N. 4 – 2005 – Tradizione Romana

 

Filippo Gallo

Università di Torino

 

Fondamenti romanistici del diritto europeo: a proposito del ruolo della scienza giuridica

 

 

1. – L’Introduzione agli Atti del recente Convegno ferrarese sui Fondamenti del diritto europeo si apre col rilievo (detto «ritornello»), secondo cui «la denominazione» del relativo insegnamento «è misteriosa, di sé dice e non dice»[1]. Esistono tuttavia alcuni punti fermi: a tenore dell’ordinamento universitario italiano l’insegnamento de quo è inserito nel settore scientifico-disciplinare «IUS/18 Diritto romano e diritti dell’antichità»; esso è effettivamente svolto nelle nostre Università e lo è in larga misura da parte di romanisti; non si può disconoscere l’influenza esercitata dal diritto romano (per ora indicato globalmente) sulla tradizione giuridica successiva, in specie europea; tale influenza persiste, se pur largamente inavvertita, nell’esperienza attuale, in cui si prolunga la fase codificatoria, instauratasi e tuttora esplicantesi nel predetto ambito tradizionale.

Per altro verso occorre prendere atto che la materia in oggetto è ancora da costruire. Mi limito al rilievo che non è ancora stata chiarita la stessa nozione di fondamenti. Certamente il diritto attuale è il risultato dell’intera sua storia[2]. La nozione di ‘fondamenti’ non sembra peraltro coincidere con quella di ‘storia’. Se così fosse, non si sarebbe verosimilmente introdotta (o sarebbe comunque mancata la ragione per introdurre) la nuova materia, in aggiunta a quelle già esistenti di storia del diritto: del diritto romano (privato, pubblico, ecc.), del diritto italiano, europeo, medioevale, moderno, ecc.[3]. Si può richiamare, per un confronto, il punto di vista espresso da Gaio in apertura dei libri ad legem duodecim tabularum (nell’accingersi a farne, in essi, l’interpretazione): la pars potissima di ciascuna cosa – per lo meno nel campo giuridico, di cui il giurista si occupa – è costituita dal principium[4]. Con questo segno egli ha evocato, per gli elementi che compongono il diritto, la fase iniziale, non valutata isolatamente, ma inserita nel contesto economico-sociale inteso in senso ampio (comprensivo anche del livello di conoscenze raggiunto), legata ai problemi da risolvere, alle esigenze da appagare e ai bilanciamenti da stabilire, che ne hanno determinata l’introduzione. Come emerge dal contesto, le altre partes, da lui non esplicitate, sono da individuare nei successivi mutamenti rispetto al principium. Sembra anche percepibile la ragione della loro mancata esplicitazione da parte di Gaio: i mutamenti di scarso rilievo non determinano trasformazioni in ordine al principium, mentre quelli che le determinano possono essere assunti come nuovi principia. Ad esempio, il dolo negoziale è stato oggetto di bimillenaria elaborazione; è peraltro innegabile che il suo principium risale all’esperienza romana. Analogamente la scienza giuridica, in ambito europeo, ha avuto il principium nella stessa esperienza.

Per i fondamenti romanistici del diritto europeo si pongono ulteriori specifici problemi, connessi a gravi carenze – a primo aspetto inspiegabili – ancora presenti nella ricostruzione del diritto romano, in merito ai problemi generali del diritto (mi riferisco alla relativa concezione, produzione, interpretazione e applicazione, nonché al ruolo della scienza giuridica), ai quali può ricondursi la parte generale della nuova materia introdotta.

Muovo da un rilievo del Talamanca: «Nell’approccio all’essenza del diritto, noi, come giuristi moderni (e come romanisti … che hanno studiato il diritto), siamo un po’ traviati dall’impostazione un tempo – mi riferisco … alla metà del secolo scorso – imperante nei nostri studi» e  che «può descriversi come giuscodicistica o giuslegistica. Impostazione in cui si faceva dei codici e delle leggi la fonte totalmente privilegiata, se non unica, del diritto …»[5]. Tale impostazione deriva, tramite l’utilizzazione del diritto romano come diritto vigente, dalle vedute giustinianee, antitetiche, in proposito, a quelle dei giuristi classici. Nelle costituzioni emanate da Giustiniano per la compilazione delle leges e dei iura e la connessa riforma degli studi giuridici, la scientia iuris dei predetti giuristi è sostituita dalla legum scientia o doctrina, pure indicata sovente con l’espressione legitima scientia. Mi paiono, tra gli altri, significativi due passi, tratti rispettivamente dalla Const. Imperatoriam, relativa alla pubblicazione delle Istituzioni imperiali, e dalla Const. Omnem, dedicata alla menzionata riforma degli studi giuridici[6].

 

Imp. § 3: Cumque hoc deo propitio peractum est, Triboniano viro magnifico magistro et exquaestore sacri palatii nostri, nec non Theophilo et Dorotheo viris illustribus antecessoribus, quorum omnium sollertiam et legum scientiam et circa nostras iussiones fidem iam ex multis rerum argumentis accepimus, convocatis specialiter mandavimus, ut nostra auctoritate nostrisque iussionibus componant institutiones: ut liceat vobis prima legum cunabula non ab antiquis fabulis discere, sed ab imperiali maiestate appetere, et tam aures quam animae vestrae nihil inutile nihilque perperam positum, sed quod in ipsis rerum optinet argumentis accipiant …

 

Omnem, § 11: Incipite igitur legum doctrinam eis dei gubernatione tradere et viam aperire quam nos invenimus, quatenus fiant optimi iustitiae et rei publicae ministri et vos maximum decus in omne saeculum sequatur: quia vestris temporibus talis legum inventa est permutatio, qualem et apud Homerum patrem omnis virtutis Glaucus et Diomedes inter se faciunt dissimilia permutantes.

 

Accanto alla sostituzione della legum scientia o doctrina alla scientia iuris, è da sottolineare il convincimento, orgogliosamente espresso da Giustiniano, di aver realizzato, con le modifiche in essa rientranti, una trasformazione senza pari nel campo giuridico, da lui paragonata allo scambio dell’oro col bronzo. Si colloca nella medesima linea l’annuncio dell’imperatore ai giovani, intraprendenti gli studi legali, che potranno apprendere i prima legum cunabula (detti altrove totius eruditionis prima fundamenta atque elementa)[7] non più dalle fabulae degli antichi, bensì dalla luce imperiale, splendente nelle Istituzioni redatte su suo incarico dal ministro Triboniano e dai professori Teofilo e Doroteo, dei quali ha conosciuto da tempo, la solerzia, la scienza legale e la fedeltà ai propri ordini.

Non è dubbio che la trasformazione senza precedenti, vantata da Giustiniano, concerneva in primo piano gli accennati problemi generali del diritto.

L’utilizzazione del diritto romano come diritto vigente ha implicato storture non ancora compiutamente superate dalla scienza romanistica. Sono in re ipsa la negazione della storia, in campo giuridico (non solo, a ben vedere, limitatamente all’esperienza romana), e lo sganciamento del diritto dalla sottostante realtà economico-sociale, anzi dalla stessa forma costituzionale, che pure rientra in esso[8]. In tale utilizzazione si trovano, a ben vedere, i presupposti della purezza del diritto teorizzata con vasto, se pure non duraturo, consenso da Hans Kelsen nel secolo scorso[9]. Quale possa essere il valore di questa teorizzazione, è innegabile che essa accantona la storia e la vita reale, alle quali il diritto è invece indissolubilmente legato. La concezione, produzione, interpretazione e applicazione del diritto, come il ruolo della scienza giuridica, non risultano (non possono essere) eguali negli assetti democratici e in quelli assolutistici. Essi furono incommensurabilmente diversi nel sistema della democrazia repubblicana e in quello dell’assolutismo imperiale ricevuto e ridisegnato da Giustiniano.

Ai fini dell’utilizzazione del diritto romano quale diritto vigente si è fatto essenzialmente riferimento, anche per i problemi generali, alla visione giustinianea. Al tempo della ricerca delle interpolazioni (fin verso la metà del secolo scorso), il radicamento in tale visione ha distolto l’attenzione, per tali problemi, dagli elementi rimasti nelle fonti, o da esse arguibili, delle diverse concezioni e soluzioni risalenti alla democrazia repubblicana e del loro superamento nella transizione da essa al dominato attraverso la fase intermedia del principato. In seguito il crescente ostracismo alle interpolazioni, tradottosi in un antistorico disinteresse per le medesime, ha prolungato – in definitiva consolidato – nella scienza romanistica, in ordine agli stessi problemi, l’atteggiamento precedente. Ancora oggi valenti esponenti di essa sostengono, in contrasto con dati non oppugnabili, l’identità della concezione del diritto, dell’equità, della giustizia, ecc., nell’esperienza giuridica classica e in quella giustinianea.

Elementi portanti della visione giustinianea (rectius: da essi derivati) continuano a trovare larga accoglienza nell’attuale scienza giuridica. E continuano altresì ad essere percepiti, anziché nella loro storicità, come immanenti al fenomeno giuridico. E’ palese che la falsata percezione discende dalle implicazioni menzionate (sganciamento dalla storia e dalla realtà regolata) dell’impiego, come diritto vigente, del diritto romano identificato in quello della compilazione giustinianea. Si ignora che posizioni teoriche, oggi sostenute od osteggiate nella nostra esperienza, derivano da Giustiniano; si trascura che esse riflettono l’assolutismo del potere imperiale (che, se pure destinate, nel disegno giustinianeo, a valere anche in ogni evo futuro, rispondevano alle condizioni del tempo: in primis all’accennato assolutismo); non si tiene conto che le idee giustinianee, matrici di quelle della posteriore tradizione romanistica, furono sì oggetto, nella fase finale dell’esperienza romana, dell’elaborazione sfociata nella compilazione, ma costituirono prima il frutto del plurisecolare processo di rimozione delle contrapposte concezioni consone alla democrazia repubblicana (risalenti all’epoca in cui si formò la scienza giuridica).

Occorre tradurre nelle ricerche il convincimento della storicità delle elaborazioni e teorizzazioni in campo giuridico, dell’influenza su essi esercitata dalle sottostanti condizioni economico-sociali e delle connessioni esistenti tra la concezione del diritto e la sua produzione, interpretazione e applicazione (nelle quali si inserisce anche il ruolo riconosciuto alla scienza giuridica), come pure tra esse e la configurazione del potere, sopra esemplificata nelle forme contrapposte della democrazia e dell’assolutismo. Occorre altresì prendere atto che le concezioni giustinianee in materia, dalle quali derivano quelle tradizionali ancora accolte nella nostra esperienza, non sono consone all’attuale assetto democratico, dominante in Europa. In particolare, per la percezione di questo punto, giova la considerazione della vicenda che ha portato, nell’esperienza romana, dalle vedute rispondenti alla democrazia repubblicana a quelle appropriate all’assolutismo imperiale recepite e rielaborate nella compilazione giustinianea[10]. Sarà così possibile evitare la sterile contrapposizione tra difesa e rifiuto delle concezioni tradizionali, avviandone il necessario adeguamento, alla luce dell’esperienza storica, alle esigenze del presente, in primo luogo alla configurazione democratica del potere.

Il presente scritto, collocantesi nella prospettiva affacciata, ha come oggetto un limitato settore della vastissima materia messa in gioco (quello del ruolo della scienza giuridica annunciato nel titolo) e anche per questo non offre una trattazione completa, ma una sorta di introduzione condotta per exempla.

 

 

2. – Ho sopra accennato alla persistenza, nella scienza romanistica, in merito ai problemi generali del diritto, di implicazioni dell’utilizzazione del diritto romano come diritto vigente. Per il ruolo della scienza  giuridica un esempio significativo può vedersi nel recente scritto in materia, dotto e documentato, di Giuseppe Falcone sul tema della vera philosophia, affectata, secondo Ulpiano, dai giuristi e contrapposta dallo stesso alla philosophia simulata, considerato nell’ambito della «raffigurazione ulpianea dei giuristi»[11].

Sul tema specifico lo studioso riprende e sviluppa uno spunto del Nörr, secondo cui Ulpiano avrebbe criticato enunciazioni di Cicerone[12]. Precisamente, scrive il Falcone, Ulpiano avrebbe «inteso replicare alle sprezzanti critiche contro i giuristi formulate nell’orazione ciceroniana pro Murena e in particolare nell’affermazione (§ 30) che lo studium dei giuristi, il loro impegno e la loro applicazione altro non sarebbero che la ‘simulatio prudentiae’ risolventesi in una mera interpretatio verborum», mentre la «conclusione sul ‘veram philosophia affectare’ da parte dei giuristi», segnerebbe «una presa di distanza anche dall’idea proclamata … da Cicerone», in chiusura del libro primo del De legibus (§ 62), «secondo la quale il vir bonus portatore di iustitia, deve impegnarsi nella pars dialectica philosophiae e nell’oratoria»[13]. In sintesi, secondo l’interpretazione proposta dallo studioso circa il pensiero di Ulpiano, contrapponentesi sul punto a quello di Cicerone, la vera philosophia e quella simulata si sarebbero trovate, rispettivamente, nella pars moralis (precisata come «campo dell’aequum, del iustum e dell’honestum»[14]) e nella pars dialectica philosophiae.

