N. 4 – 2005 – Contributi

 

 

QUALE FUTURO COSTITUZIONALE PER IL SENATO E PER IL PROCEDIMENTO LEGISLATIVO?

 

Tommaso Edoardo Frosini

Università di Sassari

 

 

1. Dell’intero progetto di riforma costituzionale all’esame del Parlamento, quello concernente la modifica del bicameralismo, con la previsione del Senato federale della Repubblica, è, paradossalmente, il più auspicato ma allo stesso tempo il più criticato. Perché si vorrebbe, mi sia concesso dirlo con una battuta, la botte piena e la moglie ubriaca. Va detto subito, allora, che la modifica del bicameralismo italiano può non passare necessariamente attraverso la creazione di una seconda Camera come quella tedesca, cioè il Bundesrat, che è composta da delegati nominati (e revocati) dai governi dei Laender. Ammesso e non concesso che questa sia la soluzione giusta, va detto che il Senato italiano ha una sua storia, una sua tradizione costituzionale che non può essere radicalmente azzerata per farne una sede di esclusiva rappresentanza di soli (e semplici) delegati regionali. Sarebbe pertanto opportuno, anche per ragioni di carattere istituzionale, che il Senato, sia pure “federale”, non diventasse mero usbergo di «invalidi della Costituzione», per riprendere la bruciante definizione di Luigi Palma (risalente al 1869, e riferita proprio alla riforma del Senato dell’epoca). Quindi, dal punto di vista della salvaguardia della tradizione costituzionale del Senato e non solo, va detto che il progetto di riforma dello stesso, quantomeno nella parte relativa alla sua composizione, è forse il meno traumatico che si poteva immaginare, ma allo stesso tempo non tiene conto di alcune esigenze di cambiamento. Vedremo più avanti nel dettaglio cosa prevede il progetto di riforma, sia per quanto riguarda composizione e organizzazione del Senato federale sia per quanto riguarda i procedimenti legislativi che lo chiamano direttamente in causa. Prima però voglio provare a dare risposta a un interrogativo, che sta a fondamento stesso del tema oggetto di questa relazione: quali sono, specialmente oggi, le ragioni che inducono a volere una riforma del bicameralismo, con l’introduzione di una seconda Camera che sia il più possibile rappresentativa delle autonomie territoriali ma che non svilisca del tutto la sua funzione parlamentare? Qui mi limiterò a dare delle rapide risposte, indicando almeno quattro tra gli argomenti più significativi.

 

1.1. Il primo argomento è quello relativo alla riforma del Titolo Quinto della Costituzione, avvenuta come noto nel 2001, con la ripartizione delle competenze legislative fra Stato e Regioni e con la fissazione di un largo catalogo di materie concorrenti; da qui, l’esigenza di collocare forme di rappresentanza regionale in una delle due Camere parlamentari, per consentire la partecipazione alla determinazione della potestà legislativa in favore della periferia, ed evitare il perpetuarsi di conflitti di attribuzione tra lo Stato e le Regioni sulla rivendicazione delle competenze, che costringe la Corte costituzionale a svolgere un ruolo di supplenza legislativa «non richiesto e non gradito».

 

1.2. C’è poi l’argomento della forma di governo: infatti, solo superando l’attuale bicameralismo paritario è possibile modificare (come si dice di voler fare) la forma di governo parlamentare nel senso del cosiddetto premierato, che esclude il Senato dal circuito fiduciario, di cui rimane unica titolare la Camera dei deputati. Togliendo il Senato il potere fiduciario non solo si rende possibile il premierato, ma si evita il pericolo (come nel 1994) della formazione di maggioranze diverse nelle due Camere.

 

1.3. Il terzo argomento è quello che ha una sua forza costituzionale, per così dire. Infatti, l’esigenza di trasformare una delle due Camere in una Camera delle autonomie territoriali la troviamo in una legge costituzionale, la n. 3 del 2001, all’art. 11: laddove, si provvede a riformare la Commissione bicamerale per le questioni regionali accrescendone i poteri e prevedendo l’inserimento di rappresentanti delle autonomie locali ma «Sino alla revisione delle norme del Titolo I della Costituzione». Si tratta quindi di una sorta di “promessa costituzionale”, un impegno che il legislatore costituzionale ha preso con se stesso di riformare l’attuale bicameralismo paritario rendendolo differenziato.

