N. 3 – Maggio 2004 – Memorie

 

 

Ennio Cortese

Università di Roma “La Sapienza”

 

 

UN PERSONAGGIO IN CERCA DI AUTORE. LA COMPILAZIONE GIUSTINIANEA NEL MEDIOEVO

 

 

 

 

1. Ci sono stati momenti, nella storia, in cui la nascita di ordinamenti politici minori in seno a ordini più vasti ha creato problemi teorici significativi circa l'uso delle norme più generali entro i sistemi più piccoli. Un caso noto e studiato è quello del Diritto romano-comune medievale, di cui non solo l'immagine è stata controversa, ma le cui relazioni con i diritti particolari sono apparsi tutt'altro che uniformi, morbide e chiare con taluno ma con altri brusche e oscure. L'Impero, anche dopo le traversie dei tempi del primo Federico, aveva conservato nella mente dei giuristi la carica universale antica e l'aveva riversata sulle leges giustinianee, alimentando la pretesa che vigessero ovunque. La cosa non aveva sollevato difficoltà nei paesi di diritto scritto – ove peraltro quelle leges erano tradizionalmente diritto positivo – quando a rappresentare il "particolare" opposto all'"universale" furono i Comuni, che almeno a parole si riconoscevano subordinati politicamente e giuridicamente. Ma i Comuni costituivano una realtà limitata nel quadro politico europeo. La grande novità dei tempi era costituita piuttosto dal nascere e dal consolidarsi dei regni territoriali. E lì lo scontro tra diritto romano di marca imperiale e la sovranità dei re fu aperto e combattuto.

 

2. Per tutto il Medioevo gli ordinamenti giuridici hanno assegnato un ruolo ridotto alla legislazione. Essi sono stati formati per la maggior parte non dall'alto ma dal basso a opera di forze spontanee della società[1], tanto che vi sarebbe da pensare per quei tempi a uno «svincolo del giuridico dall'abbraccio condizionante del politico»[2]. Con la conseguenza che, persino nel nuovo millennio, quando lo studio della compilazione giustinianea ripropose all'attenzione l'immagine del princeps padre oltre che obbediente figlio delle leggi, l'opinione comune sarebbe rimasta affezionata alla biblica figura del rex-iudex, interprete della giustizia più che creatore dell'ordinamento; una concezione non formale della legge si sarebbe sempre imposta all'ombra di un ordo formato al contempo da Dio e dalla vita sociale piuttosto che da un insieme di comandi discrezionali del potere[3]. Le grandi scuole romanistiche, poi, si sarebbero riparate dietro l'autorevolezza del Corpus iuris per dedicarsi, anziché a interpretare il testo delle leges in vista di una fedele applicazione, piuttosto a enucleare e a fissare quell’ordo e sopratutto a costruire liberamente forme nuove adatte alle esigenze nuove[4].

Questo quadro, tracciato pochi anni or sono a grandi linee in modo avvincente, eccita l'attenzione, e induce magari a ripensare qualche problema. C'è da domandarsi anzitutto quale natura venisse riconosciuta, nella seconda parte del Medioevo, alla compilazione giustinianea, che non era solo il libro dal quale i giuristi traevano ispirazione per inventare il diritto comune, ma era un glorioso complesso normativo che si portava dietro, indelebilmente impressa, la qualifica di 'legge'.

La sfera d'azione del Corpus iuris, si sa, era vastissima. Essa copriva tra l'altro il diritto privato, ossia proprio quell'enorme spazio della vita giuridica che gli interventi legislativi medievali, comunque sempre scarsi, tendevano a ignorare. Ma l'idea che il Corpus iuris fosse indipendente dai poteri di produzione legislativa in carica, ossia dal 'politico', era forse consona alla situazione d'oltr'Alpe, ma risultava òstica alla mentalità giuridica italiana che non rinnegò mai esplicitamente la sua natura positiva e la sua vigenza. Come si poteva immaginare, da noi, che configurasse, per così dire, un «diritto senza Stato»[5]? Lo si invocava come la legge per antonomasia tanto che i suoi studiosi si chiamavano 'legisti': togliergli il supporto politico e respingerne l'esegesi e l'applicazione in quella larga sezione dell'ordinamento ch'era affidata alle consuetudini e alle autonomie significava appannarne la storia e la dignità.

Naturalmente sarebbe senza senso immaginare che il Corpus iuris nutrisse la curiosa aspirazione a una sorta di 'statualità', come quella di cui si parla oggi. Una simile idea potrebbe persino indurre nella pericolosa tentazione di addentrarsi nel discusso e discutibile problema se lo 'Stato' (quello moderno, naturalmente, ma la precisazione è spesso soltanto sottintesa) cominciasse o non a formarsi nel tardo Medioevo – qualche storico del diritto si è avvalso di argomenti bizzarri per negarlo[6] – o se non vedesse la luce più tardi, nella celebratissima fucina politica e teorica cinquecentesca[7] se non addirittura negli ordinamenti illuministici e postrivoluzionari. Quasi a corollario di tali discussioni potrebbe esserci il rischio di cadere su stravaganti dubbi intorno alla nascita del concetto di sovranità[8]: e senza Stato né sovranità il Medioevo vedrebbe inaridire ogni sorgente di forza normativa.

 

3. A parte il fatto che le ricerche di date di nascita e di morte di fenomeni storici e specialmente di concetti sono spesso ricerche di chimere, colpisce la naturalezza con cui si tende oggi a presupporre che non vi sia Stato ove non si riscontrino corrispondenze sostanziali al modello odierno. Il giurista, in particolare, quando pensa allo Stato ha innanzi agli occhi l'attuale monstrum astratto capace d'intendere e di volere, dotato di singolare invadenza nell'esercizio di un governo tendenzialmente totalitario su una popolazione e un territorio, e sicuro di costituire la fonte diretta o indiretta del diritto[9]. E questo certo trova pochi riscontri nell'età di mezzo.

Ma i concetti di Stato e di sovranità non son che meccanismi di raccordo tra il dato 'politico' e il 'giuridico': e sin dall'antichità tale funzione di raccordo è stata svolta da strutture pubbliche anche complesse; quella imperiale romana, per esempio, era un organismo non da poco, e nel linguaggio corrente, per indicarne la stabilità e la giuridicità, si parlava di status rei Romanae[10]; la Chiesa, dal canto suo, si preoccupava molto dello status Ecclesiae[11], mentre il pensiero medievale invocava lo status Regni[12] o lo status Imperii. La parola status, beninteso, indicava non il soggetto agente, come al giorno d'oggi, ma la condizione giuridica della struttura pubblica oggettiva[13] entro e mediante la quale il soggetto – imperatore o re o principe o papa – si muoveva. Una struttura di cui il pensiero medievale andò tuttavia presto accentuando la natura di ente astratto: venne risvegliata, per esempio, la concezione della res publica romana[14]; la corona fu ritenuta titolare di diritti separati da quelli del monarca, e fu considerata ente ubiquo e immortale[15]; in Italia Marino da Caramanico parlò del Regnum Siciliae come di una universitas[16]; a Orléans, nella seconda metà del Duecento, Jacques de Revigny insegnò che la potestas absoluta non spettava al princeps quale persona individua, ma che il princeps la esercitava occasionalmente e cum causa in nome dell'ente Imperium; precisò poi che quest'Imperium era un'universitas antropomorfizzata, una persona repraesentata del tipo della persona ficta di Sinibaldo Fieschi: quanto dire una persona giuridica[17].