Sul tema generale il Falcone è pervenuto a sostenere l’identità del ruolo della scienza giuridica e, con esso, delle concezioni del diritto, dell’aequitas, della iustitia in Ulpiano e nel diritto giustinianeo. Tutte le enunciazioni contenute nella parte da lui considerata (pr.-1) del frammento 1 e nel frammento 10 del titolo primo dei Digesta deriverebbero dalla scrittura ulpianea, in esse non si riscontrerebbero aporie o contraddizioni e i compilatori giustinianei, avendole ritenute pienamente rispondenti alle proprie vedute, non le avrebbero in alcun modo manipolate.

Indico una serie di elementi, a mio avviso decisivi, ancora trascurati dallo studioso, in consonanza con il comune indirizzo della scienza romanistica, nel quale si concreta la ricordata sopravvivenza di implicazioni dell’impiego del diritto romano come diritto vigente. Per quanto attiene ai problemi generali, permane il convincimento che il diritto romano sia stato identico nelle varie epoche. Nasceva da questo convincimento la giustificazione (ancora al presente sottesa ad alcune posizioni) della sua utilizzazione: essendo esso stato idoneo a risolvere i diversissimi problemi della convivenza umana emersi nell’ultramillenaria storia di Roma, continua ad esserlo ancora al presente.

Inizio ricordando, tra gli elementi ancora trascurati dal Falcone, il raffronto tra il frammento ulpianeo in considerazione, con cui si aprono i Digesta, e il titolo iniziale delle Istituzioni giustinianee, le quali – occorre sottolineare – costituirono il luogo privilegiato per l’enunciazione, da parte dell’imperatore, del nuovo verbo giuridico.

 

D. 1.1.1pr.-2 (Ulp. 1 inst.):

Iuri operam daturum prius nosse oportet, unde nomen iuris descendat. est autem a iustitia appellatum: nam, ut eleganter Celsus definit, ius est ars boni et aequi. Cuius merito quis nos sacerdotes appellet: iustitiam namque colimus et boni et aequi notitiam profitemur, aequum ab iniquo separantes, licitum ab illicito discernentes, bonos non solum metu poenarum, verum etiam praemiorum quoque exhortatione efficere cupientes, veram nisi fallor philosophiam, non simulatam affectantes. Huius studii duae sunt positiones, publicum et privatum. publicum ius est quod ad statum rei Romanae spectat, privatum quod ad singulorum utilitatem: sunt enim quaedam publice utilia, quaedam privatim. publicum ius in sacris, in sacerdotibus, in magistratibus consistit. privatum ius tripertitum est: collectum etenim est ex naturalibus praeceptis aut gentium aut civilibus.

Inst. 1.1:

Iustitia est constans et perpetua voluntas ius suum cuique tribuens. Iuris prudentia est divinarum atque humanarum rerum notitia, iusti atque iniusti scientia. His generaliter cognitis et incipientibus nobis exponere iura populi Romani ita maxime videntur posse tradi commodissime, si primo levi ac simplici, post deinde diligentissima atque exactissima interpretatione singula tradantur. alioquin si statim ab initio rudem adhuc et infirmum animum studiosi multitudine ac varietate rerum oneraverimus, duorum alterum aut desertorem studiorum efficiemus aut cum magno labore eius, saepe etiam cum diffidentia, quae plerumque iuvenes avertit, serius ad id perducamus, ad quod leniore via ductus sine magno labore et sine ulla diffidentia maturius perduci potuisset. Iuris praecepta sunt haec: honeste vivere, alterum non laedere, suum cuique tribuere. Huius studii duae sunt positiones, publicum et privatum. publicum ius est, quod ad statum rei Romanae spectat, privatum, quod ad singulorum utilitatem pertinet. dicendum est igitur de iure privato, quod est tripertitum: collectum est enim ex naturalibus praeceptis aut gentium aut civilibus.

 

Il luogo riferito del Digesto, se pure in esso si menziona anche la iustitia, è dedicato al diritto: il secondo degli elementi annunziati nel titolo de iustitia et iure. Viceversa il brano delle Istituzioni esaurisce la trattazione del titolo omonimo. In esso il diritto, assunto quale oggetto di studio, è considerato nei §§ 3 e 4. I compilatori delle Istituzioni ebbero presente la trattazione ulpianea in argomento, della quale utilizzarono la parte finale: huius studii duae sunt positiones, publicum et privatum ecc. Non ritennero invece consona alle loro vedute e ai loro intenti l’enunciazione precedente in cui il diritto è individuato nell’ars boni et aequi. A questa individuazione essi preferirono l’identificazione del diritto nei tre praecepta: honeste vivere, alterum non laedere, suum cuique tribuere.

La qualifica ‘del diritto’ (iuris) attribuita ai suddetti praecepta risponde alla visuale accolta nella compilazione, secondo la quale essi fondano e reggono l’intero fenomeno giuridico. La loro primitiva formulazione si era peraltro avuta nel campo filosofico: come ha concorso a chiarire il Falcone, essi sono sorti – perlomeno nella formulazione ricevuta nella compilazione – come precetti morali nella filosofia stoica. Si deve inoltre rilevare che essi non sono trasferibili tout-court nel campo del diritto. Honeste vivere, inteso quale precetto giuridico, si presenta erroneo. Nel Digesto è considerata, tra le regulae iuris antiqui, l’asserzione paolina, secondo cui non omne quod licet honestum est[15]. Almeno nella nostra tradizione i confini del diritto sono più arretrati rispetto a quelli della morale e della religione. Non appartiene, ad esempio, al diritto la prescrizione di visitare gli infermi oppure di vestire gli ignudi. L’onestà è fondamentale nelle relazioni umane, ma non è compito del diritto perseguirne le violazioni che non si concretino in infrazioni di prescrizioni giuridiche[16]. Anche le generiche e indeterminate prescrizioni di alterum non laedere e suum cuique tribuere non sono proprie dell’elaborazione giuridica. La prima prescrizione era precisata, nel diritto romano, come divieto di recare danno (ad altri) iniuria, in contrasto cioè col ius configurato alla stregua del bonum et aequum, e, nella definizione di iustitia, elaborata da Ulpiano, il suum è sostituito da ius suum, vale a dire dal diritto, in senso soggettivo, attribuito a ciascuno (dei consociati) sempre sulla base del bonum et aequum.

La differenza, se pure finora trascurata dalla dottrina, tra la visuale ulpianea e quella dei compilatori delle Istituzioni, l’una dell’ars e l’altra dei praecepta iuris, è radicale. Secondo la visuale dell’ars, il diritto è in tutto e per tutto un prodotto umano: sono tali, in primis, i supremi criteri individuati nel bonum et aequum, che guidano (devono guidare) nel porlo, interpretarlo e applicarlo; per contro, secondo la visuale dei praecepta iuris, in cui è immedesimato il diritto, questa non costituisce un prodotto umano, ma preesiste all’uomo: i praecepta sono posti (o comunque derivano) da Dio, dalla natura, dalla religione, dalla divina provvidenza; l’uomo li trova già confezionati e deve applicarli.

Nei tria praecepta si trova il nucleo antico delle impostazioni giusnaturalistiche. Un abbozzo venne enunciato, com’è noto, dagli stessi compilatori delle Istituzioni (1.2.11): Sed naturalia quidem iura, quae apud omnes gentes peraeque servantur, divina quadam providentia constituta, semper firma atque immutabilia permanent[17].

La perpetua immutabilità dei iura naturalia comporta la loro sottrazione alla disponibilità umana. Essi, in quanto eternamente immutabili (e, quindi, già stabiliti), sono esclusi dall’ars boni et aequi: dall’attività dell’uomo che pone e interpreta il diritto. Il passo presenta connessioni, sia con la definizione gaiana del ius gentium (Gai. 1.1) sia con l’enunciazione paolina circa il ius naturale (D. 1.1.11pr., Paul. 14 ad Sab.). Appare tuttavia evidente, e preminente, il filo che lo lega – sembra in modo diretto – ad impostazioni della filosofia stoica[18].

Può vedersi, in aggiunta ai testi citati dal Falcone,

 

Cic., de rep. 3.22.33 [K. Ziegler]: (Lael.) est quidem vera lex recta ratio, naturae congruens, diffusa in omnis, constans, sempiterna, quae vocet ad officium iubendo, vetando a fraude deterreat, quae tamen neque probos frustra iubet aut vetat, nec improbos iubendo aut vetando movet. huic legi nec obrogari fas est, neque derogari aliquid ex hac licet, neque tota abrogari potest, nec vero aut per senatum aut per populum solvi hac lege possumus, neque est quaerendus explanator aut interpres Sextus Aelius, nec erit alia Romae, alia Athenis, alia nunc, alia posthac, sed et omnes gentes et omni tempore una lex et sempiterna et inmutabilis continebit, unusque erit communis quasi magister et imperator omnium deus: ille legis huius inventor, disceptator, lator; cui qui non parebit, ipse se fugiet, ac naturam hominis aspernatus hoc ipso luet maximas poenas, etiamsi cetera supplicia quae putantur effugerit.

 

Il raffronto tra i brani in considerazione di Ulpiano e dei compilatori giustinianei va allargato al frammento 10 del titolo primo del Digesto.

 

D. 1.1.1pr.-2 (Ulp. 1 inst.):

Iuri operam daturum prius nosse oportet, unde nomen iuris descendat. est autem a iustitia appellatum: nam, ut eleganter Celsus definit, ius est ars boni et aequi. Cuius merito quis nos sacerdotes appellet: iustitiam namque colimus et boni et aequi notitiam profitemur, aequum ab iniquo separantes, licitum ab illicito discernentes, bonos non solum metu poenarum, verum etiam praemiorum quoque exhortatione efficere cupientes, veram nisi fallor philosophiam, non simulatam affectantes. Huius studii duae sunt positiones, publicum et privatum. publicum ius est quod ad statum rei Romanae spectat, privatum quod ad singulorum utilitatem: sunt enim quaedam publice utilia, quaedam privatim. publicum ius in sacris, in sacerdotibus, in magistratibus consistit. privatum ius tripertitum est: collectum etenim est ex naturalibus praeceptis aut gentium aut civilibus.

Inst. 1.1:

Iustitia est constans et perpetua voluntas ius suum cuique tribuens. Iuris prudentia est divinarum atque humanarum rerum notitia, iusti atque iniusti scientia. His generaliter cognitis et incipientibus nobis exponere iura populi Romani ita maxime videntur posse tradi commodissime, si primo levi ac simplici, post deinde diligentissima atque exactissima interpretatione singula tradantur... Iuris praecepta sunt haec: honeste vivere, alterum non laedere, suum cuique tribuere. Huius studii duae sunt positiones, publicum et privatum. publicum ius est, quod ad statum rei Romanae spectat, privatum, quod ad singulorum utilitatem pertinet. dicendum est igitur de iure privato, quod est tripertitum: collectum est enim ex naturalibus praeceptis aut gentium aut civilibus.

D. 1.1.10 (Ulp. 1 reg.):

Iustitia est constans et perpetua voluntas ius suum cuique tribuendi. Iuris praecepta sunt haec: honeste vivere, alterum non laedere, suum cuique tribuere. Iuris prudentia est divinarum atque humanarum rerum notitia, iusti atque iniusti scientia.

 

Senza dubbio il testo delle Istituzioni rispecchia le vedute di Giustiniano, il quale aveva affidato la composizione del nuovo manuale al proprio ministro Triboniano e ai due più illustri esponenti delle scuole di diritto di Costantinopoli e di Berito, Teofilo della prima e Doroteo della seconda. L’imperatore ricorda che aveva scelto i tre commissari, oltre che per la loro solerzia e legum scientia, per averne sperimentato la fedeltà alle proprie disposizioni, e che aveva quindi letto l’opera presentatagli, destinata a contenere gli elementi fondamentali di tutto il sapere legale, riconoscendola adeguata alle esigenze, prima di attribuire ad essa valore di legge. Come le Istituzioni di Gaio sono l’espressione del diritto classico rispetto a quello giustinianeo, così le Istituzioni imperiali lo sono per il diritto della compilazione rispetto, da un lato, al diritto classico, e, dall’altro, al posteriore sviluppo del diritto bizantino.

Il principio e i paragrafi 1 e 3 delle Istituzioni giustinianee, recanti le definizioni di iustitia e di iuris prudentia e l’enunciazione dei praecepta iuris, corrispondono – salvo uno spostamento nell’ordine e una variante nella definizione di iustitia  al principio e ai paragrafi 1 e 2 del frammento 10, derivato, secondo l’inscriptio, dal libro primo delle Regulae di Ulpiano. Viceversa il paragrafo 4 del manuale imperiale (huius studii duae sunt positiones ecc.) ricalca, come si è visto, il paragrafo 2 del frammento 1, con cui si apre il titolo iniziale del Digesto e del quale è ritenuta pacifica la paternità ulpianea. Sono ancora da rilevare, in limine, le divergenze intercorrenti, circa la concezione del diritto e il ruolo dei giuristi, tra le Istituzioni giustinianee ed il predetto frammento 10, da una parte, e il brano riferito del menzionato frammento 1 dall’altra. La divergenza in merito al ruolo dei giuristi non è meno profonda di quella sopra considerata in ordine alla concezione del diritto. La sua negazione, generalizzata nella dottrina, nei riguardi dei testi in esame, trascura il loro tenore e altre inequivoche attestazioni delle fonti.