 

1.4. Infine, il quarto e ultimo argomento è quello del federalismo, e si riferisce al tipo di Stato che si vuole costruire. Sul punto, va detto che nonostante vi sia una diffusa incertezza sulla qualificazione giuridica del federalismo c’è invece una costante certezza sull’organizzazione dello stesso, e cioè che tutti gli Stati più o meno federali, ovvero al loro interno significativamente decentrati, prevedono una seconda Camera rappresentativa delle autonomie territoriali. A questo dato certo ci si arriva agevolmente per il tramite della ricerca comparatistica. Infatti, se si esamina la struttura del bicameralismo negli Stati federali, si giunge alla conclusione che una delle due Camere del Parlamento è finalizzata a dare la rappresentanza agli enti territoriali, ovvero quegli enti che hanno potestà legislativa. Le differenze, semmai, riguardano i criteri di scelta dei rappresentanti e le competenze a essi assegnate. Anche se, a questo proposito, occorre puntualizzare un aspetto: una Camera rappresentativa delle autonomie territoriali diventa tale non tanto e non solo perché è composta da rappresentanti degli enti decentrati, ma piuttosto per le funzioni che essa è chiamata a svolgere. La partecipazione al procedimento di formazione di alcune leggi, infatti, è da ritenersi l’attività costituzionalmente più rilevante delle Camere delle autonomie territoriali; poi vengono le attività esecutive, di controllo e di nomina. La partecipazione al procedimento legislativo è il dato comune a tutte le Camere rappresentative delle autonomie territoriali; non c’è invece comunanza per quanto riguarda le forme della rappresentanza. Infatti, attraverso un rapido sguardo comparatistico, possiamo rilevare la presenza di almeno tre modi di rappresentare. Quella in cui i rappresentanti degli stati coincidono con i loro esecutivi, in quanto da questi nominati e revocati e scelti tra i membri degli stessi esecutivi, secondo il modello del Bundesrat tedesco; quella in cui rappresentanti degli stati sono eletti a suffragio universale da parte della popolazione del singolo stato, secondo il modello del Senato statunitense (dopo l’emendamento del 1913); e quella in cui i rappresentanti degli stati sono eletti dai Parlamenti degli Stati membri, ma non necessariamente appartenenti ai Parlamenti stessi, secondo il modello del Bundesrat austriaco. C’è anche un quarto modo di rappresentare del tipo misto, elezione e nomina, che troviamo in Spagna e in Belgio.

 

1.5. Dal modo in cui vengono a essere componenti della Camera rappresentativa delle autonomie territoriali ne discendono, poi, una serie di problemi, che qui mi limito solo ad accennare. C’è il problema del mandato imperativo: è chiaro che i componenti nominati dai governi territoriali hanno il vincolo di mandato, sono chiamati cioè a svolgere la loro attività secondo un mandato ben preciso che li vincola all’organo che li ha nominati; essi non rappresentano il territorio ma piuttosto il governo dello Stato membro, e non è certo la stessa cosa. Ben diversa è la situazione di coloro i quali sono eletti dal corpo elettorale, e in parte anche coloro che sono eletti dai Parlamenti degli Stati membri: qui il vincolo di mandato si affievolisce, perché l’elezione postula una certa forma di libertà dell’agire politico (al limite si può prevedere il recall); essi sono chiamati semmai a rispondere del loro operato presso l’elettorato, ovvero presso i Parlamenti che li hanno eletti. Il legame col territorio c’è ma non è diretto, perché viene ad essere filtrato attraverso l’elezione. Nel caso del sistema austriaco poi, l’elezione da parte dei Parlamenti dei singoli Stati fa emergere chiaramente i rapporti di forza partitica presenti all’interno dell’Assemblea legislativa del singolo Land.

