N. 3 – Maggio 2004 – Memorie

 
 
 
Maria Teresa Guerra Medici

Università di Camerino

 

 

 

 

LE ORIGINI DELLO STATO MODERNO TRA RES FAMILIARIS E RES PUBLICA

 

 

 

 

 

 

 

Sommario: 1. Privato e pubblico nella formazione dello stato signorile. – 2 Famiglia e potere. – 3. Res familiaris e Res pubblica. – 4. La continuità dinastica. – 5. La tutela materna e la reggenza del regno. – 6. Un problema per la storia giuridica e delle istituzioni.

 

 

 

1. – Privato e pubblico nella formazione dello stato signorile

 

La formazione dello Stato[1] nella sua fase iniziale, mostra strette relazioni tra forme e istituti che siamo abituati a considerare attinenti alla sfera privata delle persone e a quella domestica della famiglia e forme ed istituti che siamo abituati a ritenere attinenti alla cosa pubblica[2].

Con il termine ‘privato’ si vuole mettere in luce quanto di ‘non statuale’ si trova in società che, dal medioevo alla formazione dello stato assoluto, presentano figure, strutture e pratiche di governo che non coincidono, o non coincidono totalmente, con le istituzioni pubbliche e statali formalizzate e riconducibili ad una concezione dello Stato, inteso come un concetto forte, un nucleo di sovranità piena, verso la quale si sono appuntati i riesami critici del più recente dibattito storiografico[3].

La confusione fra sovranità e proprietà, tipica degli ordinamenti del regime feudale, si trasmise agli ordinamenti signorili e principeschi dell’età moderna ove perdurò la commistione di elementi privatistici- patrimoniali e giuspubblicistici-giurisdizionali. Alla base di ciò stava la prevalenza del momento personale su quello istituzionale nell’esercizio del potere che si fondava sulla concezione germanica del potere come diritto personale del signore.

Nella vita giuridica medievale la realtà politico-istituzionale aveva appannato la distinzione fra diritto pubblico e diritto privato[4] e la scienza giuridica si dibatteva sul significato del contrasto tra la consuetudine e la legge tanto che Bulgaro ed i suoi allievi avevano «preso ad argomentare da privatisti proponendo soluzioni congeniali alla realtà dei tempi»[5].

La distinzione fra diritto pubblico e diritto privato risaliva alla autorevole fonte del diritto romano, che tuttavia, distingueva poco[6]. La scienza giuridica medievale[7] aveva tentato di definire il concetto della publica utilitas e del rapporto fra utilitas pubblica e privata in relazione ai diversi interessi individuali e della collettività. Interessi che non sono necessariamente in contrasto. La frase di Pomponio, secondo la quale la costituzione della dote, per quanto attinente alla sfera privata, fosse di interesse pubblico, trovava conferma nella glossa[8] e nelle interpretazioni di Cino da Pistoia e Bartolo da Sassoferrato.

Cino da Pistoia[9], analizzando i criteri che differenziavano i due diritti, notava come talvolta il diritto privato arrivasse ad influenzare quello pubblico. In particolare, in riferimento alla dote, il giurista rifiutava l’affermazione che la tutela della dote fosse di interesse pubblico, ma riconosceva l’esistenza di una relazione tra l’interesse pubblico e quello privato perché la dote consentiva il matrimonio alle donne e quindi la procreazione dei figli, e questo era nell’interesse della società, vorremmo dire nell’interesse pubblico della collettività[10]. Bartolo riteneva che l’interesse pubblico a che le donne fossero dotate fosse un interesse principalmente privato e, in seconda istanza, anche pubblico[11], in quanto aveva rilevanza sociale come fondamento economico del matrimonio. In sostanza, quel che la giurisprudenza voleva mettere in risalto, era l’esistenza di un interesse pubblico alla costituzione delle famiglie e quindi di una stretta correlazione tra gli interessi privati ‘personali’ e quelli pubblici ‘istituzionali’.

Gli incerti confini tra il diritto pubblico e il diritto privato erano ugualmente incerti nel campo delle istituzioni politiche. La commistione o contiguità di pubblico e privato era conseguente al modo in cui gli stati europei si erano formati assorbendo un forte pluralismo di corpi, ceti, centri politici dotati di poteri autonomi, che per tanto tempo ne hanno condizionato la storia e la politica. Sulla base delle vecchie formazioni politiche permasero ancora nell’età moderna nei nuovi stati o domini principeschi, per molte ragioni, forme assai varie di ordinamenti di tipo feudale, comunale, signorile[12].

A questo si aggiungono gli ampi sistemi, che superano i confini regionali e statali, generati dai legami delle famiglie principesche e nobiliari impegnate nelle strategie di tipo familiare-privato che avevano una ricaduta immediata sulla struttura dello stato ed una influenza decisiva sulla sua formazione territoriale e sul consolidamento del suo potere politico.

Le politiche familiari furono determinanti per la affermazione, il consolidamento e l’ampliamento dello stato signorile al punto che diventa difficile distinguere la res familiaris dalla res publica, soprattutto quando si faccia riferimento alla famiglia del Principe: a questo riguardo i termini privato e pubblico si confondono sino a perdere significato.

Nel così detto stato patrimoniale, il principe esercitava i poteri sovrani come suoi diritti personali e patrimoniali privati secondo una concezione legata alla formazione e alle vicende proprie del feudalesimo che sopravvise negli ordinamenti delle Monarchie medievali, continuò ad essere carattere fondamentale degli stati autoritari del Rinascimento e si estese anche ai principati di nuova formazione.

Le istituzioni giuridiche che si formarono ebbero una vitalità incomparabile e furono a lungo di importanza fondamentale per la formazione della civiltà giuridica europea in quanto vissero e fecero sentire i loro effetti sino alla rivoluzione francese ed oltre. I concetti dello stato feudale vengono da molti autori identificati con quelli dello stato patrimoniale[13]. Nello stato, così detto, feudale-patrimoniale, si assiste al progressivo corrompersi del diritto pubblico, di cui si stenta a ricavare la nozione medesima.

Gli storici del diritto e delle istituzioni hanno difficoltà a distinguerne le rispettive zone e a definirne i termini formali, i limiti e i confini di strutture considerate private come i gruppi familiari, le parentele, le fazioni, i partiti, le corti principesche che non sono formalizzate come istituzioni pubbliche ma che, ad un attento esame, si rivelano come elementi vitali della organizzazione politica della società ed elementi essenziali della costruzione dello Stato[14]. Sono forze ed elementi diversi, ma tutti collegati e complementari gli uni agli altri, che contribuiscono a determinare un sistema di istituzioni, di poteri e di pratiche di governo che si intersecano e si condizionano. Distinguere ciò che è pubblico da quanto è privato in senso moderno rischia di produrre fraintendimenti e di falsare la visione storica di realtà politiche che di quella distinzione non erano consapevoli e alla quale non erano interessati.

 

 

2. – Famiglia e potere

 

Quando si consideri la storia della unità politica di un popolo non si può prescindere da quelle manifestazioni di potere che non sono derivate dallo stato ma che non possono neanche essere intese solo da punti di vista giusprivatistici. Una domanda alla quale può essere interessante rispondere è quella relativa al posto occupato della famiglia del principe nella storia della edificazione del potere monarchico.

La famiglia, in generale, era strettamente connessa con la cosa pubblica, la relazione che intercorreva tra le due istituzioni fu efficacemente messa in evidenza da Jean Bodin che rigettò la separazione di origine aristotelica tra ‘economia’ e ‘politica’, vale a dire tra la famiglia[15] e la città, perché non si poteva costruire una città senza costruire le case come non era possibile smembrare la parte dal tutto. La casa, cioè la famiglia e l’amministrazione domestica, erano da considerare parte della Repubblica, una parte vitale dell’insieme. Secondo Bodin, la legge naturale che regge la società umana, così come l’universo fisico, rimanda necessariamente alla famiglia la cui organizzazione naturale e concreta non è una parte o un elemento della Repubblica ma il modello stesso della Repubblica. 

La relazione tra le famiglie dei sudditi e la Repubblica aveva un riflesso, a nostro parere non irrilevante, nello stretto rapporto tra la famiglia del principe e la cosa pubblica soprattutto in quella fase originaria del potere sovrano che si formò attraverso la signoria.

Come scrive Otto Brunner, una radice essenziale dello stato moderno si trova nel fenomeno della Signoria. Esistono molti tipi di signorie: si conoscono signorie fondate su popoli, imperi, territori, servi, su unioni consociate come le comunità cittadine, e via di seguito[16]. Tuttavia per quanto diverse, tutte le signorie si fondano sulla “possibilità di trovare obbedienza ad un comando determinato”, secondo una nota espressione di Max Weber[17], al quale le comunità, le città e le popolazioni si sottomettevano, più o meno spontaneamente nella speranza di un più ordinato e pacifico modo di vivere[18].

Il primo passo verso l’affermazione della Signoria fu compiuto quando al signore venne riconosciuto un potere vitalizio che divenne potere dinastico nel momento in cui il signore riuscì a far riconoscere come successore il proprio figlio o ad esso, alla morte del padre, la città riconobbe un diritto di successione. Attraverso la concessione del vicariato perpetuo[19] da parte dell’imperatore o del papa, i diritti signorili si sganciarono dal condizionamento comunale rivestendo l’autorevolezza di un potere autonomo. Quando le famiglie signorili ottennero un posto permanente nella gerarchia imperiale, si compì l’ultimo passo verso un potere sovrano.

La natura della signoria si comprende bene prendendo le mosse dalla casa del signore[20], intesa nel senso più ampio, anche come famiglia del signore. Come famiglia, la familia del signore, si usava indicare tanto l’insieme dei suoi seguaci e di quanti erano a lui legati da vincoli di fedeltà, o da interessi comuni, quanto la famiglia naturale costituita da persone legate da vincoli, più o meno stretti, di sangue[21].

Il governo signorile e dei principi era pur sempre un governo personale-familiare nel senso che il principe e la sua famiglia, i consanguinei, erano al centro dello stato che, infatti, dalla famiglia principesca prendeva il nome. Stato visconteo, mediceo, sabaudo, angioino, estense, e ancora gli stati di Ancien Regime borbonico, asburgico, ecc., sono denominazioni che stanno ad indicare la stretta relazione ed interdipendenza che legavano la comunità e la organizzazione politica alla famiglia regnante.

Lo stato regionale - rinascimentale si era costruito e costituito attorno ad una famiglia signorile che era riuscita a raggruppare e controllare, anche con la violenza, territori e città che in tanto si possono considerare parte di uno stato, in quanto sono legate ad una famiglia signorile che funge da elemento unificante di terre e città che spesso non sono neanche contigui fra di loro.

Nella famiglia regnante le popolazioni stesse riconoscevano la loro identità. Boussuet, che aveva sotto gli occhi l’affermazione della monarchia francese, poteva ben scrivere «Così i popoli si uniscono nell’affetto alle famiglie Reali. La gelosia che naturalmente suol aversi contro coloro che a se vedonsi superiori, qui si cambia in amore, ed in riverenza: gli stessi Grandi ubbidiscono senza ripugnanza ad una Famiglia ch’è sempre stata veduta Padrona e alla quale si sa non poter mai esser uguagliata altra Famiglia»[22].

Il sistema di governo familiare era ancora efficiente nello stato tardo-medievale e moderno e conservò alcune caratteristiche sino alla fine dell’ Ancien Régime. è ancora Boussuet, che facendo ricorso alle sacre scritture, ci spiega l’essenza della comunione tra il sovrano e la sua famiglia. Secondo questa concezione, il regno altro non sarebbe che la successione dell’organizzazione familiare[23].

