N. 4 – 2005 – Memorie

 

 

Piero Bellini

Università di Roma La Sapienza

 

La rinuncia alla utopia.

Considerazioni critiche sulla “guerra lecita” della tradizione pubblicistica cattolica*

 

* Pubblicato ne Il Ponte, marzo-aprile 2003, 43-56.

 

1. – Addebito severo che penso possa e debba muoversi a una Religione di Salvezza [quale vuol esser quella ascritta alla predicazione del Cristo Redentore] è di non essersi negata – nel volgere dei secoli – ai richiami d’un “ponderato realismo”: d’essersi diffusamente accomodata – nel corso d’una vicenda millenaria – alle occorrenze della storia: cosí mancando di recar a effetto [nella pienezza dei suoi tratti] il programma di profonda rigenerazione spirituale di cui pure la predicazione del Cristo Redentore s’era fatta patrocinatrice perentoria. E’ proprio delle Religioni di Salvezza [dico di quelle che, in grazia d’una più elevante vocazione, intendono supplire al senso di angoscia e frustrazione, o scontentezza, quale dagli uomini avvertito nella grigia quotidianità del loro vivere] è proprio delle Religioni di Salvezza di pretendere dagli uomini un che di più impegnante (e di diverso) rispetto agli ordinari moduli di vita. E a esigere una intensa mutazione esistenziale (in coloro che ripongono nel Verbo la propria speranza di riscatto) è – con segnata evidenza – il Cristianesimo evangelico del Sermo super montem. Esso reclama – negli uomini toccati dalla fede – una disposizione psicologica (e una condotta pratica) di singolare tensione etica, e singolare compromissione numinosa: cosicché ne siano spinti a sopravanzare – in un fervente slancio mistico – i termini della naturalità propria dell’uomo.

 

2. – Non si tien fermo il primigenio Cristianesimo evangelico [se lo si prende in questa sua severità] alla “deontologia naturalistica” del Vecchio Patto, commisurata all’ordinarietà delle occorrenze umane. Dico della “legge morale naturale” [«praticabile dall’uomo»: né «troppo alta», né «troppo lontana»] valevole per il primo Popolo di Dio: per quei Figlioli d’Israele [tutt’altro che insensibili alle vicissitudini del secolo] che del mundus hic – vissuto alla maniera teopolitica – avevano una visione discosta alquanto dall’austero escatologismo apocalittico del primo Cristianesimo. “Lasciti vetero-testamentari” sono difatti i capisaldi [«ama il prossimo tuo come te stesso»; «non fare agli altri quanto non vorresti che gli altri ti facessero»] intorno ai quali – per dirla alla maniera canonistica – s’articola il sistema normativo del «ius naturae quod in Lege continetur». Bensí li cita – il Salvatore – detti canoni, e li dice degni di rispetto: ma premurandosi appunto di assegnarli all’economia del Vecchio Patto. Egli esplicitamente li menziona come mandati pre-evangelici: da ascrivere alla lex mosayca, e al testimonio dei prophetae. Quello che il Cristo a Sé attribuisce [quello che Egli chiama «Suo» precetto: «praeceptum meum», «mandatum novum»] è piuttosto il monito – tremendamente serio – [diretto ai Suoi discepoli: ai Suoi «amici»] di amarsi l’un l’altro con singolare intensità: non «come se stessi», «più ancora» invece che se stessi. «Do a voi un mandato nuovo: che vi amiate a vicenda come io vi ho amato». E il Cristo è giunto a amarli – i Suoi discepoli, i Suoi amici – sino a votare ad essi la Sua stessa vita.

Né vale – aggiunge ancora il Nazareno – portare il proprio amore solo a quelli che ci sono amici. Di ciò sono capaci anche i Gentili: e lo sono gli stessi più impenitenti peccatori. Pur essi amano coloro che li amano. Quanto per contro si richiede ai seguaci del Cristo [e qui il «naturalismo deontologico vetero-testamentario» appare decisamente superato] quanto ai Cristiani si richiede è di portare il proprio amore a quegli stessi che gli sono avversi: che giungono sin a odiarli. Quale dal Cristo intesa, la dilectio proximi appare affrancata dai condizionamenti “etnici” e “politici” della religiosità dell’Ebraismo: ed affrancata da qualsiasi concessione a “reciprocità delimitanti“. Il «prossimo» – al quale si deve portare la dilectio – non è soltanto «il più vicino»: non è solo «colui che c’è fratello»: «figlio dello stesso popolo». Né solo è quegli (lo ripeto) che ci ricambia del suo affetto. «Prossimo» – nella versione evangelica della veneranda regola ebraica – è più generalmente quel «qualunque altro» nel quale (anche casualmente) ci s’imbatta: appartenga – pur questi – ad altra famiglia umana [alla stessa mal sopportata Samaria]; risponda – pur egli – con odio al nostro amore. «Voi avete udito che fu detto “ama il tuo prossimo e odia il tuo nemico”. Ma io vi dico: “amate i vostri nemici, e pregate per quelli che vi perseguitano”». Questo il quid proprium [questo il quid novum] del rivoluzionamento etico evangelico.