Infine, un cenno relativo all’organizzazione delle seconde Camere negli Stati federali, è quello sul numero dei rappresentanti assicurati a ciascuna entità. Qui, la dottrina, soprattutto quella tedesca, ha elaborato una concezione fondata su due criteri: quello aritmetico, secondo cui ciascun ente statale ha un uguale numero di rappresentanti, e quello geometrico, secondo cui il numero dei rappresentanti varia in ragione della popolazione e/o del territorio dello Stato membro. La questione non è di poco conto, ed investe un profilo del rapporto fra federalismo e democrazia. E’ chiaro, infatti, che laddove si privilegia il criterio aritmetico, si calca maggiormente su una maggiore espansione del principio federale; viceversa, il criterio geometrico si fonda sul principio democratico, dove ognuno conta per quello che vale come popolazione e come grandezza del territorio.

 

 

2. Sono questi, sia pure a grandissime linee, alcuni dei problemi relativi a una seconda Camera rappresentativa delle autonomie territoriali. E sono altresì gli argomenti che spingono nel senso di una significativa modifica dell’attuale sistema bicamerale italiano. Ma sono anche gli argomenti che riscontriamo nel progetto di riforma costituzionale che sta nascendo in Parlamento? Prima di elencarli ed esaminarli, voglio però dire una cosa. Il processo di riforma ha già prodotto un primo risultato non trascurabile, che è quello di aver diffuso e fatto acquisire la consapevolezza della necessità ed inderogabilità della riforma del Senato. Dal punto di vista della cultura parlamentare, si è entrati nell’ordine delle idee che il Senato così come è non ci sarà più, perché cambierà le sue competenze e (forse) la sua rappresentanza. Ho l’impressione che questo aspetto cominci concretamente ad essere avvertito soprattutto dai senatori, cioè coloro che sarebbero “naturalmente” restii a cambiare il Senato e cedere così le loro prerogative. E questo mi sembra un passo avanti, che in qualche modo stempera il noto paradosso delle riforme costituzionali.

Certo, al cambiamento deve poter corrispondere la riuscita di un nuovo assetto bicamerale che soddisfi le esigenze del sistema federale italiano. E qui veniamo ad esaminare cosa prevede il progetto di Senato federale della Repubblica.

 

