N. 4 – 2005 – Tradizione Romana

 

Luigi  Garofalo

Università di Padova

 

L’humanitas nel pensiero della giurisprudenza classica

 

1.Ius est ars boni et aequi: lo si legge nel passo di Ulpiano che apre il Digesto, la poderosa raccolta di brani provenienti dalla vasta produzione dei giuristi attivi soprattutto nell’età del principato voluta da Giustiniano, a imperitura memoria della loro impareggiabile maestria e a salvaguardia della certezza del diritto da applicare nella concretezza della quotidianità[1].

Il valore dell’enunciazione, risalente a Giuvenzio Celso figlio – figura eminente tra i prudentes che operano nella prima metà del II secolo d.C.[2] – e particolarmente apprezzata dallo stesso Ulpiano, che ne rimarca l’eleganza[3], è ancor oggi vivamente dibattuto. Secondo la tesi che più convince, messa or non è molto a punto da Filippo Gallo[4], siamo di fronte a una vera e propria definizione del ius valevole sotto il profilo strettamente scientifico costantemente privilegiato dai giuristi e non già, come vorrebbero altre e pur autorevoli opinioni, a un’affermazione carica di vacua retorica[5], né a una mera rappresentazione della tensione immanente al diritto verso idealità di ordine etico[6] e neppure a una di quelle che la dottrina tedesca chiama ‘Leerformeln’, cioè formule vuote, «in cui si può, dal punto di vista sostanziale, versare qualsiasi contenuto, e che, in effetti, le singole epoche hanno riempito nei modi che, di volta in volta, erano imposti dalla cultura e dall’assetto socio-economico imperanti»[7]. Le parole di Celso, nelle quali inadeguato sarebbe anche scorgere una qualificazione metaforica per laudem del ius[8], mirano invero a chiarire che questo, ossia il diritto inteso in senso oggettivo, come esperienza giuridica nel suo complesso, che abbraccia la produzione, l’interpretazione e l’applicazione del diritto, è il frutto di un’ars, cioè di un’attività dell’uomo governata da regole e tecniche[9], protesa al conseguimento del bonum e dell’aequum[10]: e dunque alla prospettazione di soluzioni che – a livello normativo, ermeneutico e attuativo – realizzino l’uno e l’altro, mostrandosi conformi a ciò che esigono il canone del rispetto dei boni mores, il criterio di razionalità, che impone aderenza alle esigenze della realtà e contemperamento degli opposti interessi, e il principio di uguaglianza, il quale postula che a situazioni uguali corrispondano trattamenti uguali e a situazioni disparate trattamenti disparati, operando con riferimento all’organizzazione del gruppo sociale, ai rapporti tra i singoli e tra questi e l’ente personificato o comunque la comunità.

In quanto il ius è, secondo la corretta lettura di Celso, il risultato di un’ars, è allora evidente che, nella ricostruzione concettuale di questi, di esso, o meglio dello stato di esso, è esclusivamente responsabile chi tale ars esercita, ossia l’uomo; così come è evidente che in esso, ovvero nella totalità dell’esperienza giuridica, riposa l’essenza dell’uomo, il quale crea, interpreta e applica il diritto mettendo a profitto tutte le sue capacità: non solo la ragione, pertanto, ma anche le altre facoltà di cui è dotato, tra le quali la memoria, l’intuizione e il sentimento.

Sbaglieremmo, peraltro, ove pensassimo che la definizione di Celso fosse priva di ricadute sul piano pratico. Come acutamente rileva ancora Filippo Gallo[11], il giurista, individuando nel bonum et aequum la «nota differenziale che … contraddistingue il diritto nell’ambito del genere ars», ha nel contempo «posto il criterio per stabilire quando c’è e quando manca la sostanza del diritto al di sotto dei suoi aspetti formali. La sola apparenza esteriore non basta: perché si abbia diritto è necessario che ne esista anche la sostanza, ravvisata da Celso nel bonum et aequum. Una prescrizione che presenti gli aspetti formali della norma, ma fuoriesca dal bonum et aequum, non è diritto e, come tale, non va osservata».