Quanto poi al concetto di sovranità – senza il quale le leggi non sarebbero formalmente leggi – è difficile comprendere le remore a parlarne per il Medioevo. Si sorvoli pure sul fatto che il termine stesso già circolava nella Francia del Duecento[18], ch'è cosa secondaria; è di assai maggior peso ricordare come le norme romane e della Chiesa prospettassero – sollecitando elaborazioni teoriche assai ricche – i termini auctoritas, potestas e altri che offrivano l'estro, già ai tempi dei glossatori, per articolati disegni dei poteri supremi: dai quali era tutt'altro che esclusa la componente legislativa. Alle enunciazioni teoriche corrispondevano d'altronde iniziative politiche: basti pensare alle codificazioni di Federico II nel Regno di Sicilia e di Alfonso il Saggio in Castiglia e León che si presentano come espressioni duecentesche tutt'altro che insignificanti di un dichiarato monopolio legislativo regio.

 

4. Qualunque forma assumessero nel Medioevo le variabili istituzioni pubbliche, e chiunque fosse il titolare degli altrettanto variabili pubblici poteri, resta che funzionava sempre un'àncora istituzionale a cui fermare prassi e norme ondivaghe. Gli ordinamenti spontanei dovevano convivere con la loro cornice ufficiale, il diritto prodotto dal basso chiedeva un marchio impresso dall'alto, e qualsiasi diritto formatosi 'senza stato' cercava poi un'autorità politica di appoggio, ossia, alla fin dei conti, un quadro normativo di paternità statuale.

Di leggi vere e proprie se ne facevan poche, come si è detto, specialmente per quel che riguardava i rapporti dei privati; il potere si occupava dell'organizzazione amministrativa, ossia dell'antico ius publicum ulpianeo, mentre quanto concerneva l'utilitas singulorum era lasciato o alla regolamentazione da parte dei gruppi sociali oppure, in misura via via crescente, alle costruzioni dei giuristi: allo stesso modo in cui, nella Roma antica, il diritto privato era stato a lungo riserva di caccia degli iura. Ma ciò non significa che la massa di diritto non derivato da un'autorità ufficiale rimanesse sempre, per così dire, acefala; persino nel disorganico alto Medioevo, tempo di consuetudini e di regole spontanee, quando queste venivano redatte dai re longobardi o quando Carlo Magno, profittando degli ozi bellici dell'802-803, faceva correggere e pubblicare le ancestrali leges popolari germaniche, quei complessi venivano marcati di un forte marchio di ufficialità: un marchio riconosciuto da tutti e al quale tutti si dimostravano ossequienti. Per di più le compilazioni restavano sotto il controllo del sovrano, come ben dimostrano le folate periodiche di Editti longobardi e i numerosi capitularia legibus addita carolingi.

 

5. Quanto al diritto giustinianeo, sono note le sue contrastate vicende nei tempi oscuri anteriori al Mille. Entro la prima metà dell'VIII secolo, dopo l'emanazione dell'Ecloga di Leone l'Isaurico e la fine dell'Esarcato, esso aveva tagliato i tradizionali ormeggi all'Impero costantinopolitano. E in Italia aveva cominciato a galleggiare, apparentemente alla deriva, senza più attingere legittimità ed efficacia dal suo imperiale autore.

In parte si era volgarizzato e trasformato in consuetudine, ma non tutto. Un'altra autorità ne sorreggeva resti esili, sì, ma conservati nella lezione autentica e muniti dell'antica patente legislativa: era la Chiesa, che del diritto giustinianeo continuava a usare per i suoi negozi temporali. E la Chiesa era altissimo potere formale capace d'irraggiare, tra l'altro, la medesima carica di sovranazionalità che il vecchio Impero aveva posseduto per sé e conferito alle sue auguste leges.

Forse sotto l'impressione di quel ritorno dell'Impero nell'antica sede di Roma ch'era stato voluto dal pontefice nel Natale 800, e aveva eccitato la nota ondata di entusiasmo per la romanità e per le sue memorie, la Chiesa aprì una stagione di snelle antologie di testi giustinianei: difficile dir qualcosa della fantomatica Lex Romana che lo stesso Carlo Magno sembra richiamare[19], ma i suoi probabili derivati più tardi – la Lex Romana canonice compta, gli Excerpta Bobiensia, la parte romanistica della Collectio Anselmo dedicata – mostrano quanto la Chiesa del IX secolo tenesse a preservare almeno frammenti del Giustiniano genuino. La familiarità tra quest'ultimo e il papa andò allora crescendo e divenne, anzi, tanto intima da generare quel connubio tra la lex romana e la divina – comprensiva del diritto canonico in senso stretto – che riuscì a fondere insieme i due ordinamenti nel sistema unitario denominato dal Calasso dell'utraque lex[20]. Sembrò infatti, a molti notai tra X e XI secolo, che le leges disciplinassero i rapporti temporali con l'ausilio dell'auctoritas ecclesiastica[21], e nel X secolo persino la proprietà parve loro da regolare canonico ordine et legibus[22].

Fu la Chiesa, insomma, a rifornire di auctoritas i resti della compilazione giustinianea attirandoli nell'orbita del proprio ordinamento, e a preservare così la loro natura legislativa originaria.

 

6. La nascita delle scuole e della scienza romanistica, tra la fine dell'XI e l'inizio del XII secolo, diede il via a una svolta. Quando le leges riapparvero ai glossatori aureolate della stessa aureola che circondava il capo del mitico legislatore Giustiniano – un'aureola tutta temporale – divenne inadeguato l'ombrello protettivo e legittimante della Chiesa. Esse andarono quindi alla ricerca di un nuovo ancoraggio a un potere laico coevo, capace di far le veci dello scomparso Giustiniano bizantino.

Non che la Chiesa, pur piegandosi all'idea che fosse un'auctoritas laica a dare sostegno politico al diritto romano, accettasse l'ipotesi che questo divorziasse dal diritto canonico. Fu lei, al contrario, a lavorar pazientemente al restauro di quel legame che le era caro perché garantiva l'ortodossia etico-religiosa dell'ordinamento secolare; dal tardo Duecento le riuscì d'imporre anche alle scuole civilistiche il ben noto meccanismo dell'utrumque ius che rilanciava, nell'àmbito del sistema tendenzialmente universale del Diritto comune, l'antico connubio tra le due leggi. Era a ogni modo un connubio di stampo gelasiano, che rinunciava a ogni pretesa di esclusiva appropriazione.

L'Impero, sin dalla lotta per le investiture e l'inizio dell'affannosa politica di recupero delle regalie, aveva cominciato a gettare qualche grappino per attrarre a sé le leggi romane. La mossa finale fu compiuta da Federico Barbarossa, ammiratore della scuola di Bologna e dei suoi maestri, che si appropriò del Corpus iuris e della sua scienza con abile operazione politica; proclamò ad alta voce, ignorando ogni contraria pretesa bizantina, che il proprio Impero era la continuazione di quello di Roma e che pertanto le leggi di Roma erano le sue[23]. L'Occidente riconobbe allora che Codice, Digesto, Novelle e Istituzioni avrebbero attinto efficacia da lui e dai suoi successori[24].

Naturalmente si trattava di una mistificazione. Essa conteneva oltretutto l'implicita pretesa che al nuovo Impero fosse riconosciuta la natura sovranazionale dell'antico, e che il suo potere originario e supremo – la sua sovranità, per così dire – si estendesse quindi su tutte le terre d'Occidente. Una bella presunzione, in verità. Ormai la politica del recupero delle regalie imperiali mostrava la corda, il papa combatteva per impedire l'esercizio dei tradizionali diritti del monarca sull'organizzazione ecclesiastica, le città italiane rivendicavano le proprie consuetudini, un proprio fisco e la nomina dei propri magistrati, i grandi regni in crescita non ammettevano che si osasse dubitare della loro piena indipendenza.