Ripudia l’etica evangelica [sempre che la s’intenda nella severità palingenetica delle sue espressioni originarie] la logica retributiva dei rigidi canoni legali “oculum pro oculo”, “dentem pro dente”. Giunge – anzi – a respingere lo stesso principio naturalistico della auto-tutela personale [«vim vi repellere licet»] al quale contrappone l’alto principio soprannaturalistico di non opporsi punto all’aggressione: del «non resistere malo»: sino – addirittura – a offrire l’altra guancia a colui che ci schiaffeggia.

 

3. – Di qui la prospettazione d’una «morale eroica»: diciamo «utopica»: addirittura «folle». La quale [“individualmente nobilissima”, ma “socialmente impraticabile”] mostra – per sé – di disattendere il «criterio bilanciante» che per forza di cose sovrintende alla relazionalità comunitaria: quello d’una «commisurazione ponderata» [d’una proporzionata “aequatio”] degli interessi personali in gioco, quali si presentano coordinati o contrapposti nelle diverse fattispecie di vita reale. Questa «impostazione calibrata» [tale da corrispondere alle istanze d’una deontologia naturalistica fondata su un equo contemperamento pratico dell’amor sui con la dilectio proximi] questa impostazione calibrata mostra di lasciar il passo – nella logica catartica evangelica – a un criterio spiritualistico più intenso, di soprannaturale orientazione: tale – in definitiva – da risolversi nel privilegiamento dell’«amore per l’altro» rispetto all’«amore per se stessi». Col che [con questo «eccesso di altruismo»] si vien appunto a pretermettere un non preteribile fattore di “socialitas”: giacché [quanto che sia lodevole in ragione dell’avanzamento spirituale di ciascun soggetto] quella rinuncia al “suum particulare” sarebbe proprio tale – ove indistintamente distribuita nell’ambito comunitario generale – da render impossibile l’instauramento d’innumerevoli rapporti interpersonali: di quelli – almeno – che si fondano sull’incontro pratico d’un “dare” e d’un “ricevere”.

E’ – questa – una preoccupazione societaria dalla quale può ben astrarre [per via della sua stretta ordinazione escatologica] l’etica soprannaturalistica evangelica. Radicalmente si distacca – il Cristianesimo evangelico – dal “teocratismo” ebraico: da quell’economia “totalizzante” che – del Volere imperativo di «Colui che è» – fa la legge non solamente “religiosa” ma “civile” di tutta intera l’esperienza del Popolo eletto. Esso [il Cristianesimo] le cure del secolo le lascia ai Principi del secolo: «reddite Caesari quae Caesaris». Al “messianismo religioso” ma insieme “politico-mondano” (infra-storico) del Vecchio Patto [attento dalle fortune in terra del Popolo di Dio] sostituisce – il Cristianesimo evangelico – un messianismo tutto invece “spirituale-escatologico”: attento al di là del tempo storico. Esso agli uomini si volge come ad homines viatores: come a semplici “viandanti”, chiamati a una stanza terrena transeunte: ai quali – pertanto – non richiede di spendere i talenti che posseggono per realizzare se stessi in hoc mundo [in ragione delle grandezze de hoc mundo: tutte fuggevoli, fallaci] sí piuttosto chiede di cimentarsi nell’impresa d’una propria intensa palingenesi interiore: ottenuta «per lavacrum regeneratonis et renovationis Spiritus Sancti».

Ne viene – negli ambienti del più rigoroso evangelismo – un distacco [non soltanto psicologico, alla maniera filosofica, ma operativo pratico] dalle res mundanae: spinto sino al «contemptus mundi». Di lì un’estraniazione [non soltanto, pur essa, psicologica] dalla più elevata delle res mundanae: dalla «res publica»: dalla «res populi», come a Roma la si chiamava con orgoglio. Ogni «patria» è al Cristiano «peregrina»: in essa egli risiede «uti inquilinus». Vive sí in terra, ma in cielo ha la sua «civitas».

 

4. – Non poteva [nello spirito di questo escatologismo rigoroso] non seguirne un rifiuto radicale della guerra. A contrastare – frontalmente – il “gladius sanguinis” [e quindi il “gladius bellicus”, che del “gladius sanguinis” è l’espressione più corposa] non valeva soltanto il principio «non occides» della tradizionale deontologia naturalistica: siccome riletto in chiave neotestamentaria: integrato – cioè – dalla condanna della stessa malevolenza che si porti agli altri nell’intimo dell’animo. Né valeva soltanto richiamarsi a tutta la sequela dei moniti evangelici (singolarmente suggestivi) che vengono a formare come un codice di «praecepta mansuetudinis et patientiae», e di «praecepta remissionis»: tali da respingere ogni appello alla violenza, soprattutto se cruenta. E’ cosa – il «venire ad arma» [comunque lo s’intenda] – che frontalmente (e irrimediabilmente) contraddice al grande «praeceptum dilectionis» che presiede dall’alto – non a questo o a quel singolo momento – ma a tutta intera la vita etica cristiana; e che la illumina di sé, qualificandone l’essenza: facendola essere ciò che vuol essere, ciò che è tenuta ad essere. E’ nell’esaltazione piena e ferma della “pax” [della «ordinata concordia hominum»] che tutto il sistema deontologico cristiano trova il suo sbocco conclusivo. Dico d’una “pax” vista non solo nei suoi tratti temporali [siccome condizione necessaria a ciò che gli uomini fra loro possano stabilire una qualunque aggregazione] sí anche in una più pregnante significazione religiosa: in ciò che nella pace venga a esprimersi la partecipazione coscienziale (viva e ferma) delle creature razionali all’ordine impresso alla creazione dalla ratio gubernatrix del Creatore.

