N. 3 – Maggio 2004 – Tradizione Romana

 

 

Renato Del Ponte

Pontremoli

 

 

Santità delle mura e sanzione divina

 

 

Inter decreta pontificum

hoc maxime quaeritur...

(Macr., Sat. 3.3.1)

 

 

Sommario: 1. L’infrazione di Remo alla base della prima sanzione. La sanctitas fra il diritto divino e quello umano. – 2. Sacrum, sanctum e religiosum valgono non in quanto riferibili alle res di per sé, ma in relazione ai loro rapporti di tipo religioso o giuridico. – 3. Loci religiosi che sono anche sancti: il caso dell’heroon del Niger lapis. Leges sacratae inerenti ai luci. – 4. A monte della definizione dei giuristi classici sta la derivazione di alcuni giuristi tardo-repubblicani dai libri sacerdotales dei pontefici. – 5. Il locus inauguratus come locus sanctus. In quanto difensore della sanctitas delle mura Romolo esercita una funzione pontificale. – 6. Il sacrilegium si espia con la punizione del colpevole senza danno per le mura (su un presunto processo di “desantificazione”). – 7. Il locus sanctus come “luogo difeso sacralmente”. Gli “ombelichi d’Italia” e il caso della Ampsancti valles. – 8. I tesca dell’arce capitolina come loca undique sancta e loca augurio designata nelle definizioni degli àuguri e dei pontefici. – 9. Alla base della sanctitas si situa la “sanzione” fornita da Giove con la folgore. Il caso del giuramento di Latino in Virgilio e del rito del collegio dei feziali. – 10. Conclusione.

 

 

 

1. – L’infrazione di Remo alla base della prima sanzione. La sanctitas fra il diritto divino e quello umano

 

Sic deinde, quicumque alius transiliet moenia mea («Questa sorte avrà chiunque altro oltrepasserà le mie difese»): tali le parole significative che, secondo Livio[1], Romolo avrebbe pronunciato dopo la vera e propria esecuzione di Remo, il fratello che, “con scherno” (ludibrio), aveva osato saltare oltre i novos muros. Con questo il mito di fondazione, vale a dire la tradizione annalistica romana, ha inteso ribadire il significato dell’inviolabilità delle mura stesse e cioè della loro sanctitas, base e fondamento delle future norme giuridiche d’epoca imperiale codificate nel Digestum[2], sino a quella disposizione giustinianea per la quale:

 

muros sanctos dicimus, quia poena capitis constituta sit in eos qui aliquid in muros deliquerint[3].

 

E poco importa che Orazio nell’Epodo VII, risalente al 41 a. C. e quindi all’epoca della ripresa delle lotte intestine negli ultimi tempi della repubblica, interpretasse l’episodio come la chiave drammatica e dolorosa delle vicende a lui contemporanee, dal momento che l’élite dirigente romana (di cui si fanno eco Livio, Ovidio e Plutarco) sembra permeata dalla consapevolezza che l’uccisione di Remo fosse la conseguenza inevitabile del suo gesto prevaricatore. Anzi, l’azione di Romolo riaffermante l’inesorabilità della legge al di là dei legami stessi del sangue, vale a ribadirne la funzione di legittimo fondatore e ordinatore della città.

Il fatto, poi, che la “sanzione” di cui rimane vittima Remo sia applicata dallo stesso primo legislatore e non dagli dèi in prima persona in quanto vendicatori, così come ci si sarebbe aspettati sulla base dell’antica norma Qui legem violaverit, sacer esto (cioè «sia escluso dal consorzio degli uomini»), deriva dal situarsi la sanctitas in un certo qual modo fra il diritto divino e quello umano (se ancora Gaio e Giustiniano potranno dire delle sanctae res: quodammodo divini iuris sunt)[4], ma in cui alla volontà divina si è, per così dire, aggiunta quella umana[5]. Di conseguenza, ha potuto scrivere P. Catalano che «proprio questo rendeva possibile, dal punto di vista giuridico, una evoluzione delle norme a difesa dei luoghi»[6]. Se qui Catalano (sulla scorta del Valeton) si riferisce a “luoghi inaugurati”, non sarà tuttavia sempre questa – come meglio si vedrà in seguito – la condizione necessaria della loro “santità”[7].

