N. 4 – 2005 – Memorie

 

 

Maria Giovanna Stasolla

Università di Roma “Tor Vergata”

 

Guerra e gihàd nel pensiero islamico: alcune riflessioni

 

 

Pensare alla guerra in un contesto islamico richiama oggi alla mente di ognuno un termine inquietante: gihàd. E’ all’uso di questo e di alcuni altri termini che intendo dedicare qualche puntualizzazione a cui faranno seguito delle riflessioni in qualche modo condizionate dagli interrogativi che l’attuale contesto pone. Riflessioni che, in quanto tali, offrono solo spunti per approfondimenti: a questo scopo ho ritenuto utile fornire una bibliografia aggiornata sull’argomento.

Rimando alla prevista pubblicazione cartacea degli Atti la trattazione di un tema specifico legato alla guerra e alla pace, quale è quello della liberazione dei prigionieri fra impero bizantino e califfato abbaside, esaminato attraverso la duplice chiave di lettura della normativa giuridica e della prassi attuata dallo stato islamico.

Islam significa in arabo “sottomissione a Dio” ed è il nome della religione predicata da Muhammad nell’Arabia del VII secolo sulla base della rivelazione ricevuta da Allah attraverso il libro sacro, il Corano, che è la parola di Dio fatta “testo”, storicizzata, dunque in qualche modo “incarnata”. A parte i contenuti profetici, teologici, escatologici, questo testo definisce una ortoprassi, indica il comportamento, la via da seguire per realizzare un ideale che è quello di un’umanità che realizza se stessa al meglio nella sottomissione a Dio su questa terra , in questo modo si garantendosi “il bene” e preparandosi all’eventuale felicità eterna.

In questo ideale comunitario, in cui l’individuo non è il fine bensì è il punto di partenza, precetti morali e legge tendono a coincidere.

Muhammad ha formato una comunità di uguali in quanto “credenti”, detta Umma (solo per inciso ricordo che il termine ha la stessa valenza semantica della parola “umm” che vuol dire “madre), che sostituisse nella società tribale in cui si inseriva il vincolo della fede al vincolo del sangue, facendo propri quei valori di coesione e di solidarietà che caratterizzavano il sistema tribale. Al diritto consuetudinario del sistema tribale si venne a sovrapporre una Legge divina, dunque sacra e immutabile. Nella fase successiva alla morte del Profeta, in assenza quindi dell’Inviato di Dio che garantiva la retta interpretazione della Legge divina, fu necessario mettere a punto un sistema giuridico le cui fonti furono individuate nel Corano, nell’esempio del Profeta e dei suoi primi compagni (in continuità con l’uso tribale), nell’analogia con il testo sacro, nell’accordo fra la Comunità dei Credenti (o fra coloro che erano delegati dalla Comunità per questo compito, anche questo un retaggio dell’accordo fra gli shaykh dei clan che formavano la tribù). Il sistema giuridico elaborato nel corso di due secoli prese il nome di sharì’a che in modo erroneo viene tradotto come legge coranica, trattandosi invece di una legge canonica. Ancora una precisazione filologica: il valore semantico del termine implica l’antico significato di “via verso una sorgente d’acqua”, ergo: “via verso la salvezza”. L’islam si realizza sulla terra, perseguire la felicità e il bene terreno significa ubbidire alla volontà di Dio che per questo ha espresso la sua legge, nella sua qualità di “giusto per eccellenza” e in questa ottica la piena realizzazione dell’uomo non comporta in alcun modo la negazione della sua natura, peraltro mai corrotta per l’islam da nessun peccato originale.

Parliamo quindi di islam come una religione rivelata alla popolazione della penisola arabica agli albori del VII secolo che ha dato luogo ad una ortoprassi la quale ha trovato la sua applicazione dopo qualche decennio in una realtà politica nuova, lo stato islamico, che nel corso dei due secoli successivi ha messo a punto un sistema giuridico su base canonica nell’ambito del quale si è sviluppata una cultura, una civiltà che si definisce islamica. Islam come insieme di valori, come cultura, civiltà, modalità di vita, sensibilità, comportamenti che si sono costituiti nel corso di quattordici secoli di una storia straordinariamente ricca di esperienze, di assimilazioni, di contaminazioni.