“Vera pace” – allora – [«quae est vinculum caritatis»] è quella che si ottiene «secundum dilectionem Dei et proximi». “Vera pace” è la «pax christiana»: quale si raggiunge nella Fede: nella pienezza della sudditanza a Dio.

 

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5. – Sin tanto poteva – una cosí impervia impostazione – mantenere una sua presa sull’ethos ecclesiale storico, sin quando restassero capaci di esercitare un proprio impatto esistenziale le condizioni psicologiche e ambientali che erano valse a avvincere le prime generazioni cristiane e a renderle partecipi di tanto inflessibile rigore. A accreditare una morale tanto “eroica” [a suffragarne una tal quale operatività reale] poteva soltanto provvedere una potente “carica entusiastica”: qual era quella (intrisa di pathos numinoso) vivificatrice del primo Cristianesimo: preso – com’era questo – dalla angoscia d’una incombente “consummatio temporum”, ma posseduto – al tempo stesso – dalla speranza messianica (esaltante: sin fanatica) nel ritorno trionfale – in quel medesimo frangente – del Cristo Signore. E poteva esser disposto ad ubbidire a simili tavole morali [nei loro momenti più scabrosi: negatori di qual si voglia concessione al secolo] solo un «movimento carismatico elitario» che riuscisse a mantenere – nella prassi – una sua «separatezza dal mondo»: nei modi d’una civitas caelestis, ricca d’un proprio codice esclusivo di valori: decisa – di contro al mondo gentile e al mondo ebraico – a “far parte a sé” [siccome “tertium genus”] senza confondersi con la civitas terrena, non d’altro portatrice – si diceva – che di valori effimeri: falsanti. Laddove il protrarsi oltre misura di quell’attesa apocalittica [la «delusione della mancata Parousia»] non poteva non valere – giorno dopo giorno – ad allentare la tensione psicologica (pneumatica) della massa comune dei fedeli: fatta di brava gente, non sempre sorretta [va da sé] dal «forte animo» che spinge a «egregie cose». Né il sempre più lungo “permanere in mundo” dell’ecclesia peregrinans poteva mancare di promuovere un processo di crescente omologazione dell’ecclesia al mundus: a quella realtà mondana che – a dispetto d’ogni vaticinio apocalittico – veniva rivelando la sua durevolezza.

Al movimento cristiano – a questo punto – si presentava una sofferta alternativa, di cruciale impatto fideistico: religiosamente sin drammatica. Gli si imponeva questa impegnante opzione storica: – se doversi tener fermo sulle posizioni del passato [tutto che “utopiche”] istituzionalizzando (se può dirsi) il proprio porsi come «antitesi del mondo»; – o se prender invece a aprirsi, in qualche misura, «verso il secolo»: cercando, stavolta, di raggiungere come una «sintesi col mondo». E fu – questa seconda – la scelta che finì col prevalere nell’ambito del “movimento cristiano principale”. Dico della «megále ekklesía» delle antiche fonti: destinata a formare – in Occidente – l’ecclesia catholica romana. Si trattava di mettere da un canto l’ascetismo espiatorio e purificatorio delle origini: mortificatore delle pulsioni di natura: ché più non s’avvertiva – con l’intensione dei primordi – di dover guardarsi dal mondo: di dover fuggire il mondo senza condiscendenze transattive: «mundus totus in Maligno positus est». Si prendeva a guardar invece al mondo in un’ottica meno incomprensiva: a essere partecipi delle esperienze umane che è dato vivere nel mondo. La si iniziava ad apprezzare – la realtà terrena – nei modi d’un «mondo storico cristiano»: d’un «saeculum christianum»: vivibile – anche se con austerità di disciplina – dallo stesso credente nel Cristo Crocifisso.

Prendeva cosí corpo un “processo metamorfico profondo”: atto a trasformare intimamente il ruolo della nuova religione: a rivedere la sua medesima sostanza. Al «canone ideologico integristico» della reiezione inflessibile d’un mondo intrinsecamente malvagio [irrisanabile affatto] veniva sostituendosi – nell’alveo d’un escatologismo e d’un palingenismo ammorbiditi – il «programma moderato» [spento di spirito eversivo: quasi, diremmo, “riportato in terra”] d’una «emendazione rettificatrice» di quello stesso mondo: venuto bensí degenerando, rimasto tuttavia “ricuperabile”.