Pomponio, in D. 1.1.1.12 (l. sing. ench.), riassumendo e attualizzando la precedente trattazione di carattere storico circa le partes iuris, asseriva, per il suo tempo (per l’età postadrianea), che ita in civitate nostra iure, id est lege, constituitur, aut est proprium ius civile, quod sine scripto in sola prudentium interpretatione consistit …

Per contro Giustiniano, nella costituzione conservata in C. 1.14.12, respingendo i dubbi emersi, stabilì che ogni interpretazione imperiale, sive in precibus sive in iudiciis sive alio quocumque modo facta, era vincolante (rata et indubitata: aveva, in sostanza, valore legislativo), fornendo questa giustificazione: si enim in praesenti leges condere soli imperatori concessum est, et leges interpretari solum dignum esse imperio oportet. L’esclusiva riserva dell’interpretatio all’imperatore è ribadita nella costituzione Tanta, § 21,  a proposito delle ambiguità che fossero ravvisate nel Digesto (la disposizione ha peraltro valore generale): si quid...ambiguum fuerit visum, hoc ad imperiale culmen per iudices referatur et ex auctoritate Augusta manifestetur, cui solum concessum est leges et condere et interpretari.

Il concorso dei giuristi (verosimilmente di quelli muniti del ius respondendi ex auctoritate principis) alla creazione del diritto è pure attestato, com’è noto, da Gaio[19] e da Papiniano[20] e persisteva ancora al tempo di Ulpiano. Esso è invece sicuramente escluso in forza delle prescrizioni giustinianee. Ai luoghi già citati possono aggiungersi i paragrafi 12 e 13 della costituzione Deo auctore e la parte non riferita del paragrafo 21 della costituzione Tanta.

 

Deo auctore, §§ 12-13: Nostram autem consummationem, quae a vobis deo adnuente componetur, digestorum vel pandectarum nomen habere sancimus, nullis iuris peritis in posterum audentibus commentarios illi applicare et verbositate sua supra dicti codicis compendium confundere. quemadmodum et in antiquioribus temporibus factum est, cum per contrarias interpretantium sententias totum ius paene conturbatum est: sed sufficiat per indices tantummodo et titulorum suptilitatem quaedam admonitoria eius facere, nullo ex interpretatione eorum vitio oriundo. Ne autem per scripturam aliqua fiat in posterum dubitatio, iubemus non per siglorum captiones et compendiosa aenigmata, quae multas per se et per suum vitium antinomias induxerunt, eiusdem codicis textum conscribi: etiam si numerus librorum significatur aut aliud quicquam: nec haec etenim per specialia sigla numerorum manifestari, sed per litterarum consequentiam explanari concedimus.

 

Tanta, § 21: Hoc autem, quod et ab initio nobis visum est, cum hoc opus fieri deo adnuente mandabamus, tempestivum nobis videtur et in praesenti sancire, ut nemo neque eorum, qui in praesenti  iuris peritiam habent, nec qui postea fuerint audeat commentarios isdem legibus adnectere: nisi tantum si velit eas in graecam vocem transformare sub eodem ordine eaque consequentia, sub qua voces romanae positae sunt (hoc quod graeci kat¦ pÒda dicunt), et si qui forsitan per titulorum subtilitatem adnotare maluerint et ea quae par£titla nuncupantur componere. alias autem legum interpretationes, immo magis perversiones eos iactare non concedimus, ne verbositas eorum aliquid legibus nostris adferat ex confusione dedecus. quod et in antiquis edicti perpetui commentatoribus factum est, qui opus moderate confectum huc atque illuc in diversas sententias producentes in infinitum detraxerunt, ut paene omnem Romanam sanctionem esse confusam. quos si passi non sumus, quemadmodum posteritatis admittatur vana discordia? si quid autem tale facere ausi fuerint, ipsi quidem falsitatis rei constituantur, volumina autem eorum omnimodo corrumpentur.

 

Si è posto in dottrina il problema se le prescrizioni riferite, enunciate relativamente al Digesto, valessero per l’intera compilazione. Il loro raffronto con l’assoluta riserva dell’interpretatio all’imperatore, già disposta in C. 1.14.12 nel 529, esclude al riguardo ogni dubbio. Si dovrebbe porre, caso mai, il problema inverso: le attività consentite da Giustiniano ai giuristi (identificati nei professori di diritto), per il Digesto, lo erano anche per le altre parti della compilazione? Come emerge anche dalle testimonianze del lavoro svolto dai maestri bizantini contemporanei e posteriori a Giustiniano, la risposta è positiva.

Resta in ogni modo ferma l’esclusione, per i giuristi, di ogni attività avente risvolti creativi, della quale si vedeva il prototipo nei commentari; ad essi erano consentiti soltanto la traduzione letterale in greco, la redazione di brevi riassunti (indici) ed il richiamo di titoli (in generale luoghi) paralleli, attività tutte ritenute, se pure a torto, meramente espositive-ricognitive[21]. Ogni altra attività interpretativa, definita da Giustiniano perversio, in quanto non effettuata dall’imperatore, al quale esclusivamente competeva, come unico conditor et interpres legum, è ad essi rigorosamente vietata, con la comminazione di pene severe ai trasgressori: si quid autem tale facere ausi fuerint, ipsi quidem falsitatis rei constituantur, volumina autem eorum omnimodo corrumpentur.

Sono da richiamare altri elementi concomitanti, fra i quali le prescrizioni dettate nei paragrafi 10 e 19 della costituzione Tanta.

 

Tanta, § 10: Tanta autem nobis antiquitati habita est reverentia, ut nomina prudentium taciturnitati tradere nullo patiamur modo: sed unusquisque eorum, qui auctor legis fuit, nostris digestis inscriptus est: hoc tantummodo a nobis effecto, ut, si quid in legibus eorum vel supervacuum vel imperfectum aut minus idoneum visum est, vel adiectionem vel deminutionem necessariam accipiat et rectissimis tradatur regulis. et ex multis similibus vel contrariis quod rectius habere apparebat, hoc pro aliis omnibus positum est unaque omnibus auctoritate indulta, ut quidquid ibi scriptum est, hoc nostrum appareat et ex nostra voluntate compositum: nemine audente comparare ea quae antiquitas habebat his quae nostra auctoritas introduxit, quia multa et maxima sunt, quae propter utilitatem rerum transformata sunt. adeo ut et si principalis constitutio fuerat in veteribus libris relata, neque ei pepercimus, sed et hanc corrigendam esse putavimus et in melius restaurandam. nominibus etenim veteribus relictis, quidquid legum veritati decorum et necessarium fuerat, hoc nostris emendationibus servavimus. et propter hanc causam et si quid inter eos dubitabatur, hoc iam in tutissimam pervenit quietem, nullo titubante relicto.

 

Giustiniano ricorda che i testi classici sono stati modificati soltanto quando in essi si è trovato alcunché di superfluo, di inesatto e di poco idoneo, ma che, nel complesso, le trasformazioni compiute furono molte e di grandissimo rilievo, giustificando con esse, il divieto stabilito di confrontare la scrittura inserita nella compilazione con quella dei testi all’uopo utilizzati. In effetti, in assenza di ‘interpolazioni’ aventi valore sostanziale, non si spiegherebbe tale divieto.

Può essere che le parole usate da Giustiniano per rappresentare le innovazioni apportate (multa et maxima sunt, quae propter utilitatem rerum transformata sunt) contengano qualche enfasi. E’ certo, peraltro, che i mutamenti apportati in ordine al ruolo dei giuristi (in generale alla concezione del diritto e alla sua produzione, interpretazione e applicazione) rappresentarono rivolgimenti profondi (è difficile, in materia, indicarne maggiori). In presenza dei dati rilevati (non tanto dell’attestazione di Giustiniano, isolatamente considerata, circa la quantità e l’entità dei mutamenti recati, quanto connessa al fatto che, a causa di essi, vietò il confronto tra i testi della compilazione e quelli originari), l’atteggiamento attualmente dominante nella dottrina romanistica, tendente ad ignorare, se non proprio a negare, l’esistenza delle interpolazioni, soprattutto nel Digesto, si presenta antistorico[22].

 

Tanta, § 19: … Hasce itaque leges et adorate et observate omnibus antiquioribus quiescentibus: nemoque vestrum audeat vel comparare eas prioribus vel, si quid dissonans in utroque est, requirere, quia omne quod hic positum est hoc unicum et solum observari censemus. Nec in iudicio nec in alio certamine, ubi leges necessariae sunt, ex aliis libris, nisi ab iisdem institutionibus nostrisque digestis et constitutionibus a nobis compositis vel promulgatis aliquid vel recitare vel ostendere conetur, nisi temerator velit falsitatis crimini subiectus una cum iudice, qui eorum audientiam patiatur, poenis gravissimis laborare.

 

Nel paragrafo è attestato l’intento di Giustiniano di operare una cesura completa tra il diritto della compilazione (le nuove leggi) e quello anteriore (le leggi previgenti). Solo le leggi contenute nella compilazione hanno valore e devono essere osservate, mentre quelle precedenti vanno dimenticate (giacciano in un sonno mortale). Per dare concreta attuazione alla cesura divisata, l’imperatore vietò, vuoi di confrontare le nuove leggi con quelle anteriori, vuoi, in generale, di utilizzare (recitare vel ostendere), nelle controversie legali, qualsiasi altro testo al di fuori delle Istituzioni, del Digesto e delle costituzioni raccolte nel Codice o da lui promulgate, comminando per il trasgressore, come per il giudice, che gli avesse dato ascolto, la pena, detta gravissima, del crimine di falso.

Come si vede, secondo il disegno di Giustiniano, i giuristi, da un lato, non potevano avvalersi di altri testi all’infuori della compilazione e delle costituzioni che la integravano, e, dall’altro, non potevano svolgere, nei confronti del complesso legislativo da lui promanante, alcuna attività non creduta meramente ricognitiva-espositiva.

Per quanto attiene al ruolo dei giuristi, il quadro delineato richiede ancora un’integrazione col dato forse più significante. Giustiniano, sussumendo i iura nelle leges, riservò all’autorità imperiale anche la futura elaborazione dottrinale. In quanto legge, gli elementi concettuali-dottrinali, non diversamente da quelli propriamente normativi, non potevano essere modificati dai giuristi, che, nel progetto giustinianeo, avevano esclusivamente il compito di annunciarli e ripeterli in modo pedissequo.

In presenza di tutto ciò, l’opinione, tuttora seguita nella scienza romanistica, secondo cui Ulpiano e i compilatori delle Istituzioni imperiali avrebbero avuto la medesima visione circa il ruolo dei giuristi, appare priva di fondamento. Essa non può neppure accogliersi come congettura da verificare, risultando, come si è visto, in aperto contrasto con inequivoche attestazioni delle fonti. Se effettivamente la rappresentazione ulpianea del ruolo del giurista, pervenuta, in D. 1.1.1.1 e la definizione di iuris prudentia, enunciata, dopo quella di iustitia, in apertura del manuale giustinianeo, risultassero consonanti, occorrerebbe supporre o un’interpolazione della prima o una macroscopica disattenzione nei confronti delle suasiones imperiali da parte dei compilatori del secondo[23]. Le due ipotesi non sono però realistiche e lo sarebbe ancor meno quella di una crassa ignoranza da parte dei commissari addetti, Triboniano, Teofilo e Doroteo. Per superare le difficoltà, poste dai testi in esame, si deve percorrere un’altra strada.

E’ impossibile sapere con certezza se la raffigurazione del ruolo del giurista, tramandata nel frammento con cui iniziano i Digesta, sia integralmente genuina. Ritengo però sicuro, come mi accingo a mostrare, che tale raffigurazione rispecchi una visione radicalmente diversa da quella sottesa alla definizione di iuris prudentia enunciata nel manuale giustinianeo.

 

 

3. – I compilatori delle Istituzioni ebbero cura, nel redigerle, di sostituire, secondo la rappresentazione di Giustiniano, alle chiacchere (fabulae) degli antichi la legum doctrina nella nuova linea da lui tracciata (inventa). Ai fini di tale sostituzione il titolo iniziale, de iustitia et iure, rivestiva un’importanza basilare e si deve perciò ritenere, fino a prova contraria, che essi abbiano posto ogni attenzione nel comporlo.