Su quest'ultimo punto i pontefici, cronicamente in disaccordo con l'Impero, si dichiaravano in accordo con i re. L'inglese Alano, uno dei primi decretalisti e una delle prime voci ierocratiche, testimonia che la divisio regnorum, un portato ineluttabile di un ius gentium nuovo, a papa approbatur[25]. In effetti era proprio la Chiesa a porre in quel tempo sul tappeto sia il problema teorico della piena sovranità dei regni territoriali in deroga all'asserita potestà universale dell'Impero, sia la questione conseguente se l'imperiale diritto romano vigesse o non in quei regni. La decretale Per venerabilem d'Innocenzo III, la formula rex superiorem non recognoscens in regno suo est imperator, il riconoscimento della sovranità dei re sul piano politico concreto (de facto) e dell'imperatore sul piano giuridico astratto (de iure) – ai sensi cioè di quel diritto romano ch'era quindi dato, sempre in astratto, per tuttora vigente – son cose tanto note che non vale la pena di fermarsi a commentarle[26].

E' noto altresì, ma qui è necessario ricordarlo, che, se i decretisti fecero buon viso all'idea che il diritto romano comune dovesse alimentarsi dall'auctoritas imperiale, taluni vollero scansare l'inevitabile deduzione che ciò dipendesse necessariamente dalla sudditanza di príncipi e re dal monarca universale. Essi ricorsero allora, come alternativa, alla tradizione antica che riconduceva anche al volere della Chiesa l'obbligo di rispettare il diritto romano: e alla Chiesa – si sapeva bene – erano soggetti tutti i fedeli[27]. Chi avesse voluto contestare la vigenza del Corpus iuris ratione imperii doveva dunque pur sempre riconoscerla ratione ecclesiae[28]: e così il trono di Pietro si dichiarava tuttora pronto a rifornir le vecchie leges di efficacia normativa formale, come ai vecchi tempi dell'alto Medioevo. Ad assicurare loro, insomma, quella copertura politica della quale si riteneva non potessero fare a meno.

 

7. Molti erano però restii ad ammettere l'autorità nonché dell'Impero anche della Chiesa sul Corpus iuris. A mostrare scetticismo erano sopratutto i sudditi, anche se ecclesiastici, dei regni territoriali in cui tutta la sovranità spettava notoriamente ai re. Nel loro spirito doveva giocare anche un certo nazionalismo se persino un canonista come Lorenzo Ispano, un po' più giovane di Uguccione, si ribellava all'idea che il papa potesse imporre ai regni le leggi romane, e rivendicava per contro a qualsiasi ordinamento politico la capacità di scegliersi il proprio diritto[29]. Nel regno di Sicilia, poi, dal 1231 la Post mundi machinam del Liber Augustalis aveva provveduto ufficialmente a togliere ogni autorità a norme non recepite dalle costituzioni regie.

Se le tormentate vicende della monarchia sveva non avevano permesso súbito ai giuristi meridionali di corredare quel libro di organici apparati di glosse e di commenti, l'epoca angioina ne conobbe una buona fioritura. Il codice stesso prospettava, con la cost. Puritatem, la vigenza del diritto romano, e a nessuno veniva in mente di derivare tale vigenza dall'auctoritas imperiale dato che tutti sapevano che quell'auctoritas non si esercitava de iure sul nostro Mezzogiorno: Federico stesso, infatti, si era impegnato con la promissio Argentinensis prestata nel luglio del 1216 a Innocenzo III, e rinnovata nel febbraio del 1220 a Onorio III[30], a tenere per sempre disgiunto il regno dall'Impero. Ecco allora Marino da Caramanico, pressato dal consueto bisogno di appoggiar l'ordinamento comune a una 'sovranità', trasformare un diritto che aveva goduto da sempre del marchio sovranazionale, omologo della sovranazionalità dell'Impero di Roma, in un semplice e limitato ordinamento territoriale. La legittimazione del diritto romano usato per lunga consuetudine, scrive infatti Marino, proviene formalmente dalla volontà del re[31], ossia dalla sovranità locale, fonte, diretta o indiretta, della vigenza di ogni norma entro i confini dello Stato.

Non so se Marino, sul quale secondo il Monti agì l'influenza dei francesi[32], ebbe notizia di quel detto di San Luigi il quale nel 1254 aveva confermato l'uso degli iura scripta non perché si sentisse a ciò obbligato, ma solo perché non voleva che si modificassero le consuetudini vigenti in certe parti del regno[33]: un atteggiamento che sembra dimostrare che anche in Francia circolavano idee abbastanza simili a quelle del glossatore. Salvo che il pensiero di quest'ultimo poteva svolgersi in modo particolarmente circostanziato e vigoroso perché si attagliava bene al Regno di Sicilia: dal 1231 la monarchia meridionale spiccava infatti fra tutte per il suo codice organico, simbolo eccezionale della plena et rotunda potestas del sovrano sul territorio, sui sudditi e sull'ordinamento[34].

 

8. Nell'Italia comunale invece, e negli Studia famosi che vi fiorivano, la scienza giuridica non ebbe remore a conservar l'idea che il diritto romano comune, essendo l'ordinamento dell'Impero, dovesse necessariamente attingere da quest'ultimo la dose di auctoritas necessaria alla sua efficacia normativa. E fa impressione che a tener ferma tale idea fossero i grandi commentatori trecenteschi per i quali l'Impero doveva apparire poco più di uno spettro, dopo che la fine della dinastia sveva e il guelfismo trionfante gli avevano tolto le forze e avevano seppellito la sua speranza, tanto a lungo nutrita, di recuperare gli antichi poteri[35]. Evidentemente il diritto comune, almeno in Italia, pur di mantenere l'aggancio a un ordinamento politico universale si contentava di ormeggi meramente formali; gli bastava insomma un'astratta legittimazione da parte di un'astratta entità. Era un navigar nel mare delle pure forme che ricorda, in fondo, le rotte tra meri concetti seguíte dai vecchi decretalisti quando parlavano di soggezione de iure dei regni all'Impero per salvare de iure la vigenza in essi del diritto romano: salvo a riscontrar che de facto le cose stavano altrimenti[36]. Ed è curioso constatare in queste ultime enunciazioni come, il ius non essendo altro che la compilazione giustinianea, questa fosse chiamata, in buona sostanza, a convalidar se stessa.

 

9. Il Cinquecento, si ripete sempre, è il secolo del consolidamento degli ordinamenti monarchici; la Francia, in particolare, accelera l'ascesa ai vertici della potenza. E' anche il secolo, si continua a dire, in cui si afferma proprio in Francia il concetto di sovranità, concetto di cui si usa far merito a quel Jean Bodin che passa per il suo primo teorizzatore, se non addirittura per il suo inventore. E' il secolo in cui, per conseguenza, partendo dalla consueta avocazione delle consuetudini locali al controllo e al marchio del sovrano si procede per tappe verso il progressivo potenziamento della legislazione regia vera e propria.

E' anche il secolo dei trionfi scientifici del diritto romano, che ispira in Francia inarrivabili scuole di giuristi culti. E tuttavia, malgrado il contesto culturale francese ricco di romanisti geniali, la pressione di vecchie pratiche forensi tende a spegnere la carica normativa della compilazione giustinianea. Non è un paradosso: in realtà l'affermarsi della sovranità statuale e regia dà nuovo risalto al fatto che nel pays de droit coutumier, le leges giustinianee non essendo diritto positivo, era naturale la tendenza a svuotarle di auctoritas politica, per ridurle a un insieme di rationes appetibili soltanto per il potenziale teorico prezioso.

