N. 3 – Maggio 2004 – Tradizione Romana

 

 

luisa bussi

Università di Sassari

 

Echi dello jus belli romano nella dottrina canonistica della guerra giusta*

 

 

Relazione presentata nel III Convegno internazionale «Diritto romano privato e pubblico: l’esperienza plurisecolare dello sviluppo del diritto europeo» (Jaroslavl e Mosca, 25-30 giugno 2003).

 

 

 

 

E’ cosa nota che il più forte fattore di evoluzione, quello che come un lievito modificò la cultura antica spingendola verso l’età nuova, fu certamente l’avvento del Cristianesimo[1]. Ed è altrettanto noto come la Chiesa, fin dal suo sorgere, abbia stabilito un forte legame con la cultura giuridica romana.

In questa sede mi limiterò, per ragioni di tempo, a qualche cenno sull’influenza che essa ha avuto per la dottrina cristiana in tema di bellum justum, rinviando al testo integrale ogni ulteriore chiarimento.

Da Cipriano, la Cristianità è detta societas (3), e il termine, che richiama alla mente la cognatio quaedam di Fiorentino[2], sembra usato in senso tecnico. Infatti, la natura stessa del Battesimo viene definita come un vincolo giuridico che costituisce una società fra tutti i fedeli e una confederatio fra la societas così formata e Dio stesso. Per spiegare la natura del rapporto istituitosi col battesimo, Cipriano ricorre ancor più direttamente al diritto romano: la formula dell'impegno battesimale contiene una sponsio. Nella quale vengono distinti due aspetti: l'impegno assunto con Dio, e quello assunto con gli altri battezzati:

Ne veniva che jus illud legale omne era solo quello che non contrastava nè con gli impegni assunti nei confronti di Dio, né con quelli assunti nei confronti degli altri battezzati. Dunque ne veniva anche un giudizio negativo della guerra come mezzo di soluzione delle controversie fra i Christifideles. Se Seneca rileva la contraddizione per cui l’etica pubblica viene distinta da quella privata e, da un lato, vengono castigati gli uomini che commettono omicidio, dall'altro quello stesso fatto viene lodato se commesso in guerra, tale contraddizione è da Cipriano ripresa ed ampliata[3].

Posizioni intransigenti ha anche Tertulliano[4]. Il quale, rispondendo a quei Cristiani che sottovalutavano la questione etica dietro la giustificazione che il servizio allo Stato li obbligava all’uso delle armi, richiamava l’univocità e la radicalità del Vangelo (4).

Come Tertulliano, anche Lattanzio[5] depreca ogni spargimento di sangue, ribadendo come il summum inter se hominum vinculum sia l'humanitas (5). Dio solo è padre e padrone di tutte le anime. La qualità immortale di queste condanna ogni specie d'omicidio, dunque condanna anche le guerre[6]. Anzi, proprio il tema della guerra dà a Lattanzio lo spunto per una critica radicale della politica e del diritto romano in quanto ispirati non alla giustizia ma all’utilitas:

Si direbbe, dunque, che il rifiuto della guerra si affacci chiaramente sin dall'inizio della predicazione del Cristianesimo, anche se metafore tratte dalla terminologia militare sono assai frequenti nei primi Padri della Chiesa[7] secondo una tendenza che era stata familiare anche al giudaismo: non per nulla al concetto di miles Christi, rinvia ripetutamente lo stesso S. Paolo[8]. Molti passi dei Vangeli si servono di un linguaggio militare per indicare la guerra contro il Maligno, in contesti ove il concetto di violenza è usato in contrapposizione al Regno di Dio.

E’ frequente anche incontrare figure di militari senza che a ciò si accompagni un segno di riprovazione, o l'invito ad abbandonare il loro servizio[9]. Il fatto è che il pensiero cristiano si innesta in quello vetero-testamentario, del quale recenti ricerche hanno riconosciuto tutta la rilevanza rispetto al problema della guerra[10]. Nel Vecchio Testamento è lo stesso Jahwe a combattere per il suo popolo, a comandarne l’esercito, ad aiutarlo scatenando la Sua ira contro il nemico – che è al contempo Suo nemico - con catastrofi naturali o piaghe di varia natura. Bastino due esempi, che si impongono anche all’attenzione di S. Agostino e di Graziano. Il primo concerne la conquista della città di Ai, così come viene descritta da Giosuè 7 e 8; il secondo la guerra degli Israeliti contro il re degli Amorrei Sihon, descritta in Numeri 21, 21-25. Insieme a Genesi 32, tali passi condizionano l’evoluzione del pensiero cristiano in materia di uso della forza. Il temperamento del quadro che essi offrono, tuttavia, non sarà tanto dedotto dall’amore cristiano quanto dovuto alla consapevole recezione dei principi del bellum justum romano.

E’ con S. Ambrogio, prima ancora che con S. Agostino, che la materia comincia ad articolarsi. Nato a Treviri nel 340, da famiglia romana, S. Ambrogio, nel De officiis ministrorum[11] divide la fortezza in bellica  e domestica: la prima collegata di necessità alla giustizia e alla prudenza, la seconda sostanziata di tolleranza. Un’altra distinzione netta è per lui da fare fra i laici e i Ministri di Dio, cui in sostanza viene a restringersi l’assoluto divieto di portare le armi (7).

