N. 3 – Maggio 2004 – Memorie

 

 

Maria Giovanna Stasolla

Università di Bologna

 

 

 

STATO CENTRALIZZATO E DELEGA DEL POTERE NELLO STATO ISLAMICO DI ETÀ ABBASIDE: LA QUESTIONE DEL VISIRATO E DELL’EMIRATO NELLA DOTTRINA DI AL-MAWARDI (BAGHDAD, 1058)

 

 

 

 

 

 

 

Per “stato islamico” si intende uno stato, anzi più esattamente, considerata la vocazione universalistica dell’islam, “lo stato” in cui vige la legge islamica; e la legge islamica (la sharica) è, come la jurisprudentia dei Romani, “rerum divinarum atque humanarum notitia”, voluta da Dio per gli uomini e trasmessa in modo diretto nel Corano e in modo indiretto nella Sunna (Tradizione) del Profeta Muhammad. La sharica regola tutti gli aspetti, pubblici e privati, della vita religiosa, sociale, politica ed economica del musulmano e, salvaguardando con perfezione inimitabile quelli che sono definiti i “diritti di Dio” e i “diritti degli uomini”, consente all’umanità di seguire la “retta via” nella vita terrena e di poter sperare nel premio eterno.

Considerando i principi profondi che lo costituiscono, lo stato islamico è definibile come una teocrazia laica (perché nell’islam non vi è sacerdozio) ed ugualitaria in cui “il magistero legislativo” (amr) appartiene unicamente al Corano; il magistero giudiziario (fiqh) appartiene ad ogni credente che, attraverso la lettura assidua e fervente del Corano, acquisisce, con la memoria delle definizioni e l’intelligenza delle sanzioni che esso emana, il diritto di applicarle. Resta il potere esecutivo (hukm) insieme civile e canonico, esso non appartiene che a Dio solo... ed esso non può essere esercitato se non attraverso un intermediario, un capo unico. La comunità dei credenti (la ummah) presta giuramento (bayca) di obbedire a Dio nelle mani di questo delegato (tutore della volontà di Dio), sprovvisto di iniziativa legislativa e di “autorità giudiziaria”, il Califfo, cioè il Khalifa rasul-i’llahi “vicario dell’inviato di Dio”, detto anche imam “guida”[1].

Questa definizione ideale va sfumata alla luce della complessità delle condizioni storiche concrete: invasione della giurisprudenza da parte dell’curf “diritto consuetudinario” dei popoli islamizzati; frequente tolleranza fino ad istituire una giudicatura profana accanto a quella canonica; trasformazione del califfato, se non di diritto, almeno di fatto in regno (mulk) autocratico; frazionamento del potere esecutivo in principati e sultanati a volte totalmente indipendenti, precursori delle nazionalità e degli stati moderni.

Se di fatto, poi, il regime califfale, formatosi sotto l’influenza delle idee bizantine e persiane[2], fu un regime di pura autocrazia, nella coscienza musulmana rimase sempre viva, anche dopo la sua disfatta politico-militare del XIII secolo, una forte tensione verso la realizzazione dello Stato islamico ideale.

Utopia sempre riaffermata di conformarsi all’esempio del Profeta e dei primi quattro califfi, definiti Rashidun “Bendiretti”. Il califfo, dunque, come vicario del Profeta, capo di una comunità di uguali in quanto credenti, in cui l’universalismo religioso aveva sostituito l’antico vincolo di sangue della società tribale.

La spettacolare espansione del VII secolo, di cui fu protagonista la dinastia degli Omayyadi rappresentante della vecchia aristocrazia araba pagana[3], significò tra l’altro la necessità di utilizzare principi e metodi amministrativi bizantini e persiani, restando comunque il potere nelle mani degli arabi. I convertiti di razza non araba, via via più numerosi specialmente in area iranica, rivendicarono sulla base del carattere egualitario dell’islam[4] il diritto ad avere un peso nella gestione dello stato e portarono al potere a metà dell’VIII secolo, una nuova dinastia califfale, gli Abbasidi, della famiglia del Profeta, che si presentava come restauratrice della fede musulmana. Fu riaffermato il carattere speciale della carica califfale, potenza temporale ma interamente sorretta dalla legge religiosa: fu proclamata l’assoluta uguaglianza dei credenti, lo spostamento della capitale da Damasco a Baghdad, fu il disegno che la tradizione persiana diveniva a pieno titolo una componente essenziale di quella civiltà islamica che si stava costituendo.