Anche in Italia l'uso di giocare con le rationes legum tradendo la lettera era stato avviato dal Duecento, ma era stato fenomeno essenzialmente di metodo scientifico – esportato poi dalla scuola nei tribunali – e non aveva comportato alcuna dichiarata delegificazione del Corpus iuris: se non altro perché il dare per scontata la sua efficacia legislativa garantiva alle invenzioni dei giuristi la migliore copertura formale e di validità[37]. In Francia, invece, sin dal Due-Trecento erano stati giudici e avvocati ad applicare nella prassi quelle rationes senza nemmeno curarsi di citare le leggi da cui erano tratte, mostrando in tal modo una completa indifferenza alla natura legislativa della compilazione giustinianea.

Gli atteggiamenti della prassi francese fecero notizia in Italia, come testimonia Iacopo Bottrigari[38]. Ma potevano sorprendere solo i giuristi italiani coevi, mentre non possono stupire noi. Non era forse proprio nella prassi francese che si andava attribuendo al diritto romano, a poco a poco, la qualifica di ratio scripta? E' un'espressione che aveva avuto significati vari nelle vecchie raccolte consuetudinarie transalpine dal secolo XIV in poi[39], ma una volta ch'essa venne applicata anche al Corpus iuris è ovvio che finisse col suonare esaltazione del suo contenuto di razionalità e di equità. La storiografia usava tempo fa richiamare in proposito la tardiva testimonianza seicentesca dell'inglese Arthur Duck[40], ma va ricordato che lo stesso Duck assegnava correttamente ai soli francesi l'origine dell'idea, appunto, che le leggi giustinianee andassero seguíte non perché leggi, ma per la grande bontà delle loro rationes.

La presentazione ufficiosa in Italia di tale tesi fu dovuta all'orleanese Jean Feu (Ioannes Igneus)[41]. Questi, nominato senatore di Milano da Luigi XII nuovo signore del ducato, tenne – probabilmente nell'agosto del 1509 – qualche repetitio nello Studio di Pavia ch'era affidato al controllo appunto del Senato, e che il re di Francia intendeva restaurare. Dopo una solenne lezione sull'Auth. ex causa[42], Jean Feu svolse un'altrettanto solenne disputatio – con l'intervento di oppositori numerosi, agguerriti e anche di prestigio – su un punto ch'era di particolare rilevanza politica in quel momento, e che al re Luigi stava certamente a cuore. Si trattava di mettere bene in testa agli italiani che il re di Francia era del tutto indipendente, e di smontare una volta per sempre la fastidiosa teoria – ostinatamente ripetuta dal bartolismo – ch'egli fosse invece de iure sottoposto all'imperatore.

Ripercorrendo sentieri già tracciati dai vecchi decretisti, Jean Feu agganciò al tema politico-giuridico della sovranità dei re il tema della vigenza del diritto romano nei regni. Ammise senz'altro l'uso delle leges giustinianee in Francia, ma naturalmente escluse la giustificazione in chiave di auctoritas politica dell'Imperatore, rinnegandola sia de facto sia de iure. Non fece ricorso – come aveva fatto larvatamente San Luigi nel 1254 oltr'Alpe e esplicitamente Marino a Napoli – all'auctoritas del re quale fonte esclusiva di normatività. Non richiamò nemmeno l'argomento della lunga consuetudine, ch'era espediente spesso usato per legittimare prassi formalmente poco chiare; preferì dire che i Galli non usavano delle leggi imperiali in quanto leggi, ma che vi ricorrevano perché le vedevan provenire da quella ratio naturalis da cui l'onestà non ammette facilmente di recedere[43].

Colpisce che fosse un professore romanista a sottrarre al diritto romano-comune ogni auctoritas normativa tagliando il ponte che l'univa con il potere politico. Egli sapeva, tuttavia, di dire cose né nuove né tanto meno rivoluzionarie; era consapevole di riferire una vecchia idea tutta francese ma teneva a corroborarla di fronte al pubblico pavese allegando solo testimonianze italiane: richiamava infatti quella autorevolissima di Baldo[44] la quale, a sua volta, si limitava a copiare alla lettera la notazione del Bottrigari di cui si è parlato poco sopra[45]. Sicché il grande fenomeno della trasformazione del diritto romano da lex generalis in libro di eccellenti rationes appare svolto dal tenue ricordo, conservato nelle scuole italiane, di taluni metodi correnti sin dal Duecento in ambienti di pratici oltremontani[46].

 

10. Questa sorta di 'delegificazione' del diritto romano divulgata da Jean Feu in un'aula italiana, ma con spirito nazionalistico francesissimo, ebbe qualche risonanza oltr'Alpe specialmente nelle scuole legate ai grandi tribunali[47], non escluso il Parlamento di Parigi e gli ambienti scientifici che lo circondavano[48]. Fu una 'delegificazione' che, spostando il Corpus iuris verso il terreno filosofico-giuridico, agevolò forse il cammino verso il filosofeggiare romanistico di giusnaturalisti e illuministi. Quanto alla prassi francese, essa salvò un po' di Giustiniano solo ponendolo a rimorchio delle consuetudini, nelle cui redazioni ufficiali s'introdussero talvolta regole e criteri tratti dal Corpus iuris.

In Italia le cose non potevano fare a meno di seguire strade diverse. Se non altro perché, a differenza dell'oltr'Alpe, la legge giustinianea, radicata nel territorio sin dalla Pragmatica sanctio del 554, con l'aiuto della Sede Apostolica aveva non solo resistito ai venti avversi, ma mantenuto ostinatamente la prerogativa di mater omnium legum e di lex generalis omnium. Aveva insomma conservato la natura di legge positiva: sicché, se è vero, come si è accennato, che dal Trecento invalse presso i commentatori la moda di giocare sempre più liberamente con le rationes delle norme trascurando l'esegesi letterale, questa moda non impedì che si continuasse formalmente a riconoscere nel 'libro' giustinianeo un codice di leggi.

Quanto a notai, avvocati e giudici, essi potevano, di fatto, seguire le elucubrazioni dei maestri più che i dettami del testo e adottare a piacimento princípi spesso lontani dalla lettera, ma non per questo essi pensarono mai che l'opera di Giustiniano fosse una sorta di manuale di filosofia giuridica. D'altronde non mancavano istituti ai quali la prassi, anche nell'epoca moderna, conservò la natura legislativa antica. Per esempio: si continuava da secoli a credere che il senatoconsulto velleiano – con il quale si proibiva alle donne di obbligarsi nell'altrui interesse – servisse a sollevarle da responsabilità; che per tale sua funzione si comportasse come un privilegio e fosse quindi rinunciabile. I mariti, in previsione dei loro debiti e trovando naturalmente vantaggioso che le mogli fossero legittimate a obbligare i propri beni e le doti per soddisfare i creditori, avevano instaurato l'uso, nei capitoli matrimoniali, di far rinunciare le spose al senatoconsulto velleiano: cosa che la documentazione notarile ci mostra in effetti frequentissima. Si può dir quel che si vuole, ma non si può negare che il velleiano fosse considerato vigente: anzi, per rassodarne proprio la vigenza al fine di reprimere la furbizia e la cupidigia dei mariti, nel regno di Napoli il viceré Pietro di Toledo fece nel 1543 una celebre prammatica e vietò alle donne di far quella rinuncia[49].

Gli avvocati nei loro pareri e sopratutto i giudici nelle decisiones mostrano sempre, nel Cinquecento e dopo, di ritenere il Corpus iuris non solo miniera di astratte rationes, ma codice che disegnava istituti applicati e da applicare. Sicché sarebbe errato pensare che Giustiniano legislatore naufragasse anche in Italia senza scampo in un Diritto comune esclusivamente giurisprudenziale.