A differenza di Ulpiano, i compilatori delle Istituzioni non presero le mosse dal diritto (nella visione giustinianea assorbito, da un lato, nella legge e identificato, dall’altro, nei praecepta iuris), bensì dalla iustitia, aprendo con la relativa definizione il titolo e il manuale. In particolare essi omisero la definizione celsina del diritto come ars boni et aequi, dimostrando così di non annoverarla più, contrariamente a Ulpiano, tra i prima fundamenta atque elementa di tutta l’istruzione in campo giuridico (secondo la visuale giustinianea, della legitima scientia). Nel testo ulpianeo alla definizione del diritto è agganciata la raffigurazione del ruolo del giurista: ius est ars boni et aequi. Cuius studii merito quis nos sacerdotes appellet, in ragione delle attività che, in qualità di giuristi, svolgiamo, fra le quali rilevano qui, in generale, il boni et aequi notitiam profiteri e, specificamente, la separazione dell’aequum dall’iniquum. Nel titolo in oggetto delle Istituzioni, in luogo della suddetta raffigurazione è enunciata la definizione di iuris prudentia, agganciata, anziché alla visuale del diritto, a quella della giustizia in senso oggettivo, come mostra specialmente l’individuazione di uno degli elementi del relativo definiens (quello concernente in modo specifico i giuristi) nella iusti atque iniusti scientia. Per non cogliere la macroscopica differenza attestata nei testi in esame tra il diritto classico e il diritto giustinianeo, in merito al ruolo dei giuristi, sembra necessario chiudere gli occhi. La sua mancata percezione (la chiusura degli occhi per non vederla) è un retaggio dell’utilizzazione del diritto romano come diritto vigente. Dalle attestazioni delle fonti emerge chiaramente, per l’esperienza classica, la visuale dell’ars boni et aequi e, per quella giustinianea, la visuale della iusti atque iniusti scientia. Le differenti visuali sono testimoniate anche in relazione a soluzioni concrete. Gaio riferisce, nelle sue Istituzioni (3.149) la magna quaestio, della quale erano stati protagonisti Quinto Mucio Scevola e Servio Sulpicio Rufo, a proposito della partecipazione agli utili e alle perdite nella società. La disputa aveva al centro la questione an ita coiri possit societas, ut quis maiorem partem lucretur minorem damni praestet. Nel testo si ricorda che era prevalsa la sententia favorevole all’ammissione del patto, sostenuta da Servio, secondo il quale la società illo quoque modo coiri potest, ut quis nihil omnino damni praestet, sed lucri partem capiat, si modo opera eius tam pretiosa videatur, ut aequum sit eum cum hac pactione in societatem admitti. Nelle Istituzioni giustinianee è riproposta la disputa riferita, con diverse varianti, una delle quali è rappresentata dalla sostituzione di iustum a aequum nella giustificazione della sententia prevalsa: quia saepe quorundam ita pretiosa est opera in societate, ut eos iustum sit meliore conditione in societatem admitti. Se i compilatori delle Istituzioni avessero ritenuto equivalenti aequum e iustum, non avrebbero, con ogni verosimiglianza, sostituito il secondo al primo.

Per l’utilizzazione del diritto romano come diritto vigente si era reso necessario il superamento delle diversità che esso aveva presentato nelle diverse epoche.  Nell’ambito in esame furono seguite due vie. Il contrasto tra l’ars boni et aequi e la iusti atque iniusti scientia venne superato, come ho già rilevato, con l’acritica accettazione dell’accantonamento della prima (risoltosi così nella sua rimozione), operato, come si è visto, dai compilatori delle Istituzioni giustinianee. All’eliminazione del contrasto tra la visuale classica dell’aequum e quella giustinianea del iustum si provvide, viceversa, in via interpretativa, attribuendo ad aequum lo stesso significato di iustum. La ritenuta equivalenza dei due segni è però priva di fondamento. Le risultanze testuali si incontrano coi dati della comune esperienza. Si reputa iustum ciò che risponde alla iustitia e si ritiene che quest’ultima indichi la conformità al iustum. Come si vede, si è di fronte a un circolo vizioso. Di per se stessi i segni iustum e iustitia sono formule vuote, riempibili in modo diverso dai soggetti che procedono al loro riempimento, a seconda dei criteri da essi usati. Per contro aequum esprime, in una col risultato (logicamente prima di esso), il criterio usato per conseguirlo, costituito dall’uguaglianza proporzionale. Il diritto regola i rapporti umani e, nella disciplina di ciascuno di essi, si persegue l’attuazione dell’aequum, il quale indubbiamente non individua ancora le scelte concrete, ma il solo criterio per compierle. Non si può peraltro dire, per questo, che anch’esso sia una Leerformel alla stregua del iustum e dei praecepta iuris. Nel campo giuridico l’aequum ha invece la funzione della bussola o stella polare; fuor di metafora, è il supremo criterio per la posizione delle norme, come per la loro interpretazione e applicazione. Esso soccorre per la soluzione dei casi non previsti dalle norme in vigore o per i quali le norme stesse si rivelino (siano state fin dall’inizio o siano in seguito divenute) inadeguate rispetto al fine specifico del diritto, rappresentato, come si è detto, dall’attuazione dell’aequum (comprensivo del bonum) nei rapporti umani. Nell’esperienza romana il pretore, con l’applicazione del criterio in esame, nella funzione del ius dicere, provvide costruttivamente ad adiuvare, supplere, corrigere il ius civile[24]. Nell’esperienza attuale si avvalgono di esso, nell’espletamento delle rispettive funzioni, le Corti internazionali e le Corti Costituzionali dei singoli paesi.

Si può passare al confronto tra gli elementi della raffigurazione ulpianea del ruolo del giurista e quelli della definizione di iuris prudentia riferita nelle Istituzioni giustinianee. Al qual fine occorre disfarsi dell’impostazione derivata dall’impiego del diritto romano come diritto vigente e ancora seguita nei fatti, secondo la quale i due testi vengono valutati come elementi a sé stanti, aventi valore assoluto. Al contrario devono essere considerati nei rispettivi contesti e, più in generale, calati nei diversi sistemi (quello classico e quello giustinianeo) per i quali sono stati enunciati[25].

Ulpiano, come si è visto, riconnette la descrizione del ruolo del giurista alla definizione del diritto come ars boni et aequi, nella quale è enfatizzato il ‘fare’ rispetto al ‘conoscere’ e ‘sapere’. In coerenza essa è impostata nella stessa ottica. I giuristi possono dirsi meritatamente sacerdoti del diritto perché coltivano (in se stessi e, in generale, nei consociati) la virtù della giustizia e professano l’annuncio del buono e dell’equo, mediante lo svolgimento di più specifiche attività: separare l’equo dall’iniquo, sceverare il lecito dall’illecito, ecc. Al tempo di Ulpiano i giuristi (verosimilmente quelli muniti di ius respondendi) concorrevano, con l’interpretatio, alla produzione del diritto, implicita nelle attività riferite, riservate per contro all’imperatore nel sistema della compilazione. Già Costantino, CTh. 1.2.3, aveva stabilito che l’interpretazione inter aequitatem iusque interposita rientrava nell’esclusivo potere e dovere dell’imperatore. E Giustiniano chiarì che ogni attività interpretativa (al di fuori di quelle specificate, consentite, per l’insegnamento, ai professori di diritto e ritenute meramente ricognitive-ripetitive) era riservata all’autorità imperiale.

Nelle Istituzioni giustinianee la definizione di iuris prudentia non è collegata a quella del diritto come ars boni et aequi, accantonata, come si è detto, dai compilatori delle stesse, bensì alla visione del diritto immedesimato nei praecepta iuris. La differenza è anche a questo proposito radicale. Il versamento del diritto nell’ars riflette, come ho detto, la prospettiva dinamica del fare; per contro il suo appiattimento nei praecepta iuris rispecchia la prospettiva statica del diritto già confezionato e che non è nel potere del giurista (in generale dell’uomo) modificare. Così, mentre nella rappresentazione di Ulpiano, il giurista separa l’equo dall’iniquo e discerne il lecito dall’illecito, in quella dei compilatori delle Istituzioni egli conosce e fa conoscere (insegna) tali separazione e discernimento, quali sono fissati nella legge emanata dall’imperatore.

Entrambi gli elementi che costituiscono il definiens della definizione di iuris prudentia (divinarum atque humanarum rerum notitia, iusti atque iniusti scientia) si collocano nell’alveo del conoscere e sapere. Si è sostenuto che notitia indica una forma affievolita di conoscenza, rispetto a quella espressa con scientia[26], e si è rilevato che la divinarum atque humanarum rerum notitia corrisponde alla nozione di sapienza già conosciuta nell’esperienza romana almeno in età repubblicana avanzata[27]. Sul primo punto si può notare che, nel segno notitia, sembra coesistere, insieme all’idea della conoscenza, quella dell’annuncio[28]. Quanto al secondo punto, il dato posto in luce richiede un’integrazione: nel sistema giustinianeo, anche le cose divine formavano oggetto di disciplina giuridica ricevuta nella compilazione[29] e anch’esse rientravano, quindi, nel bagaglio di conoscenze proprie dei professori (in generale degli uomini) di diritto.

La definizione in oggetto è un capolavoro di abilità: da un lato ha blandito l’orgoglio dei giuristi del suo tempo e delle epoche posteriori[30], dall’altro li ha estromessi, con effetti tuttora perduranti, dal circuito creativo-interpretativo del diritto. La iusti atque iniusti scientia è la conoscenza del giusto e dell’ingiusto posti dall’imperatore senza la cooperazione dei giuristi, i quali si sono lo stesso riconosciuti nella definizione e ne sono rimasti appagati, grazie al disancoramento del diritto dalla visuale dell’ars.

Nel sistema della compilazione i due elementi del definiens della definizione di iuris prudentia appaiono in sintonia rispettivamente col fatto che in esso è contenuta, insieme alla disciplina delle res humanae, quella delle res divinae e con la riconduzione del diritto ai praecepta iuris, la cui articolazione nelle norme, stabilite dal legislatore, determina il iustum e l’iniustum, nella cui conoscenza sono specializzati i professori di diritto.

Non si hanno elementi da cui risulti che i commissari giustinianei avessero la percezione del contrasto esistente, nel quadro complessivo della compilazione, tra la raffigurazione ulpianea del ruolo dei giuristi e la definizione in oggetto di iuris prudentia. Il dato non può tuttavia stupire, dal momento che tale contrasto non è ancora oggi percepito nella scienza romanistica. La ragione sta, come ho già accennato, per i giustinianei, nella sottrazione ai giuristi dell’ars boni et aequi, esclusivamente riservata all’imperatore in una con la produzione e l’interpretazione del diritto. Si può del resto rilevare che, ove il contrasto fosse stato percepito e sottoposto per la soluzione a Giustiniano, secondo quanto previsto nella costituzione Tanta (§ 21)[31], egli lo avrebbe senza dubbio risolto nel senso risultante dal testo delle Istituzioni. Teorizzazioni a noi più vicine, secondo le quali il potere del legislatore non incontra limiti nel campo giuridico, hanno quindi portato al radicale disconoscimento di tale ars: a ritenerla un elemento estraneo al diritto e alla relativa scienza. Il suo recupero  è purtroppo lento e difficile.

 

 

4. – Il confronto isolato tra il frammento 10 del titolo primo dei Digesta e il titolo primo delle Istituzioni giustinianee conduce a ritenere che i compilatori di queste ultime, nel redigere il titolo in considerazione, abbiano attinto dallo stesso luogo del libro primo delle Regulae di Ulpiano, da cui è stato tratto il frammento 10, così come indicato nella relativa inscriptio. E’ questa l’opinione tuttora tramandata nella scienza romanistica. A suo favore depone il dato oggettivo che le definizioni di iustitia e di iuris prudentia e la menzione dei praecepta iuris figurano, se pure non nel medesimo ordine, sia nel pr. e nei §§ 1 e 2 del frammento 10, sia nel pr. e nei paragrafi 1 e 3 del titolo iniziale delle Istituzioni.

Tuttavia la conclusione riferita è contraddetta dagli elementi, allo stato non superabili, emersi dal raffronto tra il frammento ulpianeo (pr.-2), con cui inizia il titolo primo del Digesto, e il titolo corrispondente delle Istituzioni imperiali. Come si è visto, ai due testi sono sottese concezioni radicalmente diverse (si può dire contrapposte) circa la legge, il diritto, la loro interpretazione e applicazione e il ruolo dei giuristi (nel diritto giustinianeo i professori di diritto). Al tempo di Ulpiano (in generale nel diritto classico) la legge era una delle fonti (una fonte ormai atrofizzata) del ius civile, mentre nel sistema della compilazione essa tende a sostituirsi al diritto, assorbendolo in se stessa. Nello stesso sistema la scientia iuris dell’epoca classica è sostituita dalla legum doctrina o legum (o legitima) scientia. Nell’età del principato i giureconsulti erano ancora i protagonisti dell’interpretatio (se pure la condividevano con l’autorità imperiale), concorrendo così alla produzione del diritto; al contrario, nel sistema della compilazione, sia la produzione che l’interpretazione, ora delle leges, erano riservate al solo imperatore. Ulpiano accettava la definizione del diritto come ars boni et aequi e ricollegava al diritto così definito il relativo studio distinto in duae positiones, publicum et privatum; i compilatori delle Istituzioni, tagliando e manipolando il testo del giurista severiano, espunsero dal titolo de iustitia et iure tale definizione, alla quale sostituirono, come oggetto dello studio del diritto, i praecepta iuris: ai loro occhi l’ars boni et aequi, in quanto riservata all’imperatore, era affare esclusivo dello stesso; i giuristi, da essa esclusi, non avevano necessità di conoscerla e i giovani, che si avviavano agli studi giuridici, di apprenderla. Il che trovava concreta esplicazione nel fatto che, come le innovazioni normative, anche i futuri sviluppi degli elementi dottrinali, quali fissati nella compilazione (in specie nelle Institutiones e nei Digesta), erano riservati, in modo esclusivo, all’autorità imperiale. Per altro verso, le concordanze rilevate tra il frammento 10 del titolo primo del Digesto e il titolo de iustitia et iure delle Istituzioni (come pure, aggiungo, la variante che i due testi presentano nella definizione di iustitia) trovano spiegazione nel quadro complessivo delle testimonianze a noi pervenute.