La distinzione fra bellum iustum e bellum iniustum abbozzata da S. Ambrogio, sarà sviluppata – quando già si eran viste le prime invasioni – da S. Agostino. In un celebre passo del Contra Faustum Manicheum, S. Agostino difende le campagne di Mosè contro le invettive di Fausto, richiamandosi all'obbedienza incondizionata che si deve all'ordine divino (8), sive aliquo legitimo imperio jubente; lo stesso avviene nell'analogo passo relativo a Giosuè, benché S. Agostino appaia perfettamente consapevole di quanto l’etica cristiana si fosse ormai allontanata dallo scenario ivi prospettato. Dalle sue espressioni traspare, peraltro, l’esistenza di norme regolatrici dei rapporti fra i popoli, la cui violazione giustificherebbe l’uso della violenza bellica, affacciandosi così, a distinguere il bellum justum dall'injustum i contrapposti concetti della justa defensio e della aviditas adipiscendae laudis humanae. La dilatazione dei confini dello Stato, che per i malvagi è motivo di esultanza, è giustificabile quando sia imposta da confinanti iniqui e litigiosi poiché non sarebbe auspicabile ut injuriosi justioribus dominarentur (9). In questo modo, in contrasto con la prima Patristica, trovava giustificazione la stessa espansione di Roma. Per essere giustificabile, la guerra deve dunque rispondere ad una necessità assoluta (10), tendere ad una pace migliore, più conforme all'ordo naturalis voluto da Dio.

         L’idea di giustificare la guerra mediante la pace successiva non era nuova, derivava da Aristotele ed era stata ripresa da Virgilio[12]. S. Agostino la trasforma e la cristianizza, unendo alle condizioni richieste dal diritto romano una condizione nuova, forse l’unica prettamente cristiana: l’animus che, perché la guerra possa dirsi giusta, deve essere bellando pacificus (11).

Contestualmente alla enunciazione della distinzione fra bellum justum e bellum iniustum, S. Agostino fa proprio anche un principio destinato a divenire la norma fondante del diritto internazionale: fides enim quando promittitur etiam hosti servanda est. Anche questo principio risuona di profondi echi romanistici. Sini ricorda come Enea chiama gli Dei a testimoni contro gli Italici per la violazione dei foedera[13]. E non è forse a causa del rispetto della fides che Attilio Regolo torna al nemico?[14].

La distinzione fra bellum justum e bellum iniustum, conosciuta dalla Chiesa nel Medioevo trarrà le sue radici dai passi appena citati. Ad essi si aggiungerà quello di Isidoro di Siviglia il quale cita esplicitamente Cicerone (12).

Naturalmente, il mondo di Isidoro di Siviglia è assai lontano da quello di Cicerone. Il venire meno del potere unificante di Roma, la diffusione di una signoria fondiaria con forti elementi di sovranità, fanno delle guerre della nuova età un fenomeno assai diverso dal bellum  romano. Si ritiene generalmente che, mentre nei territori bizantini (con l’eccezione di Roma) sarebbe viva l’idea di un potere pubblico distinto da quello dei privati e connotato dalla sacralità dell’Imperatore[15]; nei territori acquisiti dai Barbari il potere sarebbe invece solo il risvolto del dominio[16].

La definizione isidoriana del bellum è ripresa interamente - compreso il rinvio a Cicerone - da Rabano Mauro[17]. Allievo di Alcuino e autore di un’opera enciclopedica di grande diffusione, questi ne dedica un intero capitolo al tema della guerra. Come Isidoro, Rabano Mauro distingue le guerre in interna, externa, servilia, socialia, piratica. Ma si definisce propriamente bellum quello quod contra hostes agitur. Come non rilevare questa distinzione squisitamente romanistica, che richiama antiche precisazioni ulpianee (13)? E’ lecito tuttavia domandarsi fino a che punto Rabano Mauro intendesse richiamarsi al concetto tecnico di hostis come condizione giuridica del “nemico” col quale il diritto romano ammetteva un legittimo stato di guerra[18].

Le possibili soluzioni della situazione creata dalla guerra sono: pugna, fuga, victoria, pax. Il termine pax si lega a pactum: perché vi sia pace, bisogna che sia stato stipulato un foedus. Ed è interessante che in proposito riemerga la memoria della antica funzione dei feziali:

 

Foedus est pax, quae fit inter dimicantes, vel a fide vel a fictialibus [faecialibus], id est a sacerdotibus dictum: per ipsos enim fiebant foedera, sicut per saeculares bella[19].

 

Un ulteriore passo avanti sulla strada della definizione di una dottrina cristiana del bellum justum viene da Abelardo di Bath. Questi richiama le fonti scritturistiche e le autorità patristiche che escludono una interpretazione massimalista del precetto non occides, aggiungendo a S. Agostino e S. Isidoro di Siviglia anche la lettera di papa Nicola I Ad consulta Bulgarorum (14). Al divieto non occides, egli oppone l’autorità di Geremia per cui: Homicidas enim et sacrilegos et venenarios punire non est effusio sanguinis, sed legum ministerium[20].

Ivo di Chartres fa del compito di punire gli iniqui una funzione del rex:

 

“Non autem sine causa gladium portat rex. Vindex est enim contra omnes iniquos, ut terrore comprimat quos nequit corrigere monitis salubribus”[21].

 

Proprio a tal fine, anzi , sarebbe stata istituita la potestà regia, tant’è che si macchiava di peccato il judex qui peccata vindicare potest et non facit, come in genere crimina committit qui non corrigit cum possit[22]. Tuttavia - e il punto è da sottolineare perché si presta ad essere utilizzato anche per giustificare una differenza qualitativa fra i Christifideles - non è idoneus ad exercendam vindictam nisi qui superavit odium mansuetudine. In definitiva, il concetto stesso di bellum justum viene vincolato a quello di iudex, in una congiunzione che sarà richiamata anche da Graziano.(14 bis).

Alla tradizione così formatasi, Graziano imprime importanti sviluppi. è evidente che anch’egli riguarda il problema anzitutto dal punto di vista morale: se sia legittimo infliggere la morte, e, di conseguenza,  an militare peccatum sit. E qui, il suo pensiero riassume le posizioni legaliste della Chiesa, a partire dal precetto petrino di obbedire all’autorità cui si è soggetti.