E' possibile che i contemporanei attribuissero – in via tutta teorica – quel tanto che restava della natura legislativa della compilazione giustinianea all'auctoritas proveniente dal tacito consenso dei sovrani nei confronti di un uso consuetudinario inveterato, un po' come aveva creduto nel nostro Mezzogiorno Marino da Caramanico alla fine del Duecento. In concreto, poi, v'era la prassi giudiziaria a mantener viva la forza normativa se non di singole leggi, di rado applicate testualmente, almeno di istituti romani: e i giudici costituivano pur sempre un grosso canale tra vita giuridica e potere politico, dacché esercitavano di fatto, all'interno degli Stati monarchici di antico regime, una funzione vicaria della normazione ufficiale in quanto produttiva di una sorta di moderni iura, ma formalmente si presentavano come funzionari che parlavano e comandavano in nome del re.

 

11. Comunque ancóra nel Settecento, e sempre in Italia, quando Ludovico Antonio Muratori condannava questo diritto giurisprudenziale perché fonte di confusione intollerabile, egli faceva discendere i suoi gravi difetti dalla superbia di un ceto che, pretendendo di conoscere le leggi, in realtà le consultava poco, preferendo trastullarsi tra consilia, trattati e decisioni. E così – egli diceva – quei giudici e giuristi ai quali sarebbe toccata la funzione di semplici interpreti dell'ordinamento finivano col tradire il proprio ruolo, creavano diritto a discrezione e quindi cadevano spesso nell'arbitrio. Neppure il contraddittore Francesco Rapolla, che giustificava come inevitabili i dubbi, le ambiguità, le ombre e le incertezze che affannavano il fòro, attribuiva alla giurisprudenza funzione diversa dall'ermeneutica di leggi. Sopratutto di quelle giustinianee, naturalmente: nessuno in Italia si sognava infatti di negare che fossero 'leggi', né di mettere in dubbio i loro rapporti con lo Stato, con la sovranità, con il 'politico'.

A tagliare formalmente quei rapporti saranno naturalmente le codificazioni, le quali ripudieranno il Corpus iuris: una condanna a morte, quasi l'impossibilità di abbeverarsi a un'auctoritas sovrana – vera o falsa, forte o debole, vicina o lontana – gli togliesse, insieme con la forza precettiva, anche le ragioni della vita.

La gloriosa legislazione giustinianea, miniera inesauribile specialmente di diritto privato fin quasi ai giorni nostri, dopo essere andata tanto a lungo in cerca, se non di uno 'Stato', comunque di una potestà capace di erogare forza precettiva, dopo aver invocato il riconoscimento di un qualsiasi padre creatore anche fittizio, dopo aver subíto un parziale processo di 'delegificazione', sotto i colpi di quei codici in cui si concentrava il monopolio normativo dei nuovi Stati era inevitabilmente destinata a ridursi a mero strumento di cultura. E, naturalmente, a oggetto ricercatissimo di storiografia.

 

 

 

 



 

[1] P. Grossi, L'ordine giuridico medievale, Roma-Bari 1995, 41 ss.

 

[2] P. Grossi, L'ordine giuridico medievale, cit., 59.

 

[3] P. Grossi, L'ordine giuridico medievale, cit., 135 ss.

 

[4] P. Grossi, L'ordine giuridico medievale, cit., 157. V'è da osservare tuttavia che, se la funzione del Corpus era anche di costituire il «momento di validità» delle costruzioni dei giuristi, esso doveva per forza rivendicare una propria valenza formalmente normativa, ossia fondata sulla sanzione dell'autorità. Venerabilità e sacralità, giustamente invocate dal Grossi come forze convalidanti, potevano certo bastare all'uomo medievale, ma non al giurista.

 

[5] Frutti di autonomia, in una cornice di sostanziale indifferenza del potere politico, i diritti medievali sono significativamente caratterizzati come «senza Stato» da P. Grossi, Un diritto senza Stato (la nozione di autonomia come fondamento della costituzione giuridica medievale), in Quaderni fiorentini 25, 1996, 267 ss.

 

[6] Data l'incompatibilità del concetto di Stato con l'idea, diffusa presso i giuristi medievali, che il rapporto tra la respublica e il princeps fosse identico a quello che corre tra un minorenne e il suo tutore: è ovvio che uno 'Stato' sotto tutela non si sarebbe potuto concepire (W. Ullmann, Juristic Obstacles to the Emergence of the Concept of the State in the Middle Ages, in Annali di storia del diritto 13 (1969 = Studi in memoria di Francesco Calasso), 43-64, ora in W. Ullmann, The Church and the Law in the Earlier Middle Ages [Variorum], XII, London 1975). Le fonti romanistiche dell'immagine 'tutoria' del principe sono state ricordate da R. Orestano, L'assimilazione canonistica degli enti ecclesiastici ai pupilli e la sua derivazione romanistica, in Études d'histoire du droit canonique dédiées à Gabriel Le Bras, II, Paris 1965, 1353 ss. Ombre di questa funzione del sovrano sembrano comunque conservarsi nella dottrina fino al Settecento (nei confronti, ad esempio, delle comunità locali nel Granducato toscano secondo L. Mannori, Il sovrano tutore. Pluralismo istituzionale e accentramento amministrativo nel principato dei Medici (Sec. XVI-XVIII) [Per la storia del pensiero giuridico, 45], Milano 1994, 205-211).

 

[7] E' il secolo del consolidarsi delle monarchie, e da tempo usa trovarvi gli elementi caratterizzanti di un modello di Stato dall'aspetto moderno (centralizzazione del potere, utilizzazione istituzionale delle autonomie, costruzione di apparati vòlti a gestire il consenso dei sudditi, e via dicendo): se ne veda una recente rassegna negli atti del convegno tenuto a Chicago nell'aprile 1993 (Origini dello Stato. Processi di formazione statale in Italia fra medioevo ed età moderna, a cura di G. Chittolini, A. Molho, P. Schiera, Bologna 1994), con le ulteriori note della recensione di L. Mannori, Genesi dello Stato e storia giuridica, in Quaderni fiorentini 24, 1995, 485 ss. Recentemente M. Stolleis si è anche soffermato, oltre che sull'emergere dell'immagine bodiniana della sovranità, anche sulla comparsa dei concetti di ragion di stato e di leggi fondamentali (Staat und Staatsräson in der frühen Neuzeit. Studien zur Geschichte des öffentlichen Rechts, Frankfurt a. M. 1990, 178 ss.). Il panorama degli studi celebrativi di questo modello cinquecentesco.

 

[8] Recentemente si è dato per scontato che il concetto di sovranità sia apparso, sì, nell'età medievale, ma solo «con la rivendicazione della plenitudo potestatis da parte delle repubbliche cittadine», si sia affermato al tempo delle polemiche sull'indipendenza del Regno di Francia dall'Impero, dalla Chiesa e dai poteri feudali (le Roi ne tient de nului fors de Dieu et de lui), e infine sia stato eretto al rango di nozione centrale dello Stato solo, naturalmente, con Jean Bodin (F. Fardella, Le dogme de la souveraineté de l'État. Un bilan, in Archives de philosophie du droit 41, 1997, 116 s.).

 

[9] P. Grossi, L'ordine giuridico medievale, cit., 42.

 

[10] Nel celebre passo di Ulpiano ove il diritto che ad statum rei Romanae spectat è contrapposto a quello che concerne la singulorum utilitatem (D. 1.1.1.2); lo status della res Romana riguarda le cose sacre, i sacerdoti e i magistrati, ossia appunto l'organizzazione pubblica. Né ha significato granché diverso l'espressione rursus res publica suum statum recepit che, nell'Enchiridion attribuito a Pomponio, allude al ristabilimento dell'ordine legale (D. 1.2.2.24 in fi.). Questo valore del termine si riscontra naturalmente nelle applicazioni ad altri tipi di realtà organizzate: a livello cittadino, per esempio, lo status civitatis rappresenta quell'ordine stabile che il patrizio Basilio, prefetto al pretorio di Odoacre, auspica non sia turbato a Roma da discordie nell'elezione del pontefice (Graziano, Decretum D. 96 c. 1).

