, come è evidente, di un complesso e delicato equilibrio, la cui natura necessariamente dinamica per la mutevolezza delle condizioni del vivere sociale, riporta inevitabilmente al nucleo fondamentale del pensiero costituzionale di Friedrich, al suo concetto funzionale di costituzione, il solo in grado di garantire proprio quell’equilibrio che egli definisce, per la natura stessa degli interessi coinvolti, come “instabile”.

Il “federalizing process” rappresenta, dunque, l’anello di chiusura dell’intero sistema. Nei suoi elementi organizzativi esso sembra non distaccarsi in modo particolare dai modelli classici di federalismo, se non per il rilievo che l’elemento dinamico occupa all’interno della teoria. Come per il costituzionalismo, così la teoria federale di Friedrich si concentra sulle relazioni, sui rapporti di cooperazione, sul rispetto e sulla garanzia dei limiti dei poteri interagenti tra le comunità federate, sui meccanismi di partecipazione di queste ultime alle decisioni comuni.

L’analisi del sistema è ancora oggetto di approfondimento da parte di chi scrive, ma dalle riflessioni fin qui svolte crediamo emerga almeno una considerazione importante: e cioè che se le esigenze di cambiamento si richiamano direttamente alla sostanza, piuttosto che alla forma del problema, diventa allora necessaria una più attenta riflessione su quali siano oggi i soggetti della politica, di modo che una certa idea di ordinamento non si risolva in un adattamento di modelli già esistenti, ma sia progetto consapevole che tenga conto delle mutate condizioni e delle diverse prospettive di convivenza politica.

 

 

 

 



 

[1] Carl Joachim Friedrich nasce a Lipsia in Sassonia nel 1901. Allievo di Alfred Weber a Heidelberg, si trasferisce ben presto all’università di Harvard negli USA, dove ottiene l'incarico di professore di Government. Nel 1938 chiede ed ottiene la cittadinanza americana ed alla fine del secondo conflitto mondiale ritorna in Germania al seguito del Generale Clay come consigliere per gli affari costituzionali presso il Governo Militare di occupazione statunitense. Professore incaricato di Filosofia e di Scienza della Politica in numerose università americane ed europee, è presidente di diverse associazioni tra le quali ricordiamo l’“American Political Science Association” e l'“Association de Philosophie politique”. Muore negli Stati Uniti nel 1984. Tra le sue opere ricordiamo: Constitutional Government and Democracy, 1950; The New Belief in the Common Man, 1942; Constitutional Reason of State, 1957; Man and His Government, 1963; Federalism. Trends in Theory and Practice, 1968. Per un'ampia bibliografia dell'autore cfr. K. von Beyme (a cura di), Theorie und Politik. Festschrift zum 70. Geburtstag fuer Carl Joachim Friedrich, Haag 1971.

 

[2] Scrive Maurizio Fioravanti: «il nostro potere costituente vive, proprio per le sue caratteristiche intrinseche, ai confini tra “diritto” e “politica”: è quella particolare fonte di diritto che si contraddistingue, rispetto alle fonti di diritto direttamente riconducibili alla costituzione in senso formale, per la necessaria presenza in essa di un “principio politico” che opera in senso costituente, ma è anche quella particolare volontà politica che si contraddistingue, rispetto a tutti i tipi possibili di decisione, per la sua disponibilità a lasciarsi disciplinare in forme giuridiche di tipo costituzionale, come tali sufficientemente stabili nel tempo». M. Fioravanti, Stato e Costituzione. Materiali per una storia delle dottrine costituzionali, Torino 1993, 218.

 

[3] C.J. Friedrich, Man and His Government, New York 1963, 18.

 

[4] Cfr. C.J. Friedrich, Man and His Government, cit., 55 e in generale l’intero capitolo II “Function, purpose and value”.

 

[5] Cfr. C.J. Friedrich, Die Politische Wissenschaft, Freiburg-Muenchen 1961, 8 ss. Secondo Giovanni Sartori «l'opera di Friedrich è un caso esemplare di Wertfreiheit “bene intesa”». Egli definisce la posizione assunta dallo studioso nei confronti della questione dei valori come «mediana», vale a dire «caratterizzata, e spiegata, da una concezione che potremmo dire di oggettivismo o fattualismo assiologico». G. Sartori, La teoria empirica della politica di Carl J. Friedrich, in Il Politico, 1966, nr. 1, 61 ss.