Aldo Schiavone, che ha cercato da ultimo di rinverdire con tratti personali l’opinione tradizionale, basata sulla ritenuta genuinità dell’intero frammento 1.1.10 del Digesto, ha lucidamente travisato, per sostenere il proprio assunto, una serie di elementi attestati, a mio avviso, in modo sicuro dalle fonti[32]. Basterà qui esemplificare.

A proposito della definizione celsina del diritto lo studioso distingue opportunamente i tre livelli del pensiero di Celso, di Ulpiano e dei giustinianei. A suo parere Ulpiano avrebbe inteso ars, in tale definizione, nel senso di «disciplina razionale» con patente valore giusnaturalistico. Si tratta di un ennesimo modo di accantonare la definizione celsina (scomoda, in relazione alle nostre vedute di stampo giuspositivistico o giusnaturalistico), togliendo ad essa gli elementi che la caratterizzano e ne rendono oggi prezioso il recupero per superare la contrapposizione tra visione giuspositivistica e visione giusnaturalistica[33]. Tali elementi consistono fondamentalmente nella percezione della produzione, interpretazione e applicazione del diritto ad opera dell’uomo e nell’individuazione dei criteri da usare (bonum et aequum = ragionevolezza ed uguaglianza) nel porle in essere. Lo studioso ha sostituito alla visuale dinamica e concreta (aderente alla realtà) di Celso-Ulpiano quella statica e astratta (non rispondente alla realtà) ancora oggi dominante.

I compilatori delle Istituzioni giustinianee, ai quali è dovuto il primo accantonamento, attestato dalle fonti, della definizione celsina, ne avevano percepito il significato. Come si è visto, la sua rimozione dalla scienza giuridica (nella loro prospettiva dalla legum doctrina o legitima scientia) fu da essi operata sottraendo l’ars boni et aequi ai giuristi e riservandola all’autorità imperiale. L’interpretazione proposta dallo Schiavone mostra che tale rimozione, operata nel quadro del disegno giustinianeo, non è ancora attualmente superata.

Non sembra meno rilevante e rivelatore un altro travisamento del significato della definizione celsina, in merito al quale lo Schiavone colloca Celso da una parte e Ulpiano e i giustinianei dall’altra. Egli scrive che, per i giustinianei («nelle menti dei maestri di Giustiniano») «bastava che il giusnaturalismo razionale di Ulpiano scivolasse verso i colori e le forme di una teoria di tipo teologico e trascendente come quella che si respirava nelle biblioteche di Costantinopoli»[34]. La rappresentazione è ricca di fascino, ma non rispecchia le attestazioni delle fonti. Se fosse vero che, nel testo ulpianeo, la definizione celsina del diritto esprimeva una visione di stampo giusnaturalistico, i compilatori delle Istituzioni giustinianee non avrebbero avuto bisogno, al fine di rappresentare tale visione, di sostituire la definizione stessa con i praecepta iuris nel passaggio, di fondamentale rilievo, attinente all’oggetto dello studio del diritto. Ulpiano aveva valutato positivamente e utilizzato la definizione celsina nelle sue Istituzioni; al contrario i commissari giustinianei non la recepirono volutamente nelle Istituzioni imperiali, come risulta dal fatto che essi vi inserirono, invece, una parte del successivo discorso ulpianeo in cui essa era contenuta. Di fronte a ciò e alla contrapposizione rilevata tra le concezioni classiche (sia del tempo di Celso che di quello di Ulpiano) e quelle giustinianee, la tesi dello Schiavone, secondo cui, nella scrittura ulpianea, «l’intera affermazione di Celso suonava … come … una limpida consacrazione della prospettiva giusnaturalistica …»[35], appare frutto di precomprensione e comunque priva di appoggio nelle fonti. Gli elementi espressi nel definiens della definizione celsina – la riconduzione del diritto alla specifica attività umana volta all’attuazione, inter homines, del bonum et aequum, mediante l’impiego dei criteri espressi con gli stessi segni – sono la negazione dell’asserita prospettiva giusnaturalistica.

Per sostenere la propria tesi lo Schiavone ha pure travisato le attestazioni relative all’idea di giustizia enunciata da Ulpiano. Egli ha tradotto in «veneriamo» (sottinteso, noi giuristi) «la giustizia» l’espressione iustitiam colimus[36], con cui il giureconsulto introduceva la raffigurazione del ruolo dei giuristi (di ciò che essi fanno nello svolgerlo). Questa traduzione sembra ancora risentire della risalente interpretazione, secondo cui i giuristi sarebbero stati i sacerdoti della dea Giustizia, dediti, come tali, al suo culto e venerazione. Peraltro, la metafora del sacerdos è richiamata da Ulpiano entro i limiti risultanti dal significato della parola, vale a dire per sottolineare la completa dedizione del giurista al diritto, assimilata così alla consacrazione del sacerdote alla divinità. L’assimilazione, dopo l’avvenuta separazione del diritto dalla religione e la connessa laicizzazione della giurisprudenza, non risultava estensibile (e Ulpiano ne aveva piena consapevolezza) alle attività del giurista, rispetto a quelle del sacerdote: in specie il primo non esercitava il culto della divinità e, conseguentemente, il suo colere iustitiam non poteva riferirsi ad esso.

Tolta la colorazione religiosa, è verosimile che lo Schiavone si sia riferito alla giustizia sostanziale: a ciò che è conforme – o alla conformità – al giusto. Così intesa, la giustizia è peraltro, come si è già rilevato, una formula vuota, la cui vuotezza è accentuata, nel caso, dal fatto che essa forma oggetto del verbo ‘venerare’.

Ulpiano si occupò della iustitia, al livello della teoria generale del diritto, oltre che nel frammento tratto dalle sue Institutiones, in un altro luogo derivato dal libro primo delle Regulae (o da altra sua opera[37]), dove egli la definisce come constans et perpetua voluntas ius suum cuique tribuendi[38]. Sembra naturale, nell’interpretazione di ciascuno dei due passi, tenere conto dell’altro. La definizione riferita di iustitia è la sola, a quanto consta, enunciata dal giureconsulto. Si deve quindi ritenere, fino a prova contraria (finora mancante), che egli, attribuendo ai giuristi il compito di iustitiam colere, abbia inteso dire che essi coltivano (in se stessi e negli altri) la virtù della giustizia, consistente nella ferma e duratura volontà di far avere a ciascuno (nei confronti degli altri consociati: al verbo tribuere, usato dal giurista, inerisce l’idea della ripartizione) il suo diritto. La messa in gioco della volontà nell’osservanza del diritto, se pure non consueta, corrisponde alla realtà. E l’educazione, purtroppo trascurata, se non derisa, alla virtù della giustizia, quale sopra definita, si presenta, nell’attuale esperienza, quanto mai opportuna, di fronte alla preoccupante crescita delle violazioni delle regole giuridiche verso un livello che incrina sempre di più la sicurezza della vita sociale, fino a compromettere la stessa sopravvivenza del diritto[39].

Come ho già rilevato, secondo lo Schiavone, mentre la definizione in oggetto di giustizia sarebbe stata manipolata dai compilatori del Digesto (con la sostituzione di tribuendi a tribuens), sia la definizione di iuris prudentia che i praecepta iuris, pure tramandati l’una e gli altri, come la definizione di iustitia, nel frammento 10 del titolo iniziale del Digesto, sarebbero integralmente genuini. Tutto ciò, nel pensiero dello Schiavone, ha una sua logica, risultando in sintonia con l’attribuzione a Ulpiano e ai giustinianei, in contrapposizione a Celso, della sopra menzionata concezione giusnaturalitica del diritto. Si sono peraltro già addotti elementi di segno contrario, dai quali risulta che, rispetto a tale concezione, Ulpiano non va affiancato ai giustinianei e contrapposto a Celso, bensì affiancato a quest’ultimo e contrapposto ai primi. Esistono solide ragioni per ritenere che la definizione di iustitia, nella stesura tramandata nel Digesto, derivi da Ulpiano. In primo luogo essa rispecchia la stessa visuale dinamica riscontrata nella definizione celsina del diritto, utilizzata, nella propria argomentazione, dal giurista severiano. In secondo luogo essa presenta una differenza decisiva, se pure solitamente trascurata, rispetto al praeceptum iurissuum cuique tribuere’. Si è già rilevato che quest’ultimo è una formula vuota; al contrario il suum ius cuique tribuere, nel contesto ulpianeo, fa riferimento ai criteri del bonum et aequum. In questo contesto, infatti, il suum ius attribuito a ciascuno dei consociati nei confronti degli altri, rappresenta il riflesso soggettivo del ius in senso oggettivo determinato alla stregua di tali criteri. In terzo luogo, mentre la versione del Digesto (voluntas … tribuendi) appare consona alla visione ulpianea e all’assetto del diritto classico, quella delle Istituzioni (voluntas … tribuens) trova spiegazione soltanto nel sistema giustinianeo. Secondo la visione ulpianea, la coltivazione della giustizia era compito dei giuristi, i quali dovevano educare tutti i consociati (se stessi e gli altri) a praticarla, anche con la minaccia delle pene e l’incoraggiamento dei premi. In coerenza la volontà, in cui la giustizia si esplicava, non aveva, nella generalità dei casi, un’intrinseca e diretta forza attributiva delle posizioni giuridiche a ciascuno dei consociati, ma poteva solo tendere ad essa (voluntas tribuendi). La prospettiva risulta cambiata nel sistema della compilazione, nel quale la produzione, l’applicazione e la stessa elaborazione dottrinale del diritto sono concentrate nell’autorità imperiale. Nella nuova situazione la volontà dell’imperatore appariva – e così fu rappresentata dai compilatori delle Institutiones – assorbente, di per se stessa idonea ad attribuire tutte le posizioni giuridiche[40].

Si deve quindi ritenere che la versione originaria della definizione di iustitia sia quella conservata nel Digesto. I compilatori delle Istituzioni l’hanno adeguata, con la sostituzione di tribuens a tribuendi, alla configurazione assolutistica del potere, esplicantesi nella riduzione del diritto alla legge, esclusiva emanazione dell’imperatore, e nella sostituzione della legum doctrina alla scientia iuris.

Al contrario, non possono ritenersi genuini la definizione di iuris prudentia e i praecepta iuris, pure attribuiti nel Digesto a Ulpiano. A mio avviso, si presenta decisivo, sul punto, il fatto che i compilatori delle Istituzioni li hanno inseriti nel titolo iniziale de iustitia et iure in sostituzione di enunciazioni profondamente diverse, senza dubbio derivate da Ulpiano. Come si è visto, la definizione di iuris prudentia è stata da essi sostituita alla raffigurazione, da parte del giureconsulto severiano, del ruolo del giurista e i praecepta iuris lo sono stati, ad opera degli stessi, alla definizione del diritto come ars boni et aequi nella rappresentazione dell’oggetto dello studio del diritto.

Si possono richiamare altri elementi.

A primo aspetto parrebbe potersi salvare la prima parte (divinarum atque humanarum rerum notitia) del definiens della definizione di iuris prudentia, in considerazione della duplice circostanza che Ulpiano attribuiva ai giuristi l’affectatio philosophiae e che, secondo una veduta diffusa, la filosofia era reputata la scienza (o conoscenza) delle cose divine e umane. Milita tuttavia, in senso contrario, il fatto che, al tempo di Ulpiano, i giuristi non potevano essere ritenuti detentori della scienza, o conoscenza, delle cose divine, dato che, a seguito della separazione del diritto dalla religione, la specializzazione (se non la competenza) nel diritto divino era divenuta propria dei collegi sacerdotali, in specie dei pontefici, mentre quella dei giuristi si era precipuamente concentrata nel diritto privato (con allargamenti ai settori connessi di quello pubblico). Per contro, nel sistema giustinianeo, i giuristi (i professori di diritto) dovevano, come tali, estendere la loro conoscenza alle cose divine, in quanto trattate nella compilazione, e precisamente nella prima parte del libro primo del Codice, dove il titolo di apertura reca la rubrica de summa Trinitate et ut nemo de ea publice contendere audeat[41].

La definizione di iuris prudentia, nella sua interezza, è frutto di una visuale statica, contrapposta a quella dinamica, che caratterizza la raffigurazione, sicuramente ulpianea, dei compiti del giurista. La seconda parte del definiens della prima, rappresentata dalla iusti atque iniusti scientia, si contrappone frontalmente all’attività illustrata nella seconda e costituita dalla professione dell’annuncio del bonum et aequum, mediante la separazione dell’equo dall’iniquo e il discernimento del lecito dall’illecito. Il iustum e l’iniustum, indicati nella definizione come oggetto della conoscenza dei giuristi, sono posti dalla natura o stabiliti dal legislatore (nell’impostazione giustinianea le due visuali si congiungono nel senso che i precetti della natura sono ‘letti’ dall’imperatore, l’unico organo a ciò legittimato e idoneo). Il iustum e l’iniustum sono specificati nelle prescrizioni che i giuristi devono conoscere, ma su cui non sono in condizione di influire. Per contro il bonum et aequum, pur nella proiezione verso i risultati da conseguire, esprime in primo piano i criteri, elaborati dai giuristi, da impiegare a tal fine.