I miei attuali studi sullo stato islamico si concentrano al X-XI secolo: è appunto questo il tempo in cui si va completando l’auto-definizione dell’ortodossia in rapporto ad elementi esterni (che impongono il confronto) e ad elementi interni di dissenso (specialmente il partito alide che ha dato vita alla shica, cioè ad un vero partito di opposizione). In una situazione politicamente difficile, di relativa perdita di potere a favore di un clan di capi militari, i Buwayhidi, di osservanza sciita, si scrivono i primi trattati di diritto pubblico in cui la questione dell’organizzazione dello stato è considerata in modo sistematico. Si delinea la forma ideale dello stato islamico in conformità, per quanto possibile, con la realizzazione abbaside.

L’opera concordemente ritenuta dagli autori arabi (il suo successo fu infatti notevolissimo), nonché dagli orientalisti, come la esemplare esposizione dello stato islamico medioevale è gli Ahkam al-sultaniyya (“Le norme del governo”) scritta a Baghdad nei primi decenni dell’XI secolo dal giurista al-Mawardi[5]. Il trattato è stato ritenuto da alcuni anche autorevoli studiosi una composizione puramente ideale, utopica, in aperta contraddizione con la crisi politica del califfato sotto la tutela degli emiri sciiti. Studi più recenti sul periodo buwayhide, che hanno messo in luce aspetti e dinamiche di una società e di una cultura molto vitali, suggeriscono invece una lettura diversa che condivido: l’opera esprimerebbe in modo eloquente la politica califfale di quel periodo, breve purtroppo, che vide al potere personaggi di califfi (al-Qadir e al-Qa’im) e di visìr (Ibn al-Muslima) dotati di senso politico e lungimiranza, capaci di elaborare strategie che, tenendo conto della mutata realtà del tempo, inglobassero i cambiamenti nella legalità dello stato[6]. Così, per la prima volta in un’opera giuridica, si affronta il problema del frazionamento di fatto dello stato islamico unitario; si tratta di cariche quali il visirato e l’emirato, esistenti di fatto, ma non regolamentate prevedendone una normativa in base alla quale diventino delle “istituzioni” dello stato.

Con queste premesse, vediamo ora come nel testo viene affrontato il tema della delega del potere e del decentramento dello stato, avendo presente il fatto che non sempre e non puntualmente la realtà storica corrispose alla regolamentazione proposta negli Ahkam.

Il visirato (wizarah) può essere di delega (tafwid) o di esecuzione (tanfidh): «il primo è quello in cui l’imam affida a colui che delega l’amministrazione degli affari secondo il suo proprio criterio e la loro esecuzione tramite il suo sforzo personale». Questa carica trae fondamento e legittimità dal testo coranico, in cui Dio Altissimo aveva detto citando il Suo profeta Mosè: «Dammi un visir della mia famiglia, mio fratello Aronne, attraverso il quale mi fortificherai e che tu associerai alla mia opera» (Cor. XX, 30-33). «Se ciò è lecito nella profezia, a maggior ragione lo è nell’imamato...»; la luogotenenza del visir, associato all’imam nell’amministrazione, consente un miglior disbrigo degli affari perché l’imam «si fa assistere da quello che lo mette in guardia anche contro se stesso, così da tenerlo lontano dall’errore e da difenderlo contro i disordini»[7].

Le condizioni richieste per il conferimento del visirato di delega sono le stesse richieste nell’imam tranne la discendenza dalla tribù del Profeta; in più il visir deve avere particolare competenza «negli affari della guerra e in quelli della tassazione». Forse più delle norme in senso stretto, serve allo scopo di chiarire quale fosse il ruolo del visir accanto al califfo un passo che M. riporta attribuendolo ad al-Ma’mun: «Esigo per i miei affari un uomo che riunisce le qualità della virtù, morigeratezza nei costumi, dirittura nei comportamenti; che l’educazione (adab) abbia raffinato e le esperienze abbiano fortificato; capace di gestire gli affari (riservati) che gli sono affidati, che affronti le questioni più gravi per le quali riceve il mandato; che l’indulgenza faccia tacere e la scienza (cilm) renda-loquace, a cui basti lo sguardo e per il quale un’occhiata furtiva (un cenno) sia sufficiente, che abbia l’audacia dei militari e la ponderatezza dei saggi, l’umiltà dei sapienti e l’acume dei giuristi, che sappia riconoscere un beneficio e dia prova di pazienza (sabr) nelle afflizioni, che non venda la sua parte dell’oggi per gli onori del domani, che si introduca nel cuore degli uomini con il fascino del suo eloquio e la bellezza della sua esposizione»[8].