Ebbene, a ritenere che l’insegnamento di Celso, pur circolando all’interno di un sistema aperto – qual è quello vigente nel periodo imperiale –, dove domina il ius controversum e le opinioni anche discordi dei prudentes sono considerate diritto vivo[12], fosse ampiamente condiviso, come io credo, dovremmo immaginare che le istanze insite nell’idea di humanitas, sicuramente partecipi di quanto reclamavano il bonum e l’aequum, orientassero costantemente l’opera dei giuristi, anche al di fuori dei casi in cui essi motivavano i loro pareri evocando espressamente esigenze umanitarie. E così è, infatti.

Ma procediamo per gradi, cercando anzitutto di lumeggiare i contenuti dell’humanitas e il peso da questi esercitato sull’evoluzione dell’ordinamento giuridico romano, agendo come principi attivi sotterranei.

 

2. – Come ricorda Fritz Schulz nei suoi Prinzipien des römischen Rechts, apparsi a Monaco nel 1934 e presto divenuti un classico della dottrina giuridica[13], la parola humanitas è una creazione autonoma dei romani, che non ha esatti corrispondenti nel lessico greco: anche il vocabolo philanthropia ha infatti un’area semantica più ristretta di quella propria di humanitas.

Con questo termine, nato nel circolo del giovane Scipione, console nel 147 a.C., nel quale la filosofia greca era coltivata accanto alla lingua e alla letteratura latina[14], si dava espressione, sotto l’impulso di talune correnti di pensiero riconducibili soprattutto a Panezio[15], a un sentimento forte: quello della dignità e sublimità che sono proprie della persona umana e la pongono al di sopra di tutte le altre creature del mondo[16]. L’humanitas coglie dunque il singolare valore dell’uomo, che lo obbliga a costruire la propria personalità, a educarsi sul piano culturale e morale[17], ma anche a rispettare e favorire lo sviluppo della personalità altrui[18]: solo chi avverte questo composito dovere e lo adempie nel concreto dell’esistenza, oltre a chiamarsi uomo, è veramente tale, appunto perché connotato dall’humanitas, e si contrappone così, secondo la felice precisazione di Martin Heidegger[19], all’homo barbarus[20].

Quello di humanitas è allora un concetto ampio[21], che si estende sino a comprendere il riguardo per gli altri, il porre a se stessi dei limiti, il non perseguire esclusivamente il proprio vantaggio, consapevoli che qualche cosa va lasciato al prossimo, l’attribuire ai terzi con cui si sia in particolari relazioni ciò che è conveniente secondo le esigenze dell’individualità di ciascuno[22].

Ed è un concetto la cui forza costruttiva, sul piano giuridico, si dispiega fin dal primo apparire della parola alla quale è sotteso, se non anche in precedenza[23], e con notevole intensità, affiorando peraltro in casi circoscritti – che prenderemo in considerazione nel seguito – nelle argomentazioni poste dai giuristi (e dagli imperatori) a sostegno delle loro decisioni[24]. L’influenza dell’idea di umanità sul diritto è «comprensiva e profonda», sottolinea lo stesso Fritz Schulz[25], aggiungendo opportunamente che nel campo giuridico «questa idea prende subito quell’atteggiamento caratteristicamente pratico, che la stacca una volta per tutte dalla nebulosa e utopistica speculazione greca»: essa, invero, non tende certo a «risolvere l’ordinamento giuridico in una fraternità generale», incidendo invece sui singoli ambiti in cui questo si articola in modo più penetrante e comunque differenziato, «nella misura a ciascuno più confacente». E così, per proporre qualche esempio, nel settore della famiglia l’humanitas induceva un miglioramento della condizione della donna e la mitigazione del rigido rapporto potestativo tra genitori e figli; in tema di schiavitù assicurava qualche progresso nel trattamento dei servi; in materia negoziale favoriva il consolidarsi della direttiva che impone di «non speculare sulle parole e sulle forme»[26] e di interpretare gli atti secondo il loro contenuto e l’effettiva intenzione delle parti; nell’area del diritto e del processo penale comportava un incremento delle garanzie dell’imputato, giudicato per lo più da un organo terzo rispetto a chi assumeva il ruolo di accusatore, una accentuata limitazione dei casi di applicazione della pena di morte e l’osservanza del duplice principio della personalità della sanzione[27] e della graduazione della medesima in relazione alle circostanze soggettive e oggettive del reato, alla parte in esso avuta dal colpevole e alla sua condotta anteriore e posteriore al fatto criminoso[28].