 

[6] G. Sartori, La teoria empirica della politica di Carl J. Friedrich, cit., 3.

 

[7] C.J. Friedrich, Di Verfassungsproblematik der Entwicklungslaender in Himblick auf die Aufgaben des modernen Staates, in C.J. Friedrich - B. Reifenberg, Sprache und Politik, Heidelberg 1968, 460.

 

[8] C.J. Friedrich, Man and His Government, cit., 56.

 

[9] Sulla critica di Friedrich al positivismo giuridico e, in particolare, alla teoria pura del diritto di Kelsen cfr. C.J. Friedrich, Die Philosophie des Rechts in historischer Perspektive, Berlin-Goettingen-Heidelberg 1955, 105 ss. Per quanto riguarda la tendenza attuale a considerare la norma giuridica come mezzo d’attuazione e di realizzazione della volontà e dei bisogni concreti degli associati, cfr. N. Lipari, v. Diritto, in Dizionario delle idee politiche, diretto da E. Berti - G. Campanini, Roma 1993; G. Zagrebelsky, Il diritto mite. Legge diritti giustizia, II ed., Torino 1992; J.M. Kelly, Storia del pensiero giuridico occidentale, Bologna 1996, 485 ss.

 

[10] Una critica di analogo tenore si ritrova in un saggio di Nicola Matteucci nel quale l'autore, criticando la netta distinzione di Kelsen tra giurisprudenza analitica e giurisprudenza sociologica sulla base dei rispettivi fondamenti del dover essere della norma e dell’essere del comportamento umano, sostiene, al contrario, la necessaria interdipendenza tra le due richiamandosi entrambe ad un valore: «la differenza fra giurisprudenza normativa e giurisprudenza sociologica - conclude - non è quindi tanto dovuta ad un diverso oggetto (essere o dover essere), quanto a diverse tecniche metodologiche attraverso le quali s’illumina l'esperienza giuridica, o a diverse sintassi logiche che reggono i due discorsi». N. Matteucci, Giurisprudenza analitica e giurisprudenza sociologica, in Filosofia e Sociologia. Atti del Convegno di Studi sul tema “Filosofia e Sociologia”, (Bologna, 23-25 aprile 1954), s.d., 171 s.

 

[11] «The legality of a rule is the result of its being in accordance with the positive law; it may therefore be the same as legitimacy when the prevalent belief is positivist and merely asks that title to rule be in accordance with the law in order for it to be considered legitimate. Here it might be said that legalism is itself an ideology justifying rule». Così C.J. Friedrich, Man and His Government, cit., 234.

 

[12] Cfr. l’intervista rilasciata dallo studioso a A. Berndt, Rias Berlin, Funk Universitaet, del 27/12/1955 su Begriff und Funktion politischer Moral, dattiloscritto, 2 ss. Anche nella sfera normativa assume un particolare rilievo la distinzione tra etica, morale politica e ragion di Stato operata dall'autore. Perché se da un lato non esiste, per Friedrich, un’unica morale politica, mutando questa di contenuto a seconda della «comune opinione etica» che è patrimonio ideale di ogni comunità in un contesto dato ed in un’epoca determinata; dall'altro sarà proprio nel rispetto di tale morale, vale a dire dei valori condivisi da parte degli appartenenti alla comunità, che il gruppo troverà la propria identità e le ragioni stesse del vivere in comune. In questo quadro non può esistere una ragion di Stato che si opponga alla morale politica, perché, in caso di conflitto, dovrà essere la morale politica a prevalere - in quanto sintesi dei valori di una comunità- sull'interesse dello Stato astrattamente inteso. Se lo Stato, infatti, per realizzare ciò che sembra utile per la sua conservazione, dovesse, di fatto, annullare i principi etici condivisi dal gruppo, allora metterebbe a rischio la sua stessa ragion d'essere: «così si risolve il conflitto tra ragion di Stato e morale politica; poiché la morale politica è la ragion di stato propria del libero ordinamento statale».