 

6. – La «evangelizatio mundi» prendeva cosí il posto del «contemptus mundi». Alla condanna senza scampo del tempo presente subentrava il riconoscimento della “strumentalità” di esso rispetto al tempo a venire. Più non si trattava di «disertare il mondo»: di «abbandonarlo al suo destino». C’era da «riscattarlo»: c’era da «dargli un’anima». E certo – con questo – il Cristianesimo s’assicurava l’avvenire: rimettendosi [a fronte d’un rigorismo fattosi obsoleto] ad una più pacata disciplina etica: sempre – s’intende – di finale incidenza oltremondana, ma attenta – frattanto – a consentire un’ordinata conduzione della quotidianità: a farlo in ragione delle istanze del vivere comune (quanto si voglia misere) a cui tuttavia s’informa l’ordinarietà degli uomini nella ordinarietà dei momenti di vita. Paradossalmente – però – [con questa «rinuncia alla utopia»] il Cristianesimo abdicava alla sua “quidditas”: alla «rivoluzionarietà del suo messaggio» e della sua «carica purificatrice». Abdicava alla «scandalosità della sua testimonianza»: sacrificando alle esigenze della storia un tratto vivo della più significante «specificità evangelica». Inevitabile che l’avvenuta «ecclesializzazione storica» d’una «morale sostenibile» [permeata di senso comune: di “buon senso”] togliesse spazio alla gravezza perentoria d’una «imitatio Christi» vissuta nel ricordo della Follia del Golgota. Riprendeva piuttosto il sopravvento la saggezza degli uomini: quella «sapientia sapientium» e quella «prudentia prudentium» che altro non sono che «stultitia» – ce l’insegna Paolo – a fronte della insondabile Sapienza [«in mysterio abscondita»] di Dio.

Vale riflettere [quando di “folle utopia” si parla: anche da chi non sia partecipe d’una impostazione numinosa] vale riflettere su quanto Paolo stesso aggiunge: essersi il Signore compiaciuto di salvare gli uomini «per stultitiam praedicationis»: quegli uomini che – «per sapientiam» – non erano riusciti a riconoscerLo.

 

7. – A presentarcisi davanti è come un processo metamorfico, che direi di «evoluzione-involuzione»: il quale a un ampliamento pratico della capacità di operazione del Cristianesimo [d’un Cristianesimo ormai stabilmente stanziatosi nel mondo] vedeva corrispondere una progressiva attenuazione della drasticità del movimento e del suo pathos: della sua carica entusiastica. E [in una società terrena dominata da accesi fattori antagonistici] c’era naturalmente da aspettarsi che quel calo di tensione escatologica finisse col far sentire il proprio effetto nel campo stesso di nostro specifico interesse: anche nel quale veniva a imporsi l’esigenza [“normalizzatrice”] d’un “ricupero cristiano” delle consolidate grandezze de hoc mundo. Come nella generalità degli altri casi cosí in questo – sebbene con difficoltà segnatamene serie – la moralistica cristiana [quella di riguardosa ortodossia, devota alla causa della Grande Chiesa] doveva darsi cura di procedere nei modi – mutuati da certa filosofia pratica del mondo civile circostante – d’una ponderata distinzione fra l’«uso» e l’«abuso» che volta per volta venga a farsi dei beni e dei valori del vivere consueto. Si trattava di affrancarsi dalla coerenza perentoria della tesi radicale: «nulla est necessitas delinquendi quibus una est necessitas: non delinquendi». Ma c’era – insieme – da evitare di cadere in un opposto eccesso.

Stavano ad esigere un più transigente atteggiamento le circostanze della storia: specie [s’intende] dopo la pax constantiniana, col susseguente indirizzarsi del ius publicum romanum verso l’assunzione della nova religio a culto ufficiale dell’Impero. Erano – questi – eventi che non potevano mancare di raccomandare al Cristianesimo ufficiale una maggior condiscendenza verso i modi usuali dell’esercizio del potere: incluso il gladius sanguinis, incluso il gladius bellicus. E tuttavia – se c’era da accomodarsi a questi sopravvenuti accadimenti – non lo si poteva fare sino a punto di procedere a una ratificazione cristiana pura e semplice del ius bellicum romanum: il quale – per sua parte – non si dava premura di procedere a una qualche “giustificazione” [né “giuridica”, né ancor meno “morale”] della guerra: del “bellum” quale «de iure gentium introductum».

Non che potessero esser ignorate – beninteso – [dall’incipiente pedagogia politica cattolica] le molte testimonianze evangeliche [«benefacite his qui oderunt vos», «benefacite maledicentibus vos», «benedicite et nolite maledicere»] che fanno – con icastica evidenza – della patientia e della mansuetudo (e cosí della remissio e condonatio) i cardini del vivere cristiano. Nulla appariva tanto avverso alla christiana lex – a voler stare a quelle puntuali attestazioni – quanto la «redhibitio laesionum». «Vim vi repellere licet» – si diceva in tale logica – è proposizione della lex naturae: non è proposizione della lex evangelii. Si trattava – però – di saper leggerle, quelle enunciazioni: di saper farlo con giudizio. E a questa “rivisitazione ponderata” doveva provvedere – con solerzia – tutto uno stuolo di probati auctores. Sicché – ben presto – [a dispetto di quella pretesa limpidezza] l’intellettualità ecclesiastica ufficiale doveva arrivare a negar credito all’ingenua fisima ideologica d’una ricusazione radicale della violenza bellica: per ripiegare [«melius re perpensa»] su posizioni più cedevoli. Si continuava bensí in linea di principio [“in thesi”] a riprovare l’uso cruento della forza. «Regulariter» – doveva ripetersi per secoli – «regulariter bellum iniustum est et damnatum». E tuttavia in sottordine [“in hypothesi”] si consentiva al gladio bellico “casualiter”: in certe fattispecie, e a certe condizioni.