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3. Inizio con la composizione: i senatori eletti sarebbero 252, e quindi un numero ridotto rispetto agli attuali (art. 57, comma 2, Cost.-Cam. [sigla che uso per indicare il d.d.l. approvato dalla Camera il 15.10.2004]), ai quali però andrebbero aggiunti 2 rappresentanti per ogni Regione e 2 per ciascuna Provincia autonoma del Trentino Alto-Adige per un totale di 42, eletti, rispettivamente, dal Consiglio regionale e dal Consiglio delle autonomie locali (art. 57, comma 6, Cost.-Cam.). Certo, i 42 rappresentanti di provenienza territoriale, come afferma il disegno di legge, «partecipano all’attività del Senato federale senza diritto di voto, secondo le modalità previste dal suo regolamento», ma nella composizione complessiva del Senato si vanno a sommare ai 252, e quindi avremo 294 senatori in tutto (quindi soltanto 19 in meno degli attuali). Tralascio di esaminare, e mi limito solo a evidenziarlo, i problemi che potranno sollevarsi con riferimento allo status dei 42 rappresentanti regionali in Senato: se, cioè, dovranno essere considerati senatori a tutti gli effetti, e quindi godere di tutte le prerogative parlamentari; e così pure se potranno concorrere alle attività di nomina, per esempio dei giudici costituzionali, oppure se potranno essere tra coloro che vanno a comporre l’Assemblea della Repubblica che elegge il Presidente della Repubblica. Per quanto riguarda i 252 senatori, che potremmo chiamare pleno iure, questi verranno eletti in ciascuna Regione contestualmente all’elezione del rispettivo Consiglio regionale (art. 57, comma 2, Cost.-Cam.). Ciò significa che il Senato non sarà più un organo intermittente, a durata prefissata, come la Camera, ma piuttosto diventa un organo continuo, i cui componenti sono eletti contestualmente all’elezione dei consigli regionali (o provinciali nel caso delle Province autonome) e rimangono in carica sino alla data di proclamazione dei nuovi senatori della medesima Regione o Provincia autonoma. Si avrà, in tal modo, non più una vera e propria elezione del Senato, ma piuttosto l’elezione di “gruppi” di senatori di una o più Regioni. Questo meccanismo della contestualità elettorale fra senatori e consigli regionali potrà anche non convincere, perché ritenuto debole ai fini della creazione di una autentica rappresentanza territoriale nel Senato; va però detto che bisognava assolutamente trovare un sistema che collegasse i senatori al territorio, affinché si sentissero espressione di quel territorio; visto e considerato che la nomina degli stessi da parte dei governi regionali – modello Bundesrat tedesco – era realisticamente molto difficile da realizzare (ammesso e non concesso che questa sia la soluzione migliore). L’elezione contestuale è un metodo originale, che dovrà essere rafforzato dalla prassi, che talvolta è più efficace della norma scritta, la quale potrà contribuire a rendere politicamente forte il legame senatori-consigli regionali, in quanto si verrà a creare un rapporto di reciproca solidarietà e di vicendevole sostegno politico, che potrà indurre a rendere maggiormente omogenee le rispettive opinioni. A proposito della elezione contestuale si rilevano qui alcune incongruenze tecniche relativamente alla corretta applicazione del meccanismo della contestualità, in quanto contrastante con la norma (art. 57, Cost.-Cam.) che sancisce il numero fisso di senatori, pari a 252, e quella che impone il rispetto della proporzione tra seggi e popolazione di ogni Regione (art. 56 Cost.-Cam.). In pratica, in un sistema in cui i senatori cessano dalla carica a “gruppi regionali” – in quanto collegati alla scadenza dei rispettivi consigli regionali – non sembra possibile conciliare il numero fisso di 252 senatori e la distribuzione proporzionale seggi-popolazione. Faccio un esempio per chiarire meglio la questione: se si procede al rinnovo del consiglio e dei soli senatori della Regione X dopo un censimento di popolazione che abbia registrato un aumento di popolazione tale da dar luogo a un ulteriore seggio, che succede? Se si aumenta di uno i seggi spettanti alla Regione X, si avrà un Senato con 253 senatori in violazione dell’art. 57 che impone il numero fisso di 252. Se, viceversa, non si aumenta di un seggio la delegazione dei senatori, viene a essere violata la norma che impone la proporzione fra seggi e popolazione. Insomma, un rebus…

Ci sono poi altri aspetti che riguardano la futura composizione del Senato federale: come la eliminazione dei senatori a vita trasferiti, per così dire, alla Camera dei deputati (art. 59, comma 1, Cost.-Cam.), così pure l’abolizione dei senatori eletti dalla circoscrizione estero. E’ stato poi leggermente aumentato il numero minimo di senatori per ogni Regione, da 5 a 6 (art. 57, comma 4, Cost.-Cam.); mentre invece è stato diminuito il limite anagrafico per l’elettorato passivo: pertanto per essere eletto senatore basterà avere 25 anni (art. 58, Cost.-Cam.). Resta, poi, sullo sfondo il problema di quale sistema elettorale vigerà per l’elezione dei senatori. In una prima versione, il progetto di riforma costituzionale aveva previsto, e quindi costituzionalizzato, il sistema proporzionale quale formula elettorale per l’elezione dei senatori. Questo esplicito riferimento è stato ora opportunamente tolto, e quindi spetterà al legislatore individuare il meccanismo elettorale, che dovrà comunque essere uno che «garantisce la rappresentanza territoriale da parte dei senatori» (come afferma l’art. 57, comma 3, Cost.-Cam.). Infine, i senatori, come anche i deputati, non rappresenteranno più soltanto la Nazione ma anche la Repubblica, secondo un’originale novella dell’art. 67 Cost.-Cam.

