N. 4 – 2005 – Contributi

 

 

Manum conserere e tacito consenso*

 

LORENZO FRANCHINI

Università Cattolica di Milano e

Istituto della Enciclopedia Italiana

 

Sommario: 3.1. Il significato di tacitus consensus in Gell. 20.10.9. – 3.2. Il rilievo di Gai. 3.82. – 3.3. Il rilievo di Gai. 4.11. – 3.4 Dal manum conserere all’ex iure manum consertum vocare. La testimonianza gelliana ed il ruolo del pretore. – 3.5. Segue: La testimonianza di Cic. Mur. 12.26. – 3.6. Procedure pontificali e decreta. – 3.7. Considerazioni finali.

 

3.1. – Il significato di tacitus consensus in Gell. 20.10.9

 

L’evento più significativamente esemplare del modo in cui, nell’età arcaica, si poteva pervenire alla disapplicazione di una norma delle XII tavole è certamente rappresentato, a nostro avviso, dalla trasformazione del rito del manum conserere nell’ex iure manum consertum vocare, di cui ci riferisce Gell. 20.10.7-9[1].

Come risulta dal contesto del passo in esame[2], Gellio s’interrogava qui sul significato dell’espressione ex iure manum consertum, utilizzata anche da Ennio nei suoi Annales[3], per contrapporre alla forza bruta della guerra la violenza stilizzata propria dei riti processuali (vis civilis et festucaria[4]). Da ciò l’autore[5] trae spunto per interessarsi alla vicenda storica del manum conserere ed alla evoluzione di cui si è detto. Più precisamente, secondo Gellio, l’importante innovazione strutturale sarebbe stata introdotta tacito consensu. Ebbene, tale espressione, se interpretata come un modale, strettamente correlato a contra duodecim tabulas, e non come un ablativo d’agente, che dipenda direttamente da institutum est, può semplicemente significare che la modifica venne introdotta senza ricorrere allo strumento della legge; e senza che, in particolare, l’uso dell’aggettivo tacitus di per sé valga ad escludere l’intervento dei giuristi.

In tale convinzione, che nega il rilievo di qualsiasi prassi spontanea, ci conferma la lettura di altri due passi, di cui dobbiamo ora rendere attentamente conto.

 

 

3.2. – Il rilievo di Gai. 3.82

 

La fonte gelliana in esame non è ovviamente l’unica nella quale, per alludere ad un processo desuetudinario, o comunque consuetudinario, si utilizzino i termini tacito consensu. Essi compaiono infatti in diversi altri passi (fra cui anche il celebre frammento giulianeo di cui a D.1.3.32.1)[6], ed in particolare in Gai. 3.82[7]. Ora, dall’analisi di questa fonte - pur di per sé concernente istituti introdotti, anziché abrogati, tacito consensu[8] - possono trarsi, a nostro avviso, gli spunti più interessanti per la nostra indagine, che edifica sul principio della sostanziale inscindibilità del fenomeno della recezione consensu da quello dell’interpretatio pontificale. Ciò, sia facendo riferimento al testo, ove a proposito delle successiones alterius generis si rileva come la loro genesi, fondata sul tacito consenso, si contrapponga a quella di altri istituti, fondata invece sulla legge (o sull’editto del pretore, ma senza affatto escludere, ed anzi affermando espressamente, che quel consenso costituisce il veicolo per la recezione del diritto stesso, il che significativamente richiama il pomponiano ius quod sine scripto venit compositum a prudentibus, di cui a D. 1.2.2.5), sia facendo riferimento al contesto, dato che di seguito (Gai. 3.83 ss.) verranno appunto trattati istituti, quali l’adrogatio o la conventio in manum, la cui complessità strutturale è tale da non rendere neppure pensabile, a nostro avviso, che la loro enucleazione possa essere avvenuta sulla base della mera prassi, del tutto priva dell’apporto tecnico della giurisprudenza pontificale.

 

 

3.3. – Il rilievo di Gai. 4.11

 

Un significato di portata generale va poi attribuito a Gai. 4.11[9], che vale in qualche modo a definire il quadro complessivo nel quale si colloca (con riferimento, almeno, ai riti formalizzati) l’intera nostra indagine, non solo quella relativa al manum conserere.

Si tratta, come noto, del passo delle Istituzioni in cui si riferisce del responso (presumibilmente pontificale) che, nell’ambito della legis actio sacramenti, dichiarò irrituale la pronuncia, da parte dell’attore, di una parola in luogo di un’altra, prevista dalla legge delle XII tavole, ossia di vites al posto di arbores. Sulla validità di un procedimento solenne, come il sacramentum, poteva incidere negativamente, dunque, l’omissione anche di una sola parola, o la sua sostituzione con un’altra: il formalismo proprio delle actiones arcaiche aveva carattere pienamente stringente, ed assolutamente inderogabili erano i precetti di cui esso constava (rilievi, quest’ultimi, di cui si ha fra l’altro conferma anche in Gai. 4.30[10]). Ne consegue inevitabilmente che qualsiasi prassi si allontanasse, anche in minima parte, dagli schemi prefissati sarebbe risultata invalidante dell’intero rito.

Ciò, a maggior ragione, sarà dovuto valere per mutamenti di più ampia portata, quale è quello inerente al manum conserere, che interessava i verba ed i gesta del procedimento, e che non poté senza dubbio prodursi per effetto di una qualche pratica giudiziale (come pur, sorprendentemente, assai spesso si afferma in dottrina[11]).

Certo, è possibile che anche allora - non diversamente, del resto, da quanto avviene al giorno d’oggi - molto di fatto esulasse dal rispetto delle regole formali[12]. Nel nostro caso, in particolare, si può ipotizzare che il pretore, trovatosi ad affrontare nell’esercizio del suo ministero le difficoltà di cui ci riferisce Gell. 20.10.7-9 (e di cui meglio diremo fra breve), abbia di fatto lasciato che soltanto le parti, che pur non avevano ancora formalmente pronunciato la vocatio reciproca, si recassero sul fondo a compiervi il rito. E sebbene nessuno muovesse forse obiezioni, contro un simile modus operandi, per ragioni di opportunità pratica (ed anche politica, dato che difficilmente un privato avrebbe avuto interesse a contestare un magistrato) non vi è dubbio che, a rigore, il procedimento in questione ne risultava irrimediabilmente invalidato.

Proprio da questo sorse probabilmente l’esigenza di introdurre la riforma, ché la prassi descritta non era a ciò in alcun modo sufficiente: occorreva qualcosa di più, e precisamente un responso giurisprudenziale.

 

 

3.4. – Dal manum conserere all’ex iure manum consertum vocare. La testimonianza gelliana ed il ruolo del pretore

 

Al fine di rendere, qui, più approfondita la nostra analisi sulla vicenda del manum conserere, occorre brevemente soffermarsi sulle sue caratteristiche, ed in particolare sulle formalità di cui esso constava e sui soggetti che vi erano implicati[13].

La fonte gelliana ci informa di questo istituto, di cui Gaio nulla ci dice[14], ma che sicuramente ebbe riconoscimento decemvirale (il versetto Si qui in iure manum conserunt…, tratto appunto da Gell. 20.10.8, viene fatto tradizionalmente coincidere con XII Tab. 6.6a)[15], e che - forse alludendo alla situazione di stallo in cui si trovavano i due contendenti, che avevano simbolicamente combattuto l’uno contro l’altro, prima di dare inizio al processo con le formalità rituali di rivendica del potere sulla cosa[16] - bene sembra attagliarsi alla struttura del sacramentum in rem[17].

Ora, il problema derivava dal fatto che, dovendo necessariamente avvenire il rito in re praesenti[18], allorché si trattava di cosa immobile o difficilmente trasportabile[19], in base ad un’antica consuetudine[20] il magistrato si recava di persona sul luogo per sovrintendere all’operazione, cui le parti egualmente provvedevano, e se ne tornava quindi in città per esercitarvi la sua iurisdictio; ma poi a causa dell’estensione dello stato romano[21] fu sempre più difficile per il magistrato spostarsi. Fu così che si stabilì - probabilmente in età di non molto successiva alle XII tavole[22] - che fosse consentito alle parti, dopo una solenne reciproca invocazione seguita dall’ordine del pretore (nella quale propriamente consisteva, dunque, l’ex iure manum consertum vocare)[23], di recarsi personalmente sul posto, accompagnate ciascuna dai propri testimoni[24], allo scopo di compiervi il rito della manus consertio e di prendere una parte del bene (sumere vindicias[25]), che simboleggiasse il tutto - stratagemma, questo, frequentemente utilizzato dai pontefici, anche in materia sacrale[26] -, e su cui potessero poi normalmente svolgersi le formalità vindicatorie.

Ebbene, si osservi che nei mutamenti apportati, tacito consensu, alla struttura dell’istituto, gravemente contrastanti con la legge decemvirale - alla cui prescrizione di stato in luogo, in iure, nettamente si oppone, ora, l’ablativo di moto da luogo ex iure, tutto giocandosi pertanto, in Gell. 20.10.9, sulla dialettica non in iure apud praetorem … sed ex iure[27] -, era pienamente coinvolto, insieme alle parti, anche il pretore[28], essendo anzi lo scopo della riforma essenzialmente quello di rendere al magistrato più agevole l’esercizio delle sue funzioni. Ciò risulta chiaramente, del resto, anche dall’incipit del medesimo passo, ove alla congiunzione avversativa - di cui si è riscontrato più volte l’uso, nelle fonti, quando si voglia rimarcare lo iato storico creato dalla consuetudo contra legem fra il regime vecchio ed il nuovo - immediatamente segue la frase concernente il magistrato giusdicente[29].

Su questo punto occorre, adesso, concentrare maggiormente la nostra attenzione.