Segue una breve puntualizzazione che è però illuminante a proposito di quanto si diceva prima sullo stato islamico: «Sebbene non si tratti propriamente di condizioni prescritte dalla religione, sono tuttavia condizioni politiche e nel contempo condizioni religiose perché influenzano sia gli interessi generali della nazione sia il buon mantenimento della religione (milah[9].

Molto spazio è poi riservato alle modalità e alle formule per l’investitura: la sua validità «dipende dall’enunciazione della volontà del califfo che lo nomina perché si tratta di una funzione che necessita di un patto (caqd) e i patti non sono validi se non attraverso la chiara espressione verbale della volontà». Ancora una volta viene richiamato l’esempio coranico delle parole del profeta Mosè (Cor. XX, 29-32) per affermare che non è sufficiente la sola menzione del visirato, bensì è necessario aggiungere «la nozione di accrescimento della forza e di associazione al suo potere».

Le condizioni del patto su cui si fonda l’attribuzione della funzione sono due: da una parte il visìr deve «tenere l’imam al corrente degli atti di governo che compie, dei provvedimenti amministrativi che prende e delle sue nomine in modo da non rendersi, agendo in modo completamente autonomo, simile all’imam».

Questi ha d’altra parte, il diritto-dovere di «esaminare l’operato del visìr e la sua gestione degli affari di governo per poter dare il suo accordo a quelli che sono conformi all’equità e rettificare quelli che la violano in quanto è all’imam che compete la direzione della nazione ed è al suo sforzo personale (igtihad) che essa è attribuita».

Fatte salve queste condizioni, «tutto ciò che è validamente compiuto dall’imam, lo è anche dal visìr» tranne la designazione del successore all’imamato, la richiesta di esenzione dell’imamato e «il diritto dell’imam di deporre chi il visìr ha nominato, mentre il visìr non può deporre chi l’imam ha nominato». Il primato dell’imam è comunque intatto ma ciò non toglie che alcune regole garantiscano alla delega una certa operatività: l’imam, ad esempio, non può intervenire su una decisione presa con avvedutezza circa un giudizio da eseguire o del denaro da distribuire, mentre gli è invece consentito di revocare un funzionario nominato da visìr e, in caso di guerra, di cambiare il piano di battaglia[10].

Quanto poi al visirato definito “di esecuzione” (tanfidh), il visìr in questione si limita di fatto a far «da tramite fra l’imam e i suoi soggetti e i suoi funzionari: trasmette i suoi ordini, applica i suoi moniti, esegue le sue decisioni, rende note le nomine dei funzionari e la mobilitazione delle truppe; gli rende conto degli avvenimenti importanti e del ripetersi di avvenimenti che potrebbero diventarlo». In sostanza il suo ruolo è quello di tenere al corrente il califfo di ciò che accade e di trasmettere quanto da lui emana.

Le qualità richieste sono di ordine morale, accentuando così il carattere personale e fiduciario di questo incarico: fedeltà, franchezza, mancanza di avidità, benevolenza, ottima memoria, sagacia, equilibrio e razionalità. Questo visirato di semplice esecuzione può essere affidato ad un ebreo o ad un cristiano di cui il califfo abbia fiducia ma non ad una donna «in quanto implica l’esercizio di competenze dichiarate estranee alle donne dalle parole del Profeta: «Non può diventare potente un popolo che affida i suoi affari ad una donna»; ed anche perché si richiedono un’applicazione di senno e una fermezza di decisione troppo impegnative per le donne, oltre al fatto che la vita all’esterno della casa necessaria per l’esercizio degli affari è a loro vietata».

In sostanza, mentre la donna è ontologicamente incapace di gestire il visirato di esecuzione e a maggior ragione quello di delega, per ebrei e cristiani la motivazione è diversa: non è lecito che esercitino il visirato di delega perché «diventerebbero presuntuosi e la loro presunzione deve essere impedita»[11].