 

 

4. Vengo ora a esaminare le competenze del Senato federale, con particolare riguardo ai procedimenti legislativi. C’è da dire subito, che il nuovo art. 70 Cost.-Cam., così come delineato nel progetto di riforma, mette in moto un procedimento legislativo assai complesso, il cui unico pregio è quello che di prevedere un inizio e una fine e quindi superare in tal modo la tradizionale difficoltà dell’attuale procedimento legislativo che, nella navette tra Camera e Senato, può non finire mai. Certo, si fa fatica a leggere l’articolo per intero, anche perché è scritto male ed è eccessivamente lungo e macchinoso nel suo sviluppo normativo. Si tratta di un procedimento legislativo “tripartito”, per così dire, in quanto si prevedono tre categorie di leggi con tre diversi iter legislativi: a) le leggi a prevalenza Camera; b) le leggi a prevalenza Senato; c) le leggi bicamerali. La tripartizione del procedimento legislativo è determinata, in maniera fondamentale, dal contenuto del disegno di legge, che è il parametro per la scelta del tipo di procedimento da adottare (nonché per la prevalenza o meno di una Camera).

Provo a sintetizzare.

 

4.1. Le prime, cioè le leggi a prevalenza Camera, sono quelle che la Camera dei deputati esamina per prima e sulle quali ha l’ultima parola; il Senato può proporre modifiche, entro 30 giorni, sulle quali spetta alla Camera decidere in via definitiva. Si tratta di leggi su tutte le materie di competenza esclusiva statale (di cui all’art. 117 Cost.), salvo quelle relative ai c.d. livelli essenziali, ai fondamenti sugli enti locali e ai sistemi di elezione di Camera e Senato, che sono invece di competenza bicamerale.

 

4.2. Le seconde, cioè le leggi a prevalenza Senato, sono del tutto speculari a quelle prevalenza Camera anche come iter legislativo, salvo che per esse si prevede un eventuale procedimento di speciale “fiducia indiretta”: ovvero, il Governo ha la possibilità di intervenire per far prevalere il proprio convincimento con uno speciale procedimento, su un disegno di legge che sarebbe altrimenti a prevalenza Senato. Si tratta di un procedimento complesso, che può addirittura chiamare in causa il Presidente della Repubblica obbligandolo a prendere una decisione politica, che sarebbe in contrasto con il ruolo di garanzia che proprio il progetto di riforma costituzionale gli assegna. L’intervento governativo che prevale sul Senato, comunque, può essere esercitato “in positivo”, cioè al fine di imporre al Senato, che non lo vuole, un testo che realizza il programma di governo, e “in negativo”, per così dire, cioè per contrastare il Senato che vuole un testo ritenuto lesivo di interessi unitari vitali. Va altresì detto, che le leggi a prevalenza Senato riguardano tutte le materie di competenza concorrente (ex art. 117 Cost.), quelle che recano i principi fondamentali nelle materie, per il resto, di competenza regionale. Certo, il problema poi è la definizione, assai controversa, di cosa siano i “principi fondamentali”: non c’è, infatti, nell’ordinamento e nella giurisprudenza costituzionale, una definizione certa e univoca.

 

4.3. Infine, le terze categorie di leggi, cioè quelle bicamerali, sono quelle che richiedono il concorso paritario della Camera e del Senato. Si tratta di 25 tipologie di leggi bicamerali, che vi risparmio l’elencazione e vi rimando alla non facile lettura dell’art. 70, comma 3, Cost.-Cam., che non è affatto chiaro anche perché obbliga a un continuo rinvio ad altri articoli della Costituzione, dove vi è un’espressa riserva di legge dello Stato o della Repubblica. Questo procedimento delle leggi bicamerali consente, in taluni casi, al Senato di svolgere una significativa funzione di garanzia, come per esempio per le leggi elettorali o per le funzioni fondamentali dei Comuni, ovvero di coordinamento, nel caso per esempio delle reti di comunicazione o della ricerca scientifica. C’è da dire però, che in altri casi il procedimento bicamerale si interferisce – come per la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali – nell’esercizio di una delicata funzione di Governo, che non può essere sottratta al circuito corpo elettorale-Camera dei deputati-Governo.