 

8. – Si reputava – in tutto questo – [da una folla di zelanti lectores sacrae paginae] di poter giovarsi specialmente di certi enunciati scritturali del Vecchio Testamento, appositamente riesumati: non importa se alquanto lontani dallo spirito evangelico: né importa se – proprio per questo – contestati da tutta una sequela d’espliciti interventi del Cristo Redentore. Questi – è vero – ai lasciti d’un tempo [«Audistis quia dictum est»] reiteratamente contrappone il proprio insegnamento: «Ego autem dico vobis». Ciò non significa – però – tagliare i ponti col passato: il quale – pur esso – attesta il rivelarsi del Signore agli uomini. E alla sagace rilettura d’uno stuolo giudizioso d’esegeti, la remissività misericorde del Dio evangelico [giunto a offrirsi come agnello sacrificale in pro degli uomini] si presentava appunto bilanciata dalla ferrea Volontà di Potenza del «Dio grande e tremendo» dell’Antico Patto: d’un Dio [l’«Eterno degli eserciti»] che non rifugge – all’occorrenza – dall’«estrarre dal fodero la spada»: dall’esortare il Suo popolo a «non lasciar pietra su pietra» delle città nemiche.

E pur in questo caso [come in molteplici altri campi dell’esperienza cristiana e dello scibile cristiano] a imporsi – in fine – [quasi a cavallo fra l’Evo antico e l’Epoca intermedia] sarà il genio stabilizzatore di Agostino: tale da schiudere ampi spazi a un’appropriata teorizzazione sistematica del tema [tutt’altro che sprovvista di risvolti pratici] destinata a largo successo nella communitas gentium christianarum dei secoli di poi. Parlo dell’impostazione alquanto elastica che – a sostegno d’una oculata applicabilità del gladius sanguinis – crede di poter ridurre la mansuetudine evangelica a un fatto tutto e soltanto “spirituale”: “interioristico”: facendola consistere – non nella «ostentatio corporis» [in una qualche operosità concreta] – sí piuttosto nella «praeparatio cordis»: in un intimo stato di coscienza. Non nuoce al “giusto” che egli metta mano all’armi. Conta che sappia – nel farlo – restar “giusto”.

Di qui la raffigurazione – nel sistema – della «non illiceità» [della tollerabilità «certis inspectis causis»] del ricorso alla violenza armata. Di lì però ben anche l’inserimento – nel sistema – d’un fattore (specialmente insidioso) d’erosione interna. Fatale difatti che – col tempo – quella concessa deroga perdesse il carattere d’una relaxatio affatto eccezionale (recata per cause straordinarie ad una generale interdizione di rigorosa vincolatività) per adattarsi – ben più sommessamente – al ruolo ambiguo di strumento operativo bensí «anomalo» (discosto dai princìpi) ma «d’uso pratico comune». Fatale che – col tempo – quella «guerra non illecita» diventasse senz’altro «guerra lecita»: per poi far largo – nel sistema – a una «guerra giusta», o «meritoria»: a una guerra addirittura «santa». A tutto un crescendo è dato cosí assistere di legittimazione dell’«armorum usus»: e a tutto un diminuendo è dato insieme assistere di rigorosità morale. Diventava la guerra – a questo modo – uno strumento dai mille usi: al quale sempre possibile è ricorrere: nelle più svariate circostanze: a patto semplicemente di far salve certe specifiche cautele: non conta se rimesse – alla fin fine – al personale apprezzamento (quanto che sia sofferto) degli stessi soggetti parti in causa.

Finirà cosí – la guerra – col venir guardata [per dirla alla maniera della Scuola] non più tanto come un «malum per se» (come un qualcosa di perverso nella sua intrinseca sostanza) sí piuttosto come un «malum per accidens»: quando – non l’«uso corretto della guerra» – ma l’«abuso» (che malamente venga appunto a farsene) valga a caricarla d’una valenza negativa. [Né ci si dava pensiero, in tutto questo, di quanto, anche in rapporto ai fatti dello spirito, la moneta cattiva riesca a scacciare quella buona].

 