La guerra è ammissibile come executio juris: non enim pax queritur ut bellum excitetur, sed bellum geritur ut pax acquiratur[23]. Graziano recepisce tanto la tradizione agostiniana[24] quanto quella trasmessa dalle isidoriane Etymologiae[25], entrambe, come abbiamo visto, formalmente e sostanzialmente debitrici della cultura giuridica romana. Egli riprende queste due definizioni, apparentemente seguendole, in realtà trasformandole ulteriormente. Sulla scorta di S. Agostino, egli precisa che non è il fatto in sè dell'aver provocato la morte di propri simili che determina la colpa dei combattenti, bensì la:

 

“Nocendi cupiditas, ulciscendi crudelitas, inplacatus atque implacabilis animus, feritas rebellandi, libido dominandi”.

 

Dunque si definiscono causae  che possono rendere la guerra giusta: propulsare hostes, repetere res, ulcisci iniurias.

La guerra è giusta in due circostanze che ancora una volta rinviano a fonti romanistiche: se viene mossa

 

"… adversus eos qui hostes publice determinati sunt, vel quod fit propter res repetendas quae vi ablatae sunt"[26].

 

Il canone ricorda da vicino la nota definizione ulpianea di hostes recepita nel Digesto[27]. Solo la presenza di un hostis o la necessità di recuperare beni sottratti con la violenza giustificava la guerra; chi non aveva la condizione giuridica di hostis, manteneva quella di predone o ladruncolo. Lo jus gentium non considerava guerre i conflitti intrapresi da tali soggetti, mentre giustificava la resistenza contro di essi. Per la Summa parisiensis era da definirsi certamente ingiusta la guerra che “ex edicto non geratur, nec ob res repetendas quae vi ablate sunt, nec ulciscendas  iniurias”[28]. Viceversa poteva essere intrapresa una guerra giusta: “adversus latrones, vel adversus eos qui piraticam exercent”[29].

Un'ulteriore distinzione concerne chierici e laici: i primi non possono armis accingi, ai secondi è consentito. Così la Summa del Magister Rolandus precisa:

 

"Militare aliis est licitum, aliis illicitum; illicitum ut his quos in sacris ordinibus constat exsistere vel perfectionis iter arripuisse".

 

Quindi si ammette che si possa avere un bellum justum: ratione inferentis, merito sustinentis, altero. In quest'ultima categoria ricadrebbero quelle guerre sostenute dal Principe da una parte e – dall'altra - da innocenti che solo la falsa testimonianza ha indicato come nemici della giustizia; ma anche quelle mosse da colui il quale non praeest iurisdictioni ut vis vi repellatur, quod et lege naturae licitum esse non dubitatur.

Come non avvertire in questo rinvio al diritto naturale l’eco di D. 9.2.45.4? L’uso della forza in questi termini, puramente difensivi, veniva sottoposto – oltre quella indicata - al regime di due norme: da un lato D. 1.1.3 Ut vim, (un passo di Fiorentino che collegava l’autotutela al diritto naturale), dall’altro C. 8.4.1 (19). Va in proposito notato che l’interpretazione di questa lex porta la dottrina medievale a elaborare il concetto di moderamen inculpatae tutelae, destinato a diventare un aspetto essenziale dell’uso legittimo della forza. La Glossa accursiana (23), chiarisce che tale condizione si poteva intendere in tre modi: anzitutto la violenza si respingeva con le armi se inferta con le armi, mentre se inferta senza armi, senza armi ad essa doveva rispondersi; in secondo luogo il moderamen imponeva che si rispondesse incontinenti (contestualmente), e flagrante adhuc maleficio violenter invasor repellatur, soccorreva qui il passo cum igitur (D. 43.16.3.3) anche se non era indispensabile che l'offesa precedesse sempre la difesa (i legisti giungono cioè a giustificare in certi casi la guerra preventiva); in terzo luogo lo scopo doveva essere la difesa, non la vindicta.

In termini simili si esprime la canonistica, la quale pure distingue, con Rufino, fra la forza con la quale si respinge la forza e quella con la quale si ricacciano le offese. Solo la prima viene riconosciuta propria del diritto naturale, mentre la seconda viene fatta discendere dallo ius gentium[30].

L’opposizione alla violenza, per rientrare in quella propria del diritto naturale deve essere effettuata in continenti ossia contestualmente. É necessario, inoltre, che ciò avvenga cum moderamine inculpatae tutelae. Si tratta di uno dei punti più alti di influenza reciproca fra canonistica e civilistica. Sul punto, entrambe si danno la mano ed entrambe si avvalgono delle stesse fonti romanistiche. La legittima difesa deve essere contestuale all’attacco: il primo dei canonisti a formulare tale condizione è Rufino, per il quale:

 

“aliud est continuata rixa se difendere, aliud postmodum renovato pugnandi studio praeteritam iniuriam sine iudice vindicare, primum hic permittitur, secundum ibi prohibetur”[31].

 

Quasi contemporaneamente l'esigenza che la vis tesa alla propria difesa sia collegata da un vincolo di contestualità all'offesa viene – per i Civilisti – individuata da Pillio, e, per i canonisti, da Stefano Tornacense. Pillio avverte che tale vis può essere indotta iuste vel iniuste, a seconda che avvenga incontinenti o ex intervallo e ammette: prima conceditur, secunda prohibetur[32]. Per Stefano Tornacene:

 

“Vim enim vi repellere omnes leges omnia iura permittunt, cum moderamine tamen inculpatae tutelae”[33].