 

[11] Si sa quanto la Chiesa tenesse alla preservazione dello status generalis ecclesiae il cui sovvertimento era stato addirittura visto dai primi decretisti come limite all'azione della plenitudo potestatis papale (E. Cortese, La norma giuridica [Ius Nostrum, 6], I, Milano 1962, 107, nt. 21).

 

[12] Cfr. G. Post, Status Regni: Lestat du Roialme in the Statute of York, 1322, ora in Studies in Medieval Legal Thought. Public Law and the State, 1100-1322, Princeton, New Jersey 1964, 310 ss. Nelle città si parlava dello status di corporazioni o di altre organizzazioni minori. Il termine assumeva ulteriori, noti valori, se riferito a persone (status giuridico soggettivo, dignità ecc.): cfr. su quest'insieme di significati specialmente G. Post, Studies in Medieval Legal Thought, 241 ss.

 

[13] Tanto che il termine status, genericamente allusivo alla stabilità di una struttura giuridica, aveva sempre bisogno di un complemento di specificazione per definire se stesso mediante il riferimento a una realtà politica: come ha notato di recente A. Rigaudière, Pratique politique et droit public dans la France des XIVe et XVe siècles, in Archives de philosophie du droit 41, 1997, 85 s. Qui anche folta bibliografia sulle vicende dello 'Stato', nome e realtà, in Francia.

 

[14] Y. Sassier, L'utilisation du concept de res publica en France du Nord aux Xe, XIe et XIIe siècles, in Droits savants et pratique françaises du pouvoir, a cura di J. Krynen e A. Rigaudière, Bordeaux 1992, 79 ss.

 

[15] A. Rigaudière, Pratique politique et droit public dans la France des XIVe et XVe siècles, cit., 87 ss.; in particolare sull'autonomia concettuale della dignitas anche J. Krynen, L'empire du roi. Idées et croyances politiques en France XIIe-XVe siècle, Gallimard, Paris 1993, 127 ss. Restano classici H.E. Kantorowicz, The King's Two Bodies. A Study in Mediaeval Political Theology , Princeton, New Jersey 1957, 273 ss. (trad. it.di G. Rizzoni, I due corpi del Re. L'idea della regalità nella teologia politica medievale, con introd. di A. Boureau, Torino 1989, 234 ss.) e G. Post, Status Regis: Lestat du Roi in the Statute of York, ora in Studies in Medieval Legal Thought, cit., 368.

 

[16] Marino da Caramanico, Prooemium in Constitutiones Regni Siciliae, § xiii, ed. F. Calasso, I glossatori e la teoria della sovranità, 3ª ed., Milano 1959, 191 s. Il regno-universitas era configurato da Marino come mero oggetto di dominiumdirectum del papa e utile del re – ossia come ente collettivo materiale simile all'eredità giacente.

 

[17] Jacques de Revigny, Prooemium Authenticorum, ms. Madrid 573, fo. 40vab, passo segnalato e parzialmente edito in E. Cortese, Il diritto nella storia medievale, II, Roma 1995, 406 s. e nt. 48.

 

[18] Il termine superanus (da cui superanitas) che viene ovviamente da superior, è comparso soltanto nel Duecento in Francia nel linguaggio feudale per indicare, essenzialmente, l'originarietà del potere regio sottratto alle limitazioni, appunto, della delega feudale. Dei due derivati in lingua volgare, suzerain è rimasto radicato nel terreno feudale, souverain è passato nella terminologia pubblicistica generale (F. Calasso, I glossatori e la teoria della sovranità, cit., 44 ss., nt. 11). Ma questa è storia solo di parole.

 

[19] Quando ordina ad un suo missus, perentoriamente, lege Romanam legem: cfr. E. Cortese, Il diritto nella storia medievale, I, cit., 246.

 

[20] F. Calasso, Medioevo del diritto, Milano 1954, 232 s.

 

[21] Leges e auctoritas ecclesiastica son messe insieme nei famosi documenti caietani segnalati da F. Brandileone, La «stipulatio» nell'età imperiale romana, ora in Scritti di storia del diritto privato italiano, II, Bologna 1931, 509, 515-526. La precedente diffusione della formula in Provenza è stata segnalata da G. Vismara, «Leges» e «canones» negli atti privati dell'alto Medioevo: influssi provenzali in Italia, ora in Scritti di storia giuridica, II, Milano 1987, 28 ss.

 

[22] G. Vismara, «Leges» e «canones» negli atti privati dell'alto Medioevo: influssi provenzali in Italia, cit., 16 ss. Sul problema dell'utraque lex una sintesi ora in E. Cortese, Il diritto nella storia medievale, I, cit., 385 ss.

 

[23] La più esplicita delle dichiarazioni tramandateci in proposito si trova nella sua celebre costituzione del 26 settembre 1165 sulla testamentifactio degli ecclesiastici (ed. L. Weiland, in MGH, Const. et acta publ., I, 322, nr. 227.3, qualche riferimento bibliografico in E. Cortese, Il rinascimento giuridico medievale, 2a ed., Roma 1996, 34 s.). Tale pretesa di Federico era comunque venuta all'orecchio dell'opinione pubblica coeva: più o meno nello stesso giro d'anni le Questiones de iuris subtilitatibus parlano chiaramente degli imperatori germanici che volevano essere successori dei romani. La scienza bolognese, a tutta prima, concesse poco spazio al problema: comunque, quando si trattò di aggiungere costituzioni imperiali coeve alle novelle giustinianee, lo fece.

 

[24] Furono di nuovo le Questiones de iuris subtilitatibus a proclamare l'esigenza dell'unum ius cum unum sit Imperium (ed. H. Fitting, 1.16, 57, ed. G. Zanetti, 2.16, 16), che significava portare alle ultime conseguenze il rapporto diritto romano-Impero. Per chi avesse voluto negar questo rapporto, proseguiva l'autore, non v'era che riconoscere una pluralità di diritti corrispondente alla pluralità dei regni: ch'era modo esplicito di dichiarare la necessaria dipendenza dell'ordinamento giuridico da quello politico. Ma, a onor del vero, si trattò di una voce che rimase a lungo piuttosto isolata tra i legisti.

 

[25] Il notissimo passo di Alano è stato segnalato e pubblicato da J.F.von Schulte, Literaturgeschichte der Compilationes antiquae, besonders der drei ersten, in Sitzungsberichte der kaiserlichen Akademie der Wissenschaften 66, Wien 1870, 90.

 

[26] Basti ricordar, tra le opere che più hanno pesato sulla storiografia degli ultimi cinquant'anni, W. Ullmann, The Development of the Medieval Idea of Sovereignty, in English Historical Review 64, 1949, 1 ss., ora in W. Ullmann, Law and Jurisdiction in the Middle Ages [Variorum], VII, London 1988; S. Mochi Onory, Fonti canonistiche dell'idea moderna dello Stato (Imperium spirituale - iurisdictio divisa - sovranità) [Pubbl. dell'Univ. cattolica del Sacro Cuore, n. s., 38], Milano 1951; F. Calasso, I glossatori e la teoria della sovranità, cit.