La parola islam identifica un mondo, il mondo dei musulmani, nello stesso modo in cui la parola cristianità indica il mondo dei cristiani? Questo è vero solo in riferimento alle due realtà nel Medioevo. La relazione sempre più frequentemente proposta nei termini di islam / occidente , termini evidentemente non omogenei, impone un’ulteriore riflessione. Come per “occidente” non si intende soltanto la cristianità, non è corretto riferire il concetto di “islam” ad una realtà connotata esclusivamente dal fatto religioso o percorsa e condizionata soltanto da ideologie politiche che tentano di legittimarsi attraverso la strumentalizzazione del fatto religioso. Come si diceva l’islam è un mondo complesso e plurale che ha avuto come elemento fondante una religione sui cui principi fu elaborato, attraverso un’intensa dialettica, un sistema giuridico che, fin dai primi secoli , tenne conto del contesto politico, delle esigenze del tempo e della società e, del messaggio coranico tese ad applicare lo spirito piuttosto che la lettera. Coloro che attualmente sostengono il contrario, in oriente come in occidente, stanno operando delle strumentalizzazioni.

D’altra parte, parlando in termini più ampi di civiltà islamica, non si può parlare di aderenza reciproca tra “comunità” e “società”. Nella civiltà islamica che, come si diceva, si è espressa in un’organizzazione sociale peculiare, la comunità dei fedeli è solo la componente maggioritaria, accanto alla quale parecchie minoranze, esterne all’islam o interne ad esso (è il caso dei movimenti ereticali che hanno dato luogo a forme di aggregazione sociale atipiche) sono fatto tutt’altro che marginale. Sia nella produzione culturale sia nei rapporti con altre civiltà, tali minoranze rientrano a pieno diritto nella definizione di società islamica, per adesione a quelli che sono gli elementi distintivi, ideologici, di base di tale civiltà.

La comunità dei credenti ha il preciso dovere di attenersi alle normative divine e, al tempo stesso quello di far sì che tali norme vengano da tutti rispettate: «Voi siete la migliore nazione mai suscitata fra gli uomini: promuovete la giustizia e impedite l’ingiustizia, e credete in Dio» (Cor. III, 110). Il principio dell’ordinare il bene e dissuadere dal male, più volte ribadito dal Corano, non è stato recepito in maniera univoca da tutte le componenti dell’islam Al di là delle interpretazioni meno letteralistiche e più spirituali espresse dal sufismo, la questione di come interpretare il precetto divino è stato al centro di un vasto dibattito nella civiltà musulmana. Pur ribadendo il concetto che compito della Comunità – e in certa misura anche dei singoli – è quello di sorvegliare sulla corretta interpretazione ed esecuzione di norme e comportamenti, l’ortodossia islamica ha in genere cercato di definire e delimitare il più possibile l’opera di censura, che non può essere lasciata all’arbitrio dei singoli e deve essere assoggettata a precisi vincoli. Le precisazioni a tale riguardo furono senza dubbio mirate a contrastare le tendenze più rigoriste di alcune correnti espresse dall’islam, che volevano al contrario esercitare una sorta di controllo ufficializzato ed istituzionale delle coscienze. E’ nota in proposito la posizione della scuola teologica mu’tazilita che, nel periodo della sua affermazione come dottrina teologica di stato (813-831), istituì una sorta di “inquisizione” permanente affidata al prefetto di polizia di Baghdad e ai governatori delle province. Senza scendere nei particolari sulla portata, gli strumenti e gli effetti di tale istituzione, non v’è dubbio che essa venne percepita dalla maggioranza dei musulmani come un’inaccettabile costrizione in una sfera, quella dei principi dogmatici, nella quale non si possono forzare le coscienze.