 

Tale moderamen imponeva la legittima difesa in continenti  e la negava  ex intervallo: nel primo caso l’uso della forza repulsionem hic dicit, si fiat incontinenti, flagrante adhuc maleficio[34].

L’invenzione diventa subito di uso comune, in quanto è presente sia nella Glossa Palatina, sia nella Glossa Ordinaria al Decretum di Graziano approntata da Giovanni Semeca (il Teutonico) (22).

Uno degli aspetti sui quali più forte fu l’influenza del pensiero e del diritto romano su quello cristiano, e quindi sul diritto canonico, fu il bagaglio etico e giuridico che il primo aveva approntato sul tema della guerra. Esso scivolò, unendosi alla tradizione vetero-testamentaria, negli scritti dei Padri della Chiesa. La Patristica costituì il fondamento della Scolastica e prima ancora di quella particolare branca della dottrina giuridica medievale che fu la Canonistica. L’attualità della dottrina da questa formulata in tema di diritto di guerra pare oggi andare ben al di là dell’importanza straordinaria nella genesi del diritto internazionale europeo che ad essa viene normalmente riconosciuta[35].

 

 

 

FONTI

1

CICERONE, De officiis 1.11: "Sunt autem quaedam officia etiam adversus eos servanda, a quibus iniuriam acceperis ... Atque in republica maxime conservanda sunt iura belli Ac belli quidem aequitas sanctissime fetiali populi Romani iure prescripta est. Ex quo intellegi potest nullum bellum esse iustum nisi quod aut rebus repetitis geratur aut denuntiatum ante sit, et indictum”.

 

2

CICERONE, De republica III.35. In argomento vedi F. Sini, Bellum nefandum, cit., 199: "Illa iniusta bella sunt quae sunt sine causa suscepta, nam extra ulciscendi aut propulsandorum hostium causam, bellum geri iustum nullum potest... Nullum bellum iustum habetur nisi denuntiatum, nisi indictum, nisi de repetitis rebus”.

 

3

Dissertatio tertia ad Sancti Cypriani, MIGNE, Patrologia Latina, V coll. 65-66. “Quis autem illud dubitet baptismi esse proprium officium ut per illum sacris Christianorum initiemur et in propriam ascribamur christianorum societatem?”.

 

4

TERTULLIANO, Apologeticum adversus gentes XXXVII, 5, in MIGNE, P.L.,I,1, col. 525: “Cur bello non idonei, non prompti fuissemus, etiam impares copiis, qui tam libenter trucidamur, si non apud istam disciplinam magis occidi liceret quam occidere?”.

Ibidem, L, coll. 598-599: “Proelium est nobis quod provocamur ad tribunalia ut illic sub discrimine capitis pro veritate certamus. Victoria est pro quo certaveris obtinere ... ergo vincimus cum occidimur”.

 

5

LATTANZIO, Divinae Institutiones VI.12; V.18, in MIGNE, P.L., VI, coll. 604-609: “Quantum autem a iustitia recedat utilitas, populus ipse romanus docet, qui per fetiales bella indicendo et legitimas iniurias faciendo semperque aliena capiendo atque rapiendo possessionem sibi totius orbis comparavit ... Num idcirco iusti erunt, qui parent institutis hominum, qui ipsi aut errare aut iniusti esse potuerunt, sicut illi XII Tabularum conditores qui certe publicae utilitati pro condicione temporis servierunt.  Aliud est igitur civile jus, quod pro moribus ubique variatur, aliud vera iustitia”[36].

 

6

Abelardo, Sic et non l.XVIII, cap. III, in P.L., 178, col.1608: “Nam si disciplina Christiana omnia bella culparet, hoc potius militibus consilium salutis petentibus in Evangelio daretur, ut abjicerent arma seque militiae omnino subtraherent. Dictum est autem eis: Neminem concusseritis; nulli calumnias feceritis; sufficiat vobis stipendium vestrum. Quibus proprium stipendium sufficere praecepit, militare utique non prohibuit”.

 

7

AMBROSIUS MEDIOLANENSIS, De officiis ministrorum c.XXXV, 175–177, in P.L., vol. 16, col. 75 “... bellicarum rerum studium a nostro officio jam alienum videtur, quia animi magis quam corporis officio intendimus: nec ad arma jam spectat usus noster, sed ad pacis negotia”

.

 

8

AUGUSTINUS Hipponensis, Contra Faustum XXII.74, in MIGNE, P.L., 42, coll. 401-453. “Quamobrem, si jam tandem intelligit humana duritia atque in rebus rectis voluntas prava atque perversa, plurimum interesse, utrum aliquid humana cupiditate vel temeritate admittatur, an Dei pareatur imperio, qui novit quid, quando, quibus permittat aut jubeat, quid cuique facere patique conveniat; nec bella per Moysen gesta miretur aut horreat, quia et in illis divina secutus imperia, non saeviens, sed obediens fuit: nec Deus, cum jubebat ista, saeviebat: sed digna dignis retribuebat, dignosque terrebat.

AUGUSTINUS Hipponensis, Quaestiones in Heptateucum VI.10, in MIGNE, P.L., 34, coll. 780-781: “Sed etiam hoc genus belli sine dubitatione justum est, quod Deus imperat, apud quem non est iniquitas, et novit quid cuique fieri debeat. In quo bello ductor exercitus vel ipse populus, non tam auctor belli, quam minister judicandus est”.

Augustinus Hipponensis, Quaestiones in Heptateucum 44, in P.L., vol. 34, col.739: “Notandum est sane quemadmodum justa bella gerebantur. Innoxius enim transitus negabatur, qui jure humanae societatis aequissimo patere debebat Sed jam ut Deus sua promissa compleret, adjuvit hic Israelitas, quibus Amorrhaeorum terram dari oportebat. Nam Edom cum similiter eis transitum denegaret, non pugnaverunt cum ipsa gente Israelitae, id est filii Jacob cum filiis Esau, duorum germanorum atque geminorum, quia terram illam Israelitis non promiserat; sed declinaverunt ab eis”.