Ciò che è racchiuso nella parola humanitas riesce dunque a fungere da vero e proprio propulsore, per lo più sommerso, della crescita del sistema[29]: e non poteva essere diversamente, perché l’idea di humanitas, che trova il suo fondamento «nella natura razionale e libera dell’uomo, nella realtà dei rapporti fra gli esseri umani», come evidenzia Carlo Alberto Maschi[30], implica la costante ricerca di soluzioni normative, ermeneutiche e attuative capaci di soddisfare quelle esigenze di contemperamento degli opposti interessi alle quali deve sempre attentamente guardare chi opera nel campo del diritto, secondo l’insegnamento di Celso.

Qualche volta, tuttavia, l’humanitas, come già accennato, va oltre il suo consueto ruolo di invisibile principio informatore dello sviluppo dell’ordinamento ed emerge nel parere del giurista (o nella pronuncia del principe), quale specifico e unico motivo ispiratore della determinazione che vi si legge: ed è proprio a questi casi che dobbiamo volgere l’attenzione, non senza aver prima indugiato sul modo in cui i prudentes di età classica contribuivano al ‘farsi’ dell’esperienza giuridica.

 

3. – Al loro tempo, le regole che componevano quell’ampia parte dell’ordinamento che aveva riguardo ai rapporti intersoggettivi provenivano in modestissima misura da fonti autoritative, quali le leges rogatae, approvate dalle assemblee dell’intero popolo, i plebiscita, votati dai concilia della plebe, le constitutiones principum a carattere generale (edicta e mandata), nonché, ma solo a partire dal II secolo d.C., quando la collettività aveva ormai definitivamente smesso l’esercizio della funzione normativa, i senatusconsulta, destinati a loro volta a tramutarsi presto nelle orationes principum in senatu habitae. Fermo che anche sulle poche regole così introdotte non mancava comunque l’interpretazione dei giuristi imperiali, volta a chiarirne, e non sempre univocamente, la portata, per le rimanenti che integravano il sistema privatistico sostanzialmente due erano i canali attraverso i quali venivano alla luce: il primo rappresentato dall’attività creativa dei nostri giuristi, che normalmente si esplicava in relazione a singoli casi pratici, fossero essi realmente accaduti o di pura fantasia[31]; il secondo – inariditosi peraltro verso il 130 d.C. per volere dell’imperatore Adriano – dagli editti di alcuni magistrati che presiedevano all’impostazione delle cause, come i pretori, i quali in essi non versavano disposizioni generali e astratte del tenore di quelle che oggi siamo soliti reperire nei testi legislativi, ma si impegnavano a concedere agli interessati di litigare processualmente secondo gli schemi che vi erano elencati per far valere i propri diritti, i cui presupposti erano talora enucleabili, grazie all’imprescindibile ausilio dei soliti giuristi, esclusivamente da tali schemi (è così, ad esempio, che i pretori, promettendo nei loro editti tutela giudiziale, sulla base di un apposito modello, a chi non ricevesse in restituzione il bene affidato temporaneamente in custodia a un terzo in conseguenza del dolo di costui, oltre a dare pieno riconoscimento giuridico alla figura del contratto di deposito, delineavano le condizioni, sulle quali intervenivano poi i giuristi a scopo di delucidazione, al cui ricorrere sorgeva in capo al deponente la pretesa, protetta appunto sul piano del diritto, alla riconsegna).

