N. 3 – Maggio 2004 – Strumenti – Note & Rassegne

 

 

Ciak! Si giudica. Le corti di Hollywood e Cinecittà

 

 

VINCENZO ZENO-ZENCOVICH

Terza Università di Roma

 

 

Si può guarire la giustizia italiana? Fare in modo che i processi si svolgano in tempi ragionevoli, che le sentenze si rispettino, che i cittadini vi ripongano fiducia?

In tanti - giudici, avvocati, studiosi, persino politici - ci si sforza di farlo.

Ma l'ottimismo della volontà soccombe non tanto di fronte al pessimismo dei numeri, delle statistiche, dell'osservazione empirica, bensì per un avversario ben più forte, che opera fuori dalle aule dei tribunali: il cinema.

La giustizia italiana è condannata, prima ancora che davanti alla Corte europea dei diritti dell'uomo (dove ha totalizzato il maggior numero di sentenze negative rispetto a tutti gli altri paesi europei), nelle sale cinematografiche dove essa è rappresentata come ridicola, odiosa o, nella più benevola delle ipotesi, perdente.

Si potrebbe sorridere di fronte a questo accostamento - cinema contro Giustizia - o, peggio, ritenerlo una forzatura denigratrice e distruttiva.

Purtroppo le cose non stanno così: da oltre un secolo sappiamo che un sistema giuridico è indissolubilmente legato ai valori, non giuridici, prevalenti in una data società. E da oltre un ventennio il ricco filone "Law & Literature" ci illumina sullo stretto legame fra espressione letteraria e formulazione, interpretazione e applicazione delle norme. Lo sa bene il lettore di Balzac, i cui romanzi sono spesso costruiti attorno ad un caso giudiziario, tratto dal Codice Napoleone.

Ma per trovare conferma a quanto si va dicendo la comparazione è di illuminante aiuto (si v. il recente saggio di A. Somma, “When the law goes pop”. La rappresentazione filmica del diritto” , in Politica del diritto 2003,447). Paradossalmente l'italiano medio - digiuno di cose di diritto - ha una idea più precisa del sistema di giustizia americano, che di quello italiano. Quelli più anziani attraverso i telefilm della serie Perry Mason, quelli meno anziani attraverso un profluvio di pellicole, di grande successo e che vedono protagonisti i migliori attori americani.

Alcuni titoli, presi a caso fra una miriade: Kramer contro Kramer, Philadelfia, Il mistero von Bulow, Il verdetto, Presunto innocente, Codice d'onore, Erin Brockovich, Una azione civile, L'uomo della pioggia, Larry Flint, Il caso Pelikan, Amistad, Il socio, Il cliente, Malice - Il sospetto, e si potrebbe continuare per pagine ( per una rassegna significativa di un centinaio di pellicole v. P. BERGMAN - M. ASIMOW, Reel Justice. The Courtroom Goes to the Movies, Andrews & McMeel, Kansas City 1996).

Ma se ci chiediamo quale è il senso di questo elenco la risposta è assai più breve: la Giustizia è la rappresentazione di un dramma, che gli uomini, le donne e le procedure portano ad una conclusione, il più delle volte positiva o comunque rassicurante. Se c'è qualcosa che pensiamo di conoscere del sistema giudiziario americano è la giuria - onnipresente - davanti alla quale buoni, cattivi, mediocri, ambigui, vittime si presentano e vengono giudicati. Quella giuria - che rappresenta nella realtà e nella finzione "Middletown" (la comunità-tipo americana) - è l'immagine terrena, concreta, a portata di mano, della Giustizia. Se abbiamo ragioni e le sappiamo esporre otterremo quel che è giusto, anche se ciò potrà costare, e non poco, in termini di sofferenza (nella gran copia di libri sul tema si vedano quelli, recenti, di A. CHASE, Movies on Trial: The Legal System on the Silver Screen, New Press, New York 2002; D.A. BLACK, Law in Film: Resonance and Representation, Un. of Illinois Press, Champaign 1999)

Usciamo dal cinema - e ne escono gli spettatori americani - con una idea di Giustizia che funziona, purchè lo si voglia, purchè si lotti.