 

 

3.5. – Segue: La testimonianza di Cic. Mur. 12.26

 

L’importanza del ruolo rivestito dal pretore risalta, ancor più, nell’ulteriore evoluzione[30] che l’istituto subì, forse, sul finire del periodo arcaico[31], della quale ci riferisce Cic. Mur. 12.26[32].

Se si ha riguardo, anzitutto, al contesto nel quale il passo è inserito[33], è agevole comprendere l’intento che fondamentalmente muove Cicerone: la critica ironica del formalismo pedante, proprio dei giuristi, che, nonostante la diffusione del sapere operata da Cn. Flavio, hanno continuato ad elaborare complicate formule inutili, al solo scopo di rendersi indispensabili. Ed è essenzialmente in quest’ottica - che per noi riveste grande importanza, data l’attinenza che presenta ai problemi posti da Gai. 4.11 e 30[34] - che deve leggersi la testimonianza dell’Arpinate circa lo stadio di sviluppo raggiunto dal rito, nel suo tempo. Se ne ricava che, in buona sostanza, ora nessuno si muoveva più dal tribunale, giacché il simbolo vi era stato portato fin dall’inizio[35]; e dopo che i due contendenti avevano provveduto alla vocatio reciproca (da noi descritta in precedenza[36], ma di cui Cicerone, e non Gellio, riporta le parole del formulario), alla prima intimazione rivolta dal pretore alle parti a recarsi sul posto (ite viam), come se queste si fossero già allontanate, immediatamente seguiva quella a tornare (redite viam)[37]. Gli ordini dati dal magistrato - risalenti anch’essi, presumibilmente, allo stadio precedente della vita dell’istituto, allorché venivano eseguiti in maniera reale, e non fittizia - tecnicamente attuavano, con tutta evidenza, un dicere[38]: ciò, in rapporto, s’intende, ai ben noti tria verba giurisdizionali do dico addico, di cui riferisce Varrone[39], e attraverso i quali in qualche modo si esprimeva quella parte del formalismo, proprio delle legis actiones, specificamente riferibile al pretore.

Palese è la «compromissione» di quest’ultimo nelle solennità strutturali elaborate dalla giurisprudenza pontificale (ei quoque carmen compositum est: espressione che significativamente riecheggia l’institutum est gelliano, e che certo allude ad un’attività, intellettualmente qualificata, di qualcuno, non ad una mera prassi)[40], la quale fu ancora una volta, a nostro avviso, l’artefice autentica della modifica. Ciò, sebbene per la verità Cicerone rivolga la critica di formalismo eccessivo ai soli giuristi laici, e non ai pontefici, che non sono da lui menzionati, o per riverenza, o per la reale convinzione che la responsabilità di talune degenerazioni gravasse effettivamente sui primi. Tuttavia, la tesi qui sostenuta, sulla quale la dottrina è per lo più concorde[41], ci pare la più oggettivamente plausibile, dal momento che si tratta pur sempre di una modifica introdotta nella struttura di un rito arcaico, tra i più solenni, e facendo per di più ricorso, come si è detto, allo strumento della fictio[42]. Si osservi inoltre che lo stesso passo contiene spunti (quali il riferimento agli illi barbati, di cui già ci siamo avvalsi per cercare di datare la riforma, o quello al carmen, che il pretore è tenuto a recitare[43], affinché non se ne stia inerte o non faccia qualcosa di non previsto dal rituale) che certo rinviano ad un’età più risalente, e che la stessa assistenza fornita dal sapiens al magistrato e alle parti, su cui non a caso il passo insiste molto al fine di negare il rilievo di qualunque prassi spontanea (!), in qualche modo richiama funzioni tipicamente pontificali (fra cui il praeire verbis, al quale potrebbe forse alludere l’espressione ne (…) aliquid sua sponte loqueretur, e sul quale ci soffermeremo in seguito).

 

 

3.6. – Procedure pontificali e decreta

 

Se è plausibile che sia stata l’interpretatio pontificum ad intervenire, in maniera determinante, sulla struttura del rito, è tuttavia impensabile, secondo noi, che al fine di attuare, pur con le consuete cautele formali, tipiche della perizia sacerdotale, un simile reiterato stravolgimento della originaria previsione decemvirale[44] – che oltretutto fissava al magistrato regole nuove da rispettare, afferenti alle parole ai tempi e ai luoghi del rito – potesse ritenersi sufficiente il responso rilasciato ad un privato dal pontefice annualmente delegato[45]. Ci sembra difficile, infatti, sostenere che il magistrato - nell’esercitare la sua funzione ricognitiva del formalismo processuale di parte o addirittura nell’introdurre modifiche ai formulari, specie laddove si trattasse di formalità da osservarsi anche da parte sua - dovesse ritenersi soddisfatto di un responso che il privato parte in causa asserisse di aver ottenuto dal singolo sacerdote incaricato. Una eventualità simile sarebbe stata percepita, a nostro parere, come contraria alla dignità stessa della funzione di cui il pretore era titolare[46].

D’altronde la ragionevolezza di tali rilievi può essere, in generale, sostenuta osservando come nella stessa fonte, che attesta il praeesse privatis del consulente singolo (ossia Pomp. D.1.2.2.6[47]), poco prima si afferma che depositario dell’interpretatio sulle actiones era per la verità il collegio; né può essere smentita, nel nostro caso specifico, dalla testimonianza di Cic. Mur. 12.26, nella quale il riferimento fatto all’assistenza prestata ai soggetti del processo da un iuris consultus unico non allude affatto, evidentemente, all’attività diretta ad introdurre modifiche nelle formalità proprie del rito, ché anzi, come detto, riguardo al carmen riservato al pretore, il perfetto passivo compositum est non è certamente riferibile al sapiens lì presente (e se anche, d’altra parte, il giureconsulto menzionato nella fonte fosse stato chiamato a praeire verbis, ossia a dettare le parole del formulario al magistrato, secondo quanto dicevamo sopra, ciò sarebbe potuto avvenire per effetto di una delega del collegio, distinta dal praeesse privatis, della quale si ha ampio riscontro nelle fonti[48] sia per l’ipotesi di innovazioni apportate con responso collegiale, sia per l’ipotesi in cui, non essendovi state innovazioni, occorresse tuttavia salvaguardare il rispetto delle formalità di sempre)[49].

Bisogna allora investire un campo d’indagine, quello dei procedimenti in base ai quali avveniva la consultazione dei pontifices, solitamente del tutto trascurato[50]. Avremo modo di verificare, infatti, che, a seconda delle circostanze, le procedure con cui i pontefici venivano interpellati, affinché esprimessero un parere sulle più svariate questioni di diritto, potevano cambiare: di conseguenza cambiava anche la maniera in cui si svolgeva l’agere, cavere, respondere giurisprudenziale[51] e la forma assunta dai responsi.

Dalle fonti a nostra disposizione sappiamo, esattamente, dell’esistenza di almeno un altro[52] meccanismo attraverso il quale la giurisprudenza pontificale era chiamata a svolgere la propria attività interpretativa: precisamente, nelle materie di diritto sacro pubblico[53], ove era il magistrato che, incaricato in ciò dal senato[54], provvedeva ad interpellare ufficialmente il collegio come tale, al fine di ottenere un decretum di risposta[55], che, una volta comunicato dal pontefice massimo[56] alle autorità interpellanti, sarebbe stato reso esecutivo dal senato con una sua seconda delibera[57]. In tale procedimento erano coinvolti, come si vede, alcuni dei più importanti organi della res publica, quali il magistrato ed il senato (il cui duplice intervento era probabilmente richiesto dal fatto che l’attuazione del responso collegiale, che imponeva la celebrazione di pubblici riti nel rispetto di formalità determinate, avrebbe poi comportato, nella maggior parte dei casi, l'assunzione di vincoli di natura religiosa a carico dell’intera cittadinanza[58]).

Ora però, anche nelle materie in cui erano coinvolti interessi privati[59], vi erano dei riti solenni nei quali, oltre alle parti, era strutturalmente implicato, come abbiamo visto, l’organo pubblico: si trattava, per l’appunto, delle actiones processuali - non, per lo più, di quelle negoziali[60] -, i cui formulari saranno stati certo elaborati, e via via aggiornati, dalla giurisprudenza pontificale, anche in funzione dei compiti che il magistrato giusdicente avrebbe dovuto assolvere (e che per lo più consistevano, come si è detto, nella pronuncia di determinate parole, essenzialmente riconducibili alla triade do dico addico, in corrispondenza delle varie fasi del procedimento e secondo i tempi scanditi stabiliti dalla interpretatio sacerdotale[61]). Si può senz’altro ravvisare, sotto questo profilo, un parallelismo significativo fra il magistrato che, nell’esercizio dei suoi poteri d’imperio, ius dicit fra i cittadini ed il magistrato che, sempre munito d’imperio, pronuncia, magari sotto dettatura, i verba di un pubblico voto[62]; nel caso specifico, poi, del sacramentum, rito giurisdizionale di origine sacrale, tale parallelismo risulta quanto mai evidente[63]. Pertanto, è lecito pensare che il pretore, ogni volta che si rendesse necessario apportare una modifica alle formalità secondo le quali doveva svolgersi una legis actio, che era pur sempre un procedimento pubblico, e specie nell’ipotesi che si trattasse di formalità da osservarsi anche da parte sua - ché in tal caso, alludendo il nostro Pomp. D.1.2.2.6 ai soli privati, non è neppure pensabile, a nostro avviso, che il sacerdote annualmente incaricato potesse ingerirsi nella cosa -, solesse esperire la sopra descritta procedura ufficiale di consultazione, la quale prevedeva che fosse proprio un magistrato ad interpellare il collegio al fine di ottenere un decreto di risposta[64]. Ciò, sebbene il meccanismo fosse qui, forse, semplificato, dal momento che, non trattandosi di questioni di rilievo politico generale o tali da impegnare l’intera cittadinanza, bensì soltanto di una lite fra privati, non vi era probabilmente bisogno di chiamare in causa il senato. Non vi sarà stato, a nostro avviso, né il senatoconsulto di autorizzazione né soprattutto quello di ratifica di un decreto che, pur formalizzando un vero e proprio responsum pro collegio[65], - destinato ad essere, senza dubbio, sottoposto a forme idonee di conservazione[66], e quindi a diventare precedente autorevolissimo anche per gli anni a seguire -, era di per sé privo di effetti generali, giacché dettava pur sempre soltanto la disciplina da applicarsi ad un processo fra privati[67].

