N. 3 – Maggio 2004 – Strumenti – Bibliografie

 

 

Mediazione: bibliographia selecta

 

a cura di

Maria Antonietta Foddai

Università di Sassari

 

 

 

Sebbene l’ideologia giuridica abbia plasmato la nostra percezione della realtà sociale, il diritto non è l’unico modo possibile per regolare i conflitti sociali. Sono numerosi e vari i modi con cui, in tempi e spazi diversi, i sistemi sociali regolano e gestiscono i conflitti. Questi modi mutano continuamente, col mutare delle relazioni sociali e della tipologia dei conflitti. Come ormai riconosciuto pacificamente in ambito sociologico, definire il conflitto, circoscrivendone l’ambito dei significati e individuandone le cause, è estremamente difficile. I tentativi di spiegazione del fenomeno si traducono piuttosto nello studio dei rimedi con cui i sistemi sociali contengono e gestiscono i conflitti. Come dice Resta «Non c’è scienza sociale, per quanto ricca di letteratura sui conflitti, che alla fine ci possa raccontare questo mondo hobbesiano, inestricabile, ricco di passioni, interessi, comportamenti, inclinazioni, motivazioni»(2002, 69).

Il diritto e il processo giurisdizionale nascono come strumenti monopolistici del potere statuale di gestione della conflittualità sociale, segnando un netto confine tra la sfera pubblica e quella privata del diritto, e consegnando la risoluzione dei conflitti all’ambito pubblico attraverso la costruzione di un sistema di garanzie. Nel tempo, il diritto ha operato una selezione dei conflitti che potevano essere considerati come generatori di disordine sociale e che dovevano essere definiti e risolti attraverso la giurisdizione, lasciando ad altri meccanismi di regolazione sociale, quali la comunità sorretta da tradizioni e la famiglia allargata e gerarchicamente strutturata, la gestione di un ampio ventaglio di fenomeni conflittuali. Negli ultimi decenni, le complesse trasformazioni sociali, legate all’industrializzazione e all’urbanizzazione, hanno condotto alla crisi di quelle modalità di regolazione, e canalizzato la domanda di giustizia verso la giurisdizione, che si trova spesso a dover gestire conflitti che potrebbero essere risolti in ambito sociale con modalità e obiettivi diversi da quelli processuali. In questi ultimi vent’anni si assiste, in Europa e in Italia, all’elaborazione di strategie che consentano di affiancare al diritto e al processo i metodi della “giustizia informale”, definiti tali in quanto «strumenti alternativi alle procedure legali-formali su cui si fonda il processo» (Cosi, 1998, 343).

La mediazione, che tra questi è la pratica più diffusa e teoricamente rilevante, è il risultato dell’incontro tra due o più persone che, con l’aiuto di un terzo imparziale, intendono cercare, e trovare insieme, la soluzione al conflitto che le divide. Oltre, e prima, che tecnica di gestione dei conflitti, la mediazione è un modo per ristabilire la comunicazione tra le persone, e per avviare, sia pure parzialmente, un importante processo di pacificazione sociale attraverso la costruzione di ‘spazi di parola’.

 

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Il Mediatore

 

Il mediatore è un terzo neutrale al quale le persone si rivolgono per risolvere il conflitto che le oppone. Il mediatore non è un arbitro, e tanto meno un giudice, perchè non decide, non ‘taglia’ il conflitto, imponendo una decisione alle ‘parti’, che rimangono, dall’inizio alla fine della mediazione, gli unici soggetti dotati di potere decisionale . Il mediatore lavora per riattivare il circuito interrotto della comunicazione tra i litiganti e favorisce la ripresa delle loro relazioni, necessaria alla gestione autonoma del conflitto. È per questa ragione che la sua figura è più assimilabile a un pacificatore che a un decisore, perchè, ‘stando nel mezzo’, (e non al di sopra) consente alle persone di affrontare il conflitto, e di assumere la responsabilità in merito alle proprie scelte future.

Lo ‘stare nel mezzo’ del mediatore equivale alla conquista di una posizione difficile, ma ricca, come dice Eligio Resta, «dell’appartenere comune, del condividere, e persino dello ‘sporcarsi le mani’»(2002,89); il concetto della neutralità e dell’imparzialità vanno infatti rivisitati alla luce del ruolo di necessaria partecipazione al conflitto, di grande attenzione prestata dal mediatore all’accoglienza e al riconoscimento dei sentimenti che si liberano nella stanza della mediazione. Per questo nella mediazione si deve abbandonare «l’illusione ipocrita e analiticamente scorretta della terzietà e dell’imparzialità» (Resta, 2002, 89); il mediatore entra nel conflitto, senza mostrare di parteggiare per l’uno o per l’altro dei litiganti, ma parteggiando per entrambi: «tutto con una parte, tutto con l’altra parte, e tutto completamente esterno alle parti» (Lenzi, in Cosi – Foddai, 51).