 

9

Augustinus Hipponensis, De civitate Dei l. IV, XV, in P.L., vol. 41, col. 124: “Videant ergo ne forte non pertineat ad viros bonos, gaudere de regni latitudine. Iniquitas enim eorum, cum quibus justa bella gesta sunt, regnum adjuvit ut cresceret: quod utique parvum esset, si quies et justitia finitimorum contra se bellum geri nulla provocaret injuria: ac sic felicioribus rebus humanis omnia regna parva essent concordi vicinitate laetantia; et ita essent in mundo regna plurima gentium, ut sunt in urbe domus plurimae civium. Proinde belligerare et perdomitis gentibus dilatare regnum, malis videtur felicitas, bonis necessitas. Sed quia pejus esset, ut injuriosi justioribus dominarentur, ideo non incongrue dicitur etiam ista felicitas. Sed procul dubio felicitas major est, vicinum bonum habere concordem, quam vicinum malum subjugare bellantem. Mala vota sunt, optare habere quem oderis, vel quem timeas, ut possit esse quem vincas. Si ergo justa gerendo bella, non impia, non iniqua, Romani imperium tam magnum acquirere potuerunt, numquid tanquam aliqua dea colenda est eis etiam iniquitas aliena? Multum enim ad istam latitudinem imperii eam cooperatam videmus, quae faciebat injuriosos, ut essent cum quibus justa bella gererentur, et augeretur imperium. Videant ergo ne forte non pertineat ad viros bonos, gaudere de regni latitudine. Iniquitas enim eorum, cum quibus justa bella gesta sunt, regnum adjuvit ut cresceret: quod utique parvum esset, si quies et justitia finitimorum contra se bellum geri nulla provocaret injuria: ac sic felicioribus rebus humanis omnia regna parva essent concordi vicinitate laetantia; et ita essent in mundo regna plurima gentium, ut sunt in urbe domus plurimae civium. Proinde belligerare et perdomitis gentibus dilatare regnum, malis videtur felicitas, bonis necessitas. Sed quia pejus esset, ut injuriosi justioribus dominarentur, ideo non incongrue dicitur etiam ista felicitas. Sed procul dubio felicitas major est, vicinum bonum habere concordem, quam vicinum malum subjugare bellantem. Mala vota sunt, optare habere quem oderis, vel quem timeas, ut possit esse quem vincas. Si ergo justa gerendo bella, non impia, non iniqua, Romani imperium tam magnum acquirere potuerunt, numquid tanquam aliqua dea colenda est eis etiam iniquitas aliena? Multum enim ad istam latitudinem imperii eam cooperatam videmus, quae faciebat injuriosos, ut essent cum quibus justa bella gererentur, et augeretur imperium”.

 

10

AUGUSTINUS HIPPONENSIS, De civitate Dei 19.VII, in P.L., vol. 41, col. 633: “Sed sapiens, inquiunt, justa bella gesturus est. Quasi non, si se hominem meminit, multo magis dolebit justorum necessitatem sibi exstitisse bellorum; quia nisi justa essent, ei gerenda non essent, ac per hoc sapienti nulla bella essent. Iniquitas enim partis adversae justa bella ingerit gerenda sapienti [(a)] : quae iniquitas utique homini est dolenda, quia hominum est, etsi nulla ex ea bellandi necessitas nasceretur. Haec itaque mala tam magna, tam horrenda, tam saeva, quisquis cum dolore considerat, miseriam fateatur. Quisquis autem vel patitur ea sine animi dolore, vel cogitat, multo utique miserius ideo se putat beatum, quia et humanum perdidit sensum”.

 

11

AUGUSTINUS HIPPONENSIS, Ep. CLXXXIX.4, in MIGNE, P.L., XXXIII, coll. 855-856: “Noli existimare neminem Deo placere posse, qui in armis bellicis militat. In his erat sanctus David, cui Dominus tam magnum perhibuit testimonium: inhis etiam plurimi illius temporis justi. In his erat et ille Centurio qui Domino dixit, Non sum dignus ut intres sub tectum meum; sed tantum dic verbo, et sanabitur puer meus. Nam et ego homo sum sub potestate constitutus, habens sub me milites, et dico huic, Vade, et vadit; et alii, Veni, et venit; et servo meo, Fac hoc, et facit: de quo et Dominus, Amen dico vobis, non inveni tantam fidem in Israel  (Matth. VIII, 8-10) . In his erat et ille Cornelius ad quem missus angelus dixit, Corneli, acceptae sunt eleemosynae tuae, et exauditae sunt orationes tuae: ubi eum admonuit ut ad beatum Petrum apostolum mitteret, et ab illo audiret quae facere deberet; ad quem apostolum, ut ad eum veniret, etiam religiosum militem misit  (Act. X, 4-8) . In his erant et illi qui baptizandi cum venissent ad Joannem, sanctum Domini praecursorem et amicum sponsi, de quo Dominus ipse ait, In natis mulierum non surrexit major Joanne Baptista  (Matth. XI, 11) , et quaesiissent ab eo quid facerent; respondit eis, Neminem concusseritis, nulli calumniam feceritis; sufficiat vobis stipendium vestrum  (Luc. III, 14) . Non eos utique sub armis militare prohibuit; quibus suum stipendium sufficere debere praecepit.