9. – A seguirne era perciò il bisogno d’una rilettura teologico-morale del ius bellicum romanum proprio specificamente indirizzata a superare il sostanziale “indifferentismo” al quale quel ius si conformava circa le “ragioni giustificative” della guerra. Era bensí aperta [lo sappiamo] – la tradizione giuridica romana – a ravvisare la sussistenza (per natura) fra gli umani d’una «cognatio quaedam»: onde è empietà – si sosteneva – [«est nefas»] che gli uomini vengano a insidiarsi l’un con l’altro. E negava – quella stessa tradizione – che col nemico venisse a infrangersi ogni vincolo giuridico. Con l’hostis populi romani – s’affermava invece – «et totum ius fetiale et multa sunt iura communia». Ben anche s’escludeva [benché più in termini retorici, diremmo, che non in sede operativa pratica] che potessero le operazioni militari comportare l’esercizio d’una indiscriminata violenza: «est enim ulciscendi et puniendi modus». Soprattutto riservava – il ius romanum – un trattamento paritario agli uni e agli altri combattenti: e questo tanto nel caso della guerra che il popolo romano movesse agli altri popoli, quanto nel caso della guerra che fossero invece gli altri popoli a muovere al popolo romano. Quali però i suoi aspetti positivi – spiaceva al nuovo modo di volgere al problema che il diritto bellico romano restasse insensibile al “perché” di volta in volta la guerra fosse mossa: per quali specifici motivi, in quali speciali circostanze. Per il ius romanum peso determinante competeva al momento formale della “denuntiatio belli”: della “indictio belli”. Bastava che il bellum fosse “publicum”: che fosse «denuntiatum ante, et indictum». Non si chiedeva – in più – che a valide motivazioni sostanziali s’appellassero le singole pretese via via commesse al patrocinio dell’azione bellica.

Era questo speciale aspetto [era questo «indifferentismo del sistema»] il tratto che maggiormente urtava la sensibilità della novella pubblicistica. Alla quale [in ossequio ai suoi moduli morali] si poneva – per contro – l’esigenza di valutare puntualmente [distinguendo cosí caso da caso] le peculiarità reali di ciascuna fattispecie: e ciò tanto in ragione dello “stato psicologico interiore” dei protagonisti delle singole vicende guerresche; quanto in ragione della “ordinazione pratica oggettiva” d’ogni data impresa. A legittimazione della guerra non si poteva prescindere dal fatto che – volta per volta – il dichiarante [l’indìcens] non solo procedesse «auctoritate iuris» (spendendo il «ius indicendi bellum» di sua spettanza pubblicistica) ma si determinasse – nel suo intimo – a agire «bono zelo»: forte – nella profondità della coscienza – d’una «recta ratio bellandi». Occorre battersi – si diceva – non per malanimo: non «cupiditate vel crudelitate»: non «ad ultionem vel vindictam». Bisogna farlo per amor di pace: «pacis studio». Occorre essere pacifici nell’intimo [«ex animo»] quand’anche è forza essere duri (sin cruenti) «ex corpore». Di qui l’arduo concetto [che sfida il canone di non contraddizione] d’un «bellum pacatum»: d’una guerra che – simultaneamente – è “opera di pace”: rimessa all’impegno umano di colui che – pur «bellando» – sappia restare tuttavia «pacificus». E [in termini non più soggettivi, stavolta, ma oggettivi] si richiedeva il presentarsi d’una «iusta causa bellandi»: d’una «causa bellandi» necessitante: non altrimenti ripianabile.

Giusto [sin anche doveroso] ricorrere alla forza per la propria auto-tutela: «pro defensione tam sua quam patriae seu legum paternarum»; «pro pace iustitia tuenda»; «pro defensione oppressorum». Lecito farlo a finalità recuperatorie, o a finalità riparatrici: «propter res repetendas», «pro executione iuris».  Ammesso – con le dovute precauzione – anche combattere a scopi punitivi: «ad iniurias ulciscendas»: e persino – all’occorrenza – a scopi preventivi: nei modi d’una defensio che anticipi le mosse d’un sicuro (o probabile) aggressore. Ingiusto – invece – e illecito metter mano all’armi di là da queste ipotesi. Ingiusto il «bellum aggressivum»: ingiusto il «bellum temerarium». Comunque iniquo il condiscendere a gratuiti eccessi nel modo di condurre la guerra ancorché giusta. Ci si rifaceva – rinverdendolo – al «moderamen inculpatae tutelae» della tradizione giuridica romana.  

 

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10. – Era questa [fra «guerra lecita» e «guerra illecita»: fra «guerra giusta» e «guerra ingiusta»] una distinzione di fondo destinata a larghi e durevoli sviluppi in ambito cattolico. Era una partizione di principio sí passibile di vistose forzature applicative [non fosse che per l’assidua vocazione della scienza paludata, d’ogni tempo e d’ogni dove, a provvedere di non discutibili argomenti l’avida ambizione dei Potenti] e tuttavia rappresentata – nei secoli – come un’acquisizione ferma e certa della «cristianizzazione» [e quindi, s’intende, del «progresso»] del diritto pubblico europeo. Del che – ancor oggi – ci si compiace un po’ da tutti: e senza esitazioni si ravvisa – nei moduli del ius bellicum christianum fattosi egemone in Europa – un encomiabile fattore di ponderata delimitazione dell’ambito operativo della guerra: e – comunque – d’attenuamento umanitario dell’efferatezza che per loro natura contrassegna le pratiche guerresche. Meno – però – ci si domanda [ed è carenza non proprio commendevole] se veramente ciò sia vero: se realmente il discrimine segnato [da canonisti e da teologi] fra “guerra giusta” e “guerra ingiusta” sia tale da raggiungere gli scopi (riduttivi, appunto, e lenitivi) che lodevolmente si prefigge. Neppure [direi] ci si fa carico di quali “ricadute” – non altrettanto positive – quell’accomodamento curalistico [tutto che accorto] possa aver avuto – e possa ancor avere – sulla «integrità» della «testimonianza religiosa cristiana»: e [più generalmente] sulla «qualità ideale» della «esperienza civile» della umanità tutta quanta.