Non è dunque per caso che il definitivo trionfo, anche politico, dell’ortodossia sunnita fu avviato proprio dalla resistenza contro il rigorismo mu’tazilita, ed egualmente significativo è il fatto che la reazione ortodossa contro questi eccessi di imposizione forzata fu principalmente ispirata da Ahmad ibn Hanbal e dalla sua scuola, considerati di solito come i rappresentanti per eccellenza del più rigido rigorismo islamico. In realtà, la posizione hanbalita, successivamente ribadita da tutta l’ortodossia, ha chiaramente optato più per il metodo della correzione fraterna che non per la coercizione violenta. In tal modo il Sunnismo, che è la confessione largamente maggioritaria nell’Islam, ha in genere preferito limitarsi alla semplice rilevazione di un errore dogmatico o giuridico, più raramente denunciando le innovazioni in materia dottrinale e quasi mai giungendo alla “scomunica” (takfìr) che, bollando degli individui o delle comunità come miscredenti, ne sancisce per ciò stesso l’esclusione dal popolo dei credenti. E’ per questo che la necessaria distinzione fra fedeli e infedeli o eterodossi si è manifestata più come un atteggiamento di “presa di distanze” (barà’a) che non come un’opposizione violenta e intollerante.

In questo quadro si inserisce ugualmente la tematica dei rapporti fra l’islam e le altre fedi. Il concetto di ordinare il bene e dissuadere dal male non è infatti circoscritto al mantenimento dell’ortodossia interna della comunità, ma ne implica anche la proiezione all’esterno. La pace che regna entro i confini dell’Islam ( e si deve qui ricordare che i sostantivi “islàm”, sottomissione, e “salàm”, pace, sono in arabo intimamente legati in quanto derivanti da una medesima radice sin-lam-mim) deve in via di principio essere estesa a tutto il genere umano, ma ciò non significa, come vuole uno stereotipo alquanto diffuso, che la religione islamica sia riconducibile ad un tentativo di imporre la vera fede sulla punta delle spade. La nozione di “gihàd”, che oggi l’opinione corrente degli occidentali associa inevitabilmente ad un preteso fanatismo musulmano, è in realtà molto più complessa di quanto risulti da una sua analisi superficiale. E’ vero che lo “sforzo” (questo è il senso etimologico del termine gihàd) dei credenti deve tendere ad abolire la bipartizione del mondo in due spazi nettamente separati, la “casa dell’islam” (dàr al-islàm) e la “casa della guerra” (dàr al-harb), deve cioè mirare all’unificazione dell’ambiente umano in nome della norma divina; ma con questa affermazione di principio si vuole in primo luogo intendere quel “giogo” della sottomissione a Dio che corrisponde più all’instaurazione di un ordine spirituale e cosmico che non ad una concreta conquista militare della terra. La «migliore nazione mai suscitata fra gli uomini» è tale non perché i suoi membri rappresentino di diritto un popolo eletto, ma piuttosto in quanto è tutta tesa ad adeguarsi alla volontà divina e a costituire l’esempio vivente in questo mondo dell’ordine che Dio si è compiaciuto di dare all’universo. L’islam va in questo contesto inteso nella più ampia delle sue accezioni possibili, vale a dire come l’espressione terminale e definitiva della verità che Dio ha continuamente ribadito agli uomini, realizzatasi con il compimento della missione del profeta e sancita dall’ultima in ordine cronologico delle rivelazioni coraniche: «Oggi v’ho reso perfetta la vostra religione, e ho compiuto su voi i miei favori, e m’è piaciuto darvi per religione l’islam» (Cor. 5,3).

E’ del resto noto che, secondo un celebre e citatissimo insegnamento del profeta, il combattimento contro i nemici esteriori non è che una “guerra santa minore” (al-gihàd al asghar), quella maggiore (al-gihàd al akbar) essendo una lotta di ordine puramente interiore e spirituale condotta contro i nemici dell’anima. Ma anche limitandosi all’analisi del gihàd nel suo senso più conosciuto, si deve rilevare come esso sia lungi dal presentarci esclusivamente una logica di violenza intransigente. E’ lo stesso Corano del resto a denunciare gli eccessi di violenza in proposito e a fissare dei precisi termini di condotta per le azioni belliche: «Combattete sulla via di Dio coloro che vi combattono, ma non oltrepassate i limiti, chè Dio non ama gli eccessivi» (Cor., 2, 190). La trattatistica musulmana posteriore ha variamente individuato questi limiti da non valicare, ma in estrema sintesi si può dire che: «si tratta della condanna di tutte le forme di tortura e di ogni violenza esercitata su donne, bambini, vecchi, schiavi o religiosi (ruhbàn) e in modo generale di ogni crudeltà esercitata sulla persona di coloro che non partecipano alla guerra (…). Sono ugualmente considerati come una trasgressione della legge divina la demolizione di edifici, di strade e ponti, la distruzione di alberi o dei raccolti, l’incendio, il massacro di animali» (da B. Hamza, Le Coran).