 

 

3.7. – Considerazioni finali

 

In conclusione, se l’introduzione di una riforma, in contrasto con il dettato delle XII tavole, avvenne senza ricorrere allo strumento della legge - del quale pur si faceva un uso frequente nell’ambito delle legis actiones, non a caso così denominate in ragione del loro, pressoché costante, fondamento legislativo[68] -, si può tuttavia ragionevolmente sostenere che il consensus generalizzato, di cui ci riferisce Gellio, ben lungi dall’identificarsi con una qualche prassi spontanea, fosse stato indotto da un mutamento d’indirizzo giurisprudenziale, sancito col più ufficiale dei provvedimenti che i sacerdotes publici[69] potessero adottare, il decreto collegiale.

Tale rilievo ci conferma nell’impressione che, nel campo del processo, l’evoluzione della disciplina generalmente si svolgesse in maniera più, per così dire, ufficiale, più «controllata» che non nel campo negoziale, quasi che fosse costantemente assistita da una produzione normativa e da una elaborazione giurisprudenziale distinte, che seguivano criteri loro propri; né è, sotto quest’aspetto, a nostro avviso da sottovalutare il dato che, nella riflessione degli epigoni, e specialmente nel quadro della sistematica tripartita di S. Elio Peto, la tematica delle actiones venga ad assumere una peculiare autonomia[70].

Formuliamo, alfine, l’auspicio che il presente scritto riesca utile alla comprensione non soltanto dei problemi enunciati nella premessa (i quali, lo ricordiamo, non hanno ad oggetto i rapporti solo fra prassi e giurisprudenza, ma fra prassi ed altre fonti), ma anche di alcuni problemi di carattere più generale: intanto perché, nel cogliere il senso profondo della testimonianza pomponiana sul praeesse privatis, ne limita tuttavia la portata, evidenziando come sfera elettiva, sebbene non esclusiva, d’applicazione dell’attività individuale di consulenza fosse, propriamente, quella negoziale; poi perché, nel postulare la necessità di una costante collaborazione tra magistrato e pontefici in ambito processuale, prefigura scenari futuri[71], nei quali l’elaborazione dell’editto fu effettivamente, come si sa, il risultato dell’apporto dato dai giuristi (laici) al pretore.



 

* Si pubblica il capitolo III della monografia di Lorenzo Franchini: «La desuetudine delle XII Tavole nell’età arcaica», Milano, Casa Editrice “Vita & Pensiero”, 2005, 71-97. Di seguito anche l’Indice del volume: I. Premessa metodologica. – II. La caduta in desuetudine di norme decemvirali. Rassegna di ipotesi. – III. Manum conserere e tacito consenso. – Indice degli Autori. – Indice delle fonti.

 

[1] Gell. 20.10.7-9: ‘Manum conserere’ [***]. Nam de qua re disceptatur in iure in re praesenti, sive ager sive quid aliud est, cum adversario simul manu prendere et in ea re sollemnibus verbis vindicare, id est vindicia. Correptio manus in re atque in loco praesenti apud praetorem ex duodecim tabulis fiebat, in quibus scriptum est: ‘Si qui in iure manum conserunt’. Sed postquam praetores, propagatis Italiae finibus, datis iurisdictionibus negotiis occupatis, proficisci vindiciarum dicendarum causa ad longinquas res gravabantur, institutum est contra duodecim tabulas tacito consensu ut litigantes non in iure apud praetorem manum consererent, sed ex iure manum consertum vocarent, id est alter alterum ex iure ad conserendam manum in rem de qua ageretur vocaret atque, profecti simul in agrum de quo litigabatur, terrae aliquid ex eo, uti unam glebam, in ius in urbem ad praetorem deferrent, et in ea gleba tamquam in toto agro vindicarent. Per i problemi inerenti alla restituzione del testo - nei quali non è peraltro implicata la parte che a noi specificamente interessa - e per le proposte di emendazione variamente avanzate dalla dottrina, si rinvia qui, per es., a R. Santoro, Manu(m) conserere, AUPA, 32 (1971), 532-533; Nicosia, Il processo privato romano, I, Le origini², Torino 1986, 109, 119.

 

[2] Cfr. Gell. 20.10.1.

 

[3] V. 47 Vahlen, integralmente riportato in Gell. 20.10.4. Per un’esegesi del testo enniano, per un suo commento, e per il valore che esso presumibilmente rivestì per gli autori di epoche successive, cfr. ad es. Düll, Vom vindex, 9-14; Lévy Bruhl, La manuum consertio, «Iura», 4 (1953), 165, e Recherches, 81; Santoro, Potere ed azione nell’antico diritto romano, AUPA, 30 (1967), 193, 195-196, 199, e Manu(m), 514 ss., 518, 575-576, 579-580; Cannata, Violenza, 157 nota 5; Wolf, Zur legis actio sacramento in rem, in Römisches Recht in der europäischen Tradition, Ebelsbach 1985, 9 e nota 47; Nicosia, Il processo, I, 108-109 e nota 14; Kaser, Zur legis actio sacramento in rem, ZSS, 104 (1987), 60; D’Ippolito, Sulla giurisprudenza medio-repubblicana, Napoli 1988, 90-91, 105, e Questioni, 143, secondo il quale peraltro S. Elio Peto sarebbe la fonte di Ennio, e perciò anche di Gellio; Diliberto, Materiali, 191, che su questo punto richiama D’Ippolito; Albanese, Il processo, 82 e nota 276; Guarino, Manum conserere, in Pagine di diritto romano, IV, Napoli 1994, 107; L. Gutiérrez Masson, La ritualización de la violencia en el derecho romano arcaico, «Index», 28 (2000), 263-264, 271 nota 68.

L’istituto è menzionato, facendo sempre riferimento ai versi di Ennio, da Cic. Mur. 14.30; Att. 15.7; fam. 7.13.2; v. poi, anche a prescindere da Ennio, Varro ling. 6.64; Cic. Mur. 12.26; de orat. 1.10.41; Prob. 4.4. Cfr., per la dottrina, ad es. Lévy Bruhl, La manuum, 166; Santoro, Manu(m), 581 ss.; Nicosia, Il processo, I, 108 nota 14; D’Ippolito, Sulla giurisprudenza, 105, e Questioni, 143; Albanese, Il processo, 82 nota 276; Gutiérrez Masson, La ritualización, 261.

 

[4] Come lo stesso Gellio dirà in 20.10.10.

 

[5] E’ qui opportuno anticipare che parte della dottrina, pur magari ammettendo che il racconto di Gellio non è immune da imperfezioni e incongruenze, lo considera tuttavia sostanzialmente attendibile riguardo alla notizia della trasformazione del manum conserere nell’ex iure manum consertum vocare, ed altra parte della dottrina nega invece alla testimonianza ogni credibilità. Cfr. in proposito, per una adesione espressa al primo orientamento, ad es. Pugliese, Il processo, 41-42, 67 note 77-78; Nicosia, Il processo, I, 108 ss.; Kaser, Zur legis, 56, 61, 66, per il quale Gellio è chiaro e stringato, come il giurista che lo ispira; e per un’adesione espressa all’orientamento contrapposto, per es., Santoro, Potere, 194, 197, e Manu(m), 514 ss., 518, 532 ss., 538 ss.; Albanese, Il processo, 69 e nota 237, 78-79; Guarino, Manum, 107; Gutiérrez Masson, La ritualización, 262-263, 271 note 68 e 72. Quanto alla nostra posizione, v. soprattutto infra, nnt. 13 e 16; cfr., peraltro, quanto già dicevamo supra, riguardo alla generale affidabilità di Gellio per la ricostruzione degli istituti del diritto arcaico.

 

[6] Per il resto, v. ad es. Tit. Ulp. 1.4; Gell. 11.18.4 e 12.13.5.

 

[7] Sunt autem etiam alterius generis successiones, quae neque lege XII tabularum neque praetoris edicto, sed eo iure, quod tacito consensu receptum est, introductae sunt.

 

[8] Per la dottrina sul consensus, v. poi in generale, ad es., Gioffredi, Ius, 80, 82, 109; Scherillo, s.v. Consuetudo, 306; Solazzi, La desuetudine, 286 nota 4; Thomas, Custom, 49; Schmiedel, Consuetudo, 109, 111; Nörr, Zur Entstehung der gewohnheitsrechtlichen Theorie, in Festschrift Felgentraeger, Göttingen 1969, 356-359; Bove, La consuetudine, 95, 111; Gallo, Interpretazione, 5, 147 nota 1, Produzione, 77, e La sovranità, 13, specie in ordine alla sostanziale riconducibilità della recezione consensu all’attività giurisprudenziale; Waldstein, Gewohnheitsrecht, 121-124; Scarano Ussani, L’utilità, 93-94.