 

11. – Intanto – quando si riflette al nostro tema – non dovrebbe sfuggire all’attenzione il fatto che solo “situazioni conflittuali elementari” [o solo quelle sottoposte al vaglio di certo “sbrigativo schematismo”] posson essere vedute nei modi d’una contrapposizione netta – di timbro quasi manicheo – d’una Parte che ha ragione [che ha “tutte le ragioni”] e d’una Controparte che invece ha “tutti i torti”. Insegna per contro l’esperienza che – di norma – [nelle situazioni conflittuali d’una qualche complessità] buoni e cattivi motivi si frammischiano. Ciascun competitore ha – in esse – le sue brave ragioni da vantare, ciascuno ha le sue colpe. [Insegna poi sempre l’esperienza quanto poco, a volte, gli stessi animi forti sappiano restar indifferenti al fascino del proprio tornaconto: cosí da credersi in ragione anche se sono in torto]. Può per ciò accadere che ciascuna Parte interessata si senta formalmente sostenuta dalla legge etica [dalla malleveria di Dio!] nell’attuamento del suo buon diritto: reale o presunto che esso sia. E può accadere che se ne reputi superiormente autorizzata [in questo suo impegnarsi in una “guerra lecita”: “giusta”: addirittura “santa”] a colpevolizzare (a demonizzare addirittura) l’avversario: quel «nemico ingiusto» che non è veduto come un qualcuno che difende a pari titolo una sua propria utilità (degna essa stessa di riguardo) sí invece come un reprobo: il quale si macchia della colpa di farsi violento patrocinatore della propria iniquità.

Al venerando principio romanistico [quello, ricordiamo, per cui, come è “vera” la guerra che il popolo romano porta agli altri popoli, cosí “vera guerra” è quella che gli altri popoli portano al popolo romano] a questo principio di diritto bellico se ne oppone un altro, capace d’altri approdi: quello secondo il quale – se l’un bellator si batte giustamente – l’altro non può che essere nel torto: «ubi iustum est bellum ex parte una, ex altera vero iniustum». E chi versa nel torto non altrimenti verrà a battersi che «temerarie»: meritando – pertanto – il suo castigo: «quia non debet remanere malicia impunita». E’ – l’«iniustus bellator» – della mala risma di coloro che vanno giustamente trattati alla maniera dei «latrones» e dei «praedones» delle fonti romanistiche. A quell’ingiusto combattente «neque propriam patriam licitum est defendere». A lui diventa illecito difendere la sua stessa vita: «is qui defendit se contra auctoritatem iuris temerarie se defendit». Donde una catena di spiacevoli inconvenienti: tali – non già [«sicut in votis»] da alleggerire – sí invece da esacerbare ulteriormente la crudezza della condotta bellica. Specie le volte – va da sé – che siano entrambi i bellatores [forti ciascuno del suo buon diritto, o della idea che se n’è fatta] a credersi nel giusto: non trattenendosi – pertanto – dal «far pagare all’avversario le sue colpe»: sino a sentirsi autorizzato a devastare le sue terre: a dispogliarlo dei suoi beni: della sua personale libertà: della sua stessa vita.

 

12. – Soprattutto però parrebbe poco o nulla impensierirsi – la cerchia dei probati auctores – del «deterioramento spirituale» che ineluttabilmente s’accompagna al riconoscimento [sia pur accompagnato da provvidi distinguo, e da sagaci accorgimenti dialettici] della «derogabilità» – in dipendenza d’interessi umani assai concreti – d’un «principio religiosamente fondante» di proclamata ascendenza sovra-umana: il quale [quanto che sia chimerico: quanto che sia straniero, nella sua strenua assolutezza, alla cruda realtà della fenomenologia comunitaria] vuole comunque esprimere un «valore ideale» di caratura altissima. Si tratta [è vero] d’un principio di tanto impegnante dignità spiritualistica da sorpassare di molto la povera valenza umana degli uomini comuni: ai quali [chiamati, come sono, a vivere in terra la propria esperienza, al metro delle istanze del vivere consueto] non può non essere concesso – per la fragilità del loro stato – di negare de facto il proprio assenso a canoni ideali che tanto profondamente sopravanzano le pulsioni della loro naturalità: sino – addirittura – a sovvertirle. Nulla di “eroico” [si sa] si può pretendere dalla generalità indifferenziata dei mortali: nulla di “grande” da questi si può esigere nei modi d’un mandato imperativo di rigorosa vincolatività. Non può – una larga “duttilità d’operazione” – esser negata all’humana debilitas. Ma – tutto ciò riconosciuto – a palesarsi come un che di viceversa «inammissibile» è che la pochezza ideale degli uomini comuni [quella che spiega il loro ordinario disattendere i dettami d’una austera rigorosità morale] finisca – magari per il tramite d’una agguerrita intellettualità ufficiale – con l’agire in via interpretativa sulla “sostanza” della norma agendi: cosí da impoverirne il “significato ideale”, e sin banalizzarlo. Gli si fa dire in fine – al principium primum del quale ora parliamo – un che di diverso (di lontano a volte) da quanto – con sublimità d’accento – ha proclamato un Uomo certamente grande: al quale proprio coloro che s’ingegnano di «ominizzare il Suo Messaggio» riconoscono – per fede – la natura superlativa di “Deus verus”.