Ricordiamo, per inciso, una cosa non irrilevante alla nostra riflessione: prima che la parola “gihàd” entrasse nella terminologia correntemente adottata da giuristi e tradizionisti (e conseguentemente dagli storici), fatto che si registra agli inizi del IX secolo, il termine più utilizzato per designare il combattimento alla frontiera per l’espansione dello stato islamico è quello di “ghazw / ghazwa”, da cui deriva la parola “razzia” e che significa in arabo “spedizione militare, campagna, guerra”. La stessa radice gh.za.wa è stata usata per indicare il genere storico-letterario delle “Maghàzi” in cui si narravano le gesta militari del profeta e dei suoi primi compagni. Questa anteriorità della parola “ghazw” su quella di “gihàd” suggerisce che originariamente il senso attribuito al termine “gihàd” non era quello di guerra santa/non santa, comunque di conquista e offensiva, bensì era quello di guerra difensiva o, in ambito spirituale, di sforzo, lotta contro la tendenza al male.

D’altronde, il fatto che l’islam, anche nella teoria giuridica, non persegua un’assoluta e totale sottomissione dal genere umano alla propria fede è dimostrato dalla cura con la quale ha cercato di definire i rapporti interreligiosi, il che nella storia delle religioni costituisce un esempio pressoché unico di tentativo di istituzionalizzare e regolamentare la diversità. Il meccanismo giuridico della “dhimma”, protezione, che l’islam accorda agli aderenti di una religione rivelata e riconosciuta (detti: “ahl al-kitàb” genti del Libro) che si sottomettano allo stato islamico pur mantenendo la propria credenza, non fa che riflettere l’esplicito e tassativo ordine coranico: «Non vi sia costrizione nella fede» (la ikràha fì ‘l-dìn, Cor. 2, 256), parole unanimemente interpretate nel senso che nessun credente in un libro rivelato può essere forzato ad abbandonare il proprio credo.

Il problema che qui si pone è comunque se una religione che postula tra i doveri della comunità che in essa si riconosce un qualche tipo di guerra possa considerarsi non violenta e quindi non fanatica? Lo stato che si è costituito sui principi di questa religione può presentarsi come non aggressivo e “democratico”? La scelta metodologica di partire dal fatto religioso per giungere ad un fatto politico più generale, invece di seguire l’evoluzione storica dello stato islamico si giustifica con il fatto che l’islam come religione non trova la sua collocazione primaria in un ambito soggettivo, e questa è la sua maggiore peculiarità. Perché l’islam venga considerato un’opzione personale, bisogna arrivare alla Turchia di Ataturk, che fissa limiti tra stato e religione e questo tuttavia non ha impedito che attualmente la Tuchia si presenti con caratteristiche vistosamente differenti dagli altri paesi islamici. La ragion d’esistere dell’islam consiste nella realizzazione di uno stato islamico che, strutturandosi in un certo modo, esplichi sulla terra l’ordine e il logos divino. Il culto rimane invece, in linea di principio, un fatto individuale e nessuna sanzione di tipo morale colpisce l’inadempiente. Se c’è un peccato, spetta a Dio stabilirlo, mentre la comunità può fissare delle norme comportamentali, e fissare sanzioni giuridiche se l’inottemperanza ad alcune regole reca danno alla comunità, come è appunto il caso del gihàd.

In termini storico-evolutivi la visione religiosa islamica si pone quale superamento dell’innovazione massima del cristianesimo rispetto ai monoteismi preesistenti, cioè la scoperta dell’individuo: staccandosi dal mondo classico il cristianesimo rivaluta l’uomo preso come unità, gli affida la scelta del proprio destino e lo mette a nudo, responsabilizzandolo di fronte alla divinità a cui è omologato, affidandogli un’anima che è divina, ed offrendogli come modello per eccellenza, l’Uomo-Dio. La via verso l’uguaglianza degli uomini è aperta.