Da questo quadro non sono escluse le donne che, come i maschi, contribuivano a gestire e perpetuare il potere familiare. Le donne non furono solo oggetto di scambi matrimoniali, mezzo di ingrandimenti ed acquisizioni territoriali e indispensabili strumenti di procreazione. Furono soprattutto veicoli di trasmissione e conservazione del potere. La forma più consueta attraverso la quale si manifestò il potere femminile fu la Reggenza, per il marito assente o per l’erede minorenne. Attraverso questa istituzione si manifesta il raccordo tra l’ambiente ‘privato’, domestico del principe e della sua famiglia con quello pubblico dello Stato.

 

 

3. – Res familiaris e Res pubblica

 

La identificazione del principe con la sua famiglia naturale e la contiguità tra la sfera privata-domestica della casa signorile con la sfera pubblica della signoria, ebbero un rilevante riflesso nella storia della affermazione del governo principesco. Il governo signorile-monarchico si affermò, consolidò e trasmise attraverso gli istituti del diritto di famiglia: matrimonio, dote, successione, adozione, testamento, tutela.

Il matrimonio del principe era questione che riguardava lo stato e il bene pubblico e la scelta della sposa era una questione politica di rilevanza generale, ad essa Egidio Romano dedicò molto spazio e raccomandazioni. La sposa di un principe doveva essere di bell’aspetto, ma anche bella interiormente. Doveva essere ricca, nobile e portare al marito molti amici nobili e potenti. Fra moglie e marito si stabilivano patti e convenzioni che si potevano assimilare ad un regime politico e che dovevano essere rispettati. La moglie non doveva essere considerata una schiava ma, sebbene inferiore all’uomo quanto alla ragione, essa era da ritenere una compagna, tamquam socia[24].

I matrimoni principeschi avevano grande rilevanza per le conseguenze patrimoniali e territoriali che ne derivavano. Gli stati si ingrandivano, si consolidavano e ridimensionavano in seguito ai matrimoni. Gli apporti dotali delle spose dei principi furono uno dei principali sistemi di accorpamento dei territori. La politica matrimoniale di stati e sovrani fu sempre accorta e in molti casi lungimirante. L’impero asburgico fu il risultato più noto ed importante della politica matrimoniale della dinastia.

L’apporto della moglie del sovrano alla costruzione dello stato non si limitava ai territori portati in dote ma si esprimeva anche in una forma di collaborazione che, difficile da definire, diveniva evidente quando questa assumeva il governo in sostituzione del marito assente. E’ una forma di reggenza non definita dalle istituzioni, nota attraverso, le cronache e i documenti, consolidata dalla consuetudine in conseguenza della concezione patrimoniale-familiare dello stato a capo del quale vi era un padre con al fianco una madre che lo sostituiva in caso di necessità.

Lo Stato moderno nella sua formazione non fu tributario solo al Principe quale ‘buon padre di famiglia’. La metafora re-paterfamilias era stata espressa da Budé, ed anche dall’italiano Scipione di Castro[25], che coltivò l’immagine del principe come padre e pastore, l’immagine ebbe grande e duratura fortuna presso gli scrittori politici, i moralisti ed i sovrani stessi.

Come ogni padre di una buona famiglia anche il principe era affiancato da una ‘madre di famiglia’ che prestava la sua opera per il mantenimento e rafforzamento della continuità dinastica e della sua azione politica tutte le volte che ve ne era occasione e necessità. De Mariana dedicò molta attenzione alla figura della moglie del principe come madre di famiglia ed educatrice del figlio ed erede del regno[26]. Mariana era soprattutto preoccupata dalla possibilità che l’erede al trono fosse affidato alle cure delle nutrici invece che a quella della madre.

La collaborazione della coppia sovrana non si limitava alla educazione della prole, ma si estendeva anche alla pratica di governo. Questa tradizione risale molto addietro nel tempo, è testimoniata sia nel mondo romano-bizantino che in quello germanico, ma si può ricondurre più precisamente alla figura della Consors regni[27] che divenne in seguito coadiutrice, vicaria, reggente[28]. Era anche una forma di collaborazione coniugale ben nota nell’ambito dell’organizzazione feudale, dove la signora era impegnata in sostituzione del signore, sovente lontano per adempiere ai compiti diplomatici e militari inerenti alla sua posizione[29]. La collaborazione coniugale dei sovrani, anche ai fini di governo, era una prassi ammessa e riconosciuta pressoché in tutte le forme di governo signorile, principesco o monarchico. Qualche esempio sarà sufficiente per indicare la estensione di questa prassi.

Federico II, in partenza per la Germania, affidò la reggenza del regno di Sicilia alla moglie, Costanza d’ Aragona, seguendo una consolidata tradizione risalente tanto ai suoi antenati normanni quanto a quelli della moglie[30]. In tempi più recenti, ad essa fecero ricorso anche sovrani come il re d’Inghilterra Enrico VIII e l’imperatore Carlo V. L’imperatore fu un accorto dispensatore di incarichi familiari che attribuì alla moglie Elisabetta, alla zia Margherita, alla sorella Maria, al fratello Ferdinando e al figlio Filippo secondo le necessità nel suo vasto impero. Quando Carlo era assente dalla Spagna, la reggenza nominale del regno spettava alla moglie.

I signori italiani non furono da meno: Cosimo de’Medici in due occasioni affidò il governo di Firenze ad Eleonora di Toledo, lo stesso fecero il duca di Modena e ripetutamente i Savoia[31]. Altri signori non esitarono a servirsi, in più occasioni, della collaborazione della moglie.

Ancora più marcata la ‘collaborazione coniugale’ nella Russia dei Romanov, dove si riscontra addirittura la successione della moglie al marito, come avvenne quando Caterina I successe al marito Pietro il Grande[32]. La successione di Caterina II a Pietro III fu una successione traumatica e drammatica ma fu sempre ritenuta valida e mai contestata[33].

 

 

4. – La continuità dinastica

 

“Morto il re viva il re”: voleva dire che l’istituto regio era sempre vivo e lo era attraverso un meccanismo successorio che faceva succedere al padre il figlio primogenito, senza soluzione di continuità. La carica regia in origine fu elettiva[34] e il nuovo sovrano doveva ricevere il consenso dei grandi del regno, mentre secondo l’antico diritto germanico, i figli ereditavano i beni paterni attraverso la successione legittima. Già nel primo medioevo si riscontra una tendenza verso la successione ereditaria attraverso una coesistenza di diritto di sangue e di elezione che si realizzava attraverso la designazione, e incoronazione, del successore da parte del re che è la approvazione dei grandi del regno.

Nell’813 Carlo Magno associò al regno il figlio Ludovico il Pio, incoronandolo e Ugo Capeto, eletto nel 987, aveva in seguito associato al regno il figlio Roberto. La designazione del sovrano non escludeva il consenso. La monarchia non era ancora ereditaria, ma il re faceva eleggere il figlio ed erede mentre era ancora in vita. Il re designato succedeva così al padre e il principio della elezione era salvo[35]. La stabilità e longevità della monarchia capetingia appare assicurata soprattutto dal fatto che i re capetingi ebbero sempre un figlio maschio in età per succedere: circostanza che fu determinante per l’affermazione del principio ereditario.

Attraverso la designazione ereditaria del nuovo signore, secondo linee di successione che tendono a consolidarsi nel tempo, si assicurava stabilità alle ancora incerte sorti del potere politico e si evitava il pericolo di contese e lotte furibonde fra altri eventuali aspiranti al governo dello stato. Il meccanismo della successione ereditaria coniugava gli interessi della famiglia, alla trasmissione del potere ad uno dei suoi membri, con quelli della comunità ad un governo stabile.

La successione di un solo figlio, il primogenito, contrastava con le regole del diritto franco ma seguiva quelle del feudo franco[36], che richiedeva la trasmissione del feudo ad un solo successore che garantisse i servizi dovuti, ed era divenuta la norma nella monarchia di Francia[37], dove, nell’ambito dei territori feudali, si era formato uno stato territoriale. La primogenitura fu una conseguenza della designazione per elezione. Il re presentava uno solo dei suoi figli per essere eletto: quando la ereditarietà, in linea discendente, sostituì l’elezione, il principio unitario era già fissato.

Il principio ereditario ormai dominava nell’ambito dei grandi feudi[38]: la nobiltà, che si era affermata grazie ad esso, era disponibile ad ammettere lo stesso principio per la corona. Il principio ereditario monarchico pare si sia affermato con Filippo Augusto, che rivendicava ascendenze carolingie sia da parte paterna che materna[39], e divenne la norma nei regni di Francia, Inghilterra, Spagna e nei grandi principati, l’imperatore veniva invece eletto ma sulla base di una successione dinastica. I principi italiani crearono delle dinastie pur facendo salvo il mito della scelta popolare[40].

Le dottrine politiche e giuridiche oscillavano fra uno e l’altro principio. Il principio elettivo appare favorito dalla scienza politica e giuridica italiana che si riferivano alla elezione dell’imperatore e del papa. L’elezione era il sistema fatto proprio dalla Chiesa[41]. Tommaso d’Aquino, che sulla scorta delle Scritture attribuiva alla monarchia la qualità di optimum regimen per mantenere l’unità e la pace del popolo, riteneva che i principi potessero essere scelti, per le loro virtù, anche fra le persone comuni e che a tutti competeva il potere di decidere: la scelta del sovrano apparteneva al popolo[42].

Diversamente, Egidio Romano riteneva che la successione ereditaria fosse preferibile, e per tre ragioni. Perché i re sarebbero stati più solleciti nella cura ed amministrazione del regno, considerandolo una cosa propria e sapendo di poterlo trasmettere ai propri discendenti. Perché l’erede, divenuto re per diritto di successione, non avrebbe potuto vantare meriti superiori e quindi sarebbe stato meno incline alla superbia e immune da tentazioni tiranniche. Ed infine, perché il popolo era naturalmente più incline ad obbedire al figlio di un re che appariva più adatto a gestire il potere di una persona nuova ad esso estranea. La successione ereditaria aveva anche il vantaggio di ridurre, se non di eliminare, le discussioni e le liti attraverso la designazione precisa di un erede, il maschio primogenito[43].

Egidio Romano aveva studiato a Parigi[44] dove, dopo alterne vicende, legate alla condanna dell’aristotelismo di cui appariva un valido difensore, tornò per essere dichiarato dottore. In quella università insegnò dal 1286 al 1292. Divenne successivamente arcivescovo di Bourges e fu impiegato dal papa in varie occasioni, infine morì ad Avignone. La sua dimestichezza con l’ambiente francese, dove la monarchia dinastica era ormai una realtà consolidata, aveva certamente influito sulle sue convinzioni. La dottrina francese, attraverso Pietro Jacobi, aveva ormai acquisito l’idea che la successione nel regno fosse simile ad una successione patrimoniale[45] .

Idee diverse maturavano nella scienza politica italiana. Marsilio da Padova affrontò la questione in modo sistematico cominciando con l’esaminare la formazione del potere monarchico dalle origini, distinguendo una signoria nata in seguito ad elezione, da parte dei cittadini, da una signoria originaria nata o perché il signore era stato il primo a stabilirsi in una regione, prima di lui inabitata, o perché aveva ereditato un potere originale, costruito dai suoi antenati, o perché lo aveva conquistato in battaglia.