Dà come un senso di amarezza [debbo dirlo] il prender atto di quanto zelo – per secoli – abbia messo l’intellettualità ecclesiastica nel rileggere il Messaggio in chiave edulcorante: smussando proprio quelle asperità assiologiche che – anche a chi manca della fede – rendono insigne il retaggio della Croce. Nulla tanto ha nociuto a certo Cristianesimo [al suo patrimonio ideale, ben s’intende, non alla sua capacità di «durare nel tempo»] quanto il suo abdicare alla intangibilità di certi suoi princìpi, tutto che “scabrosi”.

 

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13. – Si può sbeffeggiare quanto e come si vuole il «pacifismo»: quanto e come si vuole i «pacifisti». Si può irridere al candore delle «anime belle» che – nella bambinesca ingenuità che le distingue – con certe pallide illusioni si baloccano. A tanta innocenza ben s’oppone lo «sperimentato pragmatismo» di chi – piantano invece in terra – «sa come si vive»: di chi sa come ci si deve comportare: come poter attendere – con sano realismo – alla risoluzione concreta dei problemi che davvero contano. E certo [lo si deve riconoscere] colui che sia chiamato a impegnative “scelte pubbliche” (a “scelte politiche” importanti) non può non tener conto – con tutta ponderatezza – delle circostanze della storia. Starà – caso per caso – al suo responsabile equilibrio soppesare i pro e i contra quali gli si presentano nei fatti: e questa sua “prudentia regnativa” potrà trarlo – alle volte – a prender decisioni anche drammatiche: capaci d’esiti cruenti. Però non tutto può essere lasciato – nella conduzione della cosa pubblica – al “senso del concreto” e al “seno del possibile” [e al “cinismo”, sin compiaciuto a volte di se stesso] degli uomini d’azione.  Non può ben anche non soccorrere [esente dal gravame d’un siffatto assieme di “condizionamenti operativi pratici”] la “testimonianza ideale” di chi – non “sul crudo terreno della prassi” – sí appunto “sul piano etereo delle idee” si riproponga di metter a frutto i suoi talenti. Anzi sarà proprio la fermezza intransigente che questi saprà porre nel suo dileggiato «idealismo» [dico della forza morale e intellettuale con la quale saprà farsi custode a patrocinatore delle sue illusioni] sarà proprio questa «civile militanza» a produrre – non ostante tutto – un proprio effetto sul piano stesso della “operatività politica reale”: in ciò che le riesca – nel quadro della dinamica civile – d’incentivare certe scelte, di fare da remora a certe altre: d’ottenere il meglio; d’impedire il peggio.

Non compete – alla intellettualità impegnata – di governare gli uomini: sí piuttosto le spetta di operare sul loro patrimonio di valori. E ciascuno [nella dialettica civile: quando a venir in gioco è proprio un fitto confronto di valori] ciascuno è chiamato a far sentire la sua voce: a far lealmente la sua parte. E al nostro «idealista visionario» [che toto pectore si batta per le proprie fisime ideologiche] sarà pur dato d’ottenere – nel processo di «mediazione» qual operato dalla storia – il raggiungimento politico d’un “punto concreto d’equilibrio” tanto meno discosto dai suoi vaghi archetipi quanto più di questi egli si sappia rendere sostenitore tenace. Quante del resto le chimere che – nel corso delle vicissitudini terrene – hanno saputo «farsi storia»! E’ dominata la vicenda millenaria degli uomini dall’impressionante «realità dell’utopia». Tante le umane idealità che ai più parevano in origine null’altro che fantasticherie prive di senso. Tante le “folli utopie” d’un tempo che poi – nei secoli – [in spreto della sorda inerzia delle masse, e della reazione sin brutale dell’establishment] sono riuscite a trasformarsi in concretissime realtà: cosí da imprimere un marchio addirittura tipizzante sul nostro vivere civile. L’uguaglianza giuridica fra gli uomini; la loro pari dignità: erano questi – dapprincipio – vaghi vaneggiamenti da filantropi. E vaghi ideologismi libertari erano quelli che attestavano la facoltà di ognuno di seguire a proprio modo i propri convincimenti di doverosità: di venerare il Sacro cosí come l’avverte presente “intus in pectore”, e sempre che quella presenza egli l’avverta. Seguire queste – e le tante altre fantasie utopistiche fattesi realtà operanti – è come ripercorrere la storia dell’Umanità in progresso.

E questa fiducia nel valore impreteribile della «testimonianza ideale» [tutto che contrastata, sin irrisa] questa disposizione generosa – come la si richiede viva e ferma nella intellettualità laica, pensosa d’attestare e di trasmettere i propri convincimenti di «doverosità umana» – cosí a più forte ragione la si può (la si deve) esigere nella intellettualità religiosa: la quale – quei suoi convincimenti – li vede addirittura sanzionati dall’alto Volere imperativo di «Colui che è».