Anche rispetto alle regole affioranti per la seconda via, che – diversamente da quelle direttamente individuate dai prudentes, confluenti nel ius civile – formavano il ius honorarium (una gran parte del quale era costituito dal ius praetorium), l’apporto dei giuristi era quindi notevole, tanto più che erano proprio costoro che non di rado suggerivano ai magistrati l’inserimento nei loro editti di ulteriori mezzi processuali di tutela. Ma naturalmente i giuristi, per giunta suddivisi – durante il I secolo d.C. e fino alla metà del II – in due scuole contrapposte, quelle dei sabiniani e dei proculeiani, ben potevano professare opinioni diverse tanto a livello di ricostruzione di regole derivanti da fonti esterne a loro quanto a livello di produzione da parte loro di regole nuove: il che rende ragione di quel particolare fenomeno, al quale già si è accennato, che caratterizza il periodo del principato (e non solo questo) e che va sotto il nome di ius controversum, per cui tutto ciò che, sul piano giuridico, pensavano i giuristi, anche in modo difforme, era comunque considerato diritto vigente e dunque attingibile dal giudice chiamato a decidere la singola controversia.

D’altro canto, se i pareri, pur divergenti, dei giuristi riuscivano a imporsi come diritto applicabile, ciò si giustifica per l’auctoritas che assisteva quelli che li emettevano: un’auctoritas fondata soprattutto sul loro sapere tecnico, riconosciuto dalla collettività entro cui vivevano. Le sententiae dei prudentes, infatti, rappresentavano il frutto di una riflessione condotta con metodo scientifico, non di certo l’esito di capricciose valutazioni di stampo puramente politico e nemmeno di personali pulsioni verso vaghe idee di giustizia. E risiede proprio qui il motivo della perenne attualità del diritto romano, cui continuiamo a guardare nonostante da tempo non valga più come diritto positivo: il suo ergersi a prodotto di una speculazione razionale. Ciò ha infatti permesso a quel diritto, e in specie a quanto elaborato dalla giurisprudenza classica, di essere ripreso quale diritto applicabile, nell’assenza di iura propria, in territori sempre più vasti del continente europeo a partire dall’XI secolo e sino alle grandi codificazioni che si susseguono tra la fine del Settecento e tutto l’Ottocento: esse stesse, del resto, intessute come sono di disposizioni che cristallizzano alcuni momenti del pensiero giuridico medievale e moderno, eretto, come appena detto, su quello romano, si collocano – al pari delle codificazioni ancora più recenti alle quali in qualche caso hanno ceduto il posto – nell’area segnata dall’ars boni et aequi praticata dalla giurisprudenza classica, di cui perpetuano il linguaggio e la grammatica concettuale.

Né il quadro tratteggiato era sostanzialmente alterato dalla presenza del principe. Quest’organo, che già sappiamo restio ad avvalersi di edicta e mandata per introdurre norme generali e astratte atte a disciplinare i rapporti tra privati, incideva sul loro assetto mediante costituzioni a carattere particolare, le quali altro non erano se non statuizioni relative a casi concreti, che assumevano la forma del decretum quando decidevano una controversia giudiziaria e quella del rescriptum e dell’epistula quando indicavano al richiedente (che poteva essere una persona qualsiasi ovvero un magistrato o un funzionario) la soluzione che in punto di diritto si doveva adottare rispetto a una determinata fattispecie: esse dunque, oltre a replicare l’approccio casistico peculiare dei prudentes, all’interno del ius controversum si ponevano, al pari delle opinioni di questi, come precedenti, pur se particolarmente autorevoli (ma non tanto da precludere una loro successiva valutazione critica in sede di dibattito scientifico[32]) in considerazione dell’organo da cui promanavano[33]. Senza poi dire che a predisporre le costituzioni in esame, soprattutto dal II secolo d.C., erano proprio dei giuristi, addetti alla cancelleria imperiale: a dimostrazione che tra questa e il ceto dei prudentes vi era simbiosi e non certo antagonismo.