Quando il potere era derivato da elezione si doveva stabilire se attraverso di questa era stato conferito un incarico a tempo determinato, o un incarico a vita, oppure valevole anche per i successori. Marsilio riteneva preferibile la elezione del monarca perché riteneva le persone più disposte a sottomettersi ad un potere scelto liberamente[46] (1.9.5-9). Tuttavia, non mancava di ricordare che Aristotele, a favore della successione di lignaggio, sosteneva che il signore avrebbe avuto maggiore interesse alla cosa pubblica, che avrebbe curato come una sua proprietà, e al bene comune se avesse avuto la certezza di operare anche in favore della sua discendenza. Inoltre, con i signori appena eletti si poteva correre il rischio che questi si comportassero arrogantemente da nuovi arricchiti e non come signori da tempo abituati al potere. I sudditi inoltre, apparivano più disposti a rispettare un potere assunto da tempo che uno di nuova creazione (1.16.1-2). Il maestro padovano, nonostante tutte queste ragioni, che ricordavano da vicino le convinzioni di Egidio Romano, riteneva migliore e più adatta alla vita civile l’elezione del principe, che non desse luogo a successione, certo che la moltitudine dei cittadini avrebbe scelto un uomo prudente e virtuoso (1.16.11-12). Marsilio risentiva delle idee, che all’epoca dominavano in alcuni circoli romani, sul ruolo del popolo romano nella elezione del papa e dell’imperatore[47] e inoltre aveva presente la situazione delle città italiane e delle loro cariche elettive; infatti fa un riferimento esplicito alla elezione del doge di Venezia (1.16.13).

La scienza giuridica italiana trecentesca, tuttavia, attraverso i suoi più illustri esponenti, mostra un progressivo adeguamento a quella che era ormai divenuta la regola del potere dinastico nelle monarchie europee. Se Bartolo da Sassoferrato ancora mostra delle perplessità ed una evidente preferenza per il metodo elettorale, Baldo degli Ubaldi, nella seconda metà del secolo, non poteva non riconoscere compiuto il principio della successione ereditaria del potere regio.

Bartolo affrontò il tema nel trattato de Regimine civitatis, dove riconosceva che i popoli e le genti erano meglio governati quando erano guidati da un re forte e potente[48]. Anche per il giurista, la giustificazione originaria del potere regio e della sua trasmissione in via ereditaria, risiedeva nelle Sacre Scritture[49]. Tuttavia, un potere simile gli appariva adatto ad un piccolo regno o dominio con poca gente (parva gens), ma ove le popolazioni fossero molte, governate da più principi ma tutti partecipi di una comunità più grande, allora il Principe, colui che era a capo di tutti, doveva essere eletto direttamente, o indirettamente, da Dio oppure da elettori ispirati da Dio. La monarchia poteva essere ereditaria o elettiva, ma quest’ultima si confaceva maggiormente alla monarchia universale, ossia all’impero[50]. Bartolo riteneva che la elezione fosse più vicina al volere divino.

Una definizione assai acuta, che non si discosta nella sostanza da quanto affermava Bartolo, ci viene da Andrea d’Isernia, il quale, nel suo commento alle Costituzioni del Regno di Napoli, affermava che nel suo regno il re era pari all’imperatore, ma precisava che l’Impero era da considerarsi personale, perché ad esso si accedeva mediante l’elezione, il regno invece poteva essere considerato ‘reale’ perché è ereditario[51].

La formazione della monarchia francese aveva influito sulle tesi e sulle idee dei giuristi e maestri d’oltralpe, allo stesso la monarchia napoletana degli Angiò, e le dottrine francesi che erano state importate nel Regno[52], non potevano non far sentire la loro influenza sul pensiero di uno dei suoi più grandi giuristi[53].

La differenza tra impero e regno, per quel che riguardava la successione, era ben presente anche ai Commentatori. Baldo degli Ubaldi distingueva i regni che si basavano sulla elezione da quelli che si fondavano sulla successione, in questi ultimi era ormai accertato che dovesse ereditare il primogenito, come era sempre avvenuto e come sarebbe sempre stato. Anche Baldo operava una distinzione tra impero e regno, identificando l’essenza reale del regno attraverso un procedimento mentale diverso e meno preciso di quello indicato da Andrea d’Isernia.

Il principio ereditario, sosteneva Baldo, non poteva essere valido per l’impero, perché attraverso la successione ereditaria si sarebbero potuti trovare alla sua guida un fanciullo o una donna, come avveniva nelle successioni patrimoniali. Il re dei romani doveva essere eletto e confermato[54] e Baldo sosteneva la validità di questo principio facendo ricorso al diritto canonico che aveva fissato le modalità della elezione dell’imperatore[55]. La successione dell’imperatore non poteva dirsi valida, solo in virtù della investitura del suo predecessore, per essere efficace doveva venire completata dalla elezione, perché era questa e non la successione ereditaria che creava l’imperatore.

Le contrastanti posizioni in merito alle elezione e alla successione ereditaria del principe trovano spiegazione nei diversi ambiti politico-giuridici a cui fanno riferimento. Le dottrine italiane erano più attente ai poteri che riconoscevano nell’imperatore e nel pontefice una carica ed un potere in cui dominavano gli aspetti pubblicistici ed istituzionali su quelli privatistici e familiari. Le dottrine maturate oltralpe si riferivano invece a poteri maturati e sviluppati nell’ambito della organizzazione feudale in cui gli aspetti privatistici e familiari erano determinanti. L’analogia tra regno e feudo fu sottolineata da Luca da Penne in riferimento al principio della successione del primogenito valida in «regnum vel feudum»[56].

La continuità del potere monarchico, scriveva Martino da Lodi, che includeva non solo l’amministrazione ma anche la giurisdizione e la proprietà, poggiava sulla successione dell’erede affermatasi consuetudinariamente[57] nelle monarchie europee. Attraverso la ereditarietà si poneva l’accento sugli aspetti patrimoniali del governo monarchico. Ne conseguì la necessità di mettere in atto mezzi necessari per provvedere alla difesa del regno e dell’erede nel caso che questo, per ragioni di età o di salute, non fosse stato in grado di assolvere ai suoi compiti. Da qui il passo di affidare alla madre dell’erede minorenne la sua tutela e quella del regno.

Il testamento, con il quale il ‘buon padre di famiglia’ si preoccupava di sistemare le faccende che riguardavano la moglie, i figli e il patrimonio domestico, divenne anche la forma con cui il sovrano esprimeva le sue ultime volontà sulla tutela dell’erede e sul governo del regno.

 

 

5. – La tutela materna e la reggenza del regno

 

In caso di morte o di assenza del padre, si affidavano la protezione e la amministrazione della famiglia ad un membro di essa in grado di assolvere a questi compiti. Lo stesso avveniva nel caso di un sovrano, malato, assente o minorenne in nome del quale si esercitava la reggenza. Questa entrava in funzione nel caso di impossibilità del sovrano al governo. Fu una forma di governo largamente praticata da signori, principi, re e imperatori, per secoli, senza che ne venisse mai fissato uno statuto coerente. Su alcuni punti, come quello della minore età per il re, non si giunse mai a fissare la consuetudine istituzionale[58]. In Francia, gli Stati Generali, solo nel 1484, si pronunciarono sulla reggenza, questa entrava in funzione quando il re aveva meno di 14 anni[59].

Se l’erede, o gli eredi, erano minori, si affidava la loro tutela con la gestione del patrimonio ad un tutore di solito scelto tra i membri della famiglia. Attraverso la tutela si dava luogo alla reggenza dello stato che perdurava sino a che il nuovo sovrano non avesse raggiunto con la maggiore età la capacità di governare. Secondo la tradizione, la maggiore età per i regnanti si raggiungeva all’età di quattordici anni.

La reggenza poteva essere affidata ad un membro della famiglia, solitamente il parente maschio più prossimo, oppure ad un consiglio di reggenza composto da familiari e funzionari. La forma di reggenza più comune e longeva fu quella delle madri che assicurava la tutela degli interessi del sovrano minorenne insieme a quelli dello stato a garantire la successione al potere nel modo meno conflittuale.

La reggenza della madre per l’erede al trono minorenne seguiva il modello consolidato da lungo tempo per la tutela dei figli nelle famiglie comuni[60]. La tutela della madre divenne reggenza per il regno attraverso un processo di assimilazione consuetudinaria dei due istituti. Una consuetudine sviluppata a Bisanzio già dal quarto secolo, in uso presso le monarchie merovie, fra sesto e settimo secolo, e nell’impero tedesco dal nono secolo[61].

La reggenza divenne la prerogativa più rilevante delle regine vedove in quanto conferiva loro l’esercizio della sovranità. Talvolta si estese ad altre donne delle famiglie sovrane: alle sorelle, alle nonne, e talvolta alle zie e alle figlie. La reggenza materna, comunque, è quella che ricorre più spesso nella storia della formazione delle dinastie europee e degli stati che attorno a quelle dinastie si formarono.

 Di solito era il re che, come ogni padre accorto, sentendosi vicino a morire o per misura precauzionale, si preoccupava di assicurare protezione ai suoi discendenti ed una corretta amministrazione del patrimonio familiare affidando, con testamento, alla regina, il compito di tutrice per il re minorenne e di reggente per il regno.

Il re di Spagna, Alfonso il Saggio, nel suo testamento, aveva prescritto, che in caso di sua morte prematura, la regina doveva essere indicata come reggente durante la minorità del re. Sentendosi prossimo alla fine, il re aveva stilato un documento con il quale riconosceva alla moglie la intera dote e poneva il quindicenne erede sotto la sua protezione. Anche dopo che Ferdinando ebbe raggiunto la maggiore età di diciannove anni, la regina rimase con un ruolo rilevante di supervisione negli affari del regno[62]. La reggenza della madre fu riconosciuta formalmente dalla Ley de las Siete Partidas. La seconda Partida, per quanto riguarda la successione al trono, prescriveva che questa avvenisse secondo la linea diretta e rispettasse la primogenitura. In caso di minorità del re, questi veniva affidato ad un consiglio di tre o cinque tutori. Ma se era vivente la madre, a lei spettavano la tutela del re e il governo del regno, a patto che non si risposasse[63].

Anche il re dei francesi Luigi VIII, in punto di morte aveva dichiarato che il successore, il regno e tutti i suoi figli dovevano essere posti sotto la tutela della regina Bianca di Castiglia (1188-1252) che alla morte del marito assunse la reggenza per il re minorenne[64]. Bianca governò con abilità e saggezza. Quando Luigi partì per la Crociata la madre, sessantenne, assunse di nuovo la reggenza[65].

La reggenza della madre, si affermò perché era una istituzione funzionale agli interessi della dinastia e al mantenimento della pace. Aveva il pregio di eliminare le contese di parenti, tanto ambiziosi quanto infidi, sempre di grande danno per il paese, favoriva la linea di successione dinastica, mediante la quale si assicurava una trasmissione del potere meno turbolenta.

Gli interessi del re minorenne, o impedito, non erano sempre garantiti dal parente che se ne assumeva la tutela e non era sempre facile stabilire quale fosse il parente più prossimo. Il problema apparve drammaticamente evidente in Francia durante il regno di Enrico VI. Il re era soggetto a ricorrenti condizioni di insania che rendevano necessaria una reggenza: per essa si ritenevano ugualmente idonei il fratello e lo zio paterno[66]. Il contrasto tra Luigi d’Orleans e il duca di Borgogna, Filippo l’ardito, provocò uno dei periodi più dolorosamente turbolenti della storia del paese[67]. Ai principi, alla lotta si aggiunsero le ambizioni della regina Isabella di Baviera che reclamava per sé la reggenza e la tutela per l’erede minorenne Carlo VII[68].

Forse memore di quei tristi eventi, Luigi XI morente, affidò il tredicenne Carlo VIII alla tutela della sorella Anne de Beaujeu. La Grande Dame fu riconosciuta come Gouvernante du roi et de la France, titolo che fu successivamente usato per Caterina de’Medici che governò la Francia per una generazione, preservandone l’unità nella turbolenta epoca delle lotte di religione, ma non ebbe mai il titolo di Reggente. Quando i consiglieri, o i grandi del regno, volevano incontrare il piccolo re Carlo IX, trovavano presso di lui la madre che rispondeva in suo nome, e tanto bastava[69].