 

[27] Nel XII secolo la tesi circola e, per la verità, chiama in causa la Chiesa non solo come autorità di sostegno del diritto romano, ma come fonte della necessaria universalità dell'Impero. E' citatissimo il frammento di Uguccione da Pisa in cui, dal principio ch'è la Chiesa a voler l'unus imperator in orbe, si deduce che omnes tenentur vivere secundum leges romanas, saltem quas approbat ecclesia (cfr. F. Calasso, I glossatori e la teoria della sovranità, cit., 63 s. e nt. 58; S. Mochi Onory, Fonti canonistiche dell'idea moderna dello Stato, cit., 174 s.). Si tratta della glossa In eos solos alla D. I c. 12 Ius Quiritum che offre effettivamente un singolarissimo panorama di problemi; già edita da F. Maassen, Beiträge zur Geschichte der juristischen Literatur des Mittelalters, insbesondere der Decretisten-Literatur des zwölften Jahrhunderts, in Sitzungsberichte der kaiserl. Akademie 24, Wien 1857, 78; da S. Mochi Onory, Fonti canonistiche dell’idea moderna dello Stato, cit., 174 s.; infine da G. Catalano in appendice al suo Impero, regni e sacerdozio nel pensiero di Uguccio da Pisa, Milano 1959, 61 s. La si ripubblica qui con poche varianti (in corsivo) ispirate da una nuova collazione dei testi pubblicati e dei mss. Vat. lat. 2280, f. 3vb; Borgh. 272, f. 2vb e Vat. lat. 2491, fo. 3rab: Qui subsunt Romano imperio, nam <Maassen om.> hoc iure soli Romani et qui subsunt Romano imperio astringuntur. Sed quid de Francis et Anglicis et aliis ultramontanis, nunquid ligantur legibus romanis et tenentur vivere secundum eas? Respondeo: utique, quia subsunt vel subesse debent romano imperio, nam unus imperator in orbe, ut vii. q. i. In apibus (C.7 q.1 c.41), sed in diuersis provinciis diuersi reges sunt sub eo, ut vi. q. iii. Scitote (C. 6 q.3 c.2). Preterea quicunque utuntur lingua latina dicuntur Romani, unde et lingua latina romana dicitur, ut de cons. di. iiii. Retulerunt (D. 4 c. 86 de cons.), et ideo Romani hic intelliguntur omnes latini; secundum hoc <Maassen: unde et> omnes latini hoc iure astringuntur. Item saltem ratione pontificis subsunt romano imperio, omnes enim christiani subsunt apostolico, et ideo omnes tenentur vivere secundum leges romanas saltem quas approbat ecclesia. Item quid de clericis, nunquid et ipsi ligantur legibus romanis? Sic: illis que approbantur ab ecclesia et non obviant canonibus, sed non ideo quia sunt promulgate ab imperatore, sed quia sunt confirmate a domino papa, ideo in causis ecclesiasticis locum habent leges seculares que non obviant canonibus, alias autem repelluntur, ut xxxiii. q. ii Inter hec (C. 33 q.2 c.6) et xi. q.i. Continua (C. 11 q.1 c.5). Item quid de sarracenis? Respondeo non ligantur legibus romanis quia eas non receperunt, unde secundum eas non tenentur vivere, licet in aliis peccent. Videtur tamen quod et ipsi debeant subesse romano imperio, et ideo teneantur vivere secundum leges romanas.  Sed quid si non tenentur et lis est inter sarracenum et christianum, cuius leges sequetur iudex? Respondeo <Maassen: Judex sequitur>: suas uel rei.»

 

[28] Seppure re e príncipi noluerint confiteri se subesse imperatori, necessarie habent confiteri se subesse pontifici Romano, si legge in un trattato anonimo che potrebb'essere di Enrico da Cremona, almeno secondo il cauto suggerimento di R. Scholz, Die Publizistik zur Zeit Philipps des Schönen und Bonifaz VIII. Ein Beitrag zur Geschichte der politischen Anschauungen des Mittelalters [Kirchenrechtliche Abhandlungen hrsg. U. Stutz, Heft 6-8], Stuttgart 1903, 171, ed. del testo 476; cfr. ora F. Calasso, I glossatori e la teoria della sovranità, cit., 63.

 

[29] La teoria di Lorenzo, in chiara polemica con quella di Uguccione, è riferita da Guido da Baisio nel Rosarium, C. 12 q.2 c.8 Cum devotissimum, nr. 7: Quaelibet regio potest sibi imponere legem, et ita Franci et Hispani non obligantur romanis legibus. Romana ecclesia non confirmat eas, nisi circa eos circa quos proditae sunt, C. de infantibus expositis, l. ult. (C. 8.51.3.1 in fi.). Unde non circa Gallicos vel Hispanos, secundum lau. Il passo è anch'esso segnalato dal Maassen, Beiträge zur Geschichte der juristischen Literatur des Mittelalters, insbesondere der Decretisten-Literatur des zwölften Jahrhunderts, cit., 81.

 

[30] Ed. L. Weiland, in MGH, Const. et acta publ., II, 72 e 82; ed. J.-L.-A. Huillard-Bréholles, Historia dipl. Friderici Secundi, I.2, Parisiis 1852 = Torino 1963, 469 s. e 741 ss.; cfr. G. De Vergottini, Studi sulla legislazione imperiale di Federico II in Italia. Le leggi del 1220 [Pubbl. straord. dell'Acc. delle Scienze di Bologna, 11], Milano 1952, 66 s.; F. Calasso, I glossatori e la teoria della sovranità, cit., 130 s. L'impegno di Federico, peraltro immediatamente violato, era di emancipare súbito dopo la propria incoronazione imperiale il figlio Enrico e di consegnare a lui il Regno di Sicilia, ne forte...aliquid unionis regnum ad imperium quovis tempore putaretur habere.

 

[31] L'innegabile lunga osservanza del diritto romano nell'Italia meridionale non basta a convalidarne l'efficacia, spiega Marino, senza il sostegno del tacito consenso regio: Sed licet vero regnum desierit subesse imperio, tamen iura romana in regno per annos plurimos convenientia regum qui fuerunt pro tempore servata diutius consensu utpote tacito remanserunt (M. da Caramanico, Prooemium in Constitutiones Regni Siciliae, xix, ed. F. Calasso, I glossatori e la teoria della sovranità, cit., 199).

 

[32] G.M. Monti, Intorno a Marino da Caramanico e alla formula "rex est imperator in regno suo", in Annali del Seminario Giuridico Economico della R. Università di Bari 6, 1933, 10 ss. dell'estr.

 

[33] Iura scripta quibus utuntur ab antiquis volumus observari, non quia eorum nos obliget auctoritas seu astringat, sed quia mores eorum in hac parte non duximus immutandos: passo edito da P.A. Isambert, Recueil Général des Anciennes Lois Françaises, Paris 1830, 164, e riportato da W. Ullmann, The Development of the Medieval Idea of Sovereignty, cit., 11 e nt. 1.

 

[34] La definizione della sovranità come plena et rotunda potestas si legge in Marino, Prooemium, VIII, ed. F. Calasso, I glossatori e la teoria della sovranità, cit., 186; egli si dilunga anche a descriverla interpretando suggestivamente i simboli del potere,185.

 

[35] Si può osservare, tuttavia, che anche la semplice astrazione, forse per via dell'amore medievale per le forme d'intelletto, almeno nella mentalità italiana conservava un'efficacia concreta singolare. A metà del Trecento Firenze pagava a Carlo IV, per esempio, 100.000 fiorini per ottener la revoca del banno di Arrigo VII, la Perugia di Bartolo comprava talune libertà, i signori andavano in caccia di vicariati imperiali, l'ascesa dei Visconti riceveva impulso dalla concessione del ducato da parte dell'Imperatore Venceslao: tutti segni del riconoscimento d'un potere imperiale che nei fatti era un'ombra (J. Canning, The Political Thought of Baldus de Ubaldis [Cambridge studies in medieval life and thought, 6], Cambridge 1987, 18 s.).

 

[36] E' uso corrente, com'è noto, riferir la teoria, poi largamente seguíta per secoli, alla glossa ordinaria di Bernardo da Parma alla Per venerabilem d'Innocenzo III (gl. minime recognoscat in X. 4.17.13) e alla Super Specula<m> di Onorio III (gl. non utuntur in X. 5.33.28).