 

4. – Conclusa questa digressione, possiamo tornare al punto donde essa aveva preso avvio: l’humanitas, che pur permea di sé l’esperienza giuridica tutta, influendo potentemente ancorché latentemente sul suo divenire, talora appare esplicitamente invocata nelle decisioni giurisprudenziali e imperiali quale ragione che tecnicamente giustifica la soluzione che vi è enunciata.

Vero è, peraltro, che per un certo tempo si è dubitato della genuinità del richiamo: proprio Fritz Schulz[34], ad esempio, era così convinto che i giuristi del principato rifiutassero di adoperare la parola humanitas, da affermare perentoriamente che là dove essa ricorre nei loro scritti sempre saremmo al cospetto di un’interpolazione, cioè di un’aggiunta di matrice giustinianea[35]. Ma oggi, denunciati dalla dottrina gli inaccettabili eccessi in cui era caduta la critica interpolazionistica, anche con specifico riguardo ai frammenti di età classica nei quali si parla di humanitas[36], possiamo credere, almeno in via tendenziale, alla piena autenticità degli stessi[37].

Quanto a questi, non è la loro esaustiva rassegna che qui maggiormente interessa[38]: più utile per noi, dato il valore paradigmatico che a tutti può riconoscersi, è ricordare il contenuto di qualcuno, onde toccare con mano la rilevanza che la ratio humanitatis assume nell’opera dei prudentes e nelle statuizioni del principe[39].

Cominciamo da un brano, collocato in D. 34,5,22, di cui è autore Giavoleno Prisco, unico tra i giuristi anteriori a Giuliano[40] – cui l’imperatore Adriano affiderà il compito, espletato intorno al 130 d.C., di fissare in via definitiva il testo degli editti dei magistrati giusdicenti, bloccandone così, come già detto, ogni potenzialità innovativa rispetto al diritto vigente – a fare apertamente leva su ciò che è riconducibile all’idea di humanitas[41]: vi si dice appunto che è humanius ritenere che il figlio pubere sia sopravvissuto alla madre nel caso in cui entrambi periscano in uno stesso naufragio e non si riesca a stabilire chi dei due sia morto per primo.

Proprio di Giuliano sono varie soluzioni che agli occhi suoi o di giuristi posteriori s’impongono perché in linea con quanto l’humanitas richiede. In D. 28,2,13 pr., ad esempio, egli, humanitate suggerente e in adesione al pensiero di Giuvenzio Celso, si pronuncia così con riferimento all’ipotesi in cui, attribuiti per testamento i due terzi dell’asse al figlio postumo e il residuo all’uxor ovvero il terzo alla figlia che sopravvenga e i due terzi alla moglie, nascano un maschio e una femmina: il patrimonio dovrà essere diviso in sette parti, di cui quattro andranno al figlio, due alla moglie e una alla figlia. E ciò di contro alla regula iuris per cui il testamentum dovrebbe considerarsi ruptum, stante la non corrispondenza alle sue previsioni di quanto verificatosi successivamente alla morte dell’ereditando, e in conformità alla reale mens di costui, che intendeva beneficiare comunque la moglie, sia che il postumo fosse maschio sia che fosse femmina, volendo per l’uno il doppio della quota della madre e per questa il doppio di quella della figlia. Invece, e ancora ad esempio, in D. 7,1,25,1 (… sed Iuliani sententia humanior est …), 21,1,23,8 (… et videtur mihi Iuliani sententia humanior esse) e 44,4,7,1 (… et habet haec sententia Iuliani humanitatem …) Ulpiano dichiara di accogliere, in relazione a questioni diverse, l’opinione di Giuliano in quanto gli sembra assecondare più intensamente le esigenze, specie di equilibrata composizione dei contrapposti interessi, che l’humanitas porta con sé.