Nella Francia del XVI secolo il principio di designazione era divenuto chiaro, era il re che designava il o la reggente per suo figlio[70]. Se il re non aveva fatto conoscere la sua volontà esplicitamente, era la regina madre ad esercitare il ruolo di reggente di fatto[71]. Nel secolo successivo, Enrico IV, che stava preparando la guerra contro la Spagna, aveva istituito un consiglio di reggenza, composto da quindici persone, destinato a comandare durante la sua assenza. La regina Maria de’Medici, che era stata incoronata regina di Francia a Saint Denis, era chiamata a presiederlo come Reggente, ma senza avere alcun potere superiore su decisioni che venivano prese a maggioranza. Nelle ore drammatiche succedute all’assassinio del re, nel timore di disordini sanguinosi, il Parlamento di Parigi, riunito al completo, aveva acconsentito a dichiarare reggente Maria de’Medici e ad abolire il consiglio di reggenza. La sera stessa, la regina ricevette dal presidente de Blancmesnil l’arret che le conferiva lo scettro. Il giorno successivo, 15 maggio, il re Luigi XIII, assiso sul lit de justice, conferiva alla madre la reggenza del regno[72]. Con l’arret del Parlamento di Parigi, la reggenza riceveva per la prima volta un riconoscimento formale.

Luigi XIII, in punto di morte, nominò la regina Anna d’Austria, reggente per il figlio di appena cinque anni affiancandole un consiglio di reggenza[73]. Il re era morto da pochi giorni che il suo successore, Luigi XIV, sul lit de justice, presiedeva la seconda seduta del Parlamento di Parigi durante la quale il testamento del re fu cassato e la reggenza affidata alla regina[74]. Era una sorta di colpo di stato che ricordava quanto era avvenuto alla morte di Enrico IV. Voltaire commenterà più tardi, che l’usanza secondo la quale la reggenza spettava alla madre, era divenuta per i francesi quasi una legge, come quella che escludeva le donne dal trono[75]. Il grande illuminista francese aveva sottolineato come alla base della reggenza materna vi fosse l’istituto della tutela della madre per il figlio minore che veniva interpretata come un diritto della regina a governare in nome del re minorenne. Solo nel 1789 la Costituente escluse formalmente le donne dal regno ed anche dalla stessa reggenza.

La reggenza femminile non fu una forma di governo limitato alla Francia. Fu adottata in tutta Europa ed anche gli stati italiani, grandi e piccoli, fecero uso delle reggenze femminili.

Gli stati sabaudi, in particolare, furono spesso retti da questa forma di governo, che contribuì in modo decisivo al perpetuarsi della dinastia e alla formazione dello stato[76]. L’influenza della Francia divenuta prevalente aveva contribuito a diffondere l’uso al quale la dinastia sabauda fece spesso ricorso. La reggenza di madri, mogli, e talvolta figlie, pure fra molte difficoltà, assicurò la continuità di una dinastia fra le più longeve d’Europa. Già alla morte di Amedeo VII, il conte rosso, si era manifestata la lotta tra la madre di questi, a cui il conte morente aveva lasciata la reggenza per il figlio Amedeo VIII, e la vedova[77].

Amedeo IX, incapace di governare perché epilettico, aveva nominato come reggente la moglie Iolanda di Francia contro il volere dei fratelli. Alla morte del duca, gli Stati generali dichiararono Iolanda reggente per Filiberto I. La reggenza per gli Stati sabaudi fu ancora esercitata da Bianca del Monferrato ed ancora nel XVII secolo dalle duchesse Cristina e Giovanna Battista. L’istituto della reggenza materna era così storicamente connaturato alla storia della casa di Savoia, che alla fine della seconda guerra mondiale fu presa in considerazione da Luigi Einaudi nel tentativo di salvare la istituzione monarchica in Italia[78].

 

 

6. – Un problema per la storia giuridica e delle istituzioni

 

La storia della reggenza consente la ricostruzione di una istituzione importante dal punto di vista della storia politica ed anche sociale, ma dal punto di vista della storia del diritto produce risultati incerti.

La reggenza è un istituto proprio delle forme di governo monarchico[79], ha lo scopo di garantire la continuità ideale della corona in considerazione del supremo interesse dello stato. Nel tentativo di dare una esatta definizione della natura giuridica della reggenza, la dottrina ha oscillato tra la rappresentanza, e la supplenza, la figura del mandato e quella della delegazione[80].

Le costituzioni moderne, superando il soggettivismo ed il personalismo monarchico, hanno eliminato la possibilità che la reggenza, come per il passato, sia regolata dalla volontà del re. Nel caso di minore età del re, o della sua impossibilità a governare, diviene reggente il principe parente più prossimo, nell’ordine di successione al trono, purché maggiorenne, qualora manchino maschi, la reggenza può competere alla regina madre nonostante le limitazioni della legge salica. Con questa disposizione veniva rovesciata la secolare consuetudine che voleva la madre preferita nella reggenza del re minore a tutti i suoi parenti.

La reggenza materna fu una forma di governo longeva, diffusa a largo raggio, e di notevole rilevanza per la storia istituzionale, ma di essa non si trovano fondamenti giuridici. Solo in Spagna, dove la Ley de las siete partidas affidava la tutela dell’erede e la reggenza del regno alla madre[81], si può fare riferimento ad una norma precisa riconducibile alla autorità sovrana. Altrove, invece, la reggenza materna veniva ammessa o contestata secondo le circostanze: la reggenza della madre sollevava spesso discussioni e contrasti, da parte della nobiltà feudale o dei principi del sangue che pretendevano una parte nel governo, ma quasi sempre gli avvenimenti furono più forti delle leggi.

Le questioni sollevate da quanti ambivano al trono, o al controllo dell’erede minorenne, si scontravano con l’opinione generale che sosteneva le ragioni della madre vista sempre con occhi favorevoli dalla popolazione che, a proposito della tutela di un fanciullo, non distingueva bene tra il bambino e il sovrano ed aveva difficoltà ad anteporre ai diritti della madre quelli di parenti troppo spesso interessati a sostituirsi al pupillo.

In Francia, sino alla Costituzione del 1791[82], il diritto della madre era sempre stato riconosciuto[83], sebbene solo a partire da Maria de’ Medici sia stato riconosciuto formalmente il diritto della reggente, sostenuto dal Parlamento, di esercitare la sovranità da sola senza dividerla con altri. Tuttavia, la reggenza materna cancellata dalla Costituzione francese, rimase in vita nelle altre monarchie europee. Ed anche in Francia, il divieto, emanato probabilmente in odio alla regina Maria Antonietta, non fu inteso in senso totalmente esclusivo o per lo meno non si ritenne di doverlo estendere alle mogli. Infatti, Napoleone I, in partenza per la campagna di Russia, nel 1813, affidò alla moglie Maria Luisa la reggenza dell’Impero e lo stesso fece Napoleone III con la moglie Eugenia de Montijo.

Il fondamento giuridico della reggenza si trova, come acutamente rilevato anche da Voltaire, nella tutela della madre per i figli minori che era diventata norma del diritto comune[84]. La tutela da istituto del diritto di famiglia diveniva un mezzo di designazione e assunzione del potere, che contrastava con la sempre affermata e sostenuta incapacità delle donne ad assumere i pubblici uffici.

In assenza di una norma positiva, come in Spagna, suppliva la volontà del defunto sovrano che nel suo testamento affidava[85] alla moglie la tutela dei figli e la reggenza del regno. Se il sovrano morente non aveva avuto modo di far conoscere le sue decisioni, erano i consiglieri, e quanti lo circondavano, a sollecitare una decisione in tal senso o a sostenere, a morte avvenuta, che quella era stata la sua ultima volontà. Di questo procedere è indicativa la storia della reggenza di Cristina di Francia per gli Stati sabaudi. Il duca era moribondo e gli fu proposto di testare lasciando la reggenza e la tutela alla moglie. Sembra che non ne avesse la forza, o la volontà: fu allora interpellato dal confessore, Padre Broglia, e si dice che il morente emettesse un sospiro che fu ritenuto un segno di approvazione, come venne poi sottoscritto da testimoni

Le pressioni dei consiglieri, e le loro dichiarazioni di fede potevano essere motivate da interessi personali, ma risiedevano, soprattutto, nello scopo di sottrarre il momento cruciale e delicatissimo della successione e della scelta del capo dello stato alla ambizioni, alle cupidigie e alle lotte di successione che avrebbero recato grave pregiudizio alla corona e danni al paese.

La reggenza materna, in età moderna, si era diffusa anche negli stati tedeschi in contrasto con il principio che voleva le donne incapaci del governo della cosa pubblica. Un giurista secentesco, Marquardo L. de Printzen[86] non mancò di rilevare la connessione tra la tutela materna, che non contrastava con il diritto naturale, e l’assunzione del governo di regni e principati in nome dei figli.

Secondo il giurista tedesco il potere di governo, ottenuto dalle donne per questa via, era da ritenersi frutto di qualche inganno oppure il risultato di uno speciale favore del popolo. Era un potere che, derivato da casi e consuetudini singolari, era tuttavia estraneo allo ius gentium che escludeva le donne dal governo e dalla difesa della repubblica. Il governo e la difesa della repubblica, precisava il giurista, sono prerogative maschili non femminili, alle donne non competeva il governo della famiglia e quindi nemmeno quello della città. E come non succedevano le figlie nel patrimonio o nel Principato della propria famiglia, così le vedove, che provenivano da un’altra famiglia, non potevano aspirare alla sua tutela.

In base a queste considerazioni, De Printzen poteva ritenere contrarie agli antichi costumi le reggenze francesi, quella sabauda, che dalla Francia traeva ispirazione, e quella svedese. La reggenza delle madri non era ammessa sulla base di un diritto, ma derivava da qualche artificio, o accordo o posizione di potere o dalla pietà che queste sapevano utilizzare[87].

Marquardo de Printzen affrontò anche il problema della tutela feudale. Riconosceva il diritto della madre e della nonna ad essere tutrici per i minori e si chiedeva se queste potessero esserlo anche nel feudo[88]. Il fatto che ciò fosse ammesso grazie alla presunzione dell’affetto materno gli pareva una giustificazione frivola. Da un punto di vista più correttamente giuridico, e di portata generale, notava che il tutore era anche l’amministratore di tutto il patrimonio e che non era necessario nominarne uno appositamente per il feudo. La madre e la nonna, che potevano essere tutrici legittime per il minore, lo erano per anche l’amministrazione del suo patrimonio e del feudo che ne faceva parte. Secondo il diritto germanico, le donne non erano capaci di giurisdizione feudale, ma, con una elaborazione di cui ci sfugge il nesso logico, de Printzen sosteneva che esse potevano acquistare l’amministrazione e la giurisdizione del feudo se questo rientrava a far parte del complesso patrimoniale[89].

Il giurista tedesco operava una di distinzione, e graduazione, tra i feudi mediati e i feudi imperiali, immediate dipendente dalla corona, e gli stati principeschi[90] nei quali, a differenza dei primi, non si poteva ammettere una tutela femminile. In verità la differenza di regime, politico e giuridico[91], subiva frequenti deroghe. Lo stesso de Printzen notava, infatti, esempi illustri nel principato d’Austria e nel Langraviato di Kassel e Darmstadt. In questo, Amelia Elisabetta era la tutrice per il figlio Guglielmo e in quello, la madre aveva fatto valere il suo diritto alla tutela del figlio, nel 1660, contro le aspirazioni dello zio[92]. Il giurista spiega la situazione del Langraviato con gli usi della famiglia alla quale era riconosciuto un diritto speciale in deroga al diritto comune. Per il ducato del Würtemberg, invece, l’imperatore concesse, nel 1678, la tutela dell’erede alla madre e l’amministrazione del ducato allo zio, al quale affiancò dei consiglieri[93]. Le norme che regolavano la successione e la tutela dei minori, non erano le stesse per tutti i possessi feudali.