 

[13] «Grotewohl recongnized the importance of these objections but answered that the fundamental rights of this constitution are 'much more than [more] rights of individuals against the state'. He added that 'these rights are in fact the fundamental principles of the future policy of German state.' He expressed himself as of the opinion that there was no need to worry about the fundamental rights of the people if there was complete popular sovereignity established, because the enforcement of these rights would be good hands if put in charge of the legislative power of the people. He exclaimed, “who should be better guaranter of the rights of the people than the people itself”». C.J. Friedrich, The significance of the Constitution Draft prepared by the SED, November 1946, in OMGUS/CAD/DIRECTOR, 3, 162-2, 20, 1947 Feb. - 1947 Mai.

 

[14] Friedrich distingue le definizioni di costituzione in descrittive e formali. Le prime si riferiscono essenzialmente alle concezioni che intendono il termine come espressione dell’organizzazione politica di una data comunità: così la politeia di Aristotele si riferisce «all’intero ordine di cose in una città», oppure il concetto hegeliano per il quale la costituzione definisce «l’organizzazione effettiva del governo nelle sue linee generali», ed infine Coke, che sosteneva che essa altro non fosse che la concretizzazione delle «fondamentali concezioni legali della comunità, la loro visione della vita o Weltanschauung, nella misura in cui può essere concretizzata in norme legali generali». Le definizioni formali sono invece quelle relative a suoi determinati aspetti come ad esempio il fatto che si presenti in documento scritto («concetto documentario»), o preveda tecniche precise per le sue modifiche («concetto procedurale») Cfr. C.J. Friedrich, Governo Costituzionale e Democrazia, Vicenza, s.d., tit. or. Constituional Government and Democracy, Boston 1950, 175 s.

 

[15] Spiega l'autore: «For if constitutionalism is the process by which a constitution is made, including its advocacy and its defense, there can be little doubt that the rise of modern constitutionalism is intimately linked with the problem of how to secure effective and regularized restraints upon governmental action. This is not to deny that there are numerous other conceptions of a constitution which may serve a useful purpose in other contexts, notably the one which speaks of the constitution of an unconstitutional government, as is the case with Aristotle's definition; he thinks of tyranny as having a constitution. In defining constitutionalism as a system of effective, regularized restraints upon governmental action, we have approached a constitution in terms of the function it is supposed to serve in the political community. This means that a constitution is seen as a process». Cfr. C.J. Friedrich, Federal Constitutional Theory and Emergent Proposals, in Arthur W. MacMahon, Federalism: Mature and Emergent, Garden City New York 1955, 516 s.

 

[16] C.J. Friedrich, Governo Costituzionale e Democrazia, cit., 173 ss. Non può sfuggire, a questo riguardo, la straordinaria affinità della definizione friedrichiana con quella di costituzione materiale elaborata da Costantino Mortati (La costituzione in senso materiale, Milano 1940) ed il principio d’effettività che ne è alla base. Com’è stato giustamente osservato, «la costituzione in senso materiale non è dunque il gruppo politico dominante, come talvolta si dice; essa è il complesso delle norme istituzionali per il raggiungimento dello scopo voluto dal gruppo dominante, quale risulta temperato dalla presenza, dialettica e polemica, delle altre forze politiche efficienti, sia di quelle schierate a fianco della maggioranza, sia di quelle schierate all’opposizione». E ancora: «quello che gioca ancora una volta è il principio di effettività. La costituzione materiale è quella effettivamente vigente, e tale effettività viene ad essere assicurata esclusivamente da quella convinzione collettiva che, nel campo costituzionale, corrisponde alla risultante dei gruppi politici che intendono sorreggere la costituzione». Così P. Barile, E. Cheli, S. Grassi, Istituzioni di diritto pubblico, VII ed., Padova 1995, 9 s. Nonostante l’autorevolezza del suo maggiore interprete, il concetto di costituzione materiale, come del resto l’importanza della sua matrice storico-evolutiva e la stretta connessione con la dimensione politica della comunità dalla quale trae origine, rappresentano tendenze teoriche ancora piuttosto isolate all’interno della scienza giuridica italiana. A prescindere dalle posizioni di netta opposizione - quale quella, ad esempio, del Balladore-Pallieri - o, al contrario, di netto orientamento interpretativo verso la dimensione storico-politica del concetto - come ad esempio le tesi di G. Zagrebelsky, M. Fioravanti e degli stessi autori del brano appena citato - si è registrata negli ultimi anni una graduale apertura in questo senso da parte di autorevoli esponenti del mondo giuridico: così, ad esempio, Biscaretti di Ruffia, Modugno, Martinez ed altri. Nella maggior parte dei casi tuttavia, si è trattato esclusivamente di una maggiore disponibilità intellettuale ad un procedere metodologico meno dogmatico, più sensibile al problema delle origini e delle contestualizzazioni storiche, ma che resta ben lontano dal mettere in dubbio la distinzione netta tra ciò che è dominio della scienza giuridica in quanto scienza e ciò che, comunque, pertiene ad altri campi d’indagine, primo tra tutti quello della politica, che può influenzare la comprensione e l’interpretazione del concetto, ma resta sostanzialmente estraneo ad ogni processo definitorio dei termini della scienza giuridica.