L’islam accetta la lezione del cristianesimo, collocando però Dio in una assoluta trascendenza che esclude l’idea stessa di Uomo-Dio, e inserendo l’uomo in una socialità (la Umma dei Credenti) che diventa il luogo ideale dell’individuo per esprimere se stesso.

La società degli uomini acquista così una dimensione religiosa e ad essa l’islam tende a dare la sua legge come legge universale. E’ religione quindi, ma comprende nella sua sfera specifica la prassi sociale. Il che porta ad una “statalità islamica” e non ad una religione di stato, come talora è stato dedotto.

Tornando al gihàd, esso rientra tra i doveri di una comunità che ha come ultimo fine la trasformazione progressiva del mondo in società islamica, quindi l’esportazione della civiltà islamica. Il singolo è tenuto a compiere tale dovere solo dietro precisa sollecitazione dal parte del sovrano, quando se ne presenti la necessità, e nel caso in cui la sua situazione personale glielo consenta: ad esempio, per partecipare al gihàd si deve ottenere in consenso da parte dei genitori. La mobilitazione generale non è mai richiesta, è sufficiente che in qualche modo lo spirito informatore del gihàd rimanga vivo all’interno della comunità. Si tratta di una mobilitazione indotta e lo è in primo luogo da sollecitazioni esterne che rendano indispensabile una presa di posizione, difensiva nella sostanza, di attacco nella teoria conseguentemente al principio per cui un musulmano può realizzare al meglio la sua vita solo all’interno di uno stato islamico. E’ evidente che, nella pur negativa applicazione che se ne può fare e che se ne è fatta in epoca recente, è ancora il gihàd che esprime per le masse la necessità di difendere il proprio territorio nazionale. Naturale è anche l’utilizzazione reazionaria ed utilitaristica del termine che sovrani o governi del mondo islamico possono aver fatto o fare.

Si è parlato di “mobilitazione indotta”: un altro elemento che la provoca, in epoca moderna, è la coscienza acquisita, non certo spontanea nella mentalità islamica, di essere, in quanto civiltà islamica, un fatto “orientale”, locale, indigeno e ciò induce ad intendere il gihàd in senso missionario, come del resto il Corano sottolinea. Ma, mentre nella storia delle conquiste arabe e dell’espansionismo pre-coloniale, il fine dello stato islamico era sempre esplicitato, in questo caso si intende una penetrazione culturale attraverso canali religiosi. Questo gihàd moderno, essendo affidato all’iniziativa dei singoli, implica una rete di interessi molto più ambigua in campo economico e anche ideologico (si pensi alla propaganda dei Fratelli Musulmani in Africa nera o la propaganda salafita in Asia Centrale), il cui espansionismo è per molto tempo apparso all’Occidente assai meno preoccupante, non essendo apparentemente in gioco nessuna minaccia da parte di una statalità islamica. L’Islam oggettivamente diventa la linfa di qualsiasi spinta nazionalista o anti-imperialistica dei paesi o delle popolazioni che lo accettano, ma che agiscono mossi da concezioni e secondo metodi appresi dall’esterno (prevalentemente secondo la lezione appresa dall’esperienza coloniale).

Resta tuttavia aperto il problema di capire se la teorizzazione del gihàd corrisponda necessariamente ad un imperialismo di stato: non si può non tornare sulla posizione del credente di fronte a Dio e di fronte alla comunità a cui appartiene. Il Corano dice che Dio predilige «quelli che combattono sulla via di Dio, dando i beni e la vita» a «quelli che se ne restano a casa, eccetto i malati» (Cor, 4, 95) e il paradiso islamico prevede una posizione privilegiata per il combattente martire. Scontato l’impulso a sacrificarsi per la propria salvezza, resta da vedere la valenza per così dire sociale del gihàd: il concetto del dovere del suddito musulmano che individualmente partecipa dello stato, e quindi non solo dell’Umma, attraverso tale funzione. La peculiarità del gihàd rispetto agli altri obblighi cultuali o sociali risiede nel fatto che l’individuo che lo pratica riceve nello stato la sua individuazione come appartenente alla maggioranza, cioè all’Umma, che si esplica all’esterno e si convalida nei confronti della minoranza, e si rende responsabile in prima persona esprimendo una forma di consenso al capo che ha il diritto/dovere di proclamare il gihàd, e acquisendo contemporaneamente una posizione nella struttura che gestisce il potere e una coscienza della propria collocazione socio-politico-religiosa. Il credente che combatte il gihàd è a posto con Dio ma lo è anche con la comunità che assolve per suo tramite un dovere preciso, e con lo stato che lo dirige e che viene così riconosciuto.