L’interesse dell’imperatore di acquisire voti nella dieta si incontrava con quello delle famiglie che ambivano ad avere il loro feudo annoverato fra i feudi imperiali immediatamente dipendenti dalla corona. Nelle contrattazioni, le famiglie riuscivano ad ottenere il privilegio di mantenere gli antichi usi legati alle proprie tradizioni e storie familiari. Questo spiega il persistente uso della tutela materna e del feudo anche in alcuni feudi regi.

Il giurista tedesco tentava, faticosamente, di trovare un fondamento teorico-giuridico ad uno di fatto ben noto e consolidato ed ormai diffuso anche in Germania. Il suo ragionamento risentiva della influenza degli influssi razionalistici, affiorati tra fine Seicento e primo Settecento, che avrebbero dato il via a tendenze più logiche e sistematiche. Il clima culturale era orientato verso soluzioni sempre meno fondate sulla autorità dei testi romani o della dottrina del diritto comune e «si preferiva giustificare anche le teoriche più tradizionali col ricorso alla naturalis ratio»[94]. A questo riguardo ci pare rilevante la trasformazione della norma di diritto romano mater vel avia, con la quale si riconosceva alle madri e alla nonna la possibilità di essere tutrici per i minori[95], in principio fondato sul diritto naturale[96].

I problemi nascevano, secondo de Printzen, dallo ius gentium[97] che negava alle donne giurisdizione e facoltà di governo. La contraddizione fra quanto stabiliva il diritto e quanto avveniva nella pratica politica degli stati moderni, grandi e piccoli, era in qualche modo sanata riconoscendo per la nobiltà, e per le donne nobili in particolare, una condizione diversa.

La convinzione che la reggenza della madre, o all’occorrenza di altre donne della famiglia, fosse non solo nell’interesse della dinastia ma anche in quello dello stato si era fatta strada nella giurisprudenza insieme alla considerazione che alle donne nobili la consuetudine aveva concesso l’esercizio di un potere di giurisdizione. Il differente status delle donne nobili era stato rilevato dalla giurisprudenza medievale da Bartolo da Sassoferrato e da Baldo degli Ubaldi[98] e non è un caso se fu oggetto di numerosi trattati tedeschi, fra Seicento e Settecento, sulla condizione delle foemine illustris[99].

 

 

 

 

 



 

* Questo saggio è dedicato al professore Ennio Cortese, un segno di gratitudine per le indicazioni ed i suggerimenti e che mi ha dispensato con generosità e di cui spero di aver fatto buon uso.

 

[1] Intendo la parola Stato secondo la sua espressione più semplice, come viene indicata da Otto Brunner che si riferisce ad «ogni durevole forma di convivenza ordinata nell’unità politica», cfr. Terra e potere, Milano 1983, 158. Per quel che riguarda il concetto di stato nella storiografia più recente si veda M. Fioravanti, v. Stato (diritto intermedio), in Enciclopedia del diritto, 43, Milano 1990, 708-54. Si vedano inoltre Visions sur le devélopment des Etats Européens. Théories et Historiographies de l’Etat moderne. Actes du colloque organisé per la Fondation Européenne de la Science et l’Ecole française de Rome, Rome 18-31 mars 1990, W. Blockmans-J.P. Genet, Roma 1993.

 

[2] La storiografia più recente ha messo in risalto la rilevanza di una più adeguata comprensione della definizione e delle connessioni tra i concetti di pubblico e privato: G. Chittolini, Il ‘privato’, il ‘pubblico’, lo Stato, in Origini dello Stato. processi di formazione statale in Italia fra medioevo ed età moderna, a cura di G. Chittolini, A. Moloho, P. Schiera, Bologna 1994, 553-89. Il problema era già stato evidenziato da W. NÄf, Frühformen des “modernen Staates” im Spätmittelalter, in Die Entestehung des modernen souveranen Staates, hg. H.H. Hofmann, Koln 1967, 101 ss.

 

[3] A.M. Hespanha, Storia delle Istituzioni politiche, Milano 1994, 10-11. La dicotomia pubblico/privato è frequente nella storia delle dottrine giuridiche e delle dottrine politiche che le attribuiscono significati diversi da ridefinire di volta in volta, P. Cappellini, Privato e pubblico (diritto intermedio) in Enciclopedia del diritto, XXXV, Milano 1987, 660-87; N. Bobbio, Pubblico/privato, in Enciclopedia Eidaudi, XI, Torino 1980, 401-15. Altrettanto complessa è la valutazione dei termini e dei confini della sfera pubblica e di quella privata in epoche storiche diverse; J. Habermas, The Structural Transformation of the Public Sphere, Cambridge (Ma.) 1989; Public and Private in Social Life, ed. S.I. Benn- G.F. Grauss, London 1983; G. Duby, Potere privato, potere pubblico, in La vita privata dal feudalesimo al Rinascimento, ed. G. Duby, Bari 1987, 5-33. La contrapposizione tra pubblico e privato è centrale anche nella riflessione giuridica e politica femminista; J.B. Elshtain, Public Man, Private Woman, Princeton 1981; J.B. Landes, Women and the Public Sphere in the Age of French Revolution, Ithaca 1988.

 

[4] G. Astuti, La formazione dello stato moderno, Torino 1967, 6-7.

 

[5] cfr. E. Cortese, Il diritto nella storia medievale, II, Il Basso Medioevo, Roma 1995, 175. Qui si fa riferimento alla questione dibattuta fra i glossatori, della idoneità della consuetudine ad abrogare la legge, nata dalle contrastanti interpretazioni del significato della lex regia. La lex regia si riferiva alla decisione comiziale con cui il popolo romano, detentore originario della sovranità, l’aveva conferita al principe, segnando in questo modo la fine dell'età repubblicana (C. 1.17.1.7; D. 1.4.1pr. e I.1.2.6), sul tema si veda E. Cortese, Il problema della sovranità nel pensiero giuridico medioevale, Roma 1982 (1966), 92-97. La voluntas del popolo superava le implicazioni privatistiche del consensus, sul quale si fondava la consuetudine, solo quando si trasfigurava nella figura pubblicistica della respublica a cui sola competeva la legge. Si veda al riguardo E. Cortese, La norma giuridica. Spunti teorici nel diritto comune classico, II, Milano 1964 [rist. 1995], 122-126. Sulla Consuetudine come fonte di diritto si veda F. Calasso, Il Medioevo del diritto, Milano 1954, 181-214.

 

[6] D.1.1.1.2, …duae sunt positiones, publicum et privatum. Pulicum est quod ad statum rei Romanae spectat, privatum quod ad singulorum utilitatem: sunt enim quaedam publice utilia, quaedam privatim. «La summa divisio ulpianea, è vero, aveva individuato due positiones distinte – la pubblica, appunto, e la privata – nell’ordinamento; si trattava però di una divisione che divideva poco (il diritto pubblico riguardava solo le cose sacre, i sacerdoti e i magistrati) e per di più non intaccava affatto l’unità del genus del diritto…», cfr. E. Cortese, Il diritto, cit., 175.

 

[7] F. Calasso, Ius publicum e ius privatum nel pensiero comune classico, in Studi in memoria di Francesco Ferrara, Milano 1943, 5-35.

 

[8] D. 24. 3, Soluto matrimonio, i; gl. Et reipublicae, D. 24. 3, Item nota quod ratio privatae utilitatis concordat hic cum ratione publicae, quae etiam si dicordent, praefertur publica.

 

[9] Cino si riallacciava alla interpretazione di Piacentino cha aveva qualificato i due diritti come due positiones,vale a dire due specie della stessa ars iuris. Piacentino, Summa Institutionum, 1.1, De iustitia et iure, in fin., Cino da Pistoia, C. Pist. Lectura Super Disgetum vestus, 1.1, de iustitia et iure, ntt. 13-15.

 

[10] Cino da Pistoia, Cyni Pistorensis…in Digesti veteris libros commentariaFrancoforti 1578, r.1, De Iustitia et iure, nt. 17, f.3v-4r, 640-41.

 

[11] Bartolo da Sassoferrato, In Primam Infort. 24, 3, soluto matrimonio…, dotis causa, nt. 25.

 

[12] G. Astuti, La formazione, cit., 52-57.

 

[13] G. Astuti La formazione, cit., 57 ss. Per la definizione e il significato che le varie forme di stato hanno preso nel corso dei secoli si veda E. Bussi, La evoluzione storica dei tipi di stato, Cagliari 1970.

 

[14] Si veda per alcuni temi importanti della serie Istituzioni e società, il volume Potere e società negli stati regionali fra ‘500 e ‘600, a cura di E. Fasano Guarini, Bologna 1978 e per gli argomenti trattati e l’ampia bibliografia si veda Storia Sociale e dimensione giuridica. Strumenti d’indagine e ipotesi di lavoro. Atti dell’incontro di studio, ed. P. Grossi, Firenze 26-27 aprile 1985, Milano 1986; inoltre P. Cappellini, Gli ‘antichi’ e i moderni. Storia sociale e dimensione giuridica, in Rivista di storia del diritto italiano LVIII, 411-44; Origini dello stato, cit.

 

[15] J. Bodin, Le six livres de la République, l. I, II, si veda in proposito S. Goyard-Fabre, Jean Bodin et le droit de la République, Paris 1989, 81 ss.; G. Conti Odorisio, Famiglia e stato nella ‘République di Jean Bodin, Torino 1993.

 

[16] Per quel che riguarda la formazione e della signoria medievale si veda M. Bellomo, Società e istituzioni in Italia dal Medioevo agli inizi dell’età moderna, Catania 1976, 248-52; M. Caravale, Ordinamenti giuridici dell’Europa medievale, Bologna 1994, 243 ss.

 

[17] O. Brunner, Terra, cit., 160.

 

[18] G. Cassandro, Signoria, estr. da Nuovissimo Digesto Italiano, Torino 1962. Sul passaggio dal comune alla signoria si veda anche C. Storti Storchi, Diritto e Istituzioni a Bergamo Dal comune alla signoria, Milano 1984, 337-78, E. Cortese, La norma giuridica. Spunti teorici nel diritto comune classico, II, Milano 1964, 38 e nt. 56, e Il Diritto, cit., 280-81.

 

[19] Sulle prime manifestazioni di potere signorile e la concessione del vicariato per periodi limitati si veda E. Cortese, Il diritto, cit., 280-82; per la concessione del vicariato perpetuo si veda M. Ascheri, Istituzioni medievali, Bologna 1994, 285 ss. Durante lo scisma apparvero i primi vicariati perpetui. Nel 1463 Antonio Piccolomini ottenne il vicariato ereditario anche a favore delle eredi femmine. Per quel che riguarda la trasformazione del comune in signoria si veda della serie Istituzioni e società nella storia d’Italia, La crisi degli ordinamenti comunali e le origini dello stato del Rinascimento, a cura di G. Chittolini, Bologna 1979; E. Fasano, Gli stati dell’Italia centro-settentrionale tra Quattrocento e Cinquecento: continuità e trasformazione, in Società e storia VI, 1983, 617-39; G.M. Varanini, Dal comune allo stato regionale, in La storia a cura di N. Tranfaglia-L. Firpo, Il Medioevo, t. II, Torino 1986, 689-724. In relazione alla base giuridica di questa trasformazione si veda A. Marongiu, Storia del diritto pubblico. Principi e istituti di governo in Italia dalla metà del IX alla metà del XIX secolo, Milano 1973, 150-162. Per quel che riguarda più in particolare la formazione degli stati regionali in Italia si veda G. Chittolini, La formazione degli stati regionali e le istituzioni del contado. Secoli XIV e XV, Torino 1979; M. Caravale, Ordinamenti, cit, 649 ss.