 

 

2. – Sacrum, sanctum e religiosum valgono non in quanto riferibili alle res di per sé, ma in relazione ai loro rapporti di tipo religioso o giuridico

 

Nelle definizioni dei giuristi classici appartengono allo ius divinum le res sacrae, cioè quelle diis superis consecratae, e le res religiosae, quae diis Manibus relictae sunt[8]. Ciò che è sanctum, invece, proiettandosi in quell’ambito intermedio fra l'umano e il divino di cui si è detto (e che quindi bene si presta – lo anticipiamo – al campo applicativo di quel collegio sacerdotale istituzionalmente preposto all’intermediazione fra dèi e uomini quale quello dei pontefici)[9], pur emanando dalla sfera divina, non è di pertinenza di una particolare divinità, ma est quod ab iniuria hominum defensum atque munitum est secondo la definizione di Marciano[10]. E così Ulpiano, nel precisare che la sanctio è quella parte della lex regolante i rapporti fra questa e l’ordinamento, preciserà che id sanctum est, etsi deo non sit consecratum[11]. In queste definizioni il sanctum non è tale per una sua qualità intrinseca, ma richiede un’intenzionalità specifica da parte dell’uomo, volta a determinare una zona intermedia fra le opposte dimensioni del sacrum e del profanum, è il risultato di un’operazione: il prodotto della sanctio come atto del sancire.

Ma se le fonti d’epoca imperiale, parlando della sanctio e della res sancta, ci hanno in ogni caso messo in contatto con la dimensione religiosa dell’esperienza umana, non ci sono di molto aiuto per individuarne una più esatta valenza, perché sono obiettivamente tarde e prive di reale capacità esplicativa.

Volgendoci quindi all’età repubblicana, sono di maggiore interesse le enunciazioni dell’antiquario Elio Gallo riportateci nell’epitome festina del De verborum significatione di Verrio Flacco. Dopo aver definito ciò che contraddistingue il sacrum, il religiosum e il sanctum, Elio aggiunge:

 

... sed ita ratione quadam, et temporibus eadem videri posse. Siquidem quod sacrum est, idem lege aut instituto maiorum sanctum esse putant, ut violari id sine poena non possit. Idem religiosum quoque esse, quoniam sit aliquid, quod ibi homini facere non liceat; quod si faciat, adversus deorum voluntatem videatur facere. Similiter de muro et sepulcro debere observari, ut eadem et sacra, et sancta, et religiosa fiant, sed quomodo quod supra expositum est, cum de sacro diximus[12].

 

Da cui si rileva che i concetti di sacrum, sanctum e religiosum non sono riferibili agli oggetti per se stessi, ma al fatto della consacrazione e dell’intangibilità (rapporti di tipo religioso) e a quello della sanzione (rapporto giuridico). Pertanto una stessa res può essere “sacra” in quanto consacrata agli dèi, “santa” in quanto soggetta a sanzione di legge, “religiosa” in quanto a violarla si offendono gli dèi. Così una res sancta come il murus o religiosa come il sepulcrum può essere considerata nella prospettiva del sacrum, del sanctum e del religiosum, che dunque per Elio Gallo possono coincidere. Si consideri, del resto, l’espressione sancta nella norma delle XII Tavole interpretata da Cicerone: deorum Manium iura sancta sunto[13], per la quale le pene previste contro le offese ai sepolcri erano le stesse che contro le res sanctae.

 

 

3. – Loci religiosi che sono anche sancti: il caso dell’heroon del Niger lapis. Leges sacratae inerenti ai luci

 

Per offrire un esempio concreto, un caso di locus sanctus che è anche un locus religiosus crediamo di poter indicare, all’interno del Comizio, nell’area sacra del Niger lapis, da identificarsi – secondo l’attenta indagine del Coarelli[14] – con quella del cosiddetto Volcanal, locus funestus in quanto sito della supposta morte di Romolo ma in cui, proprio per questo motivo, sarebbe stato innalzato un vero e proprio heroon alla sua memoria. L’arcaica lex sacrata incisa sul noto cippo del secondo quarto del VI secolo a. C. – che altro non sarà stata che la lex arae riferentesi al vicino altare – “sancisce” appunto il divieto di profanare il luogo, pena l’esclusione dal consorzio umano: quoi hon[ke stloqom violasid] sakros esed[15]. Ma loci sancti, cioè soggetti a sanzione se profanati (sia pure con la previsione di pene meno gravi) sono anche – a nostro giudizio – quei luci o boschi sacri a qualche divinità il cui accesso è interdetto da apposite leges sacratae quali quelle trovate incise su cippi in quel di Spoleto, in Umbria, ed a Lucera, in Puglia[16], in conformità, del resto, con quanto recita quel passo dagli Excerpta di Festo riportato da Paolo Diacono: Capitalis lucus, ubi, si quid violatum est, caput violatoris expiatur[17].

