N. 3 – Maggio 2004 – strumenti – Note & Rassegne

 

 

Societas Publicanorum(*)

 

 

Maria Rosa Cimma

Università di Sassari

 

 

La ricerca si snoda secondo le linee esposte dalla stessa Autrice nel capitolo introduttivo (pp. 1-21), in cui vengono poste le premesse della trattazione: l’oggetto, e cioè la genesi e le attività della società di publicani al tempo della repubblica romana, quale esempio di “privatizzazione” di attività tipicamente statuali, nell’ambito dell’odierno dibattito sul tema; lo scopo, quello di offrire non una semplice esposizione storico-descrittiva, ma una discussione dei sistemi giuridico e sociale dei Romani, capace di essere utilizzata per ripensare la dogmatica e l’orientamento del sistema di oggi, nella convinzione che l’indagine storica possa prescindere dai convincimenti politico-ideologici attuali; infine il metodo, teso alla connessione di valutazioni giuridiche, economiche e storiche, con particolare attenzione per i fenomeni economici. In materia l’A. afferma che il corretto utilizzo dei modelli elaborati dalla scienza economica possono portare a risultati significativi nell’interpretazione dei rapporti fra determinati soggetti in un tempo storicamente definito, e si propone quindi di tentare quello che essa stessa definisce un esperimento, “ein Experiment, das an den Resultaten sowie auch an deren Bedeutung für gegenwärtige Fragestellungen zu messen sein wird” (p. 20).

Il secondo capitolo è dedicato alla descrizione degli ambiti di attività delle società di publicani (pp. 23-53), mentre il terzo contiene un schizzo della loro storia, dalle origini alla rapida decadenza nell’età del Principato (pp. 55-64).

Il tema dell’attribuzione dell’appalto da parte dello stato viene affrontato nel quarto e nel quinto capitolo, in cui l’A. rispettivamente esamina l’assegnazione all’imprenditore privato e la realizzazione da parte di quest’ultimo.

Nel quarto capitolo, che è il più corposo dell’intero volume (pp. 66-222), l’A. affronta in primo luogo alcuni problemi di carattere giuridico, alla soluzione dei quali, tuttavia, non sembra apportare significativi contributi. Preso atto del carattere pubblicistico del rapporto fra stato e appaltatori, la Malmendier rende conto, in rapporto alla qualificazione del contratto, della oscillazione nelle fonti che si riferiscono al periodo più antico fra l’emptio venditio e la locatio conductio, e del prevalere della seconda a partire dalla tarda età repubblicana: il fenomeno a suo avviso va interpretato come un indice della relativa indifferenza della forma contrattuale per negozi capaci comunque di raggiungere il loro scopo economico.

Quali parti del contratto di appalto l’A. identifica da una lato il popolo romano, dall’altro il manceps. Per il popolo romano agiva il magistrato, non come rappresentante, ma come organo (con una forzatura del pensiero del Kaser, al quale l’A. si richiama), e come organo della società avrebbe agito il manceps, e ciò sulla base di un’interpretazione non proprio indiscutibile (p. 81) dei paragrafi 46 e 54 della lex portorii Asiae. Le condizioni a cui il contratto sarebbe stato concluso venivano indicate nella lex censoria, nella quale di volta in volta si specificava l’oggetto dell’appalto, le modalità di pagamento e le garanzie richieste, garanzie fra le quali vanno ricomprese le dichiarazioni relative alla composizione della società. Il manceps infatti doveva rendere nota non solo la struttura giuridica della società stessa, ma anche la sua struttura finanziaria, e ciò serviva a fornire allo stato ulteriori garanzie rispetto a quelle “tecniche” rappresentate dai praedes praediaque.