I praecepta iuris sono l’antitesi della definizione del diritto come ars boni et aequi. Si è già rilevato che essi furono elaborati, come precetti della morale, nella filosofia stoica. Come ha mostrato il Falcone, essi, in particolare, si trovavano già enunciati in Cicerone[42]. L’opinione che Ulpiano ne abbia condiviso l’impostazione giusnaturalistica è peraltro un’illazione priva di fondamento. Le fonti depongono in senso contrario. L’unico luogo, in esse attestato, in cui il giurista severiano cita lo scrittore repubblicano (D. 42.4.7.4, Ulp. 59 ad. ed., a proposito del verbo latitare), registra una recisa critica: latitare est, non ut Cicero definit, turpis occultatio sui: potest enim quis latitare non turpi de causa, veluti qui tyranni crudelitatem timet aut vim hostium aut domesticas seditiones[43]. Come si è già visto, i praecepta iuris non sono criteri applicabili dal giurista, a causa della loro estrema indeterminatezza e genericità, le quali consentono soluzioni disparate e contrastanti, in definitiva dipendenti, se non dall’arbitrio, dal giudizio personale di chi li usa[44]. E, come si è già sottolineato, il primo di essi, honeste vivere, è persino inesatto. Ulpiano non condivideva sicuramente, per il ius civile e il ius gentium, l’idea ciceroniana riferita, secondo cui il diritto naturale, posto dalla divinità in ogni luogo e in ogni tempo (a Roma come ad Atene, nel passato come nel futuro), non può essere abrogato o derogato da chicchessia. Egli, al contrario, accettava per essi, in aderenza alla realtà, l’idea insita nella definizione del diritto come ars boni et aequi, secondo cui esso è in tutto e per tutto un prodotto umano (posto e, quando occorre, modificato dall’uomo)[45].

In apparente contrasto con tutto ciò, sia la definizione di iuris prudentia che i praecepta iuris, oltre ad essere riferiti nelle Istituzioni giustinianee, lo sono anche, sotto il nome di Ulpiano, nel fr. 10 del titolo primo del libro primo del Digesto. La sola spiegazione prospettabile, alla luce delle fonti richiamate, è, a mio avviso, questa.

-          Giustiniano scelse le Istituzioni come luogo privilegiato per l’esposizione delle proprie concezioni. Come si è visto, i compilatori di esse – il ministro Triboniano e i professori Teofilo e Doroteo – depennarono dal testo ulpianeo utilizzato per la stesura del titolo iniziale De iustitia et iure sia la definizione celsina del diritto, sia la raffigurazione ulpianea circa il ruolo dei giuristi. In luogo della definizione celsina inserirono i praecepta iuris, individuando in essi, anziché nella definizione stessa, l’oggetto dello studio del diritto, distinto nelle duae positiones, publicum et privatum; in luogo della predetta raffigurazione, immediatamente dopo la definizione di iustitia, apprestarono e inserirono quella di iuris prudentia.

-          Triboniano presiedeva pure la commissione per la compilazione dei Digesta, fra i cui membri spiccavano Teofilo e Doroteo. Non può stupire che essi abbiano voluto inserire anche nel titolo primo dei Digesta (pure de iustitia et iure come quello corrispondente delle Istituzioni) un segno delle fondamentali innovazioni enunciate nel testo istituzionale, involgenti la concezione del diritto e il ruolo dei giuristi.

-          A tenore delle istruzioni (prescrizioni) impartite da Giustiniano per la compilazione del Digesto, il solo modo per introdurre in esso elementi nuovi era quello di interpolare frammenti utilizzati di giuristi classici. La scelta cadde, nel caso, sul frammento tratto dal libro primo delle Regulae, attribuite ad Ulpiano, dove era già contenuta la definizione di giustizia, pure recepita, come si è visto, con una variante, nelle Istituzioni[46].

In conclusione i praecepta iuris, nella formulazione pervenutaci, e la definizione di iuris prudentia non derivano da Ulpiano, ma dai compilatori giustinianei[47]. Gli uni e l’altra confliggono con le concezioni del giurista classico ed esprimono, viceversa, quelle giustinianee: i commissari incaricati ebbero precise ragioni per sostituirli a enunciazioni ulpianee nelle Istituzioni e richiamarli nel Digesto. In merito ai praecepta iuris può ancora addursi, nel senso indicato, un dato di carattere semantico. Nel frammento, con cui si aprono i Digesta, Ulpiano giustificò la tripartizione del diritto (privatum ius tripertitum est) con l’asserzione collectum etenim est ex naturalibus praeceptis, aut gentium aut civilibus[48]. Chiaramente, in questo luogo, di cui non è discussa la derivazione dal giurista classico, col segno praecepta non sono evocati i c.d. principi fondamentali del diritto, bensì le prescrizioni (le regole) del ius naturale, del ius gentium e del ius civile, che formano, nel loro insieme (dalla cui collectio è formato), il diritto privato.

 

 

5. Nel quadro ricostruito trova spiegazione anche l’affermazione di Ulpiano, secondo cui i giuristi si sforzano di praticare (e, in genere, praticano) la vera filosofia, non quella simulata. L’opinione sopra riferita, rielaborata come si è detto dal Falcone su un’idea del Nörr, secondo cui Ulpiano avrebbe inteso replicare all’accusa, mossa ai giuristi da Cicerone nell’oratio pro Murena (§ 30), di praticare una verbosa simulatio philosophiae, non si presenta plausibile. I due studiosi hanno attribuito un peso eccessivo alla critica ciceroniana, per definizione di parte, espressa a sostegno dell’uomo d’armi Murena nei confronti del giurista Servio Sulpicio Rufo, nell’ambito di un «ironico parallelo tra l’umbratile scienza del giure, coltivata» dal secondo «e lo splendore glorioso della vita militare» abbracciata dal primo[49]. Al tempo di Ulpiano tale critica non aveva più il carattere dell’attualità e il giureconsulto non evocava fantasmi, in specie nell’incipit delle sue Istituzioni. Essa inoltre non presenta i collegamenti, che sarebbero da attendersi, con l’individuazione della vera filosofia e di quella simulata nella pars moralis e, rispettivamente, nella pars dialectica della filosofia stessa. Ulpiano non si occupò della filosofia in generale, ma con riferimento al fenomeno giuridico. Egli ravvisava la filosofia vera nella dottrina giuridica, da lui esposta, basata sulla definizione del diritto come ars boni et aequi e che richiedeva la coltivazione della giustizia nel senso dinamico della virtù quale da lui definita; viceversa individuava la filosofia simulata in concezioni filosofiche sostenute al suo tempo e da lui ritenute perniciose nel campo giuridico. ‘Vera’ allude alla rispondenza effettiva e ‘simulata’ alla rispondenza solo apparente (finta) alla realtà. Nel settore giuridico sono vere le teorie idonee a risolvere i problemi posti al diritto dalla convivenza umana e sono, invece, simulate quelle che, in apparenza, paiono risolverli, lasciandoli in realtà insoluti[50].

Si può dire, con più precisione, alla luce dell’insieme dei dati considerati, che la dottrina filosofica[51] osteggiata da Ulpiano è quella di stampo giusnaturalistico, che si era formata nella scuola stoica e aveva avuto, in Roma, tra i suoi fautori, Cicerone, secondo la quale il diritto veniva ricondotto ai tria praecepta honeste vivere, alterum non laedere, suum cuique tribuere. Come si è mostrato, mentre la definizione del diritto come ars boni et aequi, grazie ai criteri in essa indicati, fornisce la guida per le varie attività in cui si esplica dinamicamente il fenomeno giuridico, i praecepta iuris, pur moralmente ineccepibili, restano, nel campo giuridico, contenitori vuoti, privi del lume di criteri e riempibili, come tali, con soluzioni disparate e contrastanti. E il praeceptum honeste vivere non è nemmeno un contenitore idoneo a ricevere il diritto, senza determinarne distorsioni. La percezione di tutto ciò è stata preclusa anche al Falcone dall’accettazione delle posizioni preconcette derivate dall’utilizzazione del diritto romano come diritto vigente: ricordo specialmente la ritenuta coincidenza della definizione celsina del diritto con i praecepta iuris, della raffigurazione ulpianea circa il ruolo del giurista con la definizione di iuris prudentia, della scientia iuris con la legum doctrina, di ius suum cuique tribuere con suum cuique tribuere e di aequum ed aequitas con iustum e iustitia. In più il Falcone ha sovrapposto al pensiero di Ulpiano la visione giusnaturalistica ciceroniana, derivata dalla scuola stoica[52]. Questa visione, tramandatasi in ambito filosofico, venne poi recepita in quello giuridico ad opera dei commissari giustinianei, i quali ne cercarono il coordinamento con la concezione assolutistica del potere, esplicantesi nella riserva al solo imperatore sia della produzione che dell’interpretazione del diritto, come dell’elaborazione dottrinale. Ulpiano era peraltro ancora fermamente ancorato alla concezione dinamica del diritto come prodotto umano, insita nel versamento dello stesso nell’ars e alla quale è connessa l’esigenza dell’opera di specialisti (che, nell’esperienza romana, furono i giuristi), per assicurare che il suo svolgimento – produzione, interpretazione e applicazione –, grazie anche alla coltivazione della virtù della giustizia, avvenga nell’alveo dei criteri del bonum et aequum, che contraddistinguono la specifica ars iuris nella sfera delle attività umane.

 

 

6. Il ruolo dei giuristi non costituisce, nei vari ordinamenti, un elemento isolato (a se stante), ma presenta connessioni con la concezione del diritto e la configurazione del potere (oltre che con la funzione dei giudici, su cui non mi soffermo in questa sede). Nel sistema attuato da Giustiniano con la compilazione, all’imperatore competeva un potere assoluto, derivato congiuntamente da un’investitura popolare e divina (dal trasferimento di ogni potere da parte del popolo all’imperatore, in conformità a un superiore disegno della divina provvidenza). Nel potere imperiale rientravano sia la produzione e interpretazione del diritto, identificato nella legge, sia l’elaborazione dottrinale. In coerenza residuavano soltanto, per i professori di diritto (la nuova classe di giuristi), attività ritenute meramente ricognitive, volte alla trasmissione della legum scientia, ravvisata nei contenuti normativi e dottrinali della legge. Era chiaro ai commissari giustinianei che l’elaborazione dottrinale, da essi riservata all’attività legislativa, concorre alla determinazione dei contenuti normativi. Senza dubbio le concezioni giustinianee circa il diritto, la legge e il ruolo dei giuristi non sono consone a un assetto democratico del potere.

Nel sistema della compilazione coesistevano, come si è visto, una concezione giuspositivistica e una concezione giusnaturalistica del diritto. A quanto è dato capire, il loro principium nell’elaborazione scientifica in campo giuridico (non in quello filosofico dove essa fu più risalente) si ebbe ad opera dei compilatori giustinianei, i quali cercarono altresì un coordinamento tra esse, riservando, da un lato, all’imperatore l’ars boni et aequi, sottratta così ai giuristi, ed attribuendo, dall’altro, allo stesso, grazie alla creduta mai disattesa ispirazione divina, l’emanazione di diritto in ogni caso giusto (rispondente alla giustizia in senso oggettivo). Sono significative, al riguardo, le conformi rubriche dei titoli iniziali del Digesto e delle Istituzioni (de iustitia et iure), esprimenti l’idea che il diritto posto in essi (in generale nella compilazione) corrisponda alla giustizia: conservo il convincimento che la locuzione de iustitia et iure sia un’endiadi, enunciante la traduzione della giustizia nel diritto e, quindi, la visione del diritto giusto (conforme alla giustizia).

L’indicato coordinamento non è peraltro riuscito. Da un lato, nel titolo di apertura delle Institutiones, l’oggetto dello studio del diritto è individuato nei praecepta iuris; dall’altro lato, nel titolo successivo, i naturalia iura, che semper firma atque immutabilia permanent, sono circoscritti ai iura, che, divina quadam providentia constituta, vengono ugualmente osservati presso tutte le genti, e contrapposti ai iura che ciascuna civitas si pone, i quali saepe mutari solent vel tacito consensu populi vel alia lege postea allata. Inoltre i predetti naturalia iura non si coordinano col ius naturale, quod natura omnia animalia docuit, distinto, dai commissari giustinianei, sulle orme di Ulpiano, dal ius gentium e dal ius civile.

Lo sviluppo posteriore rese evidente che non sempre il diritto posto dal legislatore rispecchia la giustizia (risponde a ciò che è ritenuto giusto). Venne così espunta, quale frutto di illusione, dal sapere giuridico la concezione del diritto come ars boni et aequi e riemersero, nella compilazione giustinianea, le sue due inconciliabili componenti: la spettanza al solo imperatore del potere di creare e interpretare il diritto e l’immedesimazione di quest’ultimo nei tria praecepta, posti da Dio o dalla natura e a cui il legislatore era illusoriamente ritenuto sottostare, grazie alla sempre seguita ispirazione divina. A queste componenti si riallacciano, nella nostra tradizione, i due grandi indirizzi riassumibili nel giuspositivismo e nel giusnaturalismo[53].

 

 



 

[1] Fondamenti del diritto europeo. Atti del Convegno. Ferrara 27 febbraio 2004, cur. P. Zamorani, A. Manfredini e P. Ferretti (Torino 2005) 7.