 

 

4. - A monte della definizione dei giuristi classici sta la derivazione di alcuni giuristi tardo-repubblicani dai libri sacerdotales dei pontefici

 

Non diversamente da Elio Gallo, il giureconsulto d’età cesariana Caio Trebazio Testa, autore di un Liber religionum, riferisce essere il sanctum ... interdum idem quod sacrum idemque quod religiosum, interdum aliud, hoc est nec sacrum nec religiosum est[18].

La categoria del sanctum talora coincide con quella del sacrum e del religosum e talaltra se ne differenzia. E il medesimo uso promiscuo dei termini traspare dalle definizioni che anche Servio Sulpicio e Masurio Sabino danno di religio e sanctitas[19] (ma parrebbe emergere anche dal contesto delle orazioni ciceroniane De domo sua e De haruspicum responso).

L’avere rilevato questa promiscuità dei termini dimostra che ci troviamo di fronte a una concezione di base unitaria, indizio di una derivazione anche formale delle definizioni dei giuristi e degli eruditi tardo repubblicani da documenti sacerdotali molto più antichi. La tecnica definitoria ricorda infatti da vicino «il procedimento seguito dai pontefici nella redazione delle liste di attribuzioni divine che costituivano gli indigitamenta delle divinità»[20] e molto opportunamente è stato osservato dal Fiori come «anche il riconoscimento delle attribuzioni delle divinità» costituisca «un atto giuridico»[21].

Del resto, alcuni degli eruditi citati prima, come Servio Sulpicio e Trebazio Testa – a tacer dello stesso Terenzio Varrone (discepoli tutti di Elio Stilone, che alcuni commentatori moderni identificano con l’Aelius della glossa sanctum di Festo)[22], in quanto appartenenti al circolo di Giulio Cesare, pontifex maximus, avevano certamente libero accesso agli archivi pontificali a scopo di studio[23]. E una derivazione sostanziale del concetto di sanctum dalla dottrina sacerdotale è dimostrata non solo da quanto sopra esposto, ma dall’esplicita affermazione di Macrobio, per il quale l’individuazione esatta del suo ambito era contemplata in quella sezione dell’archivio dei pontefici riservata alla «raccolta dei decreta e responsa dati dal collegio di propria iniziativa o su richiesta»[24]:

 

inter decreta pontificum hoc maxime quaeritur, quid sacrum, quid profanum, quid sanctum, quid religiosum[25],

 

donde deriva la definizione pontificale di sancti attribuita ai muri ricordata da Cicerone: pro urbis muris, quos vos, pontifices, sanctos esse dicitis[26]. Un nesso, dunque, che ci permette di ipotizzare con buon fondamento una diretta continuità del concetto sin dal periodo più arcaico della realtà giuridico-religiosa romana.

 

 

5. – Il locus inauguratus come locus sanctus. In quanto difensore della sanctitas delle mura Romolo esercita una funzione pontificale

 

Proprio sulla base di tale antica realtà giuridico-religiosa è da tener presente che il sanctum riferito alle mura sottolinea la loro importante funzione nel ruolo definitorio dell’ordine spaziale romano. Se, come ha scritto P. Catalano, «il ‘punto dello spazio-tempo’ in cui inizia la vita del populus Romanus Quirites» è contrassegnato dalla volontà di «Iuppiter grazie all’opera del rex augur Romolo, sul colle Palatium e nel giorno dei Palilia: 21 aprile, dies natalis», ne deve derivare che «aspetto spaziale ed aspetto temporale del sistema giuridico-religioso romano hanno un punto di incontro, all’origine, nell’azione augurale di Romolo»[27]. In questo personaggio, infatti, come mi sono espresso in altra sede, si situa «il cardine fra il passato mitico che si è celato in un suolo ben determinato e l’avvenire che in esso dovrà manifestarsi»[28].