L’esercito del gihàd è composto quindi di musulmani che, come i beduini arabi convertiti all’islam, si riconoscono nell’Umma anche attraverso la conquista, ma qui la finalità non è costituita né dalla razzia né da una conquista intesa come riaffermazione religiosa (che era lo slogan della crociata), bensì dalla dilatazione di una “pax islamica” nell’accettazione, almeno nominale, delle peculiarità dei paesi e dei popoli assoggettati alla legge islamica. L’esercito del gihàd non è un’istituzione stabile ma viene convocato a seguito di spinte oggettive, evidenti e puntuali, non soltanto dietro la latente volontà di espansione.

Concezione del gihàd e fondamenti della politica internazionale islamica sono strettamente connessi se ci poniamo in una prospettiva di lettura storica del passato dell’Islam.

In epoca post-coloniale e fino agli anni ’70 del XX secolo i problemi internazionali dei singoli stati erano generalmente individuati secondo la loro ottica nazionale, nonostante che la civiltà islamica non fosse superata e una cultura islamica, sia pure con i suoi aspetti anacronistici, fosse vissuta da larghi strati della popolazione. Una possibile rottura, in senso evolutivo, progressista e non alienante, con il proprio passato non può che articolarsi secondo direttive nazionali, realisticamente legate a contesti specifici. Il che non esclude, proprio nella storia più recente del mondo islamico, il richiamo, spesso fortemente sentito da parte delle popolazioni interessate, a concetti universalistici, presentati formalmente come retaggio islamico, pensiamo ai movimenti panarabi e panislamici. Il recupero della propria cultura non sta nel riproporre un califfato, sia pure di tipo nuovo, in quanto la sua funzione di coordinamento non si porrebbe nello spirito di guida illuminata e di garante della legge canonica (di fatto non più operante nella maggioranza dei paesi) ma avrebbe un ruolo di supremazia politica, fautrice di interessi specifici di gruppi più o meno ristretti. Lo stato islamico è caduto, e con esso qualsiasi possibilità di ritorni nostalgici.

Quello che rimane attuale è un linguaggio religioso nella sostanza, vista la simbiosi originaria nell’islam tra fatto religioso e fatto sociale. Non si tratta dei riferimenti, quasi sempre superficiali, ad un Saladino o ad un altro personaggio storico, quanto a tutta una serie di riferimenti che ogni civiltà ha alle sue spalle e che danno luogo ad un codice etico di cui si perde la nozione culturale ma che resta vivo ed operante a livello inconscio. Questo vale anche per la conduzione della politica internazionale.

Tornando alla prassi internazionale adottata dall’islam nella sua storia secolare, uno stato islamico unitario fu operante solo nei primi tre secoli dell’islam, essendo autorizzate entità autonome o semi-autonome, di preferenza alla periferia dell’impero, fin dal IX secolo. Eppure è legittimo parlare dell’esistenza di uno stato islamico in un arco di tempo molto più dilatato. Non si tratta del formale riconoscimento dell’autorità califfale, né del consolidamento delle forze interne sotto una dominazione straniera (quale fu quella mongola, per esempio), ma si tratta della centralizzazione delle direttive della politica internazionale, valida anche per le entità di fatto autonome dal potere centrale. Nonostante i conflitti interni e le guerre regionali, la possibilità di dichiarare il gihàd rimase a lungo competenza del potere centrale, a cui erano sottoposti i giuristi esperti nella legge canonica che avevano il compito di determinare se ci fossero le condizioni oggettive per la legalità della guerra. Quando il mondo islamico prenderà atto del suo frazionamento (XVI sec), troveremo l’Impero Ottomano e la Persia safavide impegnati ad organizzarsi sul modello califfale e protagonisti di un endemico gihàd con il pretesto dell’eterodossia persiana. Ma, di fronte alla prima massiccia penetrazione europea, sia pure ancora solo economica, entrambi gli stati convocheranno i propri dotti sollecitando una composizione politico-teologica della questione che di fatto impedisse il gihàd: l’eresia sciita venne assimilata ad una diversa scuola giuridica, analoga a quelle ammesse in materia cultuale e legale. Il gihàd resterà precetto canonico nei confronti dell’Europa.