 

[2] M. Talamanca, in Fondamenti del diritto europeo cit. 41, postasi la domanda «in che cosa si identificano i ‘Fondamenti’?», risponde: «In tutto quanto ci precede, ovviamente, nella storia, non nell’ideologia o nella trascendenza». Si tratta, com’è noto, di un’impostazione largamente seguita, dopo che il libro di P. Stein, Legal Institutions. Development of Dispute Settlement (London 1984) è stato tradotto in italiano (cur. A. De Vita, M.D. Conforti e V. Varano) col titolo I fondamenti del diritto europeo. Profili sostanziali e processuali dell’evoluzione dei sistemi giuridici (Milano 1987).

 

[3] Cfr. - mi sembra, sul punto, in senso analogo - C.A. Cannata, Materiali per un corso di fondamenti del diritto europeo (Torino 2005) 1 s. Secondo lo studioso (op. cit. 3), individuare i fondamenti in parola significa «individuare su che cosa la soluzione, o le diverse soluzioni attuali, ovvero l’assetto istituzionale, o i diversi assetti istituzionali odierni, siano fondati». La spiegazione non sembra sfuggire a un appunto di tautologia.

 

[4] D. 1.2.1 (Gai. 1 ad legem duod. tab.). Seguo, sul significato di principium, l’interpretazione che avevo affacciato nello scritto La storia in Gaio, in Il modello di Gaio nella formazione del giurista, in Atti del convegno torinese 4-5 maggio 1978 in onore del Prof. Silvio Romano (Milano 1981) 90 ss. V., di recente, sul passo, con ulteriori citazioni, A. Schiavone, Giuristi e principe nelle Istituzioni di Ulpiano, in SDHI 69 (2003) 3 s. e nt. 5.

 

[5] M. Talamanca, in Fondamenti del diritto europeo cit. 37, il quale puntualizza altresì che sarebbe «erroneo» definire «giuspositivistica» l’impostazione riferita, «perché tutto il diritto è positivo in quanto si applica in una data società che lo riconosce come vigente ed è solo da questo riconoscimento che esso trae la propria vigenza». Continuo tuttavia, in questo scritto, a servirmi della terminologia usuale (giuspositivismo e derivati), anziché di quella suggerita dall’illustre studioso e amico (giuscodicismo o giuslegismo e derivati).

 

[6] In aggiunta ai quali possono vedersi, ad esempio, Const. Summa, § 1; Const. Deo auctore, § 4; Const. Imperatoriam, § 4; Const. Tanta, § 9; Const. Omnem, pr. e § 2.  In consonanza con la visuale della legum scientia o doctrina, o legitima scientia, Giustiniano parla di conditio e di interpretatio delle leges, anzichè del ius: cfr. C. 1.14.12.3 (si enim in praesenti leges condere soli imperatori concessum est, et leges interpretari solum dignum imperio esse oportet) e Const. Tanta, § 21 (dove la riserva all’auctoritas Augusta delle soluzioni dei casi dubbi è basata sul fatto che ad essa sola concessum est leges et condere et interpretari).

 

[7] Const. Tanta, § 21.

 

[8] Su quest’ultimo punto v. lo stesso F.C. von Savigny, System des heutigen Römischen Rechts I (Berlin 1840) 39 [trad. it. V. Scialoja, Sistema del diritto romano attuale I (Torino 1886) 63 s., di cui riferisco la versione]: «Sarebbe ... del tutto erroneo il credere che questa posizione del legislatore» (quella di «vero rappresentante dello spirito popolare») «dipendesse dal diverso ordinamento del potere legislativo, a seconda delle diverse costituzioni degli Stati». (Il passo concerne la «legislazione» nell’ambito della trattazione dedicata alla «natura generale delle fonti del diritto»).    

 

[9] Come pure degli orientamenti, che si sono allora avuti, allo studio del diritto romano per la formazione di una teoria generale del diritto.

 

[10] V., per un primo approccio, F. Gallo, Rifondazione della scienza giuridica premessa primaria per la formazione del diritto europeo, in Fondamenti del diritto europeo cit. 11 ss.

 

[11] G. Falcone, La ‘vera philosophia’ dei ‘sacerdotes iuris’. Sulla raffigurazione ulpianea dei giuristi [estr. dagli Annali del Seminario giuridico dell’Università di Palermo 49 (2004)] (Palermo 2005), al quale rinvio per le citazioni della vasta letteratura in materia. Adde, in particolare, A. Schiavone, Ius. L’invenzione del diritto in Occidente (Torino 2005) 361 ss., 488 ss. (opera pervenutami quando il presente scritto era già in avanzata fase di stesura). 

 

[12] D. Nörr, Iurisperitus sacerdos, in Xenion. Festschrift für Pan. J. Zepos I (Athen-Freiburg/Br.-Köln 1973) 557 nt. 12; Rechtskritik in der römischen Antike (München 1974) 59 nt. 14; Cicero-Zitate bei den klassischen Juristen, in Ciceroniana. Atti del III Colloquium Tullianum, Roma 3-5 ottobre 1976 (Roma 1978) 135 e nt. 91[= Historiae iuris antiqui. Gesammelte Schriften, cur. T.J. Chiusi, W. Kaiser, H.D. Spengler II (Goldbach 2003) 1211 s. e nt. 91].

 

[13] G. Falcone, La ‘vera philosophia’ cit. 72 s.

 

[14] G. Falcone, op. cit. 70.

 

[15] D. 50.17.144 (Paul. 62 ad ed.).

 

[16] Che non rientrino cioè nei confini entro cui si esplica la tutela giuridica.

 

[17] Sulle incongruenze dell’enunciazione nel sistema della compilazione, v. infra § 6. Sulla risalenza della dottrina del diritto naturale alla filosofia stoica, cfr. H. Kelsen, Die Grundlage der Naturrechtslehre, in Österreichische Zeitschrift für öffentliches Recht 14 (1964) 33 [trad. it. A. Bolaffi, Diritto naturale senza fondamento, in MicroMega 2 (2001) 151 s., secondo il quale - ibid. 116 - il saggio rappresenta «il testamento teorico e filosofico della lunga battaglia combattuta dal...pensatore austriaco contro il giusnaturalismo»]. L’excursus in argomento è concluso dal Kelsen con l’asserzione che la Stoà e Cicerone influenzarono la patristica e segnatamente Agostino, il quale «ricava dalla Stoà il concetto di lex aeterna». Oltre ai Padri della Chiesa la Stoà e Cicerone influenzarono i giustinianei, i quali, peraltro, cercarono di coordinare la visione giusnaturalistica con quella positivistica: i naturalia iura, divina quadam providentia constituta presso tutti gli uomini, sono eterni e immutabili; viceversa i iura, che ciascun stato si pone, vengono frequentemente mutati o dal tacito consenso del popolo o da una legge emanata posteriormente.

 

[18] In Gaio e in Paolo la visione giusnaturalistica è in qualche modo filtrata (metabolizzata) dalla riflessione giuridica: nel primo dalla naturalis ratio, che è prerogativa dell’uomo, nel secondo dall’aequum ac bonum, costituente un criterio elaborato dallo stesso. In ogni modo, in Ulpiano la concezione del diritto naturale è circoscritta all’ambito marginale degli elementi comuni a uomini e animali (al ius, quod natura omnia animalia docuit). Nel suo pensiero sia il ius civile che il ius gentium sono un esclusivo prodotto umano.

 

[19] Gai 1.2 e 7.

 

[20] D. 1.2.7pr. (Pap. 1 def.).

 

[21] La prescrizione concerne le forme espressive usate, non il contenuto; e con qualsiasi forma (anche con la traduzione) possono apportarsi – e nel caso sono stati effettivamente apportati – mutamenti.

 

[22] Cfr. autorevolmente, in controtendenza, A. Guarino, Storia del diritto romano12 (Napoli 1992) 589, secondo il quale «bisogna credere pienamente alla testimonianza di Giustiniano».

 

[23] Const. Imperatoriam, § 3: ut nostra auctoritate nostrisque suasionibus componant institutiones. Nel successivo § 6 Giustiniano dice di aver letto ed esaminato l’opera presentatagli dai commissari incaricati e di averle attribuito valore di legge (si sottintende avendola trovata di proprio gradimento). Sicuramente egli intese togliere ai giuristi l’esercizio dell’ars iuris e il concorso nella produzione del diritto, ad essi riconosciuti nell’epoca classica, e da lui invece concentrati nell’autorità imperiale.

 

[24] D. 1.7.1 (Pap. 2 def.).

 

[25] Questa considerazione manca ancora nelle indagini più recenti in argomento, tra le quali quelle del Falcone e dello Schiavone citate supra, nt. 11.

 

[26] D. Dalla, Scientia e notitia nella definizione di iuris prudentia (D. 1,1,10,2), in Nozione formazione e interpretazione del diritto dall’età romana alle esperienze moderne. Ricerche dedicate al Professor Filippo Gallo I (Napoli 1997) 158 ss.

 

[27] V. fonti in D. Dalla, op. cit. 157 nt. 2; M. Bretone, Storia del diritto romano10 (Roma-Bari 2004) 346 nt. 91; G. Falcone, La ‘vera philosophia’ cit. 82 s. nt. 161. Si colloca in una diversa prospettiva, che supera il piano della conoscenza, l’attestazione di Festo (sv. ordo sacerdotum) circa il pontefice massimo: pontifex maximus, quod iudex atque arbiter habetur rerum divinarum humanarumque.

 

[28] In cui consisteva, nella visione di Giustiniano, il compito ufficiale dei professori di diritto: i prototipi – o successori –, nella stessa visione, dei giuristi.

 

[29] Precisamente, com’è  noto, nei titoli iniziali del Codice. Si era già avuto il precedente rappresentato dal libro XVI del codice Teodosiano.

 

[30] V. l’entusiastico apprezzamento (esprimente, nella sostanza, un’opinione largamente condivisa) di F. Senn, Les origines de la notion de jurisprudence (Paris 1926) 27 ss.

 

[31] La prescrizione, enunciata per i giudici (si quod ... ambiguum fuerit visum, hoc ad imperiale culmen per iudices referatur...), esprimeva un principio generale.

 

[32] A. Schiavone, Ius cit. 369 ss., 488 ss. Lo studioso si discosta, sul piano esegetico, dalla communis opinio, ritenendo che nella definizione di iustitia, contenuta nell’incipit del frammento, i compilatori del Digesto abbiano sostituito tribuendi a tribuens (sul punto v. infra, nel testo).

 

[33] Come pure per respingere le tentazioni eversive dovute alla creduta impossibilità di eliminare le deficienze senza dubbio presenti nelle teorizzazioni tradizionali o al più radicale convincimento dell’inadeguatezza dell’attuale scienza giuridica (o dello stesso diritto) a far fronte alle sfide poste dalla globalizzazione del mercato, dalla cd. monarchia dei mass media, dai tentativi di spiegazione scientifico-macchinale dell’uomo e dalla sua connessa ibridazione con le macchine informatiche. V., da ultimo, il rifugio cercato, con diversa impostazione, nel nichilismo, dal filosofo del diritto B. Romano, Fondamentalismo funzionale e nichilismo giuridico. Postumanesimo ‘noia’ globalizzazione. Lezioni 2003-2004 (Torino 2004) e dal civilista N. Irti, Nichilismo giuridico (Roma-Bari 2004).

 

[34] A. Schiavone, Ius cit. 388.

 

[35] Op. cit. 387.

 

[36] Come già G. Pugliese, s.v. Diritto in Enciclopedia delle scienze sociali, III (Roma 1993) 63. V. invece correttamente Iustiniani Augusti Digesta seu Pandectae, cur. S. Schipani (Milano 2005) 77. Non trova alcun appoggio, nella scrittura a noi pervenuta, l’opinione di G. Falcone, La ‘vera philosophia’ cit. 58, secondo cui «Ulpiano rappresenta i giuristi come coloro che coltivano sia la virtù-iustitia sia la divinità-Iustitia». La parola ‘iustitia usata prima dal giureconsulto  (est autem – sottinteso ius a iustitia appellatum), non allude sicuramente alla «Iustitia» che «era anche una divinità del Pantheon romano».

 

[37] T. Honoré, Ulpian: Pioneer of Human Rights (Oxford 2002) 215 ss. mantiene la tesi centrale affacciata nella prima edizione dell’opera [Ulpian (Oxford 1982) 111 ss.) circa il carattere spurio dei Libri regularum. Peraltro, mentre nella prima edizione riteneva che essi fossero stati composti con materiale ulpianeo, nella seconda presenta al riguardo una rosa di congetture. Occorre anche tener conto della possibilità di manipolazione da parte dei compilatori del Digesto. Appare chiara l’esigenza di esaminare il problema della derivazione nei riguardi di ciascuna delle enunciazioni contenute nell’opera. A mio avviso la definizione di iustitia deriva da Ulpiano (cfr. infra, nel testo). Essa appare una ridefinizione da lui formulata rispetto a definizioni precedenti: cfr. Rhet. ad Her. 3.2.3 (iustitia est aequitas ius cuique tribuens pro dignitate cuiusque) e Cic., inv. 2.53.160 (iustitia est habitus animi communi utilitate servata suam cuique tribuens dignitatem). V., in argomento, F. Gallo, L’interpretazione del diritto è ‘affabulazione’? (Milano 2005) 98 ss. In considerazione delle enunciazioni contenute nel fr. 10 del titolo iniziale del Digesto e della definizione di lata culpa in D. 50.16.213.2 (Ulp. 1 reg.), l’Honoré, Ulpian: Pioneer cit. 215, attribuisce all’autore dei Libri regularum chiare propensioni filosofiche. Nella visione di Ulpiano occorre distinguere tra philosophia vera e philosophia simulata: la definizione di iustitia e quella celsina di ius attengono alla prima, i praecepta iuris, invece, alla seconda. Cfr. infra, § 5.