Non è finita. C’è una sorta di ulteriore procedimento legislativo, sia pure eccezionale. E’ quello che prevede, qualora un disegno di legge non fosse approvato dalle due Camere nel medesimo testo, l’intervento del Presidente della Camera e del Senato, i quali, d’intesa tra loro, possono convocare una commissione di 30 deputati e 30 senatori incaricata di proporre un testo unificato da sottoporre al voto finale delle due Assemblee. C’è da dire, inoltre, che la decisione dei presidenti o della commissione non è sindacabile in nessuna sede. Questo è un punto giuridicamente delicato, per le conseguenze che l’esatta definizione del suo ambito ha con il rapporto tra decisione sulla questione di competenza ed eventuale sollevazione di un giudizio di costituzionalità per vizi di procedura.

Vi è inoltre da riferire come sulla funzione legislativa del Senato federale incombe la figura e il ruolo della Conferenza Stato-Regioni, che è stata costituzionalizzata assegnando a essa il compito di «realizzare la leale collaborazione e promuovere accordi e intese» (art. 118, comma 3, Cost-Cam.). C’è la possibilità concreta, allora, che sia questo organo, e non il Senato federale, a svolgere la funzione di mediazione, determinando il contenuto di iniziative legislative e conseguentemente svuotando di significato la sede parlamentare. Il rischio che si venga a creare una sorta di tricameralismo, per giunta conflittuale, non appare poi così lontano…

 

 

5. Intendo ora far cenno, sia pure rapidamente, ad alcune questioni concernenti i rapporti tra Senato federale e gli altri organi costituzionali.

 

5.1. Senato federale e Presidente della Repubblica: a parte l’elezione di questo ultimo per il tramite di una Assemblea della Repubblica della quale fanno parte i 252 senatori eletti ma non, a mio avviso, i 42 senatori di provenienza territoriale, c’è da rilevare come il Presidente del Senato, che continua a essere il Presidente della Repubblica supplente, potrebbe decadere dalla carica di senatore, in relazione alle vicende del Consiglio della Regione di riferimento, anche durante l’esercizio delle funzioni vicarie del Presidente della Repubblica, e queste dovranno essere assunte dal vice Presidente vicario del Senato. Sarà pure un’ipotesi di scuola, ma merita di essere evidenziata anche per la sua stravaganza.

 

5.2. Senato federale e Governo: ho già detto con riferimento al procedimento legislativo e alla forma di “fiducia indiretta”, e va ribadito il fatto che non vi è nessun collegamento fiduciario tra Governo e Senato federale, e correlativamente la possibilità di scioglimento di questo ultimo. Certo, il Primo Ministro illustra il programma di legislatura e la composizione del Governo a entrambe le Camere, e quindi anche in Senato, ma solo la Camera dei deputati si esprime con un voto sul programma. Infine, per quanto riguarda il sindacato ispettivo non è affatto chiaro se questo possa esercitarsi, da parte del Senato federale, anche su materie esterne a quelle concorrenti, sui cui il Senato è competente in prima lettura.

 

5.3. Consiglio Superiore della Magistratura, Corte costituzionale e Senato federale: questo ultimo interviene nel momento della elezione di una parte dei componenti dei due organi. In particolare, per quanto riguarda il CSM, il Senato elegge un sesto dei componenti (altrettanti li elegge la Camera dei deputati); mentre per quanto riguarda la Corte costituzionale, il Senato procede all’elezione di 4 giudici (invece 3 ne elegge la Camera) e lo fa in una composizione dell’Assemblea rinnovata con l’integrazione dei Presidenti delle Giunte regionali e delle Province autonome di Trento e Bolzano. Si fa fatica a capire le ragioni di una simile innovazione.