Ebbene, se già con l’augusto augurio rivelatosi al fondatore i corpi dei dodici avvoltoi hanno potuto essere definiti da Ennio sancta (cedunt de caelo ter quattuor corpora sancta avium)[29], con evidente riferimento al segno divino e quindi all’inauguratio romulea, al linguaggio degli àuguri parrebbe dunque rimandare il regime della sanctitas dei muri poiché il pomerium era il luogo appositamente inaugurato affinché vi si potessero costruire le mura, come esplicitamente indicano le fonti: locus ... qua murum ducturi erant, dice Livio[30].

Il nesso esistente fra res inauguratae e res sanctae nel diritto divino non impedisce peraltro di pensare che il concetto di sanctitas riferito alle mura fosse comune, nei rispettivi ambiti, sia allo ius augurium sia allo ius pontificium, come implicitamente conferma lo stesso Valeton, laddove, parlando del violatore delle mura, così si esprime: «Nam qui id temptasset, non solum fuisset contra auspicia acturus, sed sacrilegio se obstricturus»; e in nota 1 «Qui murum nondum exauguratum violabat, faciebat quod Cicero (Verr. 1,18,47) dicit: “templo manus impias ac sacrilegas afferre”. Id quale esse existimaverint Romani, docet fabula quae ferebatur de morte Remi»[31].

Infatti, se gli àuguri avevano il compito di delimitare lo spazio del templum e del pomerium, era prerogativa dei pontefici circoscrivere e sorvegliare il terreno sacro separato da quello profano[32] e pertanto doveva essere di loro pertinenza la codificazione delle leges sacratae prescriventi la “sanzione” per ogni eventuale sacrilegium inerente alle mura.

Romolo è dunque il re-augure, l’auctor donde si avvia la realtà del populus Romanus Quirites in virtù delle operazioni inauguratorie verificatesi sopra e attorno al colle Palatino, ma è anche, nel contempo, il custode del sacro solco in quanto l’unico autorizzato a “tracciare la via”: egli assume pertanto una funzione prettamente pontificale nell’atto di proclamare il divieto di sacrilegio, quindi la sanctitas delle mura e l’inevitabile punizione di Remo[33]. Quest’ultimo, rifiutando la nuova realtà spaziale romana, è destinato a rimanere per sempre confinato nel mondo caotico e regressivo della fera sodalitas dei Luperci (cioè nella “sfera infera” di Faunus-Lupercus) che ha preceduto l’urbs ed a cui anche Romolo ha appartenuto prima degli atti solenni legati al dies natalis.

 

 

6. – Il sacrilegium si espia con la punizione del colpevole senza danno per le mura (su un presunto processo di “desantificazione”)

 

Vi è da precisare che il sacrilegio di Remo (e quello di qualsiasi altro dopo di lui) viene espiato con la punizione del colpevole, senza alcun danno per le mura, che dunque non sono soggette a nessun processo di “desantificazione”, ignoto alle fonti antiche, come invece ha pensato Andrea Carandini sulla base di un passo forse mal interpretato di Plutarco[34]. Si potrebbe anzi dire che l’espiazione della colpa, verificatasi con la morte di Remo, costituisca un “precedente” – il “precedente archetipico”- della sanctitas dei muri e di ogni futura repressione del tentativo di violarli.

 

7. – Il locus sanctus come “luogo difeso sacralmente”. Gli “ombelichi d’Italia” e il caso della Ampsancti valles

 

I linguisti, pur ammettendo una relazione etimologica fra sacrum e sanctum in virtù della comune radice *sak-, hanno peraltro sottolineato il carattere secondario, derivato, di sanctum[35], bene accordantesi, come abbiamo già rilevato, con la pregnanza squisitamente giuridica, cioè carica di valori umani, del concetto (il quod ab iniuria hominum defensum atque munitum est di Marciano).

Questo valore di “difesa” connesso alle mura della città in quanto circuito delimitante uno spazio sacro volto alla custodia di un mistico centro è in qualche modo connesso con la nozione del mundus, la fossa scavata dal fondatore al centro ideale dell’urbs.

Una nozione, questa, pare, derivata dall’Etrusca disciplina, seppure non ignota ad altre popolazioni italiche e asiatiche e su cui non abbiamo in questa sede tempo per soffermarci[36].

In ogni caso, il mundus romuleo circondato dalle mura, contribuendo «a mettere in evidenza il nesso fra spazio e tempo», poiché «il ‘centro’ religioso dello spazio è anche il punto iniziale della storia del popolo romano»[37], non può non essere in relazione con la più ampia nozione di umbilicus Italiae, quel centro mistico punto di partenza di tutte le “primavere sacre” dei popoli italici che «Varrone ci dice consistere nel lago di Cotilia nell’agro Reatino, dove esisteva un’isola fluttuante»[38] e Dionigi di Alicarnasso riferisce essere un locus saeptus, in quanto «recinto da palizzate affinché nessuno si accosti»[39].