 

[9] Unde eum, qui de vitibus succisis ita egisset, ut in actione vites nominaret, responsum est eum rem perdidisse, cum quia debuisset arbores nominare eo, quod lex XII tabularum, ex qua de vitibus succisis actio competeret, generaliter de arboribus succisis loqueretur. Per la dottrina, v. ad es. Wlassak, Die klassische Prozessformel, Wien-Leipzig 1924, 84-85 e nota 33, secondo il quale da Gai. 4.11 (e 4.30) si evince il ruolo ineludibile dei giuristi già rispetto al processo antico; J. Paoli, Verba praeire dans la legis actio, RIDA, 3 (1950), 315 e note 75-76, 317, con considerazioni di grande importanza, dal nostro punto di vista, circa la possibilità che il responso giurisprudenziale, dato per il caso di Gai. 4.11, confermativo del vizio di nullità, avesse assunto la forma di un decreto, destinato ad essere conservato negli archivi del collegio, o più probabilmente fosse stato emesso dal singolo sacerdote delegato, anche eventualmente all’atto del praeire verbis; Riccobono, La voluntas, 302 ss., 306 e nota 4, con un significativo richiamo di Cic. Mur. 12.26-27; Gallo, Interpretazione, 112; Nörr, Der Jurist, 79; A.M. Giomaro, La tipicità delle legis actiones e la nominatio causae, Milano 1988, 29, 64; P. Frezza, Storia del processo civile in Roma fino all’età di Augusto, in Scritti, III, Roma 2000, 181.

 

[10] Sed istae omnes legis actiones paulatim in odium venerunt: namque ex nimia subtilitate veterum, qui tunc iura condiderunt, eo res perducta est, ut vel qui minimum errasset litem perderet.

 

[11] Così, espressamente, per es. Nicosia, Il processo, I, 120, 144, che in riferimento all’ex iure manum consertum vocare usa frasi come «venne introdotto nella prassi», «affermatosi nella prassi»; Guarino, Manum, 107, «si convenne tacitamente una prassi derogatoria delle XII tavole»; cfr. Lévy Bruhl, La manuum, 168, «fut décidé d’un commun accord, mais contrairement à la loi des XII Tables»; Solazzi, La desuetudine, 286 nota 4, secondo il quale il consensus andrebbe qui interpretato come «prassi del magistrato» (quantunque, su questo punto specifico, inerente all’attività che il pretore era chiamato a svolgere, v. infra). Tuttavia, la tendenza ad escludere il ruolo giocato dalla giurisprudenza nella disapplicazione della norma decemvirale serpeggia, a nostro avviso, anche negli scritti di quegli autori che, interpretando Gell. 20.10.7-9 alla lettera, parlano di deroga tacita: cfr. per es. Kaser, Zur legis, 58; Albanese, Il processo, 79 (sebbene abbia in precedenza, a p. 5, affermato che nelle legis actiones il rilievo della prassi processuale era inscindibile dalla straordinaria opera dell’interpretatio giurisprudenziale); Gutiérrez Masson, La ritualización, 262. Più accettabile, dal nostro punto di vista, è parlare di modifica introdotta consuetudinariamente: così, per es., Bonfante, Storia del diritto romano I (IV ed.), Milano 1958, 162 nota 6; Pugliese, Il processo, 42. Riconosce espressamente, alfine, che la giurisprudenza pontificale ebbe un fondamentale rilievo, ai fini dell’introduzione della consuetudine contraria a XII Tab. 6.6a, Paoli, Verba, 305-306.

 

[12] Sul punto, cfr. ad es. Pugliese, Principi teorici e realtà pratica nei processi romani, TR, 35 (1967), 291 ss.

 

[13] Dobbiamo peraltro precisare che in questa sede non formano oggetto di studio, di per sé, da parte nostra, né il rito del manum conserere né quello dell’ex iure manum consertum vocare, specie se considerati in rapporto alla più generale struttura della legis actio nella quale si collocano: quel che, soltanto, ci interessa è indicare il modo attraverso il quale poté, o non, avvenire il passaggio dall’uno all’altro rito. Non vi è dubbio tuttavia che, nel far questo, preliminarmente aderiamo alle tesi sostenute da quella parte della dottrina che, riconoscendo valore storico alla testimonianza di Gell. 20.10.7-9, scorge nell’evoluzione dell’istituto il superamento del modello decemvirale. Delle diverse opinioni formulate in proposito dagli studiosi, e che per noi hanno quindi un (seppur importante) valore di premessa, cercheremo di dar conto, all’occorrenza, nel corso del nostro lavoro.

 

[14] Cfr. in particolare Gai. 4.17, nel quale sono, come noto, presenti lacune, non colmate neppure dai rinvenimenti papiracei del secolo appena trascorso. Nel passo, a proposito dei beni immobili e di quelli non trasportabili sine incommodo, compare peraltro la menzione del sumere vindicias, di cui anche a Gell. 20.10.9, ma non del manum conserere, che probabilmente, comunque, figurava nella parte andata perduta. In ogni caso, riguardo a Gaio, alla disciplina del sacramentum in rem, considerata in rapporto al manum conserere, ed alla necessità di un’integrazione del passo attraverso il ricorso ad altre fonti, basti qui rinviare, per es., a Lévy Bruhl, La manuum, 163-164, 166, e Recherches, 79; Pugliese, Il processo, 67 nota 76; Nicosia, Il processo, I, 106 ss., 117-118, 122, secondo il quale, peraltro, Gaio potrebbe aver volutamente omesso la trattazione dell’istituto, giacché ai suoi tempi era forse venuta meno anche la fictio propria dell’ultima fase di sviluppo del rito; Kaser, Zur legis, 57; Albanese, Il processo, 70, 80; Gutiérrez Masson, La ritualización, 259, che sui motivi dell’omissione sembra accogliere l’ipotesi di Nicosia.

 

[15] Per la dottrina, ed anche in ordine all’opinione, assai diffusa oggi fra gli studiosi, che il precetto figurasse nella seconda piuttosto che nella sesta tavola, cfr. per es. Lévy Bruhl, La manuum, 172 e nota 14, e Recherches, 83 nota 1, il quale propone di integrare il versetto aggiungendo la frase ita ius esto; Santoro, Potere, 192 nota 1, 193 e nota 7; Nicosia, Il processo, I, 108; D’Ippolito, Sulla giurisprudenza, 105-106, e Questioni, 143, al quale anche si rinvia per i problemi inerenti alla restituzione del testo (ove in particolare, se si ha riguardo alla tradizione manoscritta, tra il si e l’in potrebbe anche non figurare la particella qui, peraltro ininfluente ai fini della nostra indagine); Diliberto, Materiali, 189 ss., 208; Albanese, Il processo, 79, 86; Gutiérrez Masson, La ritualización, 263.

 

[16] Ciò, facendo salva, comunque, la definizione che dell’istituto dà Gell. 20.10.7. Premessa di tutto il nostro discorso è che, secondo quanto sostenuto da una parte della dottrina, il manum conserere - inteso come rito processuale almeno in parte distinto dalla vindicatio della cosa, immobile o difficilmente trasportabile, alla quale si applicava -, dovesse originariamente svolgersi nel luogo in cui la cosa stessa si trovava, e nondimeno, in conformità alla norma delle XII tavole, in iure, ossia alla presenza del magistrato, che doveva spostarvisi; e che però in seguito, contravvenendosi a quella norma, si sia consentito di celebrarlo ex iure, in assenza del magistrato, il quale rimaneva nel tribunale cittadino, da cui le parti si chiamavano fuori, anche al fine di raccogliere il simbolo della cosa su cui si sarebbero poi, di nuovo in iure, svolte le formalità propriamente vindicatorie. Quest’impostazione, la sola che renda possibile il rilievo di una consuetudo contra legem, è a nostro avviso preferibile, in quanto non disattende la testimonianza gelliana, e ne rivela anzi la compatibilità sia con Gai. 4.17, che analogamente allude al sumere vindicias, sia con Cic. Mur. 12.26, che addirittura riporta i verba con i quali si teneva il rito modificato, dando peraltro notizia di un’evoluzione ulteriore. A queste esigenze non paiono invero soddisfare quei tentativi di ricostruzione, esperiti da un’altra parte della dottrina, che negando valore a Gellio e schiacciando su quella decemvirale la prospettiva temporale propria del regime delle vocationes, descritto per la verità da Cicerone in relazione ad un’età assai più recente, affermano che, se vi era un precetto tavolare di quel tenore, esso non fu mai violato, dal momento che il magistrato seguiva a sua volta le parti sul fondo, dove sarebbe stato compiuto il manum conserere, e che anche quando così non sarà, in una fase storica successiva, fuori dal tribunale si sarebbe proceduto al solo sumere vindicias, non più ad altro. Vi è poi tutta una serie di questioni, le quali rivestono grande importanza per i problemi sopra accennati (si pensi per es. al senso da attribuirsi a con-sero, composto di sero, anche in rapporto ad ad-sero, a sua volta attestato nelle fonti; all’esistenza, nelle stesse, delle due versioni, manu e manum conserere, e alle diverse conseguenze che possono derivare dal supporre l’una antecedente all’altra; alla genesi dell’idea del combattimento con le mani, posto che il significato di atto di apprensione della cosa fosse quello originario; alla plausibilità dell’ipotesi, poi per lo più rigettata dalla dottrina, che l’esecuzione del rito potesse avere una qualche parte nella costituzione del consortium ercto non cito, di cui è evidente l’affinità verbale; all’eventualità di una manuum consertio nel sacramentum in personam, anche sulla base di Prob. 4.4), che non possiamo qui affrontare, e per lo studio delle quali si rinvia all’abbondante letteratura esistente sull’argomento. In essa, come dicevamo, possono essenzialmente rinvenirsi due grandi tendenze. Alla prima, alla quale anche noi abbiamo aderito, sono per lo più riconducibili Düll, Vom vindex, 10 ss.; Luzzatto, Procedura civile romana, I, Le legis actiones, Bologna 1948, 121-122; Paoli, Verba, 305 e nota 59, 306; Bonfante, Storia, 162 nota 6; Pugliese, Il processo, 41 ss., secondo il quale in particolare il manum conserere sarebbe consistito nel tentativo rituale, esperito dalle parti, di cacciarsi reciprocamente dal fondo; Watson, Toward a New Hypothesis of the legis actio sacramento in rem, RIDA, 14 (1967), 455 ss., tutto peraltro concentrato sul tentativo di dimostrare la sua tesi, assai originale, della struttura unilaterale del meccanismo vindicatorio; Kaser, Zivilprozessrecht, 74-75, e Zur legis, 53 ss.; Cannata, Profilo istituzionale del processo privato romano, I, Le legis actiones, Torino 1980, 21-22, e Violenza, 159-162, 170-171; Wolf, Zur legis, 1 ss.; Nicosia, Il processo, I, 108 ss., pur con le peculiarità proprie del pensiero di questo studioso, che non crede, per l’epoca decemvirale, all’esistenza di un magistrato giusdicente; J. Zlinsky, Gedanken zur legis actio sacramento in rem, ZSS, 106 (1989), 106 ss., secondo il quale in particolare l’istituto aveva finalità identificative della cosa lontana. Alla seconda tendenza sono per lo più riconducibili Lévy Bruhl, La manuum, 163 ss., e Recherches, 79-82, secondo cui il rito del manum conserere per gli immobili equivaleva a quello della festuca per i mobili; Santoro, Potere, 190-194, 197, e Manu(m), 514 ss., secondo il quale, in particolare, lo studio della vicenda dell’istituto, che egli identifica totalmente con la rivendicazione della cosa, deve farsi sulla base della sola testimonianza ciceroniana, più antica di quella gelliana, e più adatta a rivelare la realtà della prassi giudiziaria; Albanese, Il processo, 68 ss., 78 ss.; Guarino, Manum, 106 ss.; Gutiérrez Masson, La ritualización, 254 ss. V. poi, in ordine a problemi specifici, per es. F. Patetta, Le ordalie, Torino 1890, 144; P. Collinet, Les nouveaux fragments des Institutes de Gaius, RHD, 13 (1934), 96 ss., il quale, come sopra anticipato, ritiene che la costituzione dell’antico consortium familiare richiedesse il rispetto delle formalità proprie del nostro istituto; Noailles, Manum, 160, 163; Frezza, Ordalia e legis actio sacramento, AG, 142 (1952), 87; Broggini, Iudex arbiterve. Prolegomena zum Officium des römischen Privatrichters, Köln-Graz 1957, 38 e nota 39; Tondo, Ancora sul consortium domestico nella Roma antica, SDHI, 60 (1994), 602-603, critico verso Collinet.