A ciò che attiene all’humanitas è sensibile anche Pomponio[42], come rivelano alcune sue decisioni: a prescindere da quelle contemplate in D. 8,2,23 pr. (… et humanius est …), 33,5,8,2 (… humanius autem erit …) e 40,4,4,2 (… attamen humanitatis intuitu valebit legatum …), è su una in materia di disposizioni mortis causa, riportata in D. 28,5,29, che merita soffermarsi. Avendo il testatore designato come eredi Tizio e Seio, ciascuno per una quota pari a quella per la quale avrà istituito erede il testatore stesso, se ambedue non avessero provveduto a nominarlo quale erede né l’uno né l’altro avrebbe potuto succedergli, secondo quanto riteneva Labeone. Ma per Pomponio humanius est eum quidem, qui testatorem suum heredem scripserit, in tantam partem ei heredem fore, qui autem eum non scripserit, nec ad hereditatem eius admitti: per lui, quindi, più che l’aderenza alla volontà del testatore assumeva qui importanza, veicolata dall’humanitas, un’istanza di giustizia sostanziale[43].

Determinazioni giustificate sulla scorta di ragioni umanitarie si rinvengono poi in tre testi di Marcello, tramandati da D. 5,2,10 pr. (… humanius erit …), 13,5,24 (… Marcellus respondit …: est enim humanior et utilior ista interpretatio) e 28,4,3. In quest’ultimo luogo è riferito di un dibattimento svoltosi davanti al tribunale di Marco Aurelio[44], al quale potrebbe aver assistito pure il giurista, che del consilium dell’imperatore era membro[45]. Vi si discuteva dell’efficacia dei legati contenuti in un testamento nel quale più non figuravano eredi, avendo il testatore cancellato i nomi di quelli originariamente indicati. In base a una humanior interpretatio, che anche Marcello mostra di approvare, il principe dichiara validi i legati, ancorché essi potessero, e probabilmente dovessero, ritenersi nulli, al pari delle disposizioni a vantaggio degli eredi, per la mancanza di questi. E inoltre decreta che lo schiavo manomesso nello stesso testamento, il cui nome il testatore aveva altresì cancellato, fosse nondimeno libero, in omaggio a quel favor libertatis che rappresenta una delle estrinsecazioni dell’idea di humanitas[46].

A questa si appellano inoltre Trifonino, Scevola[47] e successivamente Papiniano[48], per dare sostegno a loro opinioni innovative. Papiniano, ad esempio, in D. 16,2,16,1 può sostenere, humanitatis gratia, che nei confronti di colui che fa valere un credito derivante da una sentenza di condanna ed esigibile è opponibile in compensazione un credito nascente anch’esso da una sentenza di condanna e non ancora esigibile.

Di Marciano, Paolo[49], Ulpiano e Modestino[50] sono infine parecchi testi nei quali le costruzioni giuridiche proposte risultano sorrette da quell’humanitas che i quattro prudentes avvertono come valore che spinge pressantemente verso soluzioni conformi alla ragionevolezza e idonee al bilanciamento degli interessi in gioco. Basti in proposito citare due brani di Ulpiano: il primo dei quali in D. 11,1,11,6, culminante nell’assunto che è humana, e perciò da prediligere, la sententia secondo cui la risposta data dall’interrogato, per quanto incongrua rispetto alla domanda, non può comunque ridondare a suo svantaggio quando non sia falsa[51]; l’altro in D. 18.3.4.1[52], dove è riferita un’opinione di Nerazio[53], dalla quale si evince che il compratore che avesse pagato un anticipo del prezzo, risoltasi la vendita con lex commissoria[54], avrebbe potuto recuperarlo tramite l’actio ex empto. E invero, se il venditore, per regola generale, avesse avuto il diritto di trattenere l’anticipo versatogli, Nerazio non si sarebbe espresso nel senso che il compratore, allorché perde la parte di prezzo che ha pagato, fa suoi i frutti, normalmente dovuti in restituzione. Il principio doveva dunque essere questo, che il venditore era tenuto a ritornare l’acconto al compratore, mentre questi era vincolato alla restituzione dei frutti. I contraenti, tuttavia, avrebbero potuto convenire che il venditore fosse esonerato dal dovere di rimborso[55]: ma in questo caso il compratore sarebbe stato sollevato dall’obbligo di rendere i frutti, appunto in base alla sententia Neratii, che Ulpiano condivide perché humana.