 

[17] «Function and process are closely related and are a modern version of the teleological-genetic approach to social phenomena. Like the latter, the functional-procedural approach is value-oriented without being value-preoccupied. The central value toward which the constitution is oriented is freedom but this value is not the only one; security, for example, is another important value differentiating constitutionalism from all forms of anarchism», C.J. Friedrich, Federal Constitutional Theory, cit., 517.

 

[18] C.J. Friedrich, Governo Costituzionale e Democrazia, cit., 177. Sulla questione cfr. anche dello stesso autore, The New Belief in the Common Man, Boston 1942, in particolare i capitoli II e IV.

 

[19] N. Matteucci, Lo Stato moderno, Bologna 1993, 128.

 

[20] «Il mantenimento di tutte le limitazioni dipende, alla fine, da un equilibrio di gruppi e di classi della comunità al cui governo esse si applicano». Cfr. C.J. Friedrich, Governo Costituzionale e Democrazia, cit., 180.

 

[21] C.J. Friedrich, Governo Costituzionale e Democrazia, cit., 225.

 

[22] La questione è complessa e va, a nostro avviso, esaminata nel più ampio disegno friedrichiano. La negazione di ogni fondamento metapolitico dei diritti fondamentali è, infatti, conseguente alla destrutturazione che Friedrich opera del linguaggio politico e dei concetti che ne sono alla base. La convinzione - rafforzata anche dall’esperienza vissuta come consigliere degli affari costituzionali del Generale Lucius Clay - che, in materia costituzionale, bisogna diffidare delle astratte affermazioni di principio per andare alla sostanza operativa dei concetti, porta il nostro autore a considerare come destabilizzante ogni tipo di sacralizzazione dei principi politici. Occorre impedire che il legislatore legittimo si trovi a disporre di termini astratti. In caso contrario, la sua legittimazione comporterebbe anche il monopolio dell’interpretazione di tali principi, che svincolati dalla realtà concreta e considerati sacri dal potere, escludono di fatto ogni possibile confronto sulla loro esplicitazione. Il risultato è, dunque, la tendenza autoritaria e totalitaria dell'organizzazione politica in conformità a principi la cui interpretazione è affidata esclusivamente a chi detiene il potere. Ma in questo modo viene meno uno dei cardini fondamentali del costituzionalismo, vale a dire l’efficacia dei limiti al governo.

 

[23] C.J. Friedrich, Introduzione alla teoria politica. 12 lezioni a Harvard, Milano prima edizione italiana 1971, trad. Piero Bartellini, tit. or., An Introduction to Political Theory, New York 1970, 5.

 

[24] C.J. Friedrich, Introduzione alla teoria politica, cit., 9. Sul problema dei diritti cfr. anche Id., Diritto naturale e leggi di natura, in Rivista Internazionale di Filosofia del Diritto, fasc. IV-V, luglio - ottobre 1935, 481 ss. La critica al diritto naturale richiama, per certi versi, i motivi vichiani della Scienza Nuova. Il filosofo napoletano fu il primo, infatti, a sostenere che non esisteva alcun diritto naturale in grado di dare norme uguali per tutti gli uomini, ma che, al contrario, ogni società esprimeva, con le sue particolari istituzioni, la sua storia particolare. Cfr. G.B. Vico, Principi di Scienza Nuova, sez. II, Assioma VI, in Opere filosofiche, Firenze 1971, 435.