La Malmendier passa poi a parlare dell’importanza dell’asta nel commercio giuridico ed economico romano, illustrandone l’origine, l’uso nei rapporti fra privati, l’utilizzo per la vendita dei beni dei debitori dello stato e per l’assegnazione di appalti pubblici. Di seguito descrive la procedura, soffermandosi in particolare sul tema del calor licitantis di cui tratta Paolo in D. 39,4,9 pr. (5 sententiarum = PS 5,1a,1: Locatio vectigalium, quae calor licitantis ultra modum solitae conductionis inflavit, ita demum admittenda est, si fideiussores idoneos et cautionem is qui licitatione vicerit offerre paratus sit) per giungere alla conclusione che l’intero procedimento era preordinato allo scopo di ottenere per lo stato il maggior vantaggio possibile, senza che i partecipanti potessero aspettarsi alcuna cura o preoccupazione per i loro interessi.

Nell’ultimo paragrafo del capitolo in esame l’A. si propone di giungere ad un “giudizio” del sistema dell’asta dal punto di vista economico, come parte essenziale di un giudizio complessivo intorno al modo in cui i Romani risolsero il problema economico che si poneva loro – e con ciò anche, continua l’A. con bella sicurezza, intorno al modo in cui lo stesso problema viene risolto oggi: “Denn angesichts der modernen Parallelen des Vorgehens in den HERMES-Versteigerungen, den Versteigerungen von Radiowellen, Umweltzertifikaten und Flughafen-Lots muß sich der Staat heute der gleichen ökonomischen Implikationen bewußt sein, um zu erfassen, wie sich seine Zielsetzungen in vorgegebenen rechtlichen Rahmen und den ökonomischen Zwängen der Gegenwart in der gewählten Methode der Auktion ralisieren lassen” (p. 144).

Per gli scopi anzidetti la Malmendier esamina quindi i vantaggi dell’auzione in generale (il convergere dell’offerta e della domanda in un luogo stabilito, il foro; l’iniziativa all’avvio del negozio da parte dell’offerente, auctionem praedicare; il convenire di più partecipanti, il che consentiva allo stato di ottenere le condizioni migliori), e poi in particolare i vantaggi della procedura usata dai Romani (sostanzialmente la “rivelazione” del valore dell’oggetto attraverso le stesse offerte, il che risparmiava allo stato i costi necessari per operare una valutazione autonoma, ed inoltre la possibilità, grazie alla concorrenza, che i singoli partecipanti finissero per offrire un prezzo superiore alla propria valutazione iniziale). La forma di asta usata dai Romani non è però l’unica pensabile, e per questo motivo l’A. mette a confronto diversi modelli, dei quali la scienza economica ha valutato l’efficienza. Il modello scelto dai Romani risulta essere quello che oggi viene chiamato asta inglese, oppure anche asta orale o asta pubblica, scelta che secondo l’A. si dimostra matematicamente essere stata ottimale per Roma per la maggior parte degli oggetti d’asta, e ciò sia sotto il profilo dell’efficienza, sia sotto il profilo della massima convenienza per le casse dello stato.

A fronte di questi vantaggi si pongono alcune obiezioni, sovente avanzate dalla dottrina: da un lato la possibilità che il calor licitantis inducesse ad offerte eccessive al rialzo o al ribasso, dall’altro il grande potere politico che il sistema delle aste poneva nelle mani dei publicani, e che poteva favorire fenomeni di collusione fra i concorrenti, ai danni dello stato. Secondo la Malmendier, tuttavia, la professionalità dei publicani bastava ad evitare offerte dettate dall’emotività, e d’altra parte la possibilità, attestata dalle fonti, di ottenere dal senato una rinegoziazione dell’intero affare, o condizioni migliori, starebbe a dimostrare più che la forza degli stessi publicani, l’interesse dello stato – almeno per le commesse – all’effettiva esecuzione del negozio. Per quanto attiene poi al problema di possibili accordi fra i concorrenti ai danni dello stato, sicuramente il modello inglese, cui si ascrive il sistema adottato dai Romani, si dimostra particolarmente vulnerabile; dalle fonti però non risulta che il fenomeno avesse una particolare rilevanza, e d’altra parte, afferma l’A., qualora la collusione avesse rappresentato un reale problema, i Romani avrebbero potuto scegliere un modello diverso di asta: “War Kollusion bei den Römern ein gravierendes Problem, dann hätte also eher eine Erstpreisauktion gewählt werden sollen” (p. 214).