Servio, riferendosi a Varrone, afferma che esistevano anche altri “ombelichi d’Italia” e un altro d’essi era costituito da quella depressione nel terreno con un piccolo lago dalle esalazioni velenose tra i monti Irpini, consacrato alla dea italica Mefite, di cui parla Virgilio nel VII canto dell’Eneide (v. 565), la quale era detta Ampsancti valles (“la valle di Ansanto”).

Se l’antico nome di luogo Ampsanctus è veramente da intendere, come dice Servio, omni parte sanctus, cioè «difeso sacralmente da ogni parte» (da amb-[“dalle due parti”] sanctus, concetto rafforzato dal successivo verso virgiliano: urguet utrimque latus nemoris, v. 566), tutto ciò darebbe nuova conferma al valore di sanctus come «circondato da una difesa, difeso da un limite o da un ostacolo»[40].

 

 

8. I tesca dell’arce capitolina come loca undique sancta e loca augurio designata nelle definizioni degli àuguri e dei pontefici

 

Ora, si badi bene, la medesima espressione: sancta loca undique[41] è data da Pompeo Festo (in un passo che non è stato molto approfondito dagli studiosi) come proveniente dai libri sacerdotales dei pontefici proprio in relazione a quei tesca del Campidoglio, cioè a quei loca augurio designata[42], la cui pregnante sanctitas era ben nota agli antichi glossatori della formula rituale degli àuguri operanti sull’arce capitolina riportata da Varrone[43], ma da questi non più bene intesa. Per Varrone, infatti, dicuntur tesca soltanto quei loca quaedam agrestia, quae alicuius dei sunt[44].

Tuttavia, ancora una volta questo caso ci dimostra come la sanctitas, nel diritto divino, potesse costituire patrimonio concettuale comune allo ius augurium e a quello pontificium, a seconda della diversa prospettiva dei collegi sacerdotali che ne custodivano la memoria giuridica[45].

 

 

9. – Alla base della sanctitas si situa la “sanzione” fornita da Giove con la folgore. Il caso del giuramento di Latino in Virgilio e del rito del collegio dei feziali

 

Allo straordinario valore polisemantico del verbo sancire applicato alle diverse funzioni e operazioni dei collegi sacerdotali (non solo di quello degli àuguri e dei pontefici, ma anche di quello dei feziali) ci rinviano le ultime considerazioni che faremo.

In un passo molto significativo dell’Eneide questo verbo ricorre (ed è presente qui soltanto in tutto il poema), col significato di “ratificare”, nel giuramento di Latino a Enea al momento della concessione della mano di Lavinia:

 

audiat haec genitor qui foedera fulmine sanxit[46].

 

Quindi, la base della santità di un luogo o di un patto scaturisce, all’origine, dalla “sanzione” fornita da Giove con la sua folgore. Quella stessa folgore, si badi, che in Ovidio (in un passo dei Fasti dedicato al dies natalis di Roma) balena come promessa e condizione indispensabile per l’innalzamento delle mura:

 

Ille precabatur, tonitru dedit omina laevo Iuppiter et laevo fulmina missa polo.

Augurio laeti faciunt fundamina cives;

et novus exiguo tempore murus erat[47].

 

E Servio conferma che i foedera divenivano sancta allorché:

 

si corruscatio fuerit, confirmantur: vel certe, quia apud maiores arae non incendebantur, sed ignem divinum precibus eliciebant, qui incendebat altaria[48].

 

Un particolare rito evocatorio che sembra rimandare al quadro sicuramente etrusco dei Libri Fulgurales.

Ma che altro significava quella pietra di selce tratta dal tempio di Giove Feretrio sull’arce capitolina[49], con cui il pater patratus del popolo romano, reso “santo” dalla zolla di verbena o sagmina (tratta, si dice, da un “luogo santo”, cioè dall’arce)[50] postagli sul capo dal verbenarius, “sancisce” nel nome del dio supremo il patto colpendo a morte il maiale sacrificale (foedus ferire), se non la rappresentazione della folgore di Giove? Della cui regale maestà lo scettro recato da un altro feziale è la personificazione sulla terra?[51].