 

[38] Sugli altri luoghi di Ulpiano, a noi pervenuti, nei quali ricorre il segno iustitia [D. 47.10.1pr. (56 ad ed.) e D. 48.5.18.6 (2 ad leg. Iul. de adult.), v. cenni in F. Gallo, Diritto e giustizia nel titolo primo del Digesto, in SDHI 54 (1988) 15 nt. 53 [= Opuscula selecta, cur. F. Bona e M. Miglietta (Padova 1999) 625 nt. 23].

 

[39] Pesano, nell’attuale situazione, il fatto (o la relativa consapevolezza) che, in molti casi, è più conveniente l’inosservanza del diritto che non la sua osservanza e il diminuito valore che si tende a riconoscere alla seconda nell’apprezzamento sociale. Sulla definizione ulpianea della giustizia come virtù, v. W. Waldstein, Zur Ulpians Definition der Gerechtigkeit (D. 1,1,1pr.), in Festschrift für Werner Flume zum 70. Geburtstag I (Köln 1978) 225 ss. [= Saggi sul diritto non scritto, cur. U. Vincenti (Padova 2002) 115 ss.] del quale non condivido peraltro l’impostazione generale e varie enunciazioni. Lo Studioso, op. cit. 229 s. (= 125 s.), accoglie l’opinione del Senn, secondo cui «il contenuto del ius suum viene stabilito dall’aequum et bonum, dal ius naturale e dalle norme positive», e ritiene che Ulpiano rinviasse «ai contenuti concreti che secondo l’idea romana si sottraggono a qualunque cambiamento». Come si vede, Celso, Ulpiano (in genere i giuristi classici) e i giustinianei sono appiattiti  nella medesima concezione giusnaturalistica del diritto e le stesse vedute dei giustinianei appaiono fraintese. (L’appiattimento è stato più spesso operato sul piano del giuspositivismo).

 

[40] Sul piano dei fatti, il riconoscimento e l’attribuzione a ciascuno del proprio diritto richiedono il concorso, concretato nel comportamento, dei consociati. Tuttavia, nelle visioni assolutistiche del potere è facile l’illusione – avente esplicazioni anche al di fuori di esse – che basti la legge a risolvere i problemi della convivenza umana.

 

[41] Nel libro XVI del Codice Teodosiano la rubrica del titolo I era De fide Catholica.

 

[42] G. Falcone, La ‘vera philosophia’ cit., passim e in particolare 94 s.

 

[43] La testimonianza confuta l’opinione di A. Schiavone, Giuristi e principe cit. 14, secondo cui «Ulpiano non cita esplicitamente Cicerone» perché «un consolidato protocollo della sua tradizione scientifica glielo vieta».

 

[44] Essendo le valutazioni personali sovente diverse, viene intaccata l’uguaglianza, su cui riposa il diritto. M. ZabŁocka, Le XII Tavole – fonte dei principi del diritto contemporaneo, in Iura 53 [2002 (ma 2005)] 4, ricorda l’enunciazione del principio già nella legge decemvirale. Peraltro l’uguaglianza, seppure non enunciata, è coeva alla formulazione in norme del diritto: essa è in effetti insita nella generalità ed astrattezza che caratterizzano, almeno di regola, le norme in cui il diritto si estrinseca.

 

[45] Non è possibile attribuire ad Ulpiano una visione generale del diritto di stampo giusnaturalistico, dal momento che egli suddivideva il diritto privato, sul quale concentrava la propria attenzione, nelle tre sfere del ius naturale, del ius civile e del ius gentium, circoscrivendo alla prima – di assai scarso rilievo in se stessa e nei confronti delle altre due –, risultante dagli elementi comuni, nel campo giuridico, agli uomini ed agli animali, l’idea del diritto posto (ad essi insegnato) dalla natura. Non risulta che lo Schiavone abbia tenuto conto della peculiare posizione ulpianea circa il diritto naturale, non certo assimilabile a quelle della filosofia stoica e dei giustinianei, come alle dottrine giusnaturalistiche elaborate posteriormente. V., su queste ultime, E. Cassirer, Vom Wesen und Werden des Naturrechts, in Zeitschrift für Rechtsphilosophie in Lehre und Praxis 6 (1932-34) 1 ss. [= In difesa del diritto naturale (trad. A. Bolaffi), in MicroMega 2 (2001) 91 ss.], il quale rileva, nella parte finale del saggio [op. cit. 26 (=115)], che nel diritto naturale si deve «scorgere uno dei necessari momenti fondamentali che costituiscono e creano il concetto del diritto in quanto tale».

 

[46] Credo inutile aggiungere facili congetture sul contenuto del frammento, oltre alla definizione di giustizia.

 

[47] A proposito della definizione di iuris prudentia si può ancora richiamare il fatto [già addotto in F. Gallo, Diritto e giustizia cit. 25 e nt. 89 (= Opuscula cit. 635 e nt. 89)] che il sintagma iuris prudentia non risulta attestato in alcun altra fonte giuridica pregiustinianea. (Essa compare viceversa nelle Istituzioni giustinianee – 3,2,3a – pure nel significato di scienza giuridica, ma nell’impiego traslato alludente ai giuristi: media autem iurisprudentia... praefatam differentiam inducebat). Contrariamente a quanto ritenuto da G. Falcone, La ‘vera philosophia’ cit. 81 s., il dato non è superato dalla presenza delle parole prudentia iuris publici in Cic. de orat. 1.60.256: reliqua vero etiam si adiuvant, historiam dico et prudentiam iuris publici et antiquitatis iter et exemplorum copiam, si quando opus erit, a viro optimo et istis rebus instructissimo, familiari meo Congo mutuabor. Un conto è dire che si potrà apprendere la prudentia iuris publici da un esperto della stessa e un altro estrarre e definire la nozione di iuris prudentia. In ogni modo, il De oratore non è una fonte giuridica (l’oratoria è una scienza – o ars – distinta da quella del diritto) e, soprattutto, Ulpiano non usava recepire in modo pedissequo da Cicerone i concetti e i significati delle parole (D. 42.4.7.4 mostra, come si è visto, la piena autonomia del giurista dallo scrittore repubblicano). Mi sembra infine che la derivazione da Ulpiano della definizione in oggetto di iuris prudentia non sia in alcun modo suffragata dalla testimonianza di D. 50.13.1.5 (Ulp. 8 de omn. trib.): est quidem res sanctissima civilis sapientia. Premesso che l’enunciazione andrebbe esaminata nel suo contesto, mi limito a rilievi minimi: certamente sapientia civilis indica la scienza giuridica; ‘sapientia’ non è però collimante con ‘prudentia’ e l’uso del primo segno per indicare tale scienza non sarebbe facilmente attribuibile, nel linguaggio tecnico, a chi ne aveva consolidato – o si accingeva a consolidarne – la nozione nella definizione di iuris prudentia. Neppure la locuzione res sanctissima appare del tutto congruente rispetto alla divinarum atque humanarum rerum notitia: infatti è difficile parlare di res sanctissima per le cose umane indistintamente considerate (nelle quali rientrano anche sorprusi e crimini) o per la loro conoscenza, anche assumendo il superlativo in senso traslato. Va inoltre tenuto presente che, nel paragrafo precedente, Ulpiano ha usato la locuzione res religiosa, nel rispondere al quesito postosi an et philosophi professorum numero sint.

 

[48] D. 1.1.1.2 (Ulp. 1 inst.).

 

[49] La rappresentazione è di G. Bellardi (cur.), Le orazioni di M. Tullio Cicerone II (Torino 1981) 50, il quale, nella pagina seguente, nt. 149, sottolinea le contraddizioni tra questo luogo e altri testi ciceroniani. Tra i giuristi già A. Mantello, Un illustre sconosciuto tra filosofia e prassi giuridica. Eufrate d’Epifania, in Sodalitas. Scritti in onore di Antonio Guarino II (Napoli 1984) 989 nt. 46, replicava, fra l’altro, al Nörr, che l’«espressione della Pro Murena sa troppo di schermaglia processuale» (dato che non poteva essere sfuggito ad Ulpiano) e che «il buon Cicerone dice altrove» (soprattutto in de off. 1.5.15 e 1.6.19) «cose diametralmente opposte al concetto espresso nella Pro Murena». Aggiungo, nella medesima linea, che M. bretone, Storia10 cit. 153 s., per illustrare la professione aristocratica del giureconsulto laico, cita in prevalenza passi ciceroniani, fra i quali i notissimi de or. 1.14.159 e 3.33.132-134. La considerazione non parziale, ma globale, delle testimonianze ciceroniane conduce a un quadro diverso da quello, per forza di cose unilaterale, tracciato dal Falcone: la critica mossa ai giuristi nella perorazione ‘schierata’ pro Murena, che rimane il punto di forza della tesi dello studioso, è sicuramente meno probante, per la ricostruzione del pensiero dell’Arpinate circa gli stessi e l’interpretatio iuris, di enunciazioni più distaccate, contenute in altre opere del medesimo.

 

[50] I praecepta iuris rispondono, come si è mostrato, a queste ultime caratteristiche.

 

[51] In termini attuali si potrebbe parlare di filosofia del diritto.

 

[52] Lo studioso ha trascurato le divergenze, talora macroscopiche, intercorrenti tra l’oratore-filosofo e il giurista. Forse, la più rilevante, in ordine alla concezione del diritto, è quella emergente dal raffronto tra Cic., de rep. 3.22.33 (citato supra, § 2) e la definizione celsina del ius, fatta propria da Ulpiano. Differenze insanabili si riscontrano pure tra le definizioni di iustitia, formulata dai due autori: a parte il definiendum, necessariamente coincidente, le sole consonanze che esse presentano sono la copula (est) e l’uso del verbo tribuere. Confrontando le enunciazioni di Ulpiano con quelle di scrittori anteriori, come posteriori, è facile trovare (e per quelli anteriori, per i quali si sono fatte ricerche, sono state effettivamente trovate) coincidenze, in specie se non si mettano congiuntamente sulla bilancia le differenze. Indico anch’io un esempio, rappresentato dal confronto della frase retta da cupientes (bonos non solum metu poenarum, verum etiam praemiorum quoque exhortatione efficere) con passi dell’Etica Nicomachea di Aristotele: Aristotele, Opere VII, trad. A. Plebe (Roma-Bari 1973) 25 (1102a: «l’autentico uomo politico... vuole rendere i cittadini buoni e ossequienti alla legge») e 49 (1109b: «è forse necessario, per chi indaga intorno alla virtù, definire ciò che è volontario e ciò che è involontario; e ciò è utile anche ai legislatori in vista dei premi e delle punizioni»). Credo sia capitato a tutti di pensare autonomamente delle cose, che poi si sono trovate già enunciate da altri, e resto convinto che Ulpiano sia stato capace di pensare delle cose da solo.

 

[53] La via per il superamento delle deficienze, di segno opposto, presenti nei due indirizzi (lo stare decisis dei sistemi di common law rientra nella visuale giuspositivistica, di cui non rappresenta, a mio parere, l’esplicazione migliore), si trova in una rifondazione della scienza giuridica, che muova dalla riconsiderazione degli elementi rimossi dalla grande permutatio giustinianea, i principia dei quali risalgono alla democrazia repubblicana. [Sulla democrazia nell’esperienza romana, v. da ultimo A. Guarino, La costituzione democratica romana e le sue vicende (Roma 2005)]. In primis vanno riprese in considerazione la visione del diritto come attività umana (del fenomeno giuridico qual è nella realtà), insita nella relativa definizione come ars boni et aequi, e l’assunzione, per il suo corretto svolgimento, dei supremi criteri del bonum et aequum (= ragionevolezza ed uguaglianza) enunciati nella stessa. Per il ruolo della dottrina occorre ‘saltare’ la fase del principato (di transizione verso l’assolutismo), nella quale l’imperatore conferiva a giuristi di sua scelta, tramite la concessione ad essi dello ius respondendi, il potere di concorrere alla produzione del diritto, risalendo all’impostazione democratica repubblicana, secondo la quale il popolo (i cives che lo componevano) creavano diritto, oltre che col voto nelle assemblee popolari, su proposta del magistrato competente (legge), con il comportamento concreto (rebus ipsis et factis) sotto la guida (e l’indicazione qualificata) dei giuristi (mores). [Cfr. F. Gallo, La recezione moribus nell’esperienza romana: una prospettiva perduta da recuperare, relazione tenuta al Convegno su Prassi e diritto. Valore e ruolo della consuetudine (Napoli 9-10 dicembre 2004), in corso di pubblicazione negli Atti del Convegno e in Iura 55 (2004)]. Lo svolgimento della tematica accennata, nella quale rientra anche la funzione del giudice, può essere qui soltanto auspicato.