 

[37] Come avverte il P. Grossi, L'ordine giuridico medievale, cit., 11.

 

[38] Iacopo Bottrigari, in l. Nemo, C., de sententiis et interlocutionibus omnium iudicum (7.45.13), ed. Parigi 1516 = Bologna 1973 [Opera Iuridica Rariora, XIII], II, f. 47vb: Nota quod iudex non debet sequi sententias nisi in se habeant rationem, et tunc non sequitur eas quia sic iudicatum fuerit, sed quia ius ita vult, sicut faciunt francigene qui servant rationem legis non quia lex hoc dicit, quia leges non allegant, sed quia ratio vult sic.

 

[39] Una sintesi ora in A. Guzmán, Ratio scripta [Ius Commune, Sonderhefte, 14] Frankfurt a. M. 1981, 40 ss.

 

[40] A. Duck, De usu et authoritate iuris civilis Romanorum in dominiis Principum Christianorum, I, 2, 6, ed. London 1689 = Bologna 1971, 24, ed. Neapoli 1719, 22.

 

[41] Nato a Orléans nel 1477, nominato senatore di Milano da Luigi XII prima del 1509, ebbe nel settembre del 1512 la carica di consigliere al Parlamento di Rouen e nel luglio del 1525 quella di secondo presidente del medesimo tribunale, carica che tenne per il resto della vita. Morì nel novembre del 1549. La Nouvelle biographie générale di Hoefer, XVII, Paris 1856, 591 e ora il Dictionnaire de biographie française del 1975, 1211-12, pongono la sua nomina a senatore di Milano nell'anno 1518 per volontà di Francesco I: ma il silenzio che su Jean Feu mantengono le cronache milanesi e le storie del Senato non consentono riscontri all'ipotesi di una conferma di Jean Feu al Senato milanese da parte del nuovo re.

 

[42] De liberis praeteritis, C. 6.28 in fi. L'anno della repetitio si rileva dalla lettera di lodi scritta a Jean Feu dal collega senatore Giacomo Filippo Simonetta il 2 luglio 1510 e pubblicata in testa all'edizione del pezzo negli opera dell'Igneo, Lugduni et Aureliae 1541, I, fo. [17]v: Repetitio quam in florentissima Academia Ticinensi superiori anno habuisti (la lettera manca nell'ed. pavese del 1513; non ho potuto vedere l'editio princeps del 1510). In questa lettera il Simonetta testimonia altresì che la quaestio sull'indipendenza del re di Francia era stata una sorta di appendice della repetitio (quandam appendicem nonnullas quaestiones addidisti). L'indice preposto alle varie repetitiones pavesi dell'Igneo nella stampa curata in questa città da Bernardino Garaldi tra il 5 settembre e il 26 ottobre del 1513 avverte invece che i pezzi risalivano a pubbliche lezioni tenute il 10 agosto 1510. Ma è assai più attendibile la data che si desume dalla lettera del Simonetta: l'indicazione del 1510 potrebbe o riferirsi a un solo pezzo, o essere il frutto di una confusione con l'anno dell'editio princeps pavese la cui esistenza è testimoniata da A.G. Cavagna, Libri e tipografi a Pavia nel Cinquecento. Note per la storia dell'Università e della cultura, II [Fonti e studi per la storia dell'Università di Pavia, 3], Milano 1981, nrr. 136-138, p. 235 (curatore di quell'editio princeps fu Iacopo di Borgofranco, del quale compare nell'elenco della Cavagna, nr. 151, p. 237, anche una stampa di disputationes dell'Igneo eseguita nel successivo 1511: ma potrebbe trattarsi della continuazione dell'editio princeps che fu compiuta, come la successiva pavese del 1513 dovuta a Bernardino de Garaldis, a scaglioni successivi di pezzi separati).

 

[43] Jean Feu, An rex Franciae recognoscat imperatorem, nr. 41, nei Commentarii Ioannis Ignei...in aliquot constitutiones..., ed. Lugduni et Aureliae 1541, I, fo. 67ra: dicit Bal. in l. Nemo C. de sen. et interlo. om. iud. (C. 7.45.13) quod Galli non utuntur legibus imperialibus ut eas pro legibus habeant, sed quia sumptae sunt ex ratione naturali ex qua non potest commode nec honeste recedi, ideo eis utuntur.

 

[44] Baldo, in l. Nemo, C., de sententiis et interlocutionibus omnium iudicum (C. 7.45.13, ch'è la costituzione di Giustiniano in cui s'impone ai giudici di giudicar non exemplis ma legibus), pr.: Nota quod iudex non debet sequi sententias nisi in se habeant rationem, et tunc non sequitur eas quia sit hoc vel illo modo iudicatum, sed quia ius ita vult. Sicut faciunt Francigenae qui servant rationem legis, non quia lex hoc dicat, nam leges non allegant, sed quia ratio sic vult. But.

 

[45] Cfr. supra, nt. 34.

 

[46] A. Guzmán, Ratio scripta, cit., 51; anche E. Cortese, Il diritto nella storia medievale, cit., II, 479 e nt. 47.

 

[47] Poco dopo la discussione della quaestio la citò Jean Montaigne, ex docente tolosano di leges trasferitosi a Bordeaux, nel suo Tractatus de authoritate Magni Consilii et Parlamentorum del quale egli stesso dice, nell'epistola al lettore, di aver dato mano nel 1510, la notte del 29 agosto, vigilia del giorno della decollazione di Giovanni Battista (cfr. l'ed. in appendice alle Decisiones di Nicolas Bohier, nr. 47, Venetiis 1576, 903 s.). Va tuttavia osservato che la stampa del trattato, recante in margine le additiones di poco successive del Bohier, è disordinatissima, e parte delle additiones si rivela scivolata nel testo: sicché non può esser escluso che la citazione dell'Igneus risalga al Bohier e non al Montaigne.

 

[48] È suggestiva, per esempio, la notizia data da G. Coquille sulla polemica corsa in proposito tra due presidenti del Parlamento di Parigi della seconda metà del Cinquecento, Pierre Lizet e Christophe de Thon: l'uno definiva il diritto romano norma comune di fronte alla quale il diritto francese era speciale e soggetto quindi a interpretazione restrittiva, l'altro lo relegava invece al livello di semplice ratio scripta al traino delle consuetudini: in taluna delle quali, nel corso del lavoro di emendatio di cui era stato incaricato, non aveva esitato a introdurre regole romane (A. Guzmán, Ratio scripta, cit., 49 ss.). La cornice del dibattito era, a onor del vero, la questione di cosa s'intendesse per diritto comune in Francia: ch'è problema diverso e, come si sa, dibattutissimo. Quanto poi, in particolare, alla quaestio di Jean Feu sull'indipendenza del re, essa risulta ben nota a taluni avvocati che operavano innanzi al Parlamento di Parigi (tra l'altro ai canonisti impegnati a trattare dei poteri regi sulle chiese di Francia dopo il concordato del 1516 tra Francesco I e Leone X: cfr. ad es. le additiones di Philippus Probus alla lectura di Jean Le Moyne al Sesto, ed. Venetiis 1585, fo. 351rb, e quelle alla Prammatica Sanzione di Carlo VII del 1438, ed. Parisiis 1546, fo. 3ra).

 

[49] Cfr. F. P. De Stefano, Romani, longobardi e normanno-franchi della Puglia nei secoli XV-XVII. Ricerche sui rapporti patrimoniali fra coniugi fino alla prammatica «de antefato» del 1617 [Pubbl. della Fac. giuridica dell'Univ. di Napoli, 173], Napoli 1979, 101 s.