Dextra sceptrum nam forte gerebat, dice Virgilio di re Latino nel brano precedentemente citato dell’Eneide (v. 206), in cui Iuppiter genitor era invocato a garanzia del patto:

 

Unde nunc tenet sceptrum Latinus, non quasi rex, sed quasi pater patratus,

 

afferma esplicitamente Servio[52]. Patrandum, id est sanciendum, dice Livio[53].

 

 

10. – Conclusione

 

Con ciò il nostro punto di arrivo coincide con quello di partenza. È sanctum ciò che è confermato dalla volontà del dio supremo, cioè è da lui “sancito”, ma che la volontà degli uomini ha inteso difendere dall’oltraggio.

Dopo la punizione di Remo, nelle parole fatte pronunciare a Romolo da Livio i muri diventano moenia, cioè «luoghi difesi dall’oltraggio dei nemici», quasi con tale espressione si fosse voluta significare la coincidenza spazio-temporale del recinto primigenio, circondante la comunità dei Quiriti, e del diritto stesso che ne dovrà costituire l’usbergo.

 

 

 

 

 

AUTORI MODERNI ABBREVIATI NELLE NOTE:

 

BENVENISTE 1976:

 

É. Benveniste, Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee. II (Potere, diritto, religione), Torino 1976.

CATALANO 1960:

 

P. Catalano, Contributi allo studio del diritto augurale. I, Torino 1960.

CATALANO 1978:

 

P. Catalano, Aspetti spaziali del sistema giuridico-religioso romano. Mundus, templum, urbs, ager, Latium, Italia, in Aufstieg und Niedergang der römischen Welt, Band II.16.1, Berlin-New York 1978.

DEL PONTE 1992:

R. del Ponte, La Religione dei Romani, Milano 1992.

DEL PONTE 1998:

R. del Ponte, Dèi e miti italici, Genova 1998.

FIORI 1996:

 

R. Fiori, Homo Sacer. Dinamica politico-costituzionale di una sanzione giuridico-religiosa, Napoli 1996.

SINI 1983:

 

F. Sini, Documenti sacerdotali di Roma antica. I (Libri e Commentarii), Sassari 1983.

 

 

 

 

Ringrazio l’amico e collaboratore Giovanni V. Sannazzari per il sostanzioso e generoso aiuto fornitomi per la ricerca del materiale utile alla presente comunicazione.

 

 

 

 

 



 

[1] Liv. 1.7.2. Ma si vedano anche Dion. 1.84.4; Ovid., Fast. 4.841–844; Plut., Rom. 10.2.

 

[2] Si quis violaverit muros capite punitur (Pomponio, D. 1.8.11); In municipiis quoque muros esse sanctos Sabinum recte respondisse Cassius refert: prohiberique oportere ne quid in his immittitur (Marciano, D. 1.8.8.2).

 

[3] Imp. Iustiniani Institutiones 2.8.

 

[4] Ibidem e Gaio, Institutiones 2.8.

 

[5] Come in seguito si vedrà meglio, il significato primordiale del sancire è in esplicita connessione con la sfera divina.

 

[6] CATALANO 1960, 319.

 

[7] Come lo stesso Autore riconosce in altra occasione: «... ciò che era inauguratus era sanctus; anche se, ovviamente, la sanctitas non era esclusiva delle realtà inaugurate» (CATALANO 1978, 477).

 

[8] Gaio 2.4.

 

[9] Il pontefice massimo è definito da Festo iudex atque arbiter rerum divinarum humanarumque (Fest. 200 L., s. v. ordo sacerdotum).

 

[10] Marciano, D. 1.8.6 pr.

 

[11] Ulpiano, D. 1.8.9.3.

 

[12] Festo 348 L. (s. v. religiosus).

 

[13] Cic., Leg. 2.9.

 

[14] Cfr. F. COARELLI, Il Foro Romano. Periodo arcaico, Roma 1983, 161-199.

 

[15] Accetto la ricostruzione (fatta propria da Coarelli) di P.G. GOIDANICH, L’iscrizione arcaica del Foro Romano e il suo ambiente archeologico. Suo valore giuridico, Roma 1943, tenendo però presente che l’integrazione Manibos (=Manibus) prima di sakros esed non la ritengo affatto necessaria poiché (come riconosce lo stesso Goidanich – cfr. 460 – sulla scorta della tradizione giuridico-religiosa) «indicare il nome della divinità nella sacratio non è necessario».