 

[20] cfr. O. Brunner, Terra, cit., 355-60.

 

[21] Il diritto romano (C. 12.35.10) aveva formulato una concezione di famiglia in senso stretto, che comprendeva i coniugi i figli e i servi: …Quiqumque militum ex nostra auctoritate familias suas ad se venire meruerit, non amplius quam coniugia liberos, servos etiam de peculio castrensi emptos neque adscriptos censibus … Dal Medioevo si era invece affermata una concezione più larga espressa da Luca da Penne, Commentaria l. de Penna In Tres Libros…, Lione 1582, 825-26, …Sed larga significatione etiam amicus sub appellatio familia continetur…Item de molteplici familia, scilicet religiosa perpetua, mercenaria et profana et illa quae nec est perpetua nec mercenaria…. Sul significato delle diverse definizioni di famiglia si veda, ‘Familia’ del Principe e famiglia aristocratica, a cura di G. Mozzarelli, Roma 1988.

 

[22] J. B. Boussuet, Politica estratta dalle proprie parole della scrittura al serenissimo Delfino, Venezia 1714, l. II, prop. X, 69. Su Boussuet e la sua concezione del potere monarchico come assolutismo teocratico si veda M. Prelot, Storia del pensiero politico, I, Milano 1975 (1970), 255-64.

 

[23] J. B. Boussuet, Politica, cit., l. II, prop. III., 568.

 

[24] E. Romano (E. Colonna) (1243c.-1316), Aegidii Columnae Romani…De Regimine Principum Lib. III, Romae 1607, [rist. anas. Aalen 1967], I, L. I, I, cap. 8, 9, 10, 11, 12, 13, 14, 15.

 

[25] G. Budé, L’Institution du Prince, in Le Prince dans la France des XVIe et XVIIe siècles, a cura di C. Bontems, L.P. Raybaud, J.P.Brancourt, Paris 1965, a p. 812 si legge «…nulla desta più meraviglia e nulle è più encomiabile della saggezza con cui un individuo riesca a governare se stesso e la propria famiglia in modo giusto e decoroso. Tale saggezza è ancora più necessaria per coloro che, come i principi e i re, posseggono una famiglia più grande, anzi così grande da render impossibile contarne i membri.»; S. di Castro, A relation and Instruction Concerning the State of Milan, by don Scipione di Castro; Bodleian Library, Oxford, MS, Rawl. C.293, f. 35v. si veda anche S. de Castro, La politica come retorica, a cura di R. Zapperi, Roma 1978. Su Scipione di Castro si veda Dizionario Biografico degli italiani.

 

[26] J. de Mariana, De rege et regis institutione libri III, Toledo 1599, [rist. ans., Aalen 1969], l. I, c. II, 139-145 e c. III, 147.

 

[27] C.M. Mor, 'Consors regni': La Regina nel diritto pubblico italiano dei secoli IX-X, est. da Archivio Giuridico CXXXV, 1948; P. Delogu, Consors regni, un problema carolingio in Bollettino dell'istituto storico italiano per il medioevo e archivio muratoriano, LXXVI, 1964, 47-98. M.T. Guerra Medici, Regine, Madri e Reggenti nel diritto medievale in Rivista di storia del diritto italiano LXX, 1997, 209-45.

 

[28] Paolo Diacono, Storia dei Longobardi. In appendice Storia dei Longobardi di Benevento di Ercemberto, a cura. di I. Pin, Pordenone 1990, l. II, c.31: «In Italia i Longobardi di comune accordo elessero re in Ticino Clefi, uomo nobilissimo della loro nazione. Questi uccise o cacciò dall’Italia molti potenti Romani. Dopo aver tenuto il regno insieme alla moglie Masane per un anno e sei mesi, fu sgozzato con la spada da un uomo del suo seguito». L. III, 15: «Tiberio Costantino dopo che ebbe retto l’impero per sette anni, sentendo che si avvicinava il giorno della morte, in armonia col consiglio dell’Augusta Sofia scelse quale successore al trono Maurizio…». Nel 1356 Giovanna di Brabante sottoscrisse con il marito Venceslao impegni precisi con la popolazione che diedero origine ad una vera e propria costituzione.

 

[29] Di questa realtà abbiamo una testimonianza diretta attraverso C. de Pisan, Le livre des trois vertus, ed. C. Connon Willard Champion, Parigi 1989, dove la poetessa dà consigli e indicazioni a quelle signore che si trovano a dover gestire il feudo in assenza del marito, si veda anche M.T. Guerra Medici, I diritti delle donne nella società altomedievale, Napoli 1986, 195-96.

 

[30] I sovrani normanni affidavano le responsabilità di governo, in determinate occasioni, alle loro mogli o ad altre persone della famiglia. La regina Matilde di Fiandra (1083), figlia del conte Baldovino V, e moglie di Guglielmo il Conquistatore, governava la Normandia durante le assenze del marito e continuò a farlo sino alla sua morte. Cfr. W. de Poitiers, Gesta Guillelmi ducis Normannorum et regis Anglorum, ed. R. Foreville, [Les Classiques de l’Histoire de France au Moyen Age], Paris 1952, 260-1. Matilde (+1119), moglie di Enrico Beauclerc impegnato tanto in Normandia quanto in Inghilterra, sostituì il marito in più occasioni e fu reggente per il figlio Guglielmo, cfr. J. Le Patruel, The Norman Empire, Oxford 1979, 42-45. Costanza d’Aragona (1184-1222), imperatrice. Era figlia di Alfonso II d’Aragona e di Sancia di Castiglia, già vedova di Emerico re d’Ungheria sposò Federico II nel 1209. Più anziana del marito era dotata di maggiore esperienza politica. Quando Federico partì per la Germania assunse la reggenza per il regno di Sicilia in nome del figlio Enrico che era stato incoronato re; cfr. N. Kamp, voce Costanza d’Aragona in Dizionario Biografico degli Italiani, 30, Roma 1984, 356-58; D. Matthew, The Norman Kingdom of Sicily, Cambridge 1992, 309-11.

 

[31] Il duca Carlo II fu coadiuvato da Beatrice del Portogallo e Vittorio Amedeo II si avvalse più volte della collaborazione della moglie Anna Maria.

 

[32] Caterina I (1683c- 1727), imperatrice di tutte le Russie. La sua biografia è romanzesca, anche se non pienamente attendibile. Nata da un contadino lituano si chiamava Marta. Crebbe come serva nella casa di un pastore protestante a Marienburg. Durante l’invasione russa del 1702 fu fatta prigioniera e finì a Mosca in casa di un collaboratore di Pietro il Grande. Divenne l’amante dello zar nel 1703. Dopo la nascita della figlia Caterina fu ricevuta nella chiesa ortodossa con il nome di Caterina. Nel 1711 Pietro, dopo aver divorziato da Eudossia, la sposò. Fu una impareggiabile compagna per il grande zar, lo accompagnò in tutte le imprese, anche le più rischiose, dando sempre prova di grande coraggio e sangue freddo. Nel 1722 fu proclamata successora di Pietro con un ukase e nel 1724 fu proclamata solennemente imperatrice consorte. Divenne imperatrice alla morte di Pietro, che aveva assistito sino alla fine. Istituì il consiglio privato supremo e in politica estera seguì una linea anti-inglese. Sebbene praticamente analfabeta fu una donna intelligente, sensibile e capace. Morì nel 1727. Cfr. S.M. Solovev, History of Russia, XIV-XVIII, St. Petrsburg 1895; K. Walizewski, L’hèritage de Pierre le Grand, Parigi 1911.

           

[33] Caterina Alexeievna ‘la Grande’ imperatrice di tutte le Russie (1729- 1796), era figlia di Cristiano Augusto di Anhalt-Zerbst. Sposò Pietro III Romanov nel 1745. Dopo la deposizione del marito governò la Russia per 34 anni. Colta e politicamente abile contribuì alla modernizzazione della sua patria adottiva. La letteratura sulla grande imperatrice è molto ricca. Per un primo approccio si veda S.M. Solovev, History of Russia, XXI-XXIV, cit.

 

[34] I Germani eleggevano il loro re e secondo il diritto germanico ogni carica temporale traeva origine dall’elezione, cfr. M. G. H., nuo. ser., t. I, I; S Sachesenspiegel Landrecht, ed. K.A. Eckhardt, Gottinga 1955, I, 38, 55, par. 1, Al werlik gerighte hevet begin von kore, 112 .

 

[35] J. Ellul, Histoire des Institutions, III, Le Moyen Age, Paris 1962, 254-62; W.M. Newman, The kings the court and the royal power in France in the eleventh century, Toulouse 1929, 55; M. Caravale, Ordinamenti, cit., 384.

 

[36] E. Besta, La successioni nella storia del diritto italiano, Padova 1935, 212-14. G. Cassandro, voce Monarchia in Enciclopedia del diritto XXV, 1976, 732-33.

 

[37] G. di Monserrat, Tractatus de G. de Monserrat Cathalani successione regum (praecipue Galliae)…, in T.U.I., 16, nt. 2: Linea descendentium, qualiter in feudis procedat et maxime in regalibus, f. 178 v.

 

[38] M. Bloch, La società feudale, Torino 1949, 229-38.

 

[39] G. Cassandro, Monarchia, cit., 732-34.

 

[40] A. Black, Political Though in Europe 1250-1450, Cambridge 1992, 146-48.

 

[41] Per quel che riguarda l’affermazione delle elezioni e del principio maggioritario nella Chiesa si veda E. Ruffini, La ragione dei più, Bologna 1977; Il principio maggioritario, Milano 1976; M.T. Guerra Medici, L’election de l’abbesse, Democratie e droit canonique dans le couvent, in Parliaments, Estates and Representation XVIII, 1998, 11-13.

 

[42] Tommaso d’Aquino, Summa Theologica, P.I, T. II, q. 105, Resp: Unde optima ordinatio principum est in aliqua civitate, vel regno, in quo unus praeficitur secundum virtutem, qui omnibus praesit,et sub ipso sunt aliqui principantes secundumm virtutem; et tamen talis principatus ad omnes pertinet, tum quia ex omnibus eligi possunt, tum quia etiam ab omnibus eligantur.

 

[43] E. Romano, De Regimine, cit., II, l. III, cap. V.

 

[44] Il re Filippo III lo avrebbe chiamato ad educare il figlio Filippo il Bello per il quale Egidio compose il trattato De regimine principum. Cfr. G. Santonastaso, Il pensiero politico di Egidio Romano, Firenze 1939, 8.

 

[45] P. Jacobi, Practica P. Jacobi, Lugano 1539, Pierre Jaime d’Aurillac (Petrus Jacobi) aveva studiato legge a Monpellier, era divenuto dottore nel 1311 e poi professore, su di lui si veda, P. Fournier, Pierre Jaime d’Aurillac (Petrus Jacobi), jurisconsulte (sa vie et son ouvre), Hist. Litt. XXXVI, 1927, 481-521; Nouveaux documents sur le jurisconsulte Pierre Jacobi et sa famille, Bibl. Ec. Chartes XCVIII, 1937, 221-33 e C (1939), 72-92. Sulla scuola di Montpellier si veda A. Gouron, Les juristes de l’ecole de Montpellier in IRMA IV, 3, 1970, 3-35.

 

[46] Marsilio da Padova, Defensor pacis of Marsilius of Padua, ed. C.W. Previté - Orton, Cambridge, Univ. Press, 1928; Defensor Pacis nella traduzione in volgare fiorentino del 1363, a cura di C. Pincin, Torino, Fondazione Luigi Einaudi, 1966.