Le competenze riservate al visìr di delega (e non al visìr di esecuzione) sono: l’esercizio del potere giudiziario, anche nel tribunale degli abusi (mazalim); l’investitura di funzionari; l’organizzazione di spedizioni militari; l’accesso al Tesoro pubblico (Bayt al-Mal). Da questo divario di responsabilità deriva una rilevante differenza fra le condizioni richieste per avere accesso alle due cariche; il visìr di delega deve essere libero, musulmano, esperto delle norme della sharica, competente nelle questioni militari e in quelle fiscali; il visìr di esecuzione può essere di condizione servile, non musulmano (ma monoteista) e deve soltanto possedere le qualità morali che gli facciano meritare la fiducia califfale. Il potere esteso connesso al visirato di delega, il senso medesimo di questa carica, escluderebbe che possa essere esercitato da due persone simultaneamente; nel caso di una doppia investitura le competenze vanno o esercitate congiuntamente (riportando al califfo le questioni su cui ci fosse divergenza) oppure vanno distinte ed esercitate separatamente, o anche vanno esercitate interamente ma su un territorio definito per entrambi. Evidentemente si tratta di un visirato di delega inferiore; meno problemi pone la nomina di un visìr di delega e di uno di esecuzione, perché le due funzioni non interferiscono.

Il visìr di delega ha una straordinaria ampiezza di poteri, nell’emanare provvedimenti amministrativi e nella nomina di funzionari, tale da apparire davvero l’alter ego del califfo, il cui primato è comunque nella normativa saldamente garantito. Che poi nella storia dello stato islamico ci siano state figure di visìr che hanno segnato il loro tempo, oscurando o dominando di fatto colui che legittimava il loro potere, rientra nella storica dialettica tra autorità e potere e non implicò mutamenti nella coscienza collettiva dei musulmani a questo riguardo[12].

Dalla sua istituzione nella seconda metà dell’VIII secolo il visirato era stato un incarico fiduciario più che una carica istituzionale: particolarmente, dalla fine del IX secolo il visìr occupava a fianco dell’emiro comandante in capo e del gran qadi un vero posto di primo ministro che coordinava le attività amministrative e partecipava all’elaborazione della politica generale, compresa quella militare. In questa epoca i visìr furono prevalentemente scelti tra i funzionari esperti di finanze, perché il problema finanziario cominciava ad essere la principale preoccupazione del governo abbaside[13].

La conclusione del capitolo sul visirato anticipa il tema, ben più delicato, dell’emirato, ossia del governo delle province: «Quando il califfo affida la direzione delle province ai loro governatori e ne affida il controllo a coloro che se ne sono impadroniti, così come accade ai nostri giorni, il sovrano (malik) di ogni provincia può nominare visìr e la posizione di questo visìr nei suoi confronti è uguale a quella del visìr del califfo nei confronti del califfo stesso»[14].

Cosa accadeva di nuovo e di diverso che il nostro giurista sente di dover sottolineare? Questo è l’argomento del capitolo dedicato al governo delle province, questione delicata alla luce di quanto stava avvenendo nell’impero. Dal IX secolo i califfi avevano affidato il governo di regioni periferiche difficilmente gestibili (si pensi al Maghreb e al Khorasan o alla Spagna) a funzionari delegati alla esazione delle imposte e a capi militari (gli emiri) delegati al controllo militare del territorio. Questi ultimi, diventati via via più potenti, ottennero di cumulare le due cariche trasformandosi ben presto in vere dinastie regnanti.

Esse traevano pur sempre la loro legittimità dell’investitura califfale e riconoscevano la supremazia abbaside devolvendo una parte, via via più esigua, delle entrate alla Tesoreria di Baghdad e celebrando il nome del califfo abbaside durante la solenne preghiera del venerdì. Nel corso del X secolo alla progressiva contrazione del gettito fiscale si aggiunse l’accrescimento a Baghdad del potere arrogante dei militari turchi della guardia califfale con il conseguente tentativo da parte di califfi deboli di affrancarsi chiedendo sostegno ad una forza esterna: gli emiri Buwayhidi, di osservanza sciita, provenienti dal Daylam (a sud del mar Caspio) che si installarono nella capitale ricevendo il titolo di amir al-umara’ e controllando di fatto le terre centrali del califfato. Alla fine del X secolo si assiste al tentativo da parte dei califfi al-Qadir e al-Qa’im di recuperare una supremazia non solo formale.