 

[17] E’ appena il caso di ricordare qui che la fase in iure del procedimento, quale ci è descritta da Gai. 4.16-17, era caratterizzata dalla dialettica crescente tra i due litiganti, posti formalmente sullo stesso piano, dimodoché all’attività sia verbale che gestuale dell’uno strutturalmente corrispondesse quella dell’altro, in una sequenza di operazioni contrapposte ad incastro, che, se protratta fino alla fine, senza cadute di tensione, conduceva ad un ulteriore stato di paralisi, risolvibile, a quel punto, solo mediante la prestazione dei sacramenta.

 

[18] V. ancora Gell. 20.10.7; cfr. Gai. 4.17 (in totam rem praesentem). Ciò appare richiesto dalla struttura stessa del rito, sebbene non possa pregiudizialmente escludersi, sulla scorta del citato passo gelliano, che anche XII Tab. 6.6a - il cui tenore non è poi, tuttavia, in relazione a questo punto specifico, letteralmente richiamato - alludesse in qualche modo alla presenza della cosa.

 

[19] Ciò, in conformità a Gai. 4.17, che parla di cose che non possono trasportarsi sine incommodo (cfr. Gell. 20.10.7: sive ager sive quid aliud est, ove per aliud è da intendersi altro di simile), e posto che esista il legame storico, d’altronde attestato dallo stesso Gell. 20.10.9, tra il rito della manus consertio e quello del sumere vindicias. Questo è l’orientamento prevalentemente seguito dalla dottrina, specie da quella che presta affidamento alla ricostruzione gelliana (nel cui solco anche noi ci collochiamo), ma non solo: in questo senso, a titolo meramente esemplificativo, v. Lévy Bruhl, La manuum, 163, 168, e Recherches, 80, 82; Pugliese, Il processo, I, 41, 66 nota 73; Nicosia, Il processo, I, 109-110; contra, identificando l’oggetto del rito nei soli immobili, per es., Cannata, Profilo, 22, e Violenza, 160 e nota 8, 171, che non condivide l’approccio dogmatizzante di chi postula l’automatica corrispondenza fra i casi della manus consertio originaria e quelli di successiva rivendica sul simbolo, alcuni dei quali sono sopravvenuti; Kaser, Zur legis, 61, secondo il quale, in particolare, agli immobili si riferivano le XII tavole; oppure, identificando l’oggetto del rito in tutti i beni, anche mobili, per es. Santoro, Potere, 192 nota 1, e Manu(m), 514 ss., 529-531, per cui il manum conserere si applicava a tutte le cose suscettibili di vindicatio; Albanese, Il processo, 69 e nota 237; Gutiérrez Masson, La ritualización, 260, 261, che anzi pensa che quella sui mobili potesse essere l’applicazione originaria.

 

[20] Fatta propria, con ogni probabilità, dalla legge delle XII Tavole: in XII Tab. 6.6a compare la locuzione in iure, che, avendo forse già assunto un significato topologico (d’altronde non incompatibile con un originario significato rituale: ma su questo punto v. meglio infra), alludeva alla presenza del pretore, di fronte al quale doveva comunque svolgersi il rito; e si rammenti che il magistrato rendeva ius ogni luogo in cui si recasse ad esercitare la giurisdizione (cfr. in proposito D.1.1.11: ius dicitur locus in quo ius redditur). Per la dottrina, v. ad es. Pugliese, Il processo, I, 42; Cannata, Profilo, 22, e Violenza, 158; Kaser, Zur legis, 57, 59; D’Ippolito, Sulla giurisprudenza, 105; Zlinsky, Gedanken, 118; v. anche, per es., Lévy Bruhl, La manuum, 168-172, e Recherches, 82-83; Santoro, Manu(m), 550; Guarino, Manum, 107, i quali concordano sì col significato locativo di in iure, ma con quello intendono, lo ricordiamo, il tribunale cittadino in cui, già in origine, si svolgeva la vocatio.

 

[21] Ché prima, come ha giustamente osservato Pugliese, Il processo, I, 67 nota 79, i fondi dovevano trovarsi tutti, per lo più, nelle adiacenze della città. Ora invece il magistrato avrebbe dovuto raggiungere longinquas res (cfr. Gell. 20.10.9).

 

[22] Ciò, in conformità ad un’opinione pressoché unanime nella dottrina favorevole alla tesi della trasformazione storica dell’istituto, ma senza che siano stati, in genere, esperiti tentativi per collocarla meno vagamente nel tempo. Pur con tutta la cautela del caso, derivante dalla mancanza di riscontri testuali, azzarderemmo l’ipotesi di un’età successiva alla distruzione di Veio ed alle stesse leggi Liciniae Sextiae, istitutive della pretura giurisdizionale, ma precedente alla creazione dei primi prefetti iure dicundo (in ordine ai quali, v. ad es., per tutti, De Martino, Storia della costituzione romana², I, Napoli 1972, 435, e II, 1973, 135-137): si tratterebbe perciò, all’incirca, della metà del IV secolo.

 

[23] Peraltro si osservi che Gell. 20.10.9, come dicevamo sopra, non riporta le parole del formulario delle vocationes (né per la verità precisa che parte vi avesse il pretore), per le quali dobbiamo dunque attingere a Cic. Mur. 12.26. Tuttavia dal nostro passo può già evincersi che il rito consisteva nell’invito reciproco (alter alterum) a recarsi sul luogo interessato, cosicché alla vocatio dell’uno immediatamente seguiva la revocatio dell’altro, secondo una simmetria tipica della legis actio sacramenti. Su un simile assetto strutturale gli studiosi sono per lo più concordi: per tutti, v. ad es. da una parte Kaser, Zur legis, 59, 62, per il quale naturalmente l’esortazione non è diretta alla vindicatio, ma a renderla possibile, e dall’altra Albanese, Il processo, 81-83, 86, che pur essendo, su quest’ultimo punto, di parere diametralmente opposto, tuttavia rileva come l’istituto consti appunto di una simultanea sfida reciproca; contra, soprattutto Santoro, Manu(m), 548-552, 562-566, per il quale la vocatio, come invito ad andare, veniva pronunciata dapprima in tribunale, mentre la revocatio, come invito a tornare, in un secondo momento sul fondo, cosicché l’unità di tempo e di luogo, che caratterizza il rito descritto da Cicerone, sarebbe frutto dell’involuzione successiva.

 

[24] Ciò risulta, invero, dal solo Cic. Mur. 12.26, ove compare l’espressione superstitibus praesentibus; v. anche Fest. 394 L., che ne riconnette le funzioni al vindicias sumere; Serv. Aen. 3.339; Isid. Etym. 18.15.8. E’ preferibile pensare, a nostro avviso, che l’utilità dei testimoni sia stata avvertita allorché si dovette procedere alla celebrazione del rito in assenza del pretore. In ogni caso, sui superstites, sulle loro presumibili funzioni specifiche, su ciò che li potesse eventualmente differenziare dai testes, v. per es. Lévy Bruhl, La manuum, 167; Kaser, Zivilprozessrecht, 74-75, e Zur legis, 64; Santoro, Manu(m), 568; Nicosia, Il processo, I, 117 e nota 1, 121-122, secondo il quale, in particolare, essi dovevano accertare e testimoniare che la cosa, da cui veniva prelevato il simbolo, fosse proprio quella contestata; Albanese, Il processo, 84-85.