 

 

6. Vengo ora a svolgere alcune considerazioni finali. Prima però voglio sottolineare un aspetto che non è affatto da sottovalutare, ed è quello riferito alle disposizioni transitorie al disegno di legge di riforma costituzionale. Si tratta, infatti, di 5 articoli, alcuni con diversi commi, di non facile comprensione. Pensate solo alle variabili dell’entrata in vigore della riforma costituzionale, che può essere stratificata temporalmente in più stadi. E poi, con particolare riguardo all’elezione dei senatori federali, che dovranno calibrarsi con le elezioni dei rispettivi Consigli regionali. Uno scenario che si potrebbe avere è il seguente: nel 2011 si svolgeranno le elezioni per la prima legislatura del Senato federale composto ancora da 315 membri, e i consigli regionali, eletti nel 2010, in carica orientativamente alla fine del 2013, saranno prorogati fino al 2016. Sarà questo l’anno in cui dovrebbe partire, a regime, il nuovo Senato federale composto da 252 membri eletti contestualmente ai Consigli regionali. Insomma, se tutto va bene, il Senato federale della Repubblica lo avremo tra 11 anni.

Debbo dire che proprio questa data di entrata in vigore del Senato federale così distante, finisce con l’attutire e smorzare le critiche che si potrebbero muovere al progetto. Pare difficilissimo, infatti, immaginare che tutto si possa fermare e nulla venga a essere modificato fino al 2016, anno di inizio del nuovo Senato federale. Come dire, è molto più facile prevedere, piuttosto, ulteriori cambiamenti o sostanziali ripensamenti (o bocciature nel caso di un referendum confermativo) tali da stravolgere il progetto oggi in discussione.

 

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Detto questo, mi limito a svolgere una considerazione di massima, che è la seguente. Per la sua composizione e per le sue funzioni il Senato federale sembra configurarsi come un organo politico specializzato nel trattare le questioni regionali. Il bicameralismo che si vorrebbe far nascere, pertanto, sarebbe in realtà un bicameralismo per specializzazione o funzionale più che un bicameralismo a rappresentanza differenziata. Il che potrebbe non essere un problema. Ma qui occorre segnalare le incongruità che si annidano nella parte relativa alle competenze del Senato federale; specialmente perché queste riguarderebbero tutta la legislazione statale concorrente ex art. 117 Cost.. Tenuto conto che il Senato non dovrebbe essere più una Camera politica, assegnandogli questa estesa competenza si corre il concreto rischio di far nascere un doppio monocameralismo, in luogo dell’attuale bicameralismo paritario. Infatti: con una mano si sottrae il Senato dal rapporto fiduciario con il Governo mentre con l’altra gli si affida l’ultima e decisiva parola sulle leggi relative alla determinazione dei principi fondamentali nelle materie di legislazione concorrente. Una competenza questa, che sarebbe più opportuno se venisse assegnata alla Camera, dal momento che si tratta di materie relative alle politiche di settore assai significative per l’indirizzo politico di Governo. Immaginare un Senato federale quale organo di contrappeso istituzionale alla maggioranza – ispirandosi così alla recente tesi di Bruce Ackerman sulla nuova separazione dei poteri – vorrebbe dire auspicare continue e ripetute forma di conflittualità che ferirebbero gravemente il parlamentarismo e la governabilità.

Certo, il concreto atteggiarsi del Senato federale nell’assetto costituzionale sarà anche, e forse soprattutto, affidato al principio di effettività, al suo dispiegarsi nella Costituzione in senso materiale. Solo così il Senato e i senatori si potranno conquistare un preciso ruolo nell’ordinamento, e scacciare l’incubo di diventare gli «invalidi della Costituzione».

 

 

NOTA BIBLIOGRAFICA

 

ACKERMAN B., La nuova separazione dei poteri, tr.it., ed.Carocci, Roma, 2003 (su cui v. la mia recensione critica in Diritto pubblico comparato, n.2, 2003);

 

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LIPPOLIS V., Bicameralismo e Senato federale, in Nuovi studi politici, n.3/4, 2004;

 

NICOTRA I., Il Senato federale nel Testo di riforma della seconda parte della Costituzione, in  Forumcostituzionale.it , 2004;

 

SALERNO G., Brevi note sulla composizione e sull'organizzazione del Senato federale nel ddl Cost. approvato, con modificazioni, dalla Camera dei Deputati, in federalismi.it , n.21, 2004.