Quale è allora la possibilità della convivenza con altri stati? La contraddizione tra la necessaria conquista del mondo per instaurarvi lo stato islamico e la sopravvivenza di altri stati può sembrare insormontabile. L’islam la supera storicisticamente: il gihàd non è un’aggressione, il nemico deve essere avvertito e garantito, il riconoscimento nominale dell’autorità del califfo viene considerata equivalente all’ammissione, da parte del nemico, della validità della concezione islamica e quindi dello stato islamico. La richiesta di tale riconoscimento fu per secoli una costante nelle relazioni tra califfato e impero bizantino. La conquista territoriale in quanto espressione della politica espansionistica degli stati sarà praticata dagli stati islamici anche quando l’autorità califfale sarà un ricordo del passato. La conquista islamica del mondo si pone in costante adeguamento dei metodi necessari per acquisire gli altri alla propria ideologia, e storicamente fra questi metodi vi è l’ammissione di un’entità diversa, purché non ostile, aggressiva, pericolosa per la comunità islamica, comunità e non stato.

Nella storia più recente il problema vero del mondo islamico non è stato tanto quello di prendere atto del fallimento della propria concezione ecumenica che avrebbe potuto trovare altre forme per esprimere nello spirito l’unità del mondo sotto l’unico sovrano possibile, che è Dio. La convivenza era un fatto acquisito, dopo Lepanto come dopo Poitiers: entrambi gli episodi sono un fatto politico e uno scontato riconoscimento del diverso da sé, con il diritto a vivere e ad esprimersi che gli compete, pur nella volontà di integrarlo nella propria realtà, sempre come diverso, ma interno e non esterno al proprio sistema.

Il problema vero del mondo islamico è legato all’esperienza coloniale: per la prima volta il mondo islamico, che pure aveva subito la dominazione degli infedeli (è il caso dei Mongoli) si sentì negato come tale, si sentì privato di ogni mezzo di espressione, sentì l’oppressione, prima ancora che sui fatti economico-politici, sui fatti sovrastrutturali. Inizia così un nuovo ciclo di teorizzazione dei principi islamici che devono costituire l’asse portante di una società islamica giusta e moderna: teorizzazione che darà origine al cosiddetto modernismo islamico, la cui storia è strettamente legata alle vicende politiche del mondo islamico del XX secolo.

L’esperienza del nazionalismo sia borghese che socialista ha registrato quasi ovunque fallimenti dolorosi le cui cause, interne ed esterne, sono fin troppo facilmente individuabili: l’autoritarismo, la repressione, la corruzione, l’incompetenza, la miseria sociale ed economica esigono il cambiamento. Il rifiuto dello stato nazionale laico è diventato uno dei caratteri del fondamentalismo islamico: non è questione di rinascita del religioso, bensì di una ideologia politica che, attraverso la politicizzazione di elementi secondari, scelti arbitrariamente, dell’islam, persegue l’istituzione di possibili alternative allo stato nazionale laico quale esso è attualmente realizzato nel mondo musulmano. E se le fonti, il linguaggio e il vocabolario normali del pensiero politico nella società musulmana si fondano storicamente sul Corano e sulla Tradizione, i fondamentalisti si rivolgono al passato non tanto per cercarvi un modo di vita quotidiana da imitare ai nostri giorni, quanto per cercarvi un modello filosofico. Ma esiste una varietà di posizioni sulle conseguenze politiche che bisogna desumere dal dogma. Come tradurre il modello filosofico nella vita contemporanea? La democrazia è sentita come un valore fondamentale, insito nel concetto islamico di “consultazione” (l’idea che il governo deve riflettere i desideri del popolo a cui Dio ha fatto dono della ragione) e quindi, in quanto tale, perseguita; oppure l’alternativa proposta non è che una variante storico temporale di un totalitarismo permeato di modernità?

 

 

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