 

[25] Riguardo al rito del sumere vindicias, al significato tecnico che vi assume la parola vindicia, diverso che in altre fasi del processo (cfr. Fest. 516 L: Vindiciae olim dicebantur illae, quae ex fundo sumptae in ius adlatae erant), ed alla sua emersione storica, che pare in effetti inscindibile dalla disciplina del sacramentum sugli immobili, ed in particolare dalla trasformazione del manum conserere nell’ex iure manum consertum vocare, cfr. innanzi tutto quanto dicevamo supra, nt. 16, con la dottrina ivi riportata; v. ancora, qui, per es. Nicosia, Il processo, I, 121, secondo il quale, anzi, presto il sumere vindicias sarebbe stato l’unico atto compiuto in loco dalle parti; Kaser, Zur legis, 63-65, che all’istituto attribuisce particolare rilievo, anche in polemica con Santoro, Manu(m), spec.te 546, 568-570, 586, le cui considerazioni in materia ci sembrano in effetti tra le meno calzanti del suo lavoro, data la oggettiva difficoltà di conciliare l’esistenza del sumere vindicias, ampiamente attestata nelle fonti, con l’idea, da lui sostenuta, che la manus consertio fosse la vindicatio stessa e che il magistrato, per sovrintendere ad essa, seguisse, dopo la vocatio, le parti sul fondo.

 

[26] Cfr. per es. Kaser, Zur legis, 63 nota 41; Bona, Ius, 209; v. anche Franciosi, Partes, 272-273.

 

[27] Così giustamente osservano coloro che, ritenendo tale testimonianza degna di considerazione, prendono in particolare atto della valenza topologica assunta dall’espressione ex iure, dipendente da vocare: cfr. per es. Pugliese, Il processo, 42, 67 nota 80; Kaser, Zivilprozessrecht, 74 e nota 57, e Zur legis, 58; A. Traglia, in M. Terenzio Varrone, Opere (ed. Utet), Torino 1974, 216 nota 36; Wolf, Zur legis, 7 e nota 35, al quale anche si rinvia per un’ampia ricognizione, sul punto, della dottrina risalente; Nicosia, Il processo, I, 120-122; D’Ippolito, Sulla giurisprudenza, 105. A questi, piuttosto recisamente, si oppongono coloro che, ritenendo Gellio non credibile e l’istituto della vocatio invalso fin dall’età più antica, sostengono che ex iure, anziché avere significato topologico, alludesse alla ritualità del conserere, analogamente a quel che accadeva nell’altra ben nota espressione ex iure Quiritium propria delle vindicationes: cfr. per es. Lévy Bruhl, La manuum, 168, 170, e Recherches, 82-83, il quale in particolare sottolinea come il locativo contrario ad in iure fosse propriamente extra ius, non ex iure; Santoro, Potere, 99 e nota 17, e Manu(m), 539-540, 547, 550, 553; Albanese, Il processo, 82; Guarino, Manum, 108-109; Gutiérrez Masson, La ritualización, 262, secondo cui tuttavia la locuzione potrebbe anche aver avuto una duplice valenza.

 

[28] Si noti anzi che in Gell. 20.10.8-9 notevole è l’insistenza sul ruolo del magistrato, in assenza del quale ora si sarebbe svolto il rito, strutturalmente mutato: tanto che la parola pretore vi ricorre per ben quattro volte. Cfr. anche infra, nt. 32, a proposito di Cic. Mur. 12.26, dove egualmente considerevole è l’attenzione riservata al magistrato.

 

[29] Sed postquam praetores, propagatis Italiae finibus, datis iurisdictionibus negotiis occupatis cet.

 

[30] Anche se, almeno in riguardo al manum conserere, sarebbe forse più corretto parlare di involuzione, dal momento che, introdotta la finzione di cui si dirà, esso finì per non essere più celebrato.

 

[31] Si tratta, naturalmente, solo di un’ipotesi, non però priva, a nostro avviso, di una certa ragionevolezza. La riforma difficilmente potrebbe essere stata varata, infatti, prima della fine del III secolo, dato che Ennio (cfr. Gell. 20.10.4 e 10) fa riferimento ad un rito che, in quanto rappresentazione palese di violenza stilizzata, contrapposta alla violenza reale della guerra, doveva essere ancora celebrato come tale, quando il poeta scriveva, e non scomparso perché sostituito da finzioni. D’altronde collocare la modifica nell’ultimo secolo della repubblica, come fanno taluni (v. per es. Pugliese, Il processo, I, 43; Santoro, Manu(m), 535), non pare tener conto della competenza, tradizionalmente pontificale, in materia di legis actiones (cfr. D.1.2.2.6; si noti anzi che, nel passo riportato alla nota successiva, probabile è l’allusione al praeire verbis, funzione tipicamente sacerdotale, oltre che all’uso di portare la barba, invalso in epoche assai risalenti. La soluzione più ragionevole, allora, potrebbe esser quella di riferire l’innovazione ad un’età di transizione (come noi abbiamo fatto nel testo), allorché, fermo restando il monopolio dei pontifices sul processo arcaico, si stava tuttavia diffondendo un sentimento di insofferenza verso il formalismo delle antiche procedure (cfr. Gai. 4.30), che avrebbe potuto effettivamente spingere nella direzione di una semplificazione. V, in questo senso, soprattutto Nicosia, Il processo, I, 114, 116, che pur ritiene i protolaici autori della riforma.

 

[32] Cic. Mur. 12.26: Cum hoc fieri bellissime posset: ‘Fundus Sabinus meus est’. ‘Immo meus’, deinde iudicium, noluerunt. ‘Fundus’ inquit ‘qui est in agro qui Sabinus vocatur’. Satis verbose; cedo quid postea ? ‘Eum ego ex iure Quiritium meum esse aio’. Quid tum ? ‘Inde ibi ego te ex iure manum consertum voco’. Quid huic tam loquaciter litigioso responderet ille unde petebatur non habebat. Transit idem iuris consultus tibicinis Latini modo. ‘Unde tu me’ inquit ‘ex iure manum consertum vocasti, inde ibi ego te revoco’. Praetor interea ne pulchrum se ac beatum putaret atque aliquid ipse sua sponte loqueretur, ei quoque carmen compositum est cum ceteris rebus absurdum tum vero in illo: ‘Suis utrisque superstitibus praesentibus istam viam dico; ite viam’. Praesto aderat sapiens ille qui inire viam doceret. ‘Redite viam’. Eodem duce redibant. Haec iam tum apud illos barbatos ridicula, credo, videbantur, homines, cum recte atque in loco constitissent, iuberi abire ut, unde abissent, eodem statim redirent. Isdem ineptiis fucata sunt illa omnia: ‘Quando te in iure conspicio’ et haec ‘anne tu dicas qua ex causa vindicaveris ?’. Quae sed dum erant occulta, necessario ab eis qui ea tenebant petebantur; postea vero pervolgata atque in manibus iactata et excussa, inanissima prudentiae reperta sunt, fraudis autem et stultitiae plenissima.

E’ forse il caso di ricordare che a tale testimonianza, più volte citata in precedenza, contrariamente che a Gell. 20.10.8-9, viene riconosciuta generale affidabilità, tanto che sul regime del nostro istituto nella sua ultima fase di sviluppo, qui descritto dall’Arpinate, la dottrina non si è, per lo più, divisa: per tutti, v. ancora ad es. Santoro, Manu(m), 540 ss., il quale osserva come Cicerone, che era stato pretore, avesse una conoscenza diretta della cosa; Nicosia, Il processo, I, 116.

 

[33] V. in particolare Cic. Mur. 12.25.

 

[34] Cfr. qui, per es., Riccobono, La voluntas, 306 e nota 4; Pugliese, Il processo, 43; Santoro, Manu(m), 542-543; Nicosia, Il processo, I, 114; Kaser, Zur legis, 61, 66; Albanese, Il processo, 80.

 

[35] Secondo quanto attestato da Gai. 4.17; v. anche, per es., Pugliese, Il processo, I, 43; Santoro, Manu(m), 586; Nicosia, Il processo, I, 122; Albanese, Il processo, 84.

 

[36] V. anche qui ad es. Nicosia, Il processo, I, 116, e Kaser, Zur legis, 59, 61, 63, circa l’opportunità di utilizzare i dati desunti da Cic. Mur. 12.26 per integrare la testimonianza gelliana, già di per sé preziosa sul tema dell’ex iure manum consertum vocare; e d’altra parte, Santoro, Manu(m), 552, 564, 585-586, secondo il quale, in particolare, le due vocationes – pur conservate ancora in vita, per il tradizionalismo tipico della mentalità romana – assunsero il carattere dialogico di invito e controinvito immediato solo nel procedimento involuto illustrato, per l’appunto, da Cic. Mur. 12.26, giacché in precedenza, quando ancora realmente le parti si recavano sul fondo, le cose andavano ben diversamente.

 

[37] Cfr. in proposito Düll, Vom vindex, 17-18; Paoli, Verba, 283; Lévy Bruhl, La manuum, 167 e nota 10; Santoro, Manu(m), 540 ss. (al quale anche si rinvia per i problemi inerenti alla restituzione del testo, ove in luogo di ite potrebbe esservi stato inite: v. 542 nota 68); Guarino, Manum, 106; Gutiérrez Masson, La ritualización, 262.