 Se la capacità del mediatore di esercitare un ruolo così complesso è frutto di un’attitudine, che potremmo definire vocazione, è tuttavia allo stesso tempo il risultato di una rigorosa preparazione e di un lungo addestramento, che ne fanno una figura nuova nel panorama professionale contemporaneo. L’elaborazione di una griglia di competenze, che prevede saperi tratti dalla psicologia e dalla psicoterapia, dall’antropologia e dal diritto, è uno dei traguardi più difficili, che ormai da più di due decenni sta impegnando i centri di formazione alla mediazione. E poiché «non esistono mediatori per tutte le stagioni», come dice Stefano Castelli, al percorso formativo di base deve seguire la preparazione specifica e particolarmente accurata nel campo in cui il mediatore opererà.

 

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Mediazione e diritto: la difficile alleanza

 

La realtà sociale e giuridica sta vivendo da alcuni decenni in Europa un importante quanto radicale cambiamento. Questo riguarda diversi aspetti riassumibili nella critica alle istituzioni giudiziarie, repressive, stigmatizzanti e lontane dai bisogni reali dei cittadini, oltre che lente e inadeguate; nella valorizzazione della figura della vittima dei reati, che nel processo ordinario viene sacrificata sull’altare del pubblico interesse, e infine nella crisi dello stato sociale, che si volge a nuovi criteri economici e a nuovi soggetti per lo svolgimento di alcune funzioni di interesse pubblico. In questo contesto si sviluppa la mediazione, che propone un modello di regolazione dei conflitti alternativo a quello rappresentato dal diritto.

Recenti tendenze legislative mostrano che è in atto un processo, nel nostro ordinamento, di ridefinizione degli ambiti della giurisdizione, divenuta ormai destinataria di un’esasperata litigiosità sociale. Ma non solo, anche la giurisdizione, un tempo monopolio esclusivo dello stato, assume un aspetto transnazionale con l’istituzione di organismi giurisdizionali internazionali cui il cittadino può ricorrere, valicando i confini della sovranità statale. Il monopolio statuale dell’offerta di giustizia si incrina, accogliendo nuovi sistemi di regolazione della conflittualità e, come dice Resta, istituendo dei “filtri” della giurisdizione (2002, 71). Vari provvedimenti normativi segnalano questa tendenza, sollecitata da una domanda insoddisfatta di giustizia, che vorrebbe una riduzione dei tempi e dei costi della giurisdizione.

La legge n.580 del 1993, che disciplina il riordino delle Camere di Commercio, istituendo le camere di conciliazione, e il decreto legislativo n.40 del 2003, che regola la conciliazione in materia di diritto societario e di intermediazione finanziaria, sono solo due esempi del ricorso a meccanismi di risoluzione delle controversie alternativi al giudizio.

La bibliografia che segue considera sia il difficile rapporto tra mediazione e diritto, sia i significativi mutamenti i in atto nell’ordinamento giuridico nazionale e internazionale. Le due successive sezioni bibliografiche riguardano la mediazione penale e quella familiare; la scelta è stata determinata da un criterio qualitativo per quanto riguarda la mediazione penale, ed uno potremmo dire quantitativo per la mediazione familiare. L’ambito penale è infatti quello in cui i meccanismi di giustizia alternativa presentano caratteri del tutto particolari, determinati dal fatto che nel nostro ordinamento l’azione penale è pubblica, poiché persegue il pubblico interesse, e la mediazione deve trovare forme di compatibilità con l’ordinamento, non potendo essere affidata esclusivamente all’iniziativa dei singoli, come avviene ad esempio in ambito familiare. Quest’ultimo è il settore in cui la pratica della mediazione ha mostrato la massima vitalità ed espansione, offrendo agli studiosi un ampio campo di osservazione sulle sue modalità, la sua efficacia e il grado di accettazione sociale.