Non mancano, peraltro, testi nei quali si configura come inhumanus «un comportamento difforme rispetto al diritto equitativamente valutato»[56]: sono comunque testi giurisprudenziali[57], talora di commento a costituzioni imperiali, che confermano la crescente rilevanza che l’humanitas assume in età classica quale ratio decidendi.

 

5. – Giova riconsiderare, a questo punto, una circostanza già evidenziata, perché illuminante: è solo con Giuliano che la giurisprudenza inizia a ostentare, con una certa frequenza, l’humanitas quale ratio decidendi: prima di lui, infatti, solo Giavoleno Prisco la richiama espressamente a fondamento di una sua opinione.

Ma noi sappiamo anche che è proprio Giuliano a provvedere alla cd. codificazione degli editti dei magistrati giusdicenti, assolvendo un incarico conferitogli dall’imperatore Adriano: di quegli editti grazie ai quali questi magistrati, e in particolare i pretori (titolari, non va dimenticato, di un potere discrezionale fondato sull’imperium), riuscivano, inserendovi e rendendo così accessibili agli interessati nuovi mezzi processuali, a integrare il sistema del ius civile, a supplirne le lacune e a correggere le sue asperità, in aderenza a quanto richiedeva l’aequitas, intesa come complesso dei valori insiti nei rapporti umani ovvero, secondo la raffigurazione di Alberto Burdese[58], «come esigenza di adeguamento del diritto a sentimenti di giustizia, che è conformità alle istanze dell’ambiente sociale nel contemperamento degli opposti interessi in gioco»[59].

E allora, constatato altresì che l’aequitas era percepita come entità concettuale che assorbiva in sé quanto sotteso all’humanitas – tanto che Giustiniano, nelle sue Institutiones (e precisamente in 3,2,3), discorrendo in tema di eredità, potrà accennare ai praetores che avevano dato luogo a un diritto consono ai dettami dell’humanitas, lodandoli poi proprio per questo[60] –, si spiana la via a una plausibile supposizione. Isterilitosi il ius honorarium, gli unici interpreti delle esigenze sprigionanti dall’aequitas, anche sotto il profilo formale, rimanevano i giuristi, unitamente al principe, con cui collaboravano: solo loro erano in grado di tradurre quelle esigenze in nuove soluzioni tanto normative, sia pure sempre di impianto casistico, quanto interpretative e applicative del diritto preesistente. Essi non godevano però di uno spazio creativo illimitato: le decisioni che prospettavano dovevano invero presentare comunque un margine di compatibilità con l’ordinamento complessivo, pur caratterizzato dal ius controversum, in cui si calavano. Per questo è probabile che i prudentes, specie allorché avvertissero l’opinione propria (o del principe) come di rottura, tale cioè da forzare il sistema senza peraltro vulnerarlo, sentissero nel contempo il bisogno di rinvigorirne la solidità attraverso l’espresso richiamo ora dell’aequitas[61] ora dell’humanitas, che pur stava dentro alla prima[62], a seconda di quella che apparisse loro più pertinente[63].

 

6. – Giunti al termine del nostro viaggio all’interno della giurisprudenza classica, che ci ha restituito l’immagine di una classe di scienziati costantemente ispirata dall’idea di humanitas, sulla quale infatti, anche quando non lo proclama, eleva le architetture giuridiche più ardite, resta da meditare sull’attualità della sua lezione. Ma su questo punto ha già scritto, e in modo impareggiabile, Luigi Labruna[64], sicché è quasi giocoforza ripetere le sue parole.