Di fronte alla nuova realtà della frammentazione generalizzata dello stato unitario, della perdita di potere a vantaggio di nuove componenti militarmente forti, fu elaborato un progetto politico-ideologico di ampio respiro allo scopo di poter gestire il cambiamento nell’ambito dell’ortodossia di cui la dinastia abbaside si promuoveva come unico garante e baluardo. La perdita di potere doveva evolversi in una strategia di delega del potere e recupero di autorità.

Teorizzatore di questo progetto, oltre che attivamente coinvolto nella attività politica al tempo di Ibn al-Muslima, potente visìr di al-Qa’im, al-Mawardi affronta per la prima volta in un trattato giuridico la spinosa questione dell’emirato, il governo delle province[15].

L’emirato è una forma particolare di visirato assegnato ad un amir “capo militare”, ma mentre “il visirato è un incarico da parte del califfo”, “l’emirato è un incarico (niyaba) da parte dei musulmani”. Esso può essere generale o speciale; l’emirato generale è a sua volta “di capacità” (istikfa’) o “di conquista” (istila’). L’emirato generale di capacità e quello speciale sono conferiti dal califfo in base ad una libera scelta (ikhtiyar); al contrario l’emirato generale di conquista è conferito per circostanze di forza maggiore, per stato di necessità (idtirar).

«L’emirato di capacità che è conferito per scelta si esercita su un territorio limitato e un ambito determinato”, cioè con competenze definite ed implica sette obblighi:

1)    sovrintendere alla messa in opera delle truppe, alla loro ripartizione territoriale e alla fissazione delle loro paghe a meno che il califfo non l’abbia già fissata, nel qual caso egli si limita a versarla loro;

2)    sovrintendere all’applicazione della giustizia e alla nomina dei qadi e dei giureconsulti (hukam);

3)    prelevare l’imposta fondiaria e riscuotere le elemosine legali (decime elemosinarie sadaqat), nominare i funzionari ad esse proposti (camil) e ripartire il ricavato fra gli eventi diritto;

4)    proteggere la religione e difenderla dal sacrilegio in modo da salvaguardarla da ogni innovazione (tagyir) o alterazione (tabdil);

5)    applicare le pene legali (hudud) in quanto concerne il diritto di Allah e anche i diritti degli esseri umani;

6)    esercitare la funzione di imam nella preghiera del venerdì e nelle altre preghiere comunitarie o presiedendole (lui stesso) o nominando un vicario;

7)    far partire i pellegrini del suo territorio e quelli di passaggio di provenienza diversa in modo da proteggerli nel compimento del loro dovere.

Se questo territorio è di frontiera in vicinanza del nemico, esiste un ottavo obbligo, cioè fare il gihad contro i nemici di quel territorio e ripartire i loro bottini tra i combattenti dopo averne prelevato il quinto in favore di quelli a cui spetta» [16].

Le condizioni di capacità richieste per l’esercizio di questo emirato sono le medesime che per il visirato di delega perché nella sostanza le due cariche si equivalgono, avendo però l’emirato limiti territoriali che il visirato non ha.

Le modalità della nomina ripropongono la nozione di caqd “patto, contratto” fra le due parti: il califfo difende, com’è suo dovere e per quanto possibile, le disposizioni essenziali della legge rivelata; l’emiro ottiene il vantaggio politico e morale di una legittimazione. L’investitura implica per le due parti il riconoscimento di obblighi comuni che hanno la forza imperativa di disposizioni di diritto pubblico.

Quanto alle questioni finanziarie, l’amir può aumentare le paghe dell’esercito e mettere a carico del Bayt al-Mal questo aumento solo se è strettamente temporaneo e ben motivato. Nel caso che egli ritenga necessario un aumento permanente, deve chiedere l’intervento e l’autorizzazione del califfo. La destinazione delle entrate è così regolamentata: «Nel caso in cui dopo il pagamento dell’esercito il gettito dell’imposta fondiaria ha un’eccedenza, questa spetta al califfo che la versa al Tesoro per essere destinata alle opere di pubblica utilità. Quando il ricavato delle elemosine legali supera la somma necessaria agli eventi diritto fra gli amministrati, (l’emiro) non deve inviarlo al califfo ma lo destina agli aventi diritto più vicini della sua circoscrizione. Quando il ricavato del kharag non è sufficiente al pagamento del suo esercito, egli chiede al califfo quanto manca (l’integrazione necessaria) a spese del Tesoro; e quando il ricavato delle elemosine legali non è sufficiente agli aventi diritto della sua circoscrizione, non può chiedere al califfo il mancante perché le paghe dell’esercito sono fissate adeguatamente (secondo la norma) mentre i diritti dei destinatari delle elemosine legali sono valutati sulla base di quanto si trova»[17].