 

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Mediazione penale

 

Il penale è il vero banco di prova della mediazione, quello in cui la riflessione intorno alla giustizia e al diritto si fa più difficile e profonda, ma anche quello in cui i risultati possono configurare reali forme di giustizia alternativa, più che di mera risoluzione conflittuale. Oltre alle ragioni brevemente enunciate sul rapporto tra mediazione e diritto, che vedono un bisogno pratico di riduzione di costi e tempi della giustizia, e di un carico ormai insostenibile del contenzioso giurisdizionale, vi sono, come ha sostenuto Claudia Mazzucato, «ragioni più profonde che attengono a una dimensione alta, per certi aspetti perduta, della giustizia» (in Cosi-Foddai, 154), enunciando le potenzialità etiche, culturali e sociali della mediazione. L’esito del processo, rispondendo alla logica vincente o perdente, spesso amplifica gli effetti del conflitto, lasciando sul campo più insoddisfazione e dubbi che consenso e pacificazione. La mediazione passa da una logica competitiva (che risponde alla ormai celebre “concezione sportiva della giustizia” enunciata da Pound) ad una cooperativa, che ricerca la verità attraverso il dialogo e il riconoscimento, piuttosto che attraverso l’esclusione operata dal processo. Questo passaggio da una logica decisionale ad una consensuale, da un ordine negoziato ad uno imposto, è irto di difficoltà e va affrontato con estrema cautela, al fine di salvaguardare quelle garanzie che rappresentano la conquista degli stati di diritto. Tuttavia, come ha ben evidenziato la letteratura in materia, ci sono degli spazi di ‘accoglienza’ nel nostro ordinamento, che consentono di realizzare una strategia di compatibilità tra giurisdizione e mediazione.

 

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Mediazione familiare

 

Così come nell’ambito penale, commerciale, lavorativo e culturale, anche in quello familiare non ogni conflitto che conduce alla separazione può, o deve essere mediato. Vi sono infatti separazioni in cui il conflitto viene risolto e autonomamente gestito dai coniugi, e separazioni che avvengono senza rilevanti conflitti, così come vi sono casi di altissima conflittualità che nascondono situazioni di violenza e abusi, che non possono essere mediati, ma gestiti per altre vie. Possiamo dire quindi che la mediazione familiare si rende utile e necessaria in quei casi di elevata conflittualità familiare, che vedono sia i genitori, ma soprattutto i figli, vittime di un conflitto ormai divenuto distruttivo e dannoso. L’obiettivo comune ad ogni modello di mediazione familiare è quello di ristabilire la comunicazione tra i coniugi, per poter raggiungere un obiettivo concreto: «la realizzazione di un progetto di organizzazione delle relazioni in seguito alla separazione o al divorzio, che tenga in considerazione i bisogni di ogni membro della famiglia» (Carta Europea sulla formazione dei mediatori familiari, in Corsi-Sirignano, 50). In questo contesto, il compito essenziale del mediatore è quello di creare uno spazio di comunicazione, attraverso il quale i coniugi affronteranno serenamente la trasformazione del loro rapporto e la ridefinizione del loro ruolo genitoriale.

Nel suo ruolo il mediatore familiare racchiude numerose competenze e lambisce molti ambiti disciplinari, senza tuttavia identificarsi con nessuno di questi, ma mantenendo una sua peculiarità. Pur avendo conoscenza dei diritti spettanti ai coniugi e delle norme sulla separazione giudiziale, il mediatore non è un consulente legale; pur conoscendo alcune dinamiche psicologiche derivanti dal sistema di relazioni che compone la famiglia, non è uno psicologo che cura il disagio derivante dalla crisi, così come, pur essendo in grado di ricostruire, attraverso la versione di ciascuno dei coniugi, la storia del loro conflitto, il mediatore non è un giudice che accerta le responsabilità di ciascuno.

Ecco i compiti del mediatore nell’esempio colorito ed efficace citato da Stefano Castelli: «Il mediatore familiare opera in circostanze simili a quelle del soccorritore che giunga sul luogo di una catastrofe naturale: un’alluvione ha devastato una vallata, distruggendo i ponti che collegavano tra loro le sponde del fiume, e lasciando la popolazione senza case entro cui proteggersi e riscaldarsi. Sicuramente, sceso dal suo fuoristrada, il soccorritore non si metterà ad analizzare la tipologia dei suoli, o a tracciare un profilo idrogeologico della zona per capire come il disastro sia potuto accadere. E non sarà carino (né prudente) da parte sua aggirarsi fra i superstiti disperatamente in lacrime, che hanno perso tutto ciò che costituiva il loro mondo, biasimando la loro debolezza ed esortandoli a rimboccarsi le maniche per stendere nuovi piani regolatori, progettare nel dettaglio, e realizzare, nuovi ponti e nuove case. In casi del genere, il soccorritore si premurerà sensatamente di portare la popolazione al riparo da nuove ondate di piena, aiuterà a erigere baracche provvisorie per offrire un riparo temporaneo, avvierà cucine da campo e, se è il caso, costruirà ponti di barche che, almeno provvisoriamente, consentano di ristabilire le comunicazioni interrotte fra le due sponde del fiume» (139).

 

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