Guardiamo ora a casa nostra. La Giustizia è in primo luogo ridicola. Di fronte al realismo rappresentativo americano abbiamo ambienti di fantasia, giudici ed avvocati improbabili, procedure immaginarie. Per tutti, La cambiale con Totò e Peppino nei panni dei cugini Posalaquaglia, titolari di una agenzia di "consulenze testimoniali", che si imbrogliano l'un l'altro, con parapiglia finale e Totò che si sostituisce al Pretore ordinando al brigadiere di arrestare il giudice. Oppure Guardie e ladri in cui alla fine si parteggia per il povero Totò costretto a rubare per sfamare la famiglia e solo la bravura di Fabrizi non ci rende odiosa la Legge. E ancora la scena dei Soliti ignoti nel parlatoio di Regina Coeli in cui viene preparato il tentativo di frode processuale con scambio di detenuti. Per non parlare dell’episodio Il processo di Frine in Altri tempi di Blasetti nel quale uno strepitoso avvocato De Sica ottiene l’assoluzione dell’imputata Gina Lollobrigida.

Ma al tempo stesso la Giustizia è perdente, soprattutto quando in scena c'è Alberto Sordi: la scena finale del Vigile in cui, con la moglie e il figlio accanto, fa capire al giudice che se è reticente è perché "tiene famiglia". E la stessa scena si ripete, pressappoco, in Il Commissario in cui Albertone è costretto – per ragioni politiche – a dichiarare in Tribunale di avere estorto una confessione. Oppure ancora in Detenuto in attesa di giudizio in cui il giudice si rifiuta di prendere in esame l’evidente caso di arresto per omonimia perchè sta per andare in ferie.

Ma il dileggio della Giustizia per antonomasia è rappresentato da Un giorno in Pretura nel quale Nando Moriconi l’amerigano trasforma il processo in una farsa: e non è un caso che il titolo di quel film di successo sia stato utilizzato per una trasmissione di cosiddetta tv-verità che trasmetteva, sull’emittente del servizio pubblico, fasi e spezzoni di processi “famosi”. Se setacciamo la filmografia di Sordi la lista è ancora lunga: l’episodio del pretore, severo censore e grande consumatore di riviste pornografiche in Il comune senso del pudore, o ancora il giudice Salvemini in Tutti dentro (con un sottotitolo eloquente: Almeno l’ingiustizia sia per tutti ,uno sberleffo a And Justice for All)

E dalla farsa si scivola poi nella denuncia della Giustizia oltraggiata o negata: dal neo-realismo (Processo alla città, di Zampa) alla ricca filmografia di Damiano Damiani ( fra cui spiccano Confessione di un commissario di polizia al procuratore della repubblica e La polizia ringrazia) .E anche quando si guarda all'estero, la visione è cupamente pessimista: si pensi alla rappresentazione del processo e alla messinscena della giuria in Sacco e Vanzetti. Oppure ci si ride sopra, con l’italica furbizia del funzionario della SIAE Emilio Garrone in Assolto per aver commesso il fatto il quale, con l’ausilio del giudice,riesce a conquistare una impresa con un giro di assegni truccati.

Beninteso, nessuno - dati alla mano - è convinto che la Giustizia americana sia un paradiso evangelico, e gli esempi di ingiustizia, classismo, rozzezza punitiva si sprecano ( e vengono puntualmente rappresentati nei film: due esempi fra tanti Dead man walking e Il miglio verde). Ma nonostante tutto ciò gli americani continuano a credere che il loro sistema sia perfettibile sì, ma meritevole di fiducia, e Hollywood rafforza questa credenza.

La lezione che si trae è che una istituzione pubblica ha il peso che le danno i consociati e questo peso è il risultato anche della rappresentazione letteraria ed artistica che finisce per esprimere un Volksgeist.

Per il nostro paese, assai meglio delle relazioni di un procuratore generale della Cassazione, ci spiegano tutto padre Dante (Leggi son, ma chi pon mano ad esse), e don Lisander (con il nostro Azzeccagarbugli). Ma più di tutti il sommo Collodi:

"Pinocchio, alla presenza del giudice, raccontò per filo e per segno l'iniqua frode, di cui era stato vittima; dette il nome, il cognome e i connotati dei malandrini, e finì col chiedere giustizia. Il giudice lo ascoltò con molta benignità; prese vivissima parte al racconto: s'intenerì, si commosse: e quando il burattino non ebbe più nulla da dire, allungò la mano e suonò il campanello.

A quella scampanellata comparvero subito due can-mastini vestiti da giandarmi. Allora il giudice, accennando Pinocchio ai giandarmi disse loro:

Quel povero diavolo è stato derubato di quattro monete d'oro: pigliatelo dunque e mettetelo subito in prigione".

Si capisce dunque che l'Arte, in Italia, ha ormai perso ogni speranza nella Giustizia. Perché dovremmo averla noi?

Una conclusione meno catastrofica? Alla prossima verifica di maggioranza Sidney Lumet Ministro di Grazia e Giustizia e John Grisham in Cassazione. O, almeno, imbottirsi di film americani prima di affrontare un'odissea giudiziaria.