 

[38] Di cui per la verità Gell. 20.10.8-9 non faceva menzione.

 

[39] Varro ling. 6.30: Contrarii horum vocantur dies nefasti, per quos dies nefas fari praetorem do dico addico; itaque non potest agi; necesse est aliquo eorum uti verbo, cum lege quid peragitur.

 

[40] Quanto il pretore fosse implicato, fin dall’origine, nelle formalità proprie del rito, ci è rivelato anche dall’uso che Cicerone fa del termine carmen, proprio dei formulari arcaici: cfr., sul punto, Pugliese, Il processo, 43; Santoro, Manu(m), 543 e nota 72, 545; Nicosia, Il processo, I, 114.

 

[41] Attribuendo, per l’appunto, ai giuristi-sacerdoti la paternità dei verba e dei gesta del procedimento: cfr. ad es. Wlassak, Die klassische, 84, che in relazione al passo ciceroniano significativamente ricorda anche Gai. 4.11 e 4.30 (dove in particolare si dice del condere iura dei veteres); Paoli, Verba, 283, 303-304, 306, 308; Santoro, Manu(m), 542-547, 562-563, 567-568, 582; contra, Nicosia, Il processo, I, 116, sulla base di un’interpretazione letterale di Cic. Mur. 12.25-26.

 

[42] Espediente, questo, cui, come si diceva in precedenza, i pontifices facevano ampio ricorso, e che, precisamente, consisteva nel far derivare gli effetti propri di un fatto non accaduto (la manus consertio fuori dal tribunale cittadino) dal verificarsi di un fatto diverso (che in qualche modo richiami il primo, come ad es. qui, forse, il mero atto dell’andare e tornare, il fare qualche passo in una direzione e quindi, subito dopo, nell’altra). V. in proposito, per es., Lévy Bruhl, La manuum, 171, e Recherches, 82; Pugliese, Il processo, 43; Santoro, Potere, 194, e Manu(m), 535, 544; Cannata, Violenza, 162, 170; Nicosia, Il processo, I, 117-118, 122; Kaser, Zur legis, 66; Gutiérrez Masson, La ritualización, 262.

 

[43] V. quanto dicevamo appena supra sul carattere arcaico del termine carmen.

 

[44] La vicenda della manus consertio, con particolare riferimento a Gell. 20.10.8-9 e alla disapplicazione tacito consensu del precetto di cui a XII Tab. 6.6a, è stata fatta talora oggetto di menzione, o addirittura di analisi, pur eccessivamente fugaci, da parte della dottrina, da noi citata all’inizio di questo lavoro, che si è specificamente occupata del tema della desuetudine e dei suoi effetti. Ciò, per lo più, al fine di ascrivere il nostro caso fra quelli di formale abrogazione di una norma di legge, dovuta al processo desuetudinario (così per es. S. Brie, Die Lehre vom Gewohnheitsrecht, Breslau 1899, 40 e nota 39; Bove, La consuetudine, 94-95; Waldstein, Gewohnheitsrecht, 123-124; Gallo, Produzione, 77; Scarano Ussani, L’utilità, 93 nota 138), o viceversa fra quelli in cui tale fenomeno non si è prodotto (così per es. Solazzi, La desuetudine, 286 nota 4; Thomas, Custom, 45 nota 29). Ora, non si può qui non constatare come il dettato della legge decemvirale sia stato, anche formalmente, disatteso da una prassi, in cui erano fra l’altro implicati organi pubblici (non soltanto il pretore, come avremo presto modo di precisare), la quale avrebbe comportato, col passar del tempo, non solo la caduta del precetto che imponeva la celebrazione in iure del rito, ma addirittura la scomparsa dello stesso istituto disciplinato (a nulla vale, a nostro avviso, l’obiezione del sopra citato Solazzi, secondo cui, più che di desuetudo, si tratterebbe qui di una «prassi del magistrato», dal momento che i processi desuetudinari in nient’altro consistono se non nella pratica, disapplicativa di una norma, adottata da quei soggetti che sarebbero chiamati, invece, ad applicarla; ed il fatto che uno di essi sia, in questo caso, proprio il pretore depone, a nostro avviso, in senso contrario). Circa la sorte, infine, del rito descritto da Cic. Mur. 12.26 nelle epoche successive, sembra doversi credere che esso, nel II secolo, fosse ancora invalso, come d’altronde attesta lo stesso Gellio (20.10.1: nunc quoque), che pur non ne comprendeva più il significato: v. per es., in questo senso, Lévy Bruhl, Recherches, 80 nota 1; Santoro, Manu(m), 535 nota 54; Diliberto, Materiali, 190, 192; Albanese, Il processo, 81 nota 273, 87; contra, Nicosia, Il processo, I, 117-118, 122, pur sulla base della omessa menzione da parte di una fonte, come Gai. 4.17, che in precedenza lo stesso autore aveva avvertito la necessità di integrare, ricorrendo ad altri testi.

 

[45] Cfr. Pomp. D.1.2.2.6. Approfittiamo qui per rilevare come, essendovi ogni anno un solo pontefice delegato a dare consulto ai privati (da parte dell’unico organo, il collegio pontificale, cui sia pertanto lecito riconoscere formalmente il monopolio dell’interpretazione giurisprudenziale), l’esperienza giuridica romana arcaica, contrariamente a quella di epoche successive, non potesse configurarsi come un’esperienza di ius controversum, giacché l’eventualità che più orientamenti contrapposti costituissero contemporaneamente il diritto vigente risultava del tutto improspettabile; il mutamento d’indirizzo giurisprudenziale era invece possibile, ovviamente, nella «diacronia», sebbene per il carattere conservativo della mentalità romana sarà certo per lo più prevalsa, nelle scelte di politica del diritto adottate dal collegio, e di conseguenza nelle decisioni prese dai singoli sacerdoti incaricati, la tendenza a rispettare il più possibile i precedenti. Cfr., su questo punto, per tutti, ad es. Talamanca, Diritto, 142-143.

 

[46] Per meglio persuaderci della fondatezza del nostro ragionamento, proviamo anzi ad esaminare un caso limite, certo storicamente verificatosi, benché le fonti non si esprimano direttamente in proposito: quello inerente alla prima volta in cui un privato intenda avvalersi di un nuovo rimedio appena introdotto con legge (per esempio l’actio communi dividundo, prevista dalla lex Licinnia), nell’ambito di una legis actio (per esempio la iudicis postulatio). Certo i relativi formulari saranno stati subito elaborati dalla giurisprudenza pontificale: ex novo, e tenendo conto delle disposizioni dettate dalla legge (cfr. ancora quanto dicevamo supra, a commento di Gai. 4.11), le quali tuttavia, senza la indispensabile mediazione dei giuristi, risultano essere del tutto inoperanti. Ebbene, non è accettabile che in un’ipotesi del genere il magistrato potesse sentirsi appagato da un responso nel frattempo richiesto dal privato ed esercitasse la sua giurisdizione sulla base di quello: per la stessa ragione, non si vede allora perché, anche quando in tempi successivi si sarebbe trattato di apportare modifiche o aggiornamenti ai certa verba della nostra azione, non si sarebbe dovuto seguire di nuovo, preferibilmente, la stessa procedura.

 

[47] Omnium tamen harum et interpretandi scientia et actiones apud collegium pontificum erant, ex quibus constituebatur quis quoquo anno praeesset privatis.

 

[48] Cfr. infra, nt. 57.

 

[49] Per la dottrina, cfr. ad es. Wlassak, Die klassische, 102 e nota 82; Paoli, Verba, spec.te 293, 297, 300, 316, di cui ci sembrano oltremodo condivisibili le considerazioni relative alla legis actio sacramenti, la quale, più di ogni altra, per la sua origine religiosa, doveva prestarsi assai bene all’esercizio delle funzioni tipicamente pontificali (assai meno condivisibili, invece, ci sembrano le considerazioni dello stesso Paoli, quando individua connessioni improprie tra il praeesse ed il praeire, specie in riguardo ai soggetti che li esplicavano); v. anche, ad es., F. Cancelli, La giurisprudenza unica dei pontefici e Gneo Flavio, Roma 1996, 18 ss., con ampia rassegna bibliografica.

 

[50] Anche i più seri e recenti studi sulla giurisprudenza dei pontifices, come ad es. quello di Cancelli, La giurisprudenza, spec.te 121-125 (pur di per sé concentrato nel tentativo di dimostrare l’inesistenza di un monopolio pontificale in materia civile: cosa che noi, fondamentalmente, non condividiamo, e che speriamo di poter, più approfonditamente, discutere in altre sedi, pur riconoscendo senz’altro fin d’ora che lo studio di Cancelli è, per la ricognizione ampia delle fonti e della bibliografia pregressa, oltremodo apprezzabile) sembrano dimostrare scarso interesse per il tema in questione, che viene affrontato fugacemente e, talora, senza troppa cautela. V. invece, pur in relazione a problemi specifici, per es. Paoli, Verba, 315 e nota 76; Manfredini, Contributi, 65-66, le cui penetranti osservazioni sono state da noi già commentate supra.

 

[51] Cfr. Cic. de orat. 1.48.212.