 

[16] Cfr. C.I.L. I2 366, XI, 4766: Honce loucom ne quis violatod... Seiquis scies violasid, Iove bovid piaclum datod... (Spoleto) e C.I.L. I2 401, IX, 782: In hoce loucarid stircus ne quis fundito... sei quis avorsu hac faxit ... (Lucera). Cfr. A. ERNOUT, Recueil de textes latins archaïque, Paris 1973, 38-40 e 47-48.

 

[17] Paul. 57 L. (s. v. capitalis lucus).

 

[18] Cit. in Macr., Sat. 3.3.5.

 

[19] Cfr. Macr., Sat. 3.3.8: Servius Sulpicius religionem esse dictam tradidit, quae propter sanctitatem remota ac seposita a nobis sit ...; Gell., Noct. Att. 4.9.8: Masurius autem Sabinus in commentariis, quos de indigenis composuit: “Religiosum”, inquit, “est quod propter sanctitatem aliquam remotum ac sepositum a nobis est ...”.

 

[20] FIORI 1996, 34-35. Sugli indigitamenta contenuti nei libri dei pontefici, cfr. R. DEL PONTE, Aspetti del lessico pontificale: gli indigitamenta, in Ius Antiquum - Drevnee Pravo 5, 1999, 154-160, e DEL PONTE 1992, 78-87.

 

[21] FIORI 1996, 35.

 

[22] Festo. 420 L. (s. v. sanctum): sanctum ... Aelius (... quod utrumque esse) videatur, e(t sacrum et religiosum) e FIORI 1996, 27.

 

[23] Cfr. F. SCHULZ, Storia della giurisprudenza romana, Firenze 1968, 79-80 e SINI 1983, 97, 123 nt. 39, e, per la “riscoperta” del lessico pontificale nel I sec. a. C., R. DEL PONTE, Aspetti del lessico ..., cit., 156-157.

 

[24] G.B. PIGHI, La religione romana, Torino 1967, 42. Vedi anche SINI 1983, 63, 86 e note 132-138. Nei decreta e responsa si concretizzava l’attività del collegio dei pontefici, di cui guida alle varie funzioni erano invece i commentarii: cfr. F. SINI, Libri e commentarii nella tradizione documentaria dei grandi collegi sacerdotali romani, in Ius Antiquum-Drevnee Pravo 5, 1999, 100-101 (nella nt. 105 viene riportato l’elenco dei passi di Livio in cui è parola di decreta e responsa dei pontefici e di altri collegi sacerdotali).

 

[25] Macr., Sat. 3.3.1.

 

[26] Cic., Nat. deor. 3.40.94.

 

[27] CATALANO 1978, 443-444.

 

[28] DEL PONTE 1998, 202.

 

[29] Enn., Ann. 1, fr. 51.18-19.

 

[30] Liv. 1.44.3 ss. Vedi anche Gell., Noct. Att. 13.14.1; Varr., Ling. Lat. 5.143; Varr., cit. in Solin. 1.18; Cato cit. in Serv., ad Aen., 5.755. Cfr. CATALANO 1978, 480 e CATALANO 1960, 293-294.

 

[31] I.M.J. VALETON, De templis romanis, in Mnemosyne XXV, 1897, 362 e nt. 1.

 

[32] Cfr. DEL PONTE 1992, 113.

 

[33] Questo nesso è esplicitamente suggerito da Pomponio nello stesso Digestum (1.8.11): Si quis violaverit muros, capite punitur ...: nam et Romuli frater occisus traditur ob id, quod murum transcendere voluit.

 