L’emirato definito “speciale”, fermo restando il conferimento per capacità e su base di libera scelta del califfo, «consiste nel fatto che l’emiro esercita un potere limitato all’organizzazione dell’esercito, all’applicazione delle pene, alla protezione del territorio, alla salvaguardia di ciò che è sacro...». Il califfo, però, non gli delega alcun potere in campo giudiziario né in ambito fiscale. In sostanza, quindi: «Per l’esercizio di questo emirato si devono riunire le condizioni richieste nel visirato di esecuzione e inoltre le due condizioni di essere musulmano e libero, perché comporta una competenza negli affari religiosi che non è compatibile con la miscredenza (kufr) o lo stato servile (raqq). Non sono rilevanti né la scienza teologica (cilm) né la conoscenza del diritto (fiqh) che, se ci sono, sono in sovrappiù»[18].

L’emirato generale e quello speciale, per il fatto di essere stati conferiti per capacità e mediante libera scelta, non comportano l’obbligo di informare il califfo della ordinaria amministrazione. Se invece si verificano fatti nuovi o eccezionali gli emiri sono tenuti a darne notizia al califfo tempestivamente e ad attuare poi le istruzioni califfali «perché l’opinione del califfo, che ha una visione più generale e completa delle cose, è decisiva nei casi nuovi».

La delega del governo delle province non sembra, finora, scuotere il principio della sovranità califfale, tant’è che mai si parla di un qualunque “obbligo” del califfo. La situazione diventa invece più complessa quando si tratta dell’emirato di conquista conferito in circostanze obbligate (idtirar).

Esso consiste nel fatto che un capo (‘amir) che si impadronisce con la forza di un paese, viene poi investito dall’emirato (su quel paese) dal califfo che gliene affida la direzione e la guida politica (siyasah).

Così l’emiro attraverso la sua conquista esercita in piena autonomia sia il governo sia l’amministrazione, e il califfo, con la sua acquiescenza (idhin) consente mediante artifici legali che un fatto diventi da legalmente inaccettabile, accettabile, da vietato ammissibile. Questo procedimento, sebbene nelle sue condizioni e nelle sue regole sia estraneo al modo abituale di conferire l’investitura propriamente detta, tutela, salvaguardando in qualche modo le prescrizioni legali (della sharica) e proteggendo le norme religiose, «ciò che non è lecito tradire o minare, falsare o indebolire»[19].

In cambio della legittimazione del suo potere di fatto, l’amir in questione si impegna al rispetto di norme cogenti: in primo luogo, riconoscere che l’imamato consiste nel «vicariato del profetismo e nella sovranità sulle questioni spirituali», che esso è «necessario per legge» e i suoi diritti vanno rispettati; «manifestare obbedienza alla religione così da rimuovere l’opinione che in esso persista ostilità e cancellare il suo peccato di insubordinazione». In sostanza l’obbedienza che l’amir deve all’imam è un’obbedienza “religiosa” e non vi è una divisione di sovranità (quella spirituale dell’imam e quella temporale dell’amir) come risulta dall’essenza stessa della Legge «che ordina di obbedire a Dio, al Suo Profeta e a quanti detengono l’autorità»[20]. Entrambi devono impegnarsi nella tutela della religione «proclamando i diritti di Allah quando sono riconosciuti, ricordandoli attraverso la da’wa quando sono misconosciuti» e devono «accordarsi per l’amicizia e l’aiuto reciproco affinché i musulmani abbiano autorità sulle altre nazioni»: hanno, quindi doveri verso Dio e la sua religione, ma anche verso la ummah dei credenti. Di conseguenza, sono obbligati entrambi a garantire l’applicazione delle disposizioni legali e la corretta applicazione delle pene legali confermandosi alla norma che «la persona di ogni credente è inviolabile se non lede i diritti di Allah tanto da meritarne le pene»[21].

Quando questi precetti sono rispettati, allora «diventa necessaria l’investitura del conquistatore» che, dunque, è per l’imam un atto dovuto «allo scopo di ottenere la sua obbedienza e di dissuaderlo da ogni scissione o opposizione».