 

[52] Resta traccia, per la verità, nelle fonti di responsi dati dai pontefici a seguito di consultazione informale, attuata in via meramente politica (in senato, in particolare, dato che i pontefici ne erano tutti solitamente membri e ne costituivano una sorta di commissione interna per affari tecnici) o addirittura nell’ambito dei rapporti interpersonali normalmente coltivati dai membri dell'élite cittadina: in proposito, cfr. per es. Liv. 31.9.5-10, ove si dà notizia di un’opinione informalmente espressa in senato dal pontefice massimo P. Licinio Crasso, che poi sarebbe stato smentito dal collegio; Cic. Att. 4.2.4, ove si riferisce di una decisione adottata de omnium conlegarum sententia, ossia dopo che un pontefice aveva vagliato il parere concorde dei colleghi considerati uti singuli, senza che fosse ufficialmente interpellato il collegio come tale. I responsa emessi in questi casi, pur muniti di una certa comprensibile autorevolezza, non erano ritenuti in alcun modo vincolanti né per le autorità interpellanti né tanto meno per gli altri membri del collegio che, se consultati formalmente, avrebbero potuto (anche in modo radicale, come appunto avvenne nella vicenda di Licinio Crasso) sovvertire il suggerimento che in precedenza era stato espresso. Per un approfondimento di tutto quanto sopra, che non è del tutto privo di rilievo anche ai fini della presente ricerca (qualora si voglia prendere in considerazione l’ipotesi di consultazioni informali fra il pretore ed i giuristi: cfr. infra), basti rinviare, in questa sede, al nostro A proposito, 159 ss.

 

[53] Per la legittimità di quest’espressione, che edifica sulla distinzione fra sacra publica e sacra privata, si rinvia soprattutto a Fest. 284 L, ove i primi sono definiti quae publico sumptu pro populo fiunt ed i secondi quae pro singulis hominibus, familiis, gentibus fiunt; v. anche, per tutti, ad es., Mommsen, Staatsrecht, II, 47 nota 3; Casavola, Studi sulle azioni popolari romane. Le actiones populares, Napoli 1958, 15. Per il resto, basti qui ricordare che le fonti citate nelle note immediatamente successive hanno tutte ad oggetto questioni inerenti alla elaborazione di formulari, relativi a voti solenni o ad altri riti, celebrando i quali la res publica stessa (e non i privati) avrebbe contratto, verso le divinità, impegni ad adottare determinati comportamenti, o comunque rapporti giuridicamente significativi.

 

[54] V. in particolare Liv. 22.10.1; 26.34.12; 29.19.7-8; 29.20.10; 31.9.5-10; 38.44.3-6; 39.4.8-12; 39.5.7-10; 41.16.1-2; Cic. dom. 53.136.

 

[55] V. in particolare Liv. 24.44.7-9; 27.4.15; 27.25.7-10 (ove soprattutto compare la motivazione della decisione adottata); 27.37.4; 27.37.5-15; 30.2.13; 31.9.5-10; 32.1.9; 33.44.1-2; 34.45.7; 37.3.1; 39.5.7-10; 39.16.6-11; 39.22.4; 40.45.2; 41.16.6; Cic. har. resp. 7.13; Att. 4.2.3-4; Hemerelogia, C.I.L. I².212 ss.

 

[56] V. in particolare Liv. 22.10.1; 34.44.1-3; Cic. dom. 53.136.

 

[57] V. in particolare Liv. 22.9.11; 33.44.1-2; 34.44.1-3; 39.5.7-10; 41.16.6; Cic. har. resp. 7.13. Talora un pontefice incaricato dal collegio interveniva anche alla celebrazione della cerimonia, si trattasse di dettare al magistrato le parole per un’esatta nuncupatio della formula del rito (è il cosiddetto praeire verbis, di cui si è già fatto più volte cenno) od assolvere ad altre incombenze, per lo più di carattere simbolico (si pensi al postem tenere in occasione della consacrazione di templi): v. qui, a titolo meramente esemplificativo, Liv. 4.27.2; 5.41.3; 9.46.6; 10.28.14-18; 22.9.7-10.8; 31.9.5-10; 36.2.2-5; 42.28.8-9; Cic. dom. 52.133 e 135; cfr., per es., Paoli, Verba, 297, 300, 316, 319 e nota 81; Santoro, Manu(m), 567 ss.

 

[58] V., sul tema, Franchini, A proposito, 159 ss., con ampia rassegna di fonti e bibliografia.

 

[59] Alludiamo, ovviamente, alle questioni postesi, nel caso concreto, riguardo all’applicazione di norme del ius civile.

 

[60] Facevano probabilmente eccezione, però, quegli atti negoziali che pur dovevano compiersi davanti al magistrato apud quem legis actio est. Per un elenco di fonti relative a questi negozi v. per es. Bona, Ius, 227 note 51-52.

 

[61] Nell’ambito della legis actio sacramenti in rem, in particolare, ed anche a prescindere dal manum conserere e dalla sua evoluzione storica, il pretore appare, come già detto, pienamente coinvolto, per l’attività che deve svolgere, nella struttura formale del rito, come tale preordinata dall’agere sacerdotale, che sembra vincolare lui allo stesso modo delle parti. Il magistrato, infatti, adotta i suoi provvedimenti pronunciando parole che ne presuppongono sempre altre, in precedenza espresse dai contendenti, o addirittura seguono ad un’attività materiale concretamente compiutasi sotto i suoi occhi, come nel caso dell’ordine mittite ambo rem. Cfr., in proposito, naturalmente Gai. 4.16.

 

[62] Cfr., in merito, supra, nt. 57, con le fonti ivi riportate.

 

[63] Su questo punto, v. in particolare Paoli, Verba, 292, 317, anche in riferimento al praeire verbis.

 

[64] Potrebbe anzi ravvisarsi, a nostro avviso, nella struttura stessa di Pomp. D.1.2.2.6, l’implicito riferimento al magistrato: dato il binomio privati-pontefice delegato, è forse possibile enucleare, in posizione dialettica, il binomio pretore-collegio (del quale ultimo, non a caso, Pomponio ha fatto cenno appena sopra, per rilevarne la competenza sulle actiones). Ciò ovviamente non esclude che, nella sfera del processo, potesse essere emesso anche un responso individuale, vertendo inizialmente la questione, ad es., sulle formalità, orali o gestuali, da osservarsi da parte dei soli litiganti privati; ma non è immaginabile che il pretore, le cui incombenze d’altronde erano, come detto, strutturalmente connesse al formalismo delle parti, dovesse poi attenervisi, tanto da rinunciare a consultare personalmente il collegio (il quale primariamente era, lo ricordiamo, organo consultivo dei magistrati, come ampiamente risulta dalle fonti: cfr, in particolare, quelle citate supra, ntt. 54-55). Sul ruolo assolto dal pontefice annualmente delegato, nell’ambito delle legis actiones, v. soprattutto Paoli, Verba, 293, 297, 316, anche in ordine ai rapporti col collegio, cui avrà dovuto in qualche modo riferire (e pur con una discutibile commistione, da noi già in precedenza discussa, fra praeesse e praeeire, di cui il primo può, anche rispetto allo stesso soggetto, implicare il secondo, ma non viceversa).

 

[65] Sull’espressione responsum pro collegio, da intendersi come «responso dato a nome del collegio», v. per es., Cic. dom. 53.136; har. resp. 10.21; Gell. 11.3.2; cfr., per tutti, ad es. Wolf, Comitia, quae pro conlegio pontificum habentur, in Das Profil der Juristen in der europaeische Tradition. Symposion Wieacker, Ebelsbach 1980, 1 ss.; G. Mancuso, Studi sul decretum nell’esperienza giuridica romana, AUPA, 40 (1988), 79 e nota 29.

 

[66] I decreta pontificum erano conoscibili in quanto probabilmente raccolti e conservati nei commentarii, distinti dai libri che invece contenevano formule rituali: per un approfondimento di tale importante questione, che oltre tutto involve quella relativa alla presumibile esistenza di un archivio pontificale, si rinvia soprattutto all’ampia opera di F. Sini, di cui v. qui, per es., Documenti sacerdotali di Roma antica, I, Libri e commentarii, Sassari 1983, 96 ss., ed il recente Sua cuique civitati religio. Religione e diritto pubblico in Roma antica, Torino 2001, 75 ss.; cfr. ad es. L. Lange, Römische Alterthümer³, I, Berlin 1876, 27, 337-338, 347; Paoli, Verba, 315 e nota 76; G.J. Szemler, s.v. Pontifex, RE Suppl., 15 (1978), 364-366.

 

[67] Su questa linea, essenzialmente, Mancuso, Studi, 78-85, che tuttavia, pur individuando intelligentemente la categoria dei responsi collegiali non resi esecutivi dal senato, attribuisce ad essa una ampiezza forse eccessiva, non approfondendo l’indagine allo scopo di meglio illustrare in quali casi fosse, presumibilmente, previsto l’esperimento di tale procedura semplificata.

 

[68] V. Gai. 4.11, che è poi, lo ricordiamo, la fonte medesima che riferisce del responso su vites ed arbores.

 

[69] Tale espressione ricorre frequentemente nelle fonti, specie laddove si riferisce degli avvicendamenti annualmente verificatisi all’interno dei collegi: v. qui, per es., limitatamente ai pontefici ed al periodo compreso fra il 218 ed il 167 (quello per cui esiste il maggior numero di testimonianze in proposito), Liv. 25.2.1-2; 26.23.7-8; 41.21.8-9; 42.28.10-13.

 

[70] Sul particolare, quasi autonomo rilievo acquisito dalla interpretatio pontificale in materia processuale si sofferma, talora, la dottrina (v. ad es., significativamente, Guarino, Una palingenesi delle XII Tavole?, «Index», 19 (1991), 228); anche se non manca chi giustamente sottolinea (v. per es. Amirante, Famiglia libertà città nell'epoca decemvirale, in Società e diritto nell' epoca decemvirale (Atti Copanello 1984), Napoli 1988, 67-71) che vi erano nessi storici e genetici fortissimi fra i tria iura menzionati da Pomp. D.1.2.2.6, i quali concorrevano tutti a formare il ius civile inteso come nomen commune.

 

[71] In questo senso, per es., già a suo tempo Wlassak, Die klassische, 102.