[34] Andrea Carandini (al quale si deve il grandissimo merito della “riscoperta” e conseguente valorizzazione archeologica delle mura romulee e un’opera di straordinario valore innovativo come La nascita di Roma, Torino 1997), oltre a insistere su una supposta insanabile dicotomia fra religiosum e sanctum (e con lui, sia pure in termini contrapposti, anche Carmine Ampolo), che invece abbiamo dimostrato in questo intervento non avere (almeno per la più antica giurisprudenza) alcuna consistenza giuridica, ha ribadito più volte la strana idea secondo cui il sacrilegio di Remo (e di chiunque altro dopo di lui) avrebbe comportato la caduta della sanzione implicita nella sanctitas delle mura. Per giunta, questa supposta “desantificazione” avrebbe presupposto la rasatura al suolo delle mura stesse: «Bastava qualsiasi modificazione o manomissione delle mura (Digesto 1,8,9,4) a produrre l’effetto, quale la rasatura al suolo di esse» (A. CARANDINI, Variazioni sul tema di Romolo: ... 5. Perché Romolo uccide Remo, in AA.VV., Roma. Romolo, Remo e la fondazione della città, Catalogo della mostra, Roma 2000, 140 e ID., Res sanctae e res religiosae, ivi, 293). Ma Digestum 1.8.9.4 afferma tutt’altra cosa: Muros autem municipales nec reficere licet sine principis vel praesidis auctoritate nec aliquid eis coniungere vel superponere. In quanto al passo di Plutarco (Questioni Romane 27) a cui fa riferimento Carandini e in cui sarebbe «lo stesso sacrilegio di Remo violatore delle mura a comportare la caduta della sanzione implicita nella sanctitas», che riporteremo qui nella nostra traduzione: «in questo modo infatti sembra che anche Romolo uccidesse il fratello perché cercava di saltare attraverso un luogo inaccessibile e sacro e di renderlo accessibile e profano». Come si vede, non vi è cenno di “caduta di sanzione” o di “rasatura di mura”: si fa capire, anzi, che il tentativo di prevaricazione (quindi di violazione della sanctitas) di Remo è reso vano dalla pena inflittagli da Romolo, che in tal modo ribadisce – in pieno accordo con le altre fonti antiche – l’inviolabilità delle mura stesse.

 

[35] BENVENISTE 1976, 441 (ma vedi anche 426-429).

 

[36] Cfr. CATALANO 1978, 463-464.

 

[37] Ibidem, 464.

 

[38] Varr. cit. in Plin., Nat. hist. 3.109. Cfr. CATALANO 1978, 524 e DEL PONTE 1998, 127 ss.

 

[39] Dion. 1.14.5 e 15.1-2. Cfr. anche Macr., Sat. 1.7.29; Sen., Nat. Quaest. 3.25.7-8.

 

[40] Cfr. Serv., ad Aen. 7.565 e 563 per gli “ombelichi d’Italia”. Vedi pure BENVENISTE 1976, 427 e M. ANDREUSSI, s.v. Ansanto, in Enciclopedia Virgiliana, I, Roma 1984, 186-188.

 

[41] Fest. 488 L. (s.v. tesca): sed sancta loca undique (saepta doce)nt pontifici(s) libri. L’integrazione è suggerita dal Müller, ma io leggerei, piuttosto che (doce)nt, (dicu)nt.

 

[42] Ibidem e Paul. 489 L.

 

[43] Cfr. Varr., Ling. Lat. 7.8.

 

[44] Ibidem 7.10. Il lat. tescum, tesca (o tesquum, tesqua) è voce rara (nei poeti, oltre ad Accio cit. da Varrone, cfr. Horat., Epist. 1.14.19 e Luc., Bell. civ. 6.41, sempre col significato di luogo deserto e inospitale: ma in Lucano nemorosa tesqua) e dall’etimologia difficile e discussa. Lo si è confrontato con l’antico irlandese terc (*ter[s]qo-s): v. An Etymological Dictionary of the Gaelic Language MacBain, Alexander Gairm Publications, 1982.

 

[45] Quella degli àuguri potrebbe essere definita “verticale” e, quella dei pontefici, “orizzontale”, con ciò riferendomi alla tecnica eminentemente classificatoria e definitoria di quest’ultimo collegio, di cui si è detto in precedenza.

 

[46] Verg., Aen. 12.200.

 

[47] Ovid., Fast. 4.833-836. Vedi anche CATALANO 1960, 581-582.

 

[48] Serv., ad Aen. 12.200.

 

[49] Paul. 81 L.

 

[50] Cfr. Fest. 424 L. e Paul. 425 L. Il nesso fra sanctum e sagmina è riconosciuto dallo stesso Digestum 1.8.8 pr. (Marciano): Sanctum autem dictum est a sagminibus: sunt autem sagmina quaedam herbae, quas legati populi Romani ferre solent, ne quis eos violaret...

 

[51] Cfr. Serv., ad Aen. 12.206. Le cerimonie dei feziali sono descritte in Liv. 1.24.4-9. Cfr. DEL PONTE 1992, 156-160.

 

[52] Serv., ad Aen. 12.206.

 

[53] Liv. 1.24.6.