 

[25] «L'idea - scrive Friedrich - che certi diritti siano diritti naturali possiede una lunga storia. Essa produce l'impressione che certe cose, come la proprietà privata, o la libertà di riunione, abbiano un'esistenza ed un significato del tutto separati da qualsiasi governo. Tuttavia, in effetti, esse presuppongono tutte un governo. Sarebbe quindi più appropriato chiamare questi diritti sociali o politici. Sebbene non siano necessariamente limitati ai cittadini, essi richiedono un governo per la loro applicazione. Essi sono radicati nella convinzione profonda. Le carte dei diritti esprimono le idee dominanti concernenti le relazioni tra il singolo cittadino e il governo» Così C.J. Friedrich, Governo Costituzionale e Democrazia, cit., 230. E prosegue poi in nota: «L'argomento di questo paragrafo è chiaramente compreso nella maggior parte degli scritti a partire dall’eclisse della scuola del diritto naturale, ma è spesso oscurato dalla diatriba sulla sovranità».

 

[26] In senso liberale: come giustamente osserva Zagrebelsky, la «categoria fondamentale di quest’impostazione [liberale] dei problemi costituzionali [consiste nella] legalità come fondamento e limite del potere. (…) il criterio di legittimità dello stato è dunque un criterio giuridico-formale, non un criterio politico-materiale». Dallo Stato di diritto in senso liberale, l’autore distingue lo «Stato secondo diritto» che «deve intendersi in riferimento ai diritti soggettivi. (…) Questo è il senso del concetto di Stato di diritto nell’individualismo garantista che potrebbe anche definirsi “Stato di diritto soggettivo”. Non è dunque “di diritto” qualunque Stato in cui gli organi pubblici agiscano secondo la legge. La formula “Stato di diritto”, nella prospettiva della garanzia dei diritti individuali allude anche a un particolare contenuto della legge. Lo stato le cui leggi attribuissero ai pubblici poteri sconfinata libertà d’azione nei confronti dei cittadini non potrebbe dirsi “di diritto”». G. Zagrebelsky, Società – Stato – Costituzione. Lezioni di dottrina dello stato degli anni acc. 1986-1987 e 1987-1988, Torino 1988, 91 s.

 

[27] «(…)all rights are political in the sense of depending upon the political order for their maintenance and eforcement.. They are political, however, in the further sense of depending upon the values and beliefs of the political community which the order servers». Così C.J. Friedrich, Trascendent Justice. The religious dimension of Constitutionalism, Durham 1964, 104.

 

[28] Friedrich distingue il potere di emendamento dal potere costituente: entrambi fanno capo al gruppo costituente; ma mentre il primo si manifesta secondo procedure costituzionalmente regolate ed ha come unico scopo quello di modificare aspetti parziali della costituzione secondo le esigenze della comunità, il secondo è il potere rivoluzionario di abolire la costituzione esistente e di sostituire ad essa una nuova. C.J. Friedrich, Governo costituzionale e democrazia, cit., 194 s.; Id., The New Belief in the Common Man, cit, 129 ss.

 

[29] Friedrich conviene sul fatto che la costituzione flessibile ha il vantaggio di adattarsi con facilità ai mutamenti che occorrono all'interno della società. Egli, tuttavia, avverte che tale flessibilità è realmente efficace soltanto in paesi dalla cultura politica fortemente radicata, in quanto «presuppone una nazione immersa nella tradizione e per natura contraria al cambiamento, altrimenti l’intera struttura politica diventerà facilmente oggetto di attacco da parte di gruppi irrequieti e irresponsabili», C.J. Friedrich, Governo costituzionale e democrazia, cit. 199.

 

[30] C.J. Friedrich, Governo Costituzionale e Democrazia, cit., 207. Sulle tesi di Friedrich a questo riguardo, cfr. A. La Pergola, Tecniche costituzionali e problemi delle autonomie «garantite». Riflessioni comparatistiche sul federalismo e sul regionalismo, Padova 1987, 125 ss.

 

[31] E conclude: «La Costituzione federale degli Stati Uniti dispone conformemente a queste osservazioni». Così C.J. Friedrich, Governo Costituzionale e Democrazia, cit., 215.