«Il primo dovere di chi crea, applica, insegna, interpreta il diritto è quello di riflettere sui suoi fondamenti, sulla centralità dell’uomo rispetto alle leggi, che debbono essere prodotte al fine di garantire ed esaltare la persona umana, nella sua complessità ed in un mondo in cui si incontrano sempre più le diverse culture. Nel grande tesoro della giurisprudenza romana, in cui … sono le radici del diritto occidentale, anche su questo problema centrale della modernità rinveniamo un’apertura, un’indicazione di metodo che non deve essere ignorata. ‘Tutto il diritto (omne ius) è costituito a causa degli uomini: hominum causa constitutum est’ ammoniva Ermogeniano, in un testo non a caso tramandatoci da Giustiniano nei Digesta. … L’umanità del diritto, e dunque anche l’umanizzazione della pratica giuridica, di cui la società oggi ha particolarmente bisogno, segna la strada per l’attuazione dei diritti umani, per la realizzazione del diritto vero». Dobbiamo allora comprendere e trasmettere la consapevolezza «che aequitas e humanitas, equità e umanità, sono categorie giuridiche di grande profondità. Storicamente recepite nella cultura che in libertà si riconosce nella comune matrice romanistica e nei ‘valori comuni dell’Occidente’. Esse determinano la differenza tra le società che partecipano della civiltà del diritto e quelle repressive, nelle quali … ‘il concetto stesso di uomo è la parodia dell’uguaglianza di tutto ciò che è fatto ad immagine di Dio’. Certo, se guardiamo alla realtà, al quotidiano, pure in culture giuridiche di elevato livello possiamo notare che talvolta, ancora, ‘Gewalt und Grausamkeit’ sono al servizio del ‘diritto’. Ciò però non deve significare, mai più, inclinazione di quest’ultimo alla durezza, all’iniquità, all’inumanità: bisogna smascherare qualsiasi ordinamento, qualsiasi ‘diritto’, che non ponga l’uomo al centro della sua scala di valori. Recuperare aequitas e humanitas contro ogni barbarie. Costruire un diritto che sia sempre più equo e più umano, perché possa servire all’uomo, nel solco profondo della nostra alta tradizione giuridica comune, che ci mostra come il diritto possa e debba essere posto al servizio dell’umanità e dell’umanesimo».

 

 

 



 

[1] Cfr. A. Burdese, Manuale di diritto privato romano4, Torino, 1993, 57 ss. Con C.A. Cannata, Lineamenti di storia della giurisprudenza europea2, I, La giurisprudenza romana e il passaggio dall’antichità al medioevo, Torino, 1976, 56, giova precisare che Ulpiano morì al più tardi nel 228 d.C.

 

[2] Membro del consilium di Adriano, il nostro Celso – come precisa F. Schulz, Storia della giurisprudenza romana, trad. it., Firenze, 1968, 190 – coprì più magistrature urbane, tenendo per la seconda volta il consolato nel 129 d.C., e fu governatore della Tracia e forse d’Asia.

 

[3] Cfr. F. Gallo, Diritto e giustizia nel titolo primo del Digesto, in SDHI, LIV, 1988, 8; P. Voci, ‘Ars boni et aequi’, in Index, XXVII, 1999, 1.

 

[4] E compiutamente formulata nel suo contributo Sulla definizione celsina del diritto, apparso in SDHI, LIII, 1987, 7 ss.

 

[5] Cfr. F. Schulz, Storia della giurisprudenza romana, cit., 242.

 

[6] Cfr. M. Marrone, Istituzioni di diritto romano, Palermo, 1994, 20.

 

[7] Così M. Talamanca, Istituzioni di diritto romano, Milano, 1990, 38 s.

 

[8] Secondo la proposta di R. Martini, della quale dà conto, prendendone le distanze, lo stesso F. Gallo, Sulla definizione celsina del diritto, cit., 9.

 

[9] Secondo P. Cerami, La concezione celsina del ius. Presupposti culturali e implicazioni metodologiche, I, L’interpretazione degli atti autoritativi, Palermo, 1985, 18 s.: «ars sta a significare … ricerca (skepsis) e prassi