Majoris quidem loci sunt apud Deum, qui omnibus istis saecularibus actionibus derelictis, etiam summa continentia castitatis ei serviunt; Sed unusquisque, sicut Apostolus dicit, proprium donum habet a Deo; alius sic, alius autem sic  (I Cor. VII, 7). Alii ergo pro vobis orando pugnant contra invisibiles inimicos; vos pro eis pugnando laboratis contra visibiles barbaros. Utinam una fides esset in omnibus, quia et minus laboraretur, et facilius diabolus cum angelis suis vinceretur! Sed quia in hoc saeculo necesse est ut cives regni coelorum inter errantes et impios tentationibus  [0856] agitentur, ut exerceantur, et tanquam in fornace sicut aurum probentur (Sap. III, 6), non debemus ante tempus velle cum solis sanctis et justis vivere, ut hoc suo tempore mereamur accipere.

Hoc ergo primum cogita, quando armaris ad pugnam, quia virtus tua etiam ipsa corporalis donum Dei est. Sic enim cogitabis de dono Dei non facere contra Deum. Fides enim quando promittitur, etiam hosti servanda est contra quem bellum geritur; quanto magis amico pro quo pugnatur! Pacem habere debet voluntas, bellum necessitas, ut liberet Deus a necessitate, et conservet in pace. Non enim pax quaeritur ut bellum excitetur, sed bellum geritur ut pax acquiratur. Esto ergo etiam bellando pacificus, ut eos quos expugnas, ad pacis utilitatem vincendo perducas: Beati enim pacifici, ait Dominus, quoniam ipsi filii Dei vocabuntur  (Matth. V, 9). Si autem pax humana tam dulcis est pro temporali salute mortalium, quanto est dulcior pax divina pro aeterna salute Angelorum! Itaque hostem pugnantem necessitas perimat, non voluntas. Sicut rebellanti et resistenti violentia redditur, ita victo vel capto misericordia jam debetur, maxime in quo pacis perturbatio non timetur”.

 

12

ISIDORI HISPALENSIS, Etymologiarum, cit., XVIII.2, in MIGNE, P.L., vol. 82, col. 639: “Quattuor autem sunt genera bellorum: id est iustum, iniustum, civile et plus quam civile. Iustum bellum est quod ex praedicto geritur de rebus repetitis aut propulsandorum hostium causa. Iniustum bellum est quod de furore, non de legitima ratione initur. De quo in Republica Cicero dicit: Illa iniusta bella sunt quae sunt sine causa suscepta. Nam extra ulciscendi aut propulsandorum hostium causa bellum geri iustum nullum potest. Et hoc idem Tullius paucis interjectis subdidit: Nullum bellum justum habetur, nisi denuntiatum, nisi indictum, nisi de repetitis rebus”.

 

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D. 49.15.21.1: In civilibus dissensionibus quamvis saepe per eas res publica laedatur, non tamen in exitium rei publicae contenditur: qui in alterutras partes discedent, vice hostium non sunt eorum, inter quos iura captivitatium aut postliminiorum fuerint. Et ideo capto set venumdatos posteaque manumissos placuit supervacuo ripetere a principe ingenuitatem, quam nulla captivitate amiserant.

 

14

Nicolai I papae epistolae et decreta, XCVII, in MIGNE P.L., CXIX, col. 1008: "Cum generatione quae pacem vobiscum habere quaerit, quomodo ad alterutrum pacem firmare et custodire debeatis inquiritis. Quaecunque gens vobis pacem offerre voluerit, vos nolite renuere. scriptum quippe est: Pacem sequimini cum omnibus (Hebr. XII). Et rursus :Cum omnibus hominibus pacem habentes (Rom. XII): ubi omnibus sonat nemo a mutua pace prorsus excipitur. Quomodo vero ipse sit pax cum huiusmodi firmanda, vel custodienda, nisi gentis, cum qua pax ineunda est, mores et verba praenoscantur, facile diffinire non possumus. Veruntamen quia est laudabilis pax, est et perniciosa, providendum sit ut in omni pacto Christus praeponatur, ita ut lege ipsius et praecipue fide illesa persistente, foedus, quod invicem pangitur, permaneat incorruptum: quam pacem sectari debeatis Dominus manifestat cum dicit: pacem meam do vobis (Joan XIV), cum eo igitur qui Pacem Christi non habet, nec nos communionis habere pacem debemus, sed nec cum illo qui pacem idcirco postulat, ut liberius nocive committat".

 

15

Summa Paucapaleae, ed. Schulte, Giessen, 1890, ad C. 23.99: q.I: "Quorum prima est, an militare sit peccatum? in qua ostenditur quod militare non est delictum, sed propter praeda militare peccatum est. Praecepta vero patientiae non tam destinatione corporis, quam praeparatione cordis sunt retinenda".

 

16

Summa decretorum des Magister Rufinus, c. 3, C. XXIII, q.2, ed cit., 405. “Iustum bellum dicitur propter indicentem, propter belligerantem et propter eum qui bello pulsatur. Propter indicentem: ut ille qui vi bellum indicit vel permittit, huis rei indulgende ordinariam habeat potestatem; propter belligerantem: ut ille qui bellum gerit, et bono zelo hoc faciat et talis persona sit, quam bellare non dedeceat; propter eum, qui bello fatigatur: ut scilicet mereatur bello lacerari, vel si non meretur, iustus tamen presumptionibus mereri putetur. Ubi aliquod horum trium defuerit, absolute iustum belli esse non potest”. 

 

17

Summa reginensis (pubb. da A. M. STICKLER, Decretisti bolognesi dimenticati, in Studia gratiana, III, 405):"Et tunc de mandato ecclesiae, ut de pen. di. VI (v) falsas. set contra alios, quibus iuste bellum indicitur ut contra hereticos? Dico quod sic. Non ergo prohibet nisi quod alios non liceret. Set solet plus timeri etc. et quia hoc milites nostri temporis non attendunt: non enim ecclesia hoc debet facere, ut iste suo domino non teneatur in bello iusto. Praeterea in premisso capitolo "falsas" dicitur quod potest penitens arma sumere pro defensione iustitie. Iustitia autem et hoc modo et aliis defenditur.