 

[47] P.S. Leicht, Le funzioni elettive del popolo romano e la dottrina di Marsilio da Padova, in Marsilio da Padova, Studi raccolti nel VI centenario della morte a cura di A. Cecchini e N. Bobbio, Padova 1924, 39-45; A. Gewirth, Republicanism and Absolutism in the Thought of Marsilius of Padua, in Marsilio da Padova, Convegno internazionale, I, 23-48, pubblicato nei numeri V, 1979 e VI, 1980, di Medioevo. Rivista di storia della filosofia medievale.

 

[48] Bartolo da Sassoferrato, De regimine civtatis, in Bartoli a S. ….Commentaria.., t. IX, Venezia 1615, f.152r-153v., nt. 22.

 

[49] Deuteronomio 18. Il passo si riferiva alla istituzione da parte di Dio dei sacerdoti che dovevano provvedere ai sacrifici. Il compito era stato affidato ad Israele e a tutti suoi discendenti.

 

[50] Bartolo, De Regimine, cit., nt. 23.

 

[51] Utriusque Siciliae Constitutiones, Capitula…d. A. de Isernia, B. de Capua et aliorum…, Venezia 1598, Proemium, Sed imperium est personale, quia per electionem…regnum reale, ut ita loquatur, quia hereditatur…Unde filius regis est rex. Le pagine del proemio non sono numerate, le citazioni sono nella sesta pagina alle righe 38-8, 42 e 46.

 

[52] Sulla diffusione della cultura francese a Napoli, in una corte di re francesi, si veda E. Cortese, Il rinascimento giuridico medievale, Roma 1992, 86-8.

 

[53] Sul giurista, sulla sua formazione e sulla sua opera nell’ambito della monarchia francese si veda F. Calasso, Andrea D’Isernia, in Dizionario Biografico degli Italiani, III, Roma 1961, 100-3.

 

[54] Baldo degli Ubaldi, Baldi U. … In primam digesti veteris commentaria….Venezia 1599. Nel commento al titolo I del Digesto, de Iustitia et Iure (D. 1.5) si legge, Quarto quaeritur utrum Regna vadant per electionem, an per successionem, et dic quod sempre fuit et sempre erit, quod primogenito succedit in regno, fallit in regno romanorum quod est tenturum monarchia, ideo esset Rex eligendus et approbandus…. Nam si per succesionem iret indignum esset orbe regi forte a pupillo vel mulier, nt. 11, f. 10 v-11r.

 

[55] X. 1.6.34.

 

[56] L. da Penne, Commentaria, cit., 896, nt. 10, «…Ita et regnum vel feudum quod in diem patris mortis primogeniti defertur si procedat primogenitus spem huius successionis transmittat in filium suum: et ipse regnum vel feudum ex huius spei transmissione conquirat... Luca commentava C.12.43 de tironibus per giustificare i privilegi dovuti all’età e quindi ai primogeniti»; G. di Monserrat, Tractatus de G. de Monserrat Cathalani successione regum (praecipue Galliae)…, in T.U.I., v.16, nt. 2, Linea descendentium, qualiter in feudis procedat et maxime in regalibus”, f.178v.

 

[57] Martino Garrati da Lodi, Tractatus de primogenitura dem. M. Garati Laudensis… in T.U.I., Venezia 1584, v. X,1, q. 8, f.16v., Quaero an ius primogeniturae habeat locum in regnis…an regna deferantur successione vel electione, videtur quod electione…de iure scriptum regna deferuntur electione, sed iure consuetudinario successione…Hinc est quod regnum Franciae, Hispaniae et similia regna de consuetudini generali deferuntur successione…primogenitus de consuetudine generali succedit in regnum.

 

[58] J. Ellul, Storia delle istituzioni, III, L’Età moderna e contemporanea dal XVI al XIX secolo, Milano 1976, 18

 

[59] J. Ellul, Storia, III, cit., 14.

 

[60] Sulla tutela della madre si veda quanto ho scritto nel libro L’aria di città: donne e diritti nella città medievale, Napoli 1996, 79-91.

 

[61] Fra il quarto e il quinto secolo Pulcheria e Galla Placidia, quasi contemporaneamente, governarono le due parti dell’impero romano, la prima in nome del fratello, Teodosio II, e la seconda in nome del figlio, Valentiniano III. Le regine merovingie, Brunechilde e Fredegonda, negli stessi anni ressero l’Austrasia e la Neustria in nome dei rispettivi figli: Childeberto e Chilperico II. Teofano, e poi Adelaide di Baviera, furono reggenti per l’impero in nome del giovane Ottone III, si veda quanto ho scritto nel mio saggio Regine, madri e reggenti nel diritto medievale, in Rivista di storia del diritto italiano LXX, 1997, 209-45.

 

[62] J. Gonzáles, El reino de Castilla en la època de Alfonso VIII, 3, Madrid 1960, 341, nt. 769. Eleonora Plantageneta (1161-1214), figlia di Eleonora d’Aquitania e di Enrico II, aveva sposato nel 1170 Alfonso VIII di Castiglia. Eleonora morì solo un mese dopo il figlio e non fu mai reggente per l’altro figlio Enrico che venne invece affidato alla sorella Berengère.

 

[63] Las Partidas, Partida II, tit. V, l. l.3: Que si aveniese que al Rey niño fincase madre, essa ha da ser el primiero et el mayoral guardador sobre todos los otros, porque naturalmente ella lo debe amar mas que otra cosa por la laceria et el afan que levò trayendolo en su corpo, et desi criandalo; et ellos debenia obedecer coma a señora, et facer su mandamiento en todas las causas que fueren a pro del rey et del reyno; ma esta guarda debe haber en quanto non casare et quinsiere estar con el niño; R. Gibert, Historia general del derecho español, Madrid 1974, 41-43. Sulla attribuzione di questo ed altri testi al re Alfonso si veda M. Caravale, Ordinamenti, cit., 471 e nt. 341.

 

[64] Trèsor des Chartes, cit., II, t. II, a. 1226, ed. 1828.

 

[65] E. Berger, Histoire de Blanche de Castille Reine de France, Paris s. d. Bianca di Castiglia (1188-1252). Figlia di Eleonora Plantageneta e di Alfonso il Saggio, re di Spagna, alla morte del marito Luigi VIII di Francia assunse la reggenza per il re minorenne Luigi IX. La maggiore età per la nobiltà si raggiungeva a 21 anni, il tentativo di alcuni nobili di portare il re alla maggiore età a 14 anni era un evidente pretesto per mettere la regina fuori gioco. Il progetto fallì, Bianca rimase regina di Francia e continuò ad esercitare una forte autorità sul figlio anche quando fu divenuto adulto.

 

[66] Carlo VI (1380-1422) era divenuto re all’età di dodici anni. Il padre, Carlo V, aveva designato come reggente il proprio fratello, Luigi d’Angiò e tutori il duca di Borgogna e il duca di Borbone. A questi si aggiungeva il duca di Berry il quale, sebbene non avesse un ruolo istituzionale, controllava un terzo dello stato dai suoi possedimenti. Nel 1392 il re, ventiquattrenne, subì il primo dei suoi ricorrenti attacchi.

 

[67] Alla morte di Filippo l’Ardito il figlio, Giovanni senza paura, subentrò nelle ambizioni paterne. Lo scontro tra protagonisti ambiziosi e dal forte carattere provocò una frattura, odi e sospetti all’interno della famiglia reale e disordini e guerre civili nella Francia, ancora impegnata nella guerra dei Cento Anni con l’Inghilterra e culminati nella disfatta di Agincourt. Quei tempi tristi e tormentati hanno una testimone preziosa in Christine de Pisan che espresse il senso delle sofferenze del paese nelle sue opere politiche e soprattutto nelle Lamentacion sur les maux de la guerre civile, vedili in R. Thomassy, Essai sur les écrits politiques de Christine de Pisan, suivi d’une notice litteraire et des pièces inedites, Paris 1838; e nel Livre de la Paix, ed. Charity C. Willard, L’Aia 1958.

 

[68] Isabella di Baviera (1371-1435), figlia di Stefano II duca palatino, aveva sposato Carlo VI nel 1385 ed assunto subito un ruolo centrale nelle vicende politiche della Francia. A Chartes aveva creato un suo Parlamento e nelle lettere si intitolava “per grazia di Dio Regina di Francia e amministratrice del Regno”. Carlo VII viveva, virtualmente prigioniero, nell’Armagnac e fu incoronato re dopo la vittoria di Giovanna d’Arco ad Orleans. Per una testimonianza diretta degli avvenimenti di quegli anni si vedano C. de Pisan, Le livre du corps de policie nella ed. The Book of the Body Politic, ed. K. Langdon Forhan, Introduction, XIII-XXIV, Cambridge 1994. Non meno turbolenti furono gli avvenimenti che accompagnarono il regno di Enrico VI in Inghilterra. Anche questo sovrano era incapace di governare, a lui fu affiancato un lord protettore, e gli avvenimenti che ne seguirono diedero l’avvio alla ‘Guerra delle due rose’. La regina Margherita, divenuta madre dopo otto anni di matrimonio, tentò in tutti i modi, anche con le armi, di salvare il trono al marito e di conservarlo per il figlio: il tentativo non riuscì e il Parlamento dichiarò successore del re lo stesso duca di York. Margherita d’Angiò (1430-1482) era figlia di Renato d’Angiò, conte di Provenza e di Anjou. Sposò Enrico VI Lancaster, re d’Inghilterra, nel 1443. Esercitò un grande potere a causa della assoluta incapacità del marito. J.J. Bagley, Margaret of Anjou, Queen of England, London 1948; M. Christie, Henry VI, Boston 1922; J. Petithuguenin, La vie tragique de Marguerite d’Anjou reine d’Angleterre; J. Ramsay, Lancaster and York, II, Oxford 1892; J. Dahmus, Seven Medieval Queens, New York 1972.

 

[69] J. Ellul, Storia, III, cit., 14.

 

[70] Luigi XI in punto di morte aveva affidato il re tredicenne Carlo VIII alla figlia Anne de Beaujeu che fu reggente di fatto per il fratello fino al 1490.

 

[71] La madre di Francesco I, Luisa di Savoia fu reggente per il figlio durante la spedizione di questi nel milanese e poi ancora quando il re fu prigioniero di Carlo V.

 

[72] A. Power, The Regency of Maria de Médicis, New York 1903; S. Mastellone, La reggenza di Maria de’Medici, Firenze, 1962.

 

[73] Il duca di Orleans era luogotenente generale, il principe di Condé capo del Consiglio del quale facevano parte Pierre Séguier, il Cancelliere Claude Bouthillier, sovrintendente alle finanze, suo figlio Chevigny ed il cardinale Mazzarino. Gli ultimi giorni del re sono descritti con pathos e partecipazione dal suo valletto Dubois «…Le lundì vingtième il fit le plus haute action qui se pouvait faire en semblamble occasion. Il déclara la Reine Régente aprés sa mort. Il fit cette action avec un visage gai  et satisfait, en présence de la Reine, de Monsieur le duc d’Orleans, de Monsieur le Prince et de tout ce qu'’l y avait de grands de la cour…» cfr. P. Erlanger, La Monarchie franVaise. 1515-1715. Du Roi-Chevalier au Roi Soleil, VIII, Le régne de Louis XIII, Paris 1972, Annexe, La mort de Louis XIII racontée par son valet Dubois, 357.

 

[74] Lundy diz-huitieme mil sixcents quarante-trois. Le Roy Louis XIV, du nom feant en fon Lit de Justice. «Juché sur une pyramide de coussin fleurdelisés, le petit roi de cinq ans a présidé la séance où le Parlement, cassant le textament de Louis XIII, qui instituait un conseil de la Régence, a remis à la Reine, sa mère, un pouvoir sans limite», cfr. P. Erlanger, La Monarchie, cit., IX, Louis XIV. 1643-1680, 21; P. Dupuy, Traité de la majorité de nos rois et de regences du royame, Amsterdam 1722.