 

[32] C.J. Friedrich, Governo costituzionale e democrazia, cit., 236. Altrove l'autore è ancora più esplicito: «La costante aderenza ai tradizionali modi di comportamento comunitariamente stabiliti e la semplice chiara valutazione di cosa sia in accordo con esse - questi sono gli elementi del consenso e dell'ordine in una comunità democratica. Essi sono talvolta molto diversi dai diritti fondamentali in senso razionale o filosofico. Essi sono inclusi in proverbi, non in dogmi». Così, C.J. Friedrich, The New Belief in the Common Man, cit., 153. E ancora a p. 173: «Il problema di che cosa costituisca un principio fondamentale non può avere una risposta in senso stretto democratica. L’accordo sui principi fondamentali non può essere un prerequisito di una democrazia o del costituzionalismo perché esso non può assumersi che ci sarà alcun accordo sui ciò che è fondamentale. Il fondamentalismo è, in tutte le sue varie forme, antidemocratico, anticostituzionale, contrario allo spirito di libertà. Ogni insistenza sull’accordo sui principi fondamentali è fondamentalmente correlato all’idea che noi abbiamo respinto come incompatibile con la democrazia costituzionale: e cioè che alcune persone conoscano ciò che è giusto. Perfino la stessa costituzione non dovrà essere proclamata come un principio fondamentale per il timore di renderla un feticcio». Sull'argomento cfr. Id., Man and His Government, cit. 237 s. e, in particolare, Demokratie als Herrschafts- und Lebensform, Heidelberg 1959, 66 s.

 

[33] C.J. Friedrich, Man and His Government, cit., 238.

 

[34] C.J. Friedrich, L'autoritarismo e la società contemporanea, in AA.VV., L'autoritarismo e la società contemporanea, Firenze 1969, 9. Legittimità ed autorità sono per Friedrich strettamente collegate in una democrazia costituzionale. La legittimità di un governo sta nel riconoscimento da parte dei membri della comunità politica della titolarità del potere in capo a chi lo esercita. Ma tale consenso è strettamente legato al grado di autorità degli ordini impartiti dal governo, vale a dire della loro capacità di risultare diretta elaborazione delle opinioni, degli interessi e delle necessità esistenti nella società politica. Da ciò dipende, inoltre, il grado di efficacia dell’obbligazione politica, la convinzione da parte dei governati che essi debbano obbedire ai governanti: più questi ultimi riterranno valide le motivazioni sulle quali un ordine è fondato, maggiore sarà il riconoscimento della legittimità del titolare del potere che tali ordini ha emanato. Autorità e legittimità trovano, dunque, il loro fondamento nel consenso della comunità. Mentre, tuttavia, l'autorità è un requisito impersonale applicabile agli ordini o alle leggi, la legittimità riguarda colui o coloro che esercitano il potere. Ne consegue che esso può essere esercitato, tramite coercizione e violenza, anche illegittimamente. Ma solo un governo i cui ordini possiedono il carattere di autorità sarà un governo legittimo, vale a dire fondato sul consenso della comunità. Amplius cfr. Man and His Government, cit., 236 ss., e Id., Loyalty and Authority, in Confluence, Harvard 1954, 307 ss.

 

[35] C.J. Friedrich, Governo costituzionale, cit., 205. Per Friedrich rivoluzione politica e resistenza sono fenomeni endemici in ogni ordine politico ed essi sono strettamente connessi tra loro. Riguardo al concetto di rivoluzione, in particolare, l’autore distingue tra rivoluzioni limitate, rivolte al cambiamento dell’ordine politico esistente, e rivoluzioni illimitate che, invece, hanno ad oggetto la trasformazione radicale di tutti gli aspetti della vita di una comunità. A questo riguardo cfr., oltre al già citato Governo Costituzionale e Democrazia, l’opera Man and His Government, in particolare il capitolo 34 “Resistance and Revolution”, 634 ss. e, per una breve sintesi, An Introductory Note on Revolution in Revolution, VIII, a cura di C.J. Friedrich, New York 1966, 3 ss.

 

[36] Cfr., C.J. Friedrich, Le problème du pouvoir, in Annales de Philosophie Politique, I, Le Pouvoir, Paris 1956, 47 ss., ed anche Id., Governo costituzionale, cit., 195.

 

[37] C.J. Friedrich, The New Belief in the Common Man, cit. 129.

 

[38] C.J. Friedrich, Le probléme du pouvoir dan la théorie constitutionaliste, cit., 46.