 

18

(D. 1.1.5): “Ex hoc iure gentium introducta bella, discretae gentes regna condita, dominia distincta, agris termini positi, edificia collocata, commercium emptiones, venditiones, locationes, condutiones, obligationes institutae, exceptis quibusdam quae iure civili introductae sunt”.

 

19

C. VIII.4.1: Recte possidenti ad defendendam possessionem, quam sine vitio tenebat, inculpatae tutelae moderatione illatam vim propulsare licet.

 

20

D. IX.2.45, §4: Qui cum aliter tueri se non possunt, damni culpam dederint, innoxii sunt. Vim enim vi defendere omnes leges, omniaque iura permittunt.[37].

 

21

Glossa Palatina, c.9, C. XXIII, q.1, Vat. Pal. 658, fol. 66 ra. “Quare quilibet potest propulsare: incontinenti … cum moderatione inculpatae tutelae … ad defensionem non ad ultionem”.

 

22

gl. Propulsandam in c.1 (requiritur ergo), C. XXIII, q.1 (ed. Basilea, 1493, f. 329 vb.: “… requiritur ergo, quod difendendo repercutiat, non ulciscendo…et cum moderamine se defendat”.

 

23

Glossa Moderatione in C. VIII.4.1: “Moderamen circa tria attenditur. Primum ut si armis inferatur violente et armis repellatur. si sine armis, simili modo repellatur ut ff.  l.III, § eum igitur(D. XLIII, 16, 3, §3). Sunt autem arma: ut ff. eo. 1. III in principio (ibidem,§1) secundum ut incontinenti flagrante adhuc maleficio violente invasor repellatur: ut ff. eodem l.III § eum igitur. Tertium, ut ad defensionem, non ad ultionem vel vindictam: ut hic ,et ad legem Aquiliam 1. scientiam § qui cum aliter(D.IX, 2, 45, §4) quod semper presumitur s. fieri ad defensionem: si incontinenti fiat secundum Iac. Sene. ut ff. ad legem Aquiliam l. si ex plagis § tabernarius(D.IX,2, 52,§1).  Sed Io. contra ex eodem § et ex qualitate facti et personarum praesumitur ad vindictam vel ad ultionem”. La problematica è (nell’ordinamento italiano) quella degli attuali artt. 52, 54, (stato di necessità) 55(eccesso colposo) c.p.

 

 

 

 



 

*N.B.: I numeri fra parentesi si riferiscono alle fonti riprodotte in appendice.

 

[1] Vedi E. BUSSI, Evoluzione storica dei tipi di Stato, Cagliari 1970, rist. Milano 2002, 130 ss.

 

[2] D.1.1.3.

 

[3] Anche per Seneca (Epist. 95.30-31) la guerra è in contrasto con il diritto naturale: infatti da un lato vengono castigati gli uomini che commettono delitti, dall'altro quegli stessi delitti vengono lodati se vengono commessi in guerra. Pensieri simili vengono formulati da Cipriano. In tema vedi E. PUCCIARELLI, I Cristiani e il servizio militare. Testimonianze dei primi tre secoli, Firenze 1987, 224.

 

[4] Tertulliano (nato da famiglia pagana a Cartagine intorno al 160, convertitosi al Cristianesimo nel 193) torna spesso su questi temi.

 

[5] Nato in Africa, da famiglia pagana, verso la metà del III secolo e morto circa nel 326 d.Cr., le sue "Divinae Institutiones" si ispirano chiaramente ad Ulpiano, utilizzandone vari frammenti provenienti specialmente dalle Institutiones, che di quelle di Lattanzio rappresentano il modello lontano. Riappare in lui l'idea aristotelica di giustizia secondo natura in contrapposizione alla giustizia legale, che viene vista su un piano inferiore.

 

[6] Sul punto cfr. A. MORISI, La guerra nel pensiero cristiano dalle origini alle crociate, Firenze 1963, 69, la quale non manca di rilevare come gli scrittori che per un motivo o per l'altro si sono dichiarati contro le guerre sono tutti africani.

 

[7] Vedi Militia in Totius latinitatis lexicon Aegidi Forcellini, Prato 1968, IV, 122 n. 12. A. MORISI, op. cit., 35 ss., rileva come negli ultimi anni del I secolo Clemente Romano esortasse la Comunità di Corinto, che minacciava uno scisma, a prendere ad esempio la perfetta organizzazione gerarchica dell'esercito romano e la sua tradizionale disciplina. L’uso del vocabolario militare serviva a  contrapporre alla militia Caesaris fondata sulla violenza, la militia Christi fondata sull’amore e caratterizzata da aspetti sconosciuti alla mentalità pagana. Su ciò E. PUCCIARELLI, op. cit., 29.

 

[8] I Corinti, 9.7; II Corinti, 10.3; Efesini, 6.10.

 

[9] La circostanza attirò ripetutamente l’attenzione degli esegeti dei Vangeli: così a Luc. III.14 si richiama Abelardo, Sic et non, l. XVIII, cap. III, in P.L., 178, col. 1608C.

 

[10] C. STUMPF, Vom heiligen Krieg zum gerechten Krieg, Ein Beitrag zur alttestamentlichen und augustinischen Tradition des kanonistischen Kriegsvölkerrechts bei Gratian, in Zeitschrift der Savigny-Stiftung für Rechtsgeschichte, Kann., 2001, 1-30; W.M. SWARTLEY, War and Peace, cit., 2298 e ss.; G. VON RAD, Der heilige Krieg im Alten Israel, Göttingen 1965.