Ma l’attuazione del principio della daruriyya, cioè della necessità che fa legge nel senso in cui la necessità crea un nuovo stato giuridico e riceve da questo fatto come un carattere di legittimità, va per il nostro giurista ancora oltre. Nel caso in cui il conquistatore non abbia le condizioni di capacità richieste, «è lecito al califfo annunciare pubblicamente (izhar) la sua investitura allo scopo di sollecitare la sua obbedienza e troncare ogni opposizione e resistenza»[22]. Proclamare l’investitura, darne la massima pubblicità è il modo di mettere il conquistatore di fronte al fatto compiuto di un caqd sicuramente onorevole ma che sbarra la strada a rivendicazioni di altro tipo, a meno che non si voglia addossare la pesante responsabilità di una frattura dell’ummah o addirittura di conflitti sanguinosi fra i musulmani.

Evidentemente, però, la comunità deve poter essere tutelata nel suo diritto di essere governata da una persona degna del potere che esercita (vale forse la pena di ricordare che anche qui c’è di mezzo un caqd) ed è garantita in questo modo: “l’efficacia giuridica (nufudh)” delle decisioni del conquistatore «è subordinata al fatto che il califfo nomini quale delegato (na’ib) per lui qualcuno che abbia le condizioni di capacità previste in modo che la loro presenza nel delegato supplirà a ciò che manca al conquistatore. Così l’investitura va al conquistatore e l’esecuzione al delegato».

Si tratta di una procedura quanto meno insolita e al-Mawardi, pur ammettendo che essa si discosta dai principi giuridici (usul), la considera “lecita” per due ragioni: «la prima è che la necessità dispensa dalle condizioni richieste» quando non c’è la possibilità di realizzarle altrimenti; «la seconda è che quando nelle questioni di interesse generale si teme qualche inconveniente grave, si esigono condizioni meno rigorose di quelle normalmente richieste nelle questioni di ordine privato»[23].

Da molte parti si è detto che al-M. minava in modo spericolato i fondamenti di ogni legge, nel tentativo di liberare l’imamato dai vincoli della sharica[24]. A noi sembra, invece, che il suo equilibrismo giuridico fosse l’unica via possibile per trovare una soluzione realistica alla scissione di fatto, avvenuta nello stato islamico del X secolo, fra autorità e potere.

Non è utopia né dispregio dei fondamenti stessi della sharica, ma un lucido tentativo di “normalizzare” il cambiamento salvando, se non il potere, l’autorità califfale.

Il califfato concepito da M. può così essere uno stato unitario, normalmente realizzato, ma anche uno stato pluralista di tipo federale o confederale, in cui il decentramento amministrativo, nato dalle circostanze variabili dell’espansione, lascia sussistere la preminenza del califfo garante della religione e della legge.

 

 

 

 



 

[1] La citazione è da L. Massignon, La passion d’al-Hallàg, Parigi (Geuthner) 1922, 719. Sui fondamenti dell’ideologia politica nell’islam si veda: L. Gardet, La cité musulmane. Vie sociale et politique, Parigi (Vrin) 1981, 437 (particolarmente il 2° capitolo della prima parte sul concetto di “teocrazia ugualitaria” e il 2° capitolo della seconda parte sul potere esecutivo).

 

[2] Si veda E. Tyan, Histoire de l’organisation judiciaire en pays d’islam, t. I , Parigi 1938, t. II, Harissa 1943 (I, 139).

 

[3] Secondo la definizione di Th.W. Arnold, The Caliphate, Oxford 1924, 56.

 

[4] Sulla nozione di “ugualitarismo” nell’islam si vedano: L. Gardet, cit., 48-66 e B. Lewis, Il linguaggio politico dell’islam, Bari 1991, Laterza, il cap. 3°, 74-75. Per quanto attiene alla nozione di autorità nell’islam medievale importanti contributi di W. Montgomery Watt, A. Dietrich, D. Sourdel, G. Makdisi, W. Madelung, J. Van Ess, J.Cl. Vadet, J. Jomier, W. Heinrichs e J. Sourdel-Thomine sono raccolti in: La notion d’autorité au Moyen Age. Islam, Byzance, Occident, Parigi (PUF) 1982, 286.