 

[39] A questo proposito sarebbe auspicabile uno studio approfondito sulle affinità e divergenze dell’opera dei due studiosi. Allo stato attuale della nostra ricerca siamo in grado di avanzare soltanto una serie di ipotesi riguardo ad alcune precise convergenze delle due dottrine quali, ad esempio, la polemica nei confronti delle teorie formalistiche del diritto, l’emersione del “politico” come chiave di volta del sistema costituzionale, il comune referente costituito dalla teoria dell’integrazione di Rudolf Smend, il carattere esistenziale della costituzione e l’idea di processo. Ma altrettanto profonde sembrano emergere le differenze tra le due impostazioni teoriche (l’insistenza di Schmitt, ad esempio, sul concetto di unità politica), soprattutto in relazione ai risultati delle rispettive riflessioni, tant’è che, a nostro avviso, si potrebbe ipotizzare da parte di Friedrich una successiva, puntuale rielaborazione critica di molti concetti schmittiani. Contro questa interpretazione cfr. H. Lietzmann, Buendische Gemeinschaft und “Responsible Bureaucracy”. Macht in der Demokratie bei Carl Joachim Friedrich, in J. Gebhardt – H. Muenkler (hrsg.), Burgerschaft und Herrschaft, Baden-Baden 1993, 289 ss.

 

[40] C. Schmitt, Dottrina della Costituzione, a cura di A. Caracciolo, Milano 1984, 114, tit. or. Verfassungslehre, Berlino,1928.

 

[41] Ibidem.

 

[42] C. Galli, Genealogia della politica. Carl Schmitt e la crisi del pensiero politico moderno, Bologna 1996, 336.

 

[43] Sulla critica alla categoria paretiana cfr. C.J. Friedrich, A critique of Pareto’s contribution to the Theory of a Political Elite, in Cahiers Vilfredo Pareto, 5, Genève 1965, 259 ss.; e Id., Introduzione alla teoria politica. 12 lezioni a Harvard, cit., 60 ss.

 

[44] «The true meaning of such notions is not that everyone is equally at governing, or even at criticizing the government, but that it is unpredictable who among the people might be either good at it or interested enough to partecipate effectively». Così C.J. Friedrich, Man and His Government, cit., 49.

 

[45] C.J. Friedrich, Le problème du pouvoir, cit., 46.

 

[46] C.J. Friedrich, The New Belief in the Common Man, cit., 129.

 

[47] A questo proposito Friedrich non manca di notare come nel linguaggio della scienza giuridica del diciannovesimo secolo il concetto di sovranità sia stato trasformato retoricamente, intendendo la sovranità popolare come volontà del popolo di delimitare da se stesso i propri poteri, dandosi una costituzione. Ma, ribatte l'autore, questa interpretazione è, in realtà, una perversione del concetto originale dei teorici della sovranità, i quali la intendevano come il potere attribuito ad un arbitro finale dallo Stato, nell’interesse della comunità. E conclude affermando l’evidenza dell’incompatibilità di questa idea della concentrazione del potere nelle mani di uno solo (sia esso individuo/sia corpo composto come un parlamento) con quella del costituzionalismo. Cfr. C.J. Friedrich, Man and his Government, cit., 552.

 

[48] Cfr., C.J. Friedrich, Governo costituzionale e democrazia, cit. 213 s. Scrive l’autore:«Pur essendo esagerato definire quella della Repubblica di Weimar una situazione di assolutismo parlamentare, è pur vero che era assai vicina a quel tipo di democrazia radicale contemplato da Rousseau., con poteri assai estesi conferiti ad una maggioranza popolare. (…) Ciò che questo implicasse fu per un certo tempo oscurato dal sistema pluripartitico. Ma i poteri arbitrari latenti di una maggioranza popolare erano destinati ad apparire non appena tale maggioranza potesse essere costruita. I poteri governativi erano illimitati. La ragione costituzionalmente decisiva del fallimento della Repubblica in Germania sembra, quindi, sia stata la debolezza della costituzione politica stessa. Senza un adeguato sistema di limitazioni all’azione governativa, la dittatura soppiantò l'assolutismo parlamentare mediante il semplice accorgimento di ridurre i membri del parlamento ad un numero sufficiente per dare ai fautori del cambiamento una sicura maggioranza».

 

[49] C.J. Friedrich, Man and His Government, cit., 597.

 

[50] C.J. Friedrich, Federal Constitutional Theory and Emergent Proposals, in Federalism mature and Emergent, a cura di Arthur W. Macmahon, New York 1955, 514.