 

[11] Ambrosius Mediolanensis, De officiis ministrorum, c. XXXV, 175-177, in P.L., vol.16, col. 75.

 

[12] Aen. 6.852. Per la portata giuridica di questo passo vedi SINI, Bellum nefandum, cit., 239 ss. Anche Cicerone, De off. 1.36 ammoniva: "Atque in republica maxime conservanda sunt jura belli. Nam cum sint duo genera decertandi, unum per disceptationem, alterum per vim, cumque illud proprium sit hominis, hoc beluarum, confugiendum  est ad posterius, si uti non liceat superiore".

 

[13] Aen. 12, 579-582; SINI, Bellum nefandum, cit., 180.

 

[14] Cicerone, De off. 3.108. In proposito, vedi P. Catalano, Cic. De off., 3,108 e il cosiddetto diritto internazionale antico, in Synteleia Arangio-Ruiz, I, Napoli 1964, 373 ss., nonché, dello stesso a., Linee del sistema sopranazionale romano, Torino 1965, 4 ss.

 

[15] In quanto si nota la tendenza alla cura degli affari da parte di tecnici, legati in un rapporto organico (pur se connotato da provata fedeltà) all’Imperatore. Su ciò M. BELLOMO, Società e istituzioni dal Medioevo agli inizi dell’età moderna, 6ª ed., Roma 1993, 71.

 

[16] M. BELLOMO, op. cit., 108-113.

 

[17] Originario di Magonza (776), Rabano Mauro è monaco dell’abbazia di Fulda. Muore nell’856.

 

[18] SINI, Bellum nefandum, cit., 162.

 

[19] Rabano Mauro, De Universo, cit.,  col. 534.

 

[20] Cyprianus in nono genere abusionis: Rex debet forta cohibere, adulteria punire, impios de terra perdere,parricidas et perjurantes non sinere vivere. Abelardo, Sic et non, in P.L., CLVII. Quod liceat homines interficere, et non, col. 1608A

 

[21] Ivo di Chartres, Panormia, VIII, 54, in P.L., 161, col. 1315.

 

[22] Così Agobardo indica come prova evidente di sviamento del sovrano proprio la sua incapacità di riconoscere e perseguire adeguatamente i colpevoli, anche promuovendo guerre giuste. Vedi Agobardus Lugdunensis, Liber apologeticus pro filiis Ludovici Pii, in P.L., vol. 104, col.313.

 

[23] c.3, C.XXIII, q.1.

 

[24] c.2, C. XXIII, q.2; formulazione simile nella Summa coloniensis c2, XII, 3, ed. G. Fransen, Città del Vaticano 1986, 215.

 

[25] c.1, C.XXIII, q. II.

 

[26] The summa parisiensis, c. 2, C. XXIII, q.2, ed. cit., 211.

 

[27] D. 49.15.24. Il concetto viene ripreso da Azzone: “Sunt autem hostes quibus populus romanus, vel dominus imperator publice bellum indixit, ceteri praedones, vel latrones appellantur”. Vedi AZZONE, Summa, in C., 8.50, De postliminio et redemptis ab hostibus, ed. Venetiis 1581, fol. 872

 

[28] Summa parisiensis, c.5, C. XXIII, q.2, ed. cit., 211.

 

[29] Summa parisiensis, c.7, C. XXIII, q.2, ed. cit., 211.

 

[30] Summa decretorum des Magister Rufinus, c.7, D.1.

 

[31] Summa decretorum des Magister Rufinus,  c.7, D.1, ed. cit., 10.

 

[32] Vedi Libellus Pylei disputatorius, I, ed. cit., Hamburg 1958, 53. La norma citata in proposito è C. 3.27.2, quando liceat sine iudice, laddove il principio  ni mirum qui se defendat non peccat licet delinquat qui impugnat, comincia ad essere fondato fra le altre, sulle norme che ricorreranno poi sempre nella scienza successiva: C. 8.4.1 (unde vi, l.1) e D. 1.1.3 (ut vim).

 

[33] Stephanus Tornacensis, Die Summa über das Decretum Gratiani, ed. Sculte 1821, 10. c.7, D. 1; sulla teoria canonistica relativa all’uso della legittima coazione vedi S. Kuttner, Kanonistische Schuldlehre, cit., 340. Di Stefano Tornacense si sa che fu studente a Bologna. Secondo il Kalb (H. Kalb, Studien zur Summa Stephans von Tournai, ein Beitrag zur kanonistischen Wissenschaftsgeschichte des spaeten 12. Jahrhunderts, Innsbruck 1983, 109) la Summa di Stefano Tornacense dovrebbe essere stata composta verso il 1159, quella di Rufino verso il 1156. Secondo il Gouron, la Summa di Piacentino andrebbe anticipata ai primi anni sessanta. Naturalmente il fatto che la condizione fosse presente nella norma giustinianea fa presumere che i civilisti la notassero per tempo.

 

[34] STEPHANUS TORNACENSIS, Die Summa, c.8, D.1, ed . cit., 11.

 

[35] K.H. ZIEGLER, Bibliche Grundlagen des europäischen Völkerrechs, in Zeitschrift des Savigny Stiftung für Rechtsgeschichte, Kan. 86, 2000, 3.

 

[36] GAUDEMET, Le droit romain dans la littérature chrétienne occidentale du IIIe au Ve siècle, Mediolani 1978, 59, n. 336; 53, n. 288. Il passo deriva dal discorso di Furio Filo che compare nel De repubblica (III, 8-31) ciceroniano. Vedi F. SINI, Bellum nefandum, Virgilio e il problema del “diritto internazionale antico”, Sassari 1991, 221, cui si rinvia anche per l’ampia bibliografia sul passo citato.

 

[37] D. IX.2.52,§1.