In conclusione il giudizio economico complessivo che l’A. dà del sistema adottato dai Romani è largamente positivo, ed anzi essa afferma che le soluzioni, dal punto di vista delle casse dello stato, erano ottimali. Per quanto attiene al connesso problema dello sfruttamento delle province, secondo la Malmendier probabilmente questo non era un problema per i Romani: l’agire economico di uno stato deve essere valutato non in astratto, ma in relazione agli specifici scopi che lo stesso stato si propone.

Il quinto capitolo (pp.223-276) è intitolato al tema della realizzazione dell’appalto da parte dell’imprenditore privato. Qui l’A., dopo aver osservato che gli appaltatori pubblici erano soliti formare societates e non collegia, e dopo aver richiamato le norme che facevano della societas romana una struttura particolarmente fragile, sottolinea che lo sviluppo delle norme relative al modello adottato, quello della societas unius negotiationis, pur muovendosi verso la costruzione di una società di capitali, non sfociò mai nella realizzazione di una vera società per azioni.

Le particolarità della societas publicanorum rispetto alla societas unius negotiationis consistevano in sintesi nella sopravvivenza della società alla morte di un socio e all’esercizio dell’actio pro socio, nonché nella presenza di soggetti che “partecipavano” alla società pur senza essere soci (i participes e/o adfines di cui è menzione nelle fonti); l’A. giustamente respinge l’opinione, avanzata dalla dottrina meno recente, che nella societas publicanorum il manceps potesse fungere da vero e proprio rappresentante della società nei rapporti con lo stato e con i terzi, né d’altro canto aderisce all’idea di chi vede in quella società una persona giuridica, pur ammettendo che nel corso del principato per alcuni aspetti lo sviluppo tendesse in quella direzione. Dopo aver descritto la struttura interna della società di publicani la Malmendier conclude il capitolo considerando come gli investitori da un lato, lo stato romano dall’altro, avessero trovato le soluzioni organizzative, economiche e giuridiche per realizzare al meglio i loro scopi, senza preoccuparsi della costruzione e della definizione di un nuovo istituto.

Nel capitolo successivo, intitolato “Zum geschichtlichen Urteil über die römische Staatspacht – Zielsetzungen und Zwängen” (pp. 277-293), l’A. ribadisce il giudizio positivo sul sistema degli appalti romani, e respinge le critiche di chi sottolinea il dissennato sfruttamento delle province con la considerazione che il benessere dei provinciali non rientrava fra gli scopi dello stato romano: la politica economica di Roma era volta unicamente a realizzare il maggior vantaggio possibile a favore di Roma stessa, ed il sistema degli appalti serviva ottimamente a questo scopo. Lo stesso giudizio viene ripetuto ancora nelle conclusioni (pp. 295-297), nelle quali inoltre la Malmendier si dice convinta di aver raggiunto lo scopo di chiarire, attraverso un’analisi dei problemi e delle loro soluzioni condotta separatamente dalle categorie giuridiche e dagli indirizzi pubblici legati al passare del tempo, il parallelismo con gli sviluppi attuali, sia economici, sia giuridici. Con le sue stesse parole (p. 296): “In welchem Ausmaß aber nicht nur die Probleme, sondern auch die Lösung, die die Römer fanden, höchstmodern und Gegenstand lebendiger Debatte wie konkreter Privatisierungsansätze sind, mag überrascht haben. Die betonte Loslösung von zeitgebundenen Maßstäben hilft, diese Aktualität klarer vor Augen zu führen, als es in bisheringen Bearbeitungen ähnlicher Themenbereiche geschah”.

Il volume si conclude con un’ampia bibliografia e con l’indice delle fonti.