 

[5] Abu ‘l-Hasan cAli b. Muhammad b. Habib nato a Basra nel 364/974 è morto a Baghdad nel 450/1058. C. Brockelmann, v. al-Mawardi, in EI2, VI, 869. Per la biografia e la lista critica delle opere si veda il recente, importante saggio di H. Mikhail, Politics and Revelation. Mawardi and after, Cambridge University Press 1995, 120. Vi sono evidenziate le correnti ideologico-politiche del tempo e la posizione del pensiero mawardiano in relazione a quelle, per poi passare all’influenza più o meno diretta di M. sui suoi successori. Il “Foreword” di Bianca Maria Scarcia Amoretti fornisce una attenta valutazione critica degli studi su M. e preziose indicazioni sulle problematiche ancora aperte.

La prima edizione europea risale al 1853: M. Enger, Maverdii Constitutiones Politicae, Bonn; La prima traduzione parziale (capitoli sull’imamato e sul visirato) si deve a L. Ostrorog, el-Ahkam es-Soulthaniye: Traité de Droit Public Musulman, Parigi 1906; la prima traduzione integrale in francese risale al 1915: E. Fagnan, Les statuts gouvernamentaux, Algeri; La più recente traduzione inglese, senza alcun corredo critico, è stata pubblicata nel 1996: The Ordinances of Government, translated by Wafaa H. Wahba (Center for Muslim Contribution to Civilization). L’edizione da cui abbiamo tradotto i capitoli sul visirato e sull’emirato è quella di M.B. Halabi, Cairo 1960, 264 (21-34) e sarà indicata nelle successive note con la sigla KAS.

 

[6] Sulle dinamiche politiche e religiose del tempo e sugli Ahkam di Mawardi si rimanda solo ad alcuni titoli più recenti o ritenuti più significativi: J. Kraemer, Humanism and Renaissance of Islam. The Cultural revival during the Buyid Age, Leiden 1986, 329 sugli aspetti culturali della rinascita sciita; G. Makdisi, Ibn cAqil et la résurgence de l’Islam traditionaliste au XIe siècle, Damasco 1963: specialmente il capitolo IV sul movimento hanbalita e la restaurazione sunnita, 294-383; D.P. Little, A new look at al-Ahkam al-Sultaniyya, in The Muslim World, LXIV, 1974, 1-15; A. al-Baghdadi, al-Mawardi’s contribution to Islamic Political Thought, in Islamic Culture, 58, 1984, 327-31; ed infine lo studio, per molti versi definitivo, di Henri Laoust, La pensée et l’action politique d’al-Mawardi, in Revue des Etudes Islamiques XXXVI, 1968, 11-92.

 

[7] KAS, 22.

 

[8] KAS, 22.

 

[9] KAS,. 23.

 

[10] KAS, 24-25.

 

[11] KAS, 26-27.

 

[12] L’accettazione del dato di fatto caratterizza l’attitudine, quasi calvinista, dei musulmani circa l’esercizio del potere: essendo ogni autorità appartenente a Dio, essendo Dio onnipotente e inaccessibile ed imperscrutabili le sue vie, la prima garanzia della legittimità di un potere sarà il fatto stesso della sua riuscita. Del resto, l’unico versetto coranico circa l’esercizio del potere è: «Obbedite a Dio, al suo Inviato e a quanti detengono l’autorità (‘amr)». A questa “acquiescenza” faceva riscontro un altrettanto costante spirito di fronda, particolarmente nelle città, che sfociava spesso in sedizioni popolari, alimentato dalla estrema libertà di apprezzamento dell’opinione pubblica rispetto agli atti del governo: l’esecutivo si confrontava con il potere degli culema e dei fuqaha i quali, vivendo nella città e non a corte, avevano un rapporto diretto con la popolazione. A questo proposito si vedano i saggi già citati di L. Gardet e B. Lewis.

 

[13] Sul visirato rimane un prezioso riferimento lo studio, non recente, di D. Sourdel, Le visirat abbaside de 749 à 936, 2 voll., Damasco 1959-60.

 

[14] KAS, 29.

 

[15] KAS, cap. 3°, 30-34.

 

[16] KAS, 30.

 

[17] KAS, 31.

 

[18] KAS, 33.

 

[19] KAS, 33.

 

[20] Si veda H. Laoust, cit., 34.

 

[21] KAS, 34.

 

[22] KAS, 34.

 

[23] KAS, 34.

 

[24] Si veda ad es.: H.A.R. Gibb, al-Mawardi’s Theory of the Caliphate, Islamic Culture, 1937, 291-302 e anche in Studies on the Civilization of Islam, Londra 1962, XIX-370 (164.)