 

[75] Voltaire (François-Marie Arouet), Le siècle de Louis XIV, cap. III, p. 636 della ed. Bibliothèque de la Pléiade, Voltaire, Oeuvres Historiques, Dijon 1957. «L’usage qui donne la régence aux mères des rois parut donc alors aux FranVais une loi presque aussi fondamentale que celle qui prive les femmes de la couronne. Le Parlement de Paris ayant décidé deux fois cette question c’est-à-dire ayant seul déclaré par des arrets ce droit des meres, parut en effet avoir donné la régence; il se regarda, non sans quelque vraisemblance, comme le tuteur des rois, et chaque conseilller crut etre une partie de la souveraineté».

 

[76] Per quel che riguarda la formazione dello stato sabaudo si veda, G. Astuti, Gli ordinamenti giuridici degli stati sabaudi, ora in Tradizione romanistica, Napoli 1984, 621-710; G.S. Pene Vidari, Profili delle istituzioni sabaude da Amedeo VIII a Carlo Emanuele III, in Bollettino della Società per gli studi storici, archeologici ed artistici della prov. di Cuneo 89, 1983, 27-39; E. Cortese, Il diritto,II, cit., 355-61.

 

[77] L’episodio, noto come la lotta delle due Bone, si riferisce ai contrasti tra Bona di Borbone, vedova di Amedeo VI e Bona di Berry, vedova di Amedeo VII.

 

[78] Einaudi proponeva di agevolare il ritorno in Italia della principessa di Piemonte e del figlio e di affidare la reggenza a Maria José affiancata da consiglieri, cfr. L. Einaudi, Diario dall’esilio. 1943-1944, Torino 1997, XXXV-XXXVI dell’Introduzione di P. Soddu. Il tentativo di salvare la monarchia per questa via fallì, cfr. Diario, lunedì, 7 gennaio 1944, 91.

           

[79] V.E. Orlando, voce Reggenza, in Nuovo Digesto Italiano, XI, Torino 1939; E. Pagliano, Reggenza e luogotenenza, Roma 1915, 48-52.

 

[80] A. Morelli, Il re, Bologna 1809; E. Crosa, La monarchia nel diritto pubblico italiano, Torino 1922; E. Saìlis, Fondamento e natura giuridica della Reggenza, Milano 1940.

 

[81] Las Partidas, Partida II, tit. V, l. l.3, cit., vedi sopra nt. Si vedano sul tema della reggenza materna: P. Dupuy, Traité de la majorité des nos rois et des régences du royaume, avec les preuves tirées tant du Trésor de chartes du roy que des registres du parlement ensemble un traité des prééminences du parlement de Paris, Paris 1655; F. Solar L. Dufau, Prècis historique des règences en France, Paris 1849; E. Laboulaye, Recerches sur la condition civile et politique des femmes, depuis les romaines  jusqu’a  nos jours, Paris 1893, 324 ss., A. Kirchenheim, Die Regentschaft, Lipsia 1880, e il mio Regine, cit.

 

[82] Costituzione del 1791, Sez. II, Della Reggenza, art. 2: «La reggenza spetta al parente del Re di grado più vicino, secondo l’ordine dell’eredità al trono….Le donne sono escluse dalla Reggenza». Alla madre era tuttavia ancora consentita la tutela del re minorenne, Sez. II, art. 3: «La madre del Re minore che ne abbia la custodia, o il custode eletto, se escono dal Regno, decadono dalla custodia. Se la madre dell’erede presuntivo minore esce dal regno, non potrà anche dopo il suo ritorno, avere la custodia di suo figlio minore divenuto Re, se non per un decreto del Corpo legislativo». Cfr. A. Saitta, Costituenti e Costituzioni della Francia moderna, Torino 1952, 77 e 79. Nonostante fosse stata riconosciuta alla madre la tutela per i figli minori durante le discussioni per i lavori preparatori del codice civile questo principio trovò l’opposizione di Cambacéres che si opponeva ad un riconoscimento di diritto, la debolezza del sesso, l’incapacità ecc., vennero ancora addotte a giustifcazione delle esitazioni del legislatore, cfr. P.A. Fenet, Recueil complet des Travaux Préparatoires du Code Civil, ris. anas. della ed. del 1827, Osnabrück 1968, t. X, titre x, De la minorité, de la tutelle et de l’émancipation,. 544 ss.

 

[83] P. Dupuy, Traité, cit.; Solar et Dufau, Précis historique, cit.

 

[84] Come aveva riconosciuto un giurista cinquecentesco, Filippo Decio, il diritto che escludeva le madri dalla tutela era un diritto antico al quale si era sostituita la norma del diritto comune secondo la quale la tutela veniva affidata alla madre, Hodie verum, etiam de iure communi, mulier abilitata est ut tutelam filiorum suscipere possit…, cfr. In titulus D. de regulis iuris, Venezia 1608, 34. Per la tutela della madre si veda M.T. Guerra Medici, L’aria di città, cit., e per le reggenze medievali Regine, cit.; F.M.A. Voltaire, Le siècle, cit., 636

 

[85] L. Cibrario, Delle istituzioni della monarchia di Savoia, Torino 1854, 174-5.

 

[86] M.L. de Printzen, Disputatio LXXXIV de Tutelis illustrium, in E. Coccejo, H. de Cocceji …Exercitationum curiosarum…, I, Lemgoviae 1722, 1281-1301.

 

[87] Ibidem, Sectio II, de Tutela summarum potestatum, ntt. 6 e 7, 1289-91.

 

[88] Ibidem, Sectio IV, De tutela feudali, nt. 5, 1303-4.

 

[89] Per quel che riguarda lo Erblehen o feudum ereditarium o perpetuum si veda K.F. Krieger, Die Lehnshoeit der deutschen Könige im Spätmittelalter, Aalen 1979, 48-52. Il problema era già stato posto dalla giurisprudenza italiana e riassunto da Alberto Bruno in un consilium con il quale si ammetteva che la signora feudale come madre tutrice esercitava una giurisdizione che era annessa al feudo; A. Bruno, Consiliorium feudalium D. Alberti Bruni ast., Venezia 1579, II, cons. 147, in fin. P. 55r, …Quia respondetur….ista iurisdictio est annexa Feudo, potest, per ipsam Magnificam Dominam exerceri….

 

[90] In merito al complesso problema della formazione degli stati tedeschi si veda O Brunner, Terra, cit., in particolare, 27-319; per la costruzione di un possibile modello che colleghi la dimensione dello stato alla sua formazione si veda S. Rokkan, Dimension of State Formation and Nation-Building: a Possible Paradigm for Research on Variations Within Europe, in The Formation o National States in Western Europe, ed. C. Tilly, Princeton 1975, 562-600.

 

[91] Per quel che riguarda la formazione e la distinzione delle signorie tedesche si veda O. Brunner, Terra, cit., 231 ss. Per una descrizione dettagliata delle signorie medievali in Germania e Austria si veda W. Brauneder, Le strutture territoriali nell’area austriaca e tedesco-meridionale, in L’Organizzazione del territorio in Italia e Germania: sec. XIII-XIV, a cura di G. Chittolini e D. Willoweit, Bologna, 39-70. Per la distinzione fra signoria fondiaria e signoria territoriale si veda M. Caravale, Ordinamenti, cit., 108-15 e 164-74.

 

[92] M:L. De Printzen, Disputatio, cit., 1304, Habuimus quidem hoc ipso seculo in Principatu Ostrisiae, in Landgraviatu Cassellano et Darmastadiano exempla illustria contraria, ut Amelia Elisabetta tutricis  hodierni illustrissimi Landgravii Wilhelmi , sed in his familis speciali jure, usu, dispositione, vel consensu potius hoc introductum est, quod proinde iuri communi derogat. Sed serenissima matri Principis Ostrisiae, tutelam ejus anno 1660, obeunti, valde contradixit Patruus ipsius: et casus eos singulares esse diximus.

 

[93] M:L. De Printzen, Disputatio, sec. III, De tutela illlustrium personarum in Imperio, 12, 1300.

 

[94] cfr. F. Wieacker, Storia del diritto privato moderno, I, Milano 1980, 1967, 330.

 

[95] Cod. Teod. 3.17.4, matres quae amissis viris tutelam administrationem negotiorum in liberos postulant … e C. 5.35.2, Matres quae amissi viris ..ut mulier ,si aetate maiore est, tunc demum petendae tutelae ius habeat…. Giustiniano confermò l’esclusione delle donne dall’esercizio della tutela …nisi mater vel avia fuerit.. Cfr. Nov. 118.5. Sulla tutela materna si veda il mio L’aria, cit., 79-91, ed anche La régence de la mère dans le droit médiéval, in Parliaments, Estates & Representation 17, 1997, 1-11. Sul tema della tutela materna si veda, G. Calvi, Il contratto morale. Madri e figli nella Toscana moderna, Bari 1994.

 

[96] Alla base delle elaborazioni scientifiche stava la dottrina del diritto naturale inteso come modo fenomenico di apparizione del buono e del giusto quale risulta dalla forma innata della ragione umana. Per un approfondimento del concetto di diritto naturale si veda A. Passerin d’Entrèves, La dottrina del diritto naturale, Milano 1980 (1954), per una bibliografia più ampia si veda il mio Diritto internazionale nel diritto medievale e moderno, estr. da Digesto, IV Ed., v. V Pubblicistico, Torino 1990. Il diritto di natura risaliva alla fonte del diritto romano attraverso un frammento di Ulpiano (D. 1.1.1.3) …Ius naturale est quod natura omnia animalia docuit…In esso la scienza giuridica medievale aveva trovato il fondamento sia alle esigenze etiche della scienza canonistica sia a quelle della scienza civilistica che vi trovava «il solido ancoramento del diritto all’equità». Cfr. E. Cortese, La norma, I, cit., 47, al quale rimando anche per un approfondito esame delle posizioni dei canonisti e dei civilisti, 37 ss. Per quel che riguarda lo sviluppo della dottrina del diritto naturale in Germania si veda M .Stolleis, Geschichte des öffentlichen Rechts in Deutschland. E. B. 1600-1800, Monaco 1988, in particolare. 268-97.

 

[97] Nel frammento ulpianeo lo ius naturale si riferiva a tutti gli esseri animati, mentre lo ius gentium si riferiva agli esseri umani e nonostante le chiarificazioni poste dalla dottrina «in parecchi casi i due ordinamenti apparivano confusi», cfr. E. Cortese, La norma, I, cit., 73. Il diritto delle genti invocato dalla scienza Seicentesca affondava le sue radici nel diritto romano e nella filosofia scolastica.

 

[98] Sul tema della nobiltà delle donne e dell’esercizio di officia, giurisdizioni o incarichi amministrativi si veda quanto ho scritto in L’aria, cit., 163-8.

 

[99] J.P. Kress, De iuribus foeminarum illustrium in Germania, Helmstadt 1630; E. R. Goclenio, Dissertatio de iure foemina illustri, Rint 1687; G.M. Ludolff, Commentarium de iure foeminarum illustrium, Jena 1711; J.J.B. Prugger, Dissertatio in iuris et consuetudines Bavariae de iure foeminarum illustris, Ingolstadt 1765; F.J. Bodmann, De iure feminarum illustrium, Dissertatio de iure foeminarum illustrium adpirandi ad substantiam patris, fratribus allodialem neo acquisitam, Wurt. 1780; G.L. Böhmer, Electa iuris feudalis, 1795, nt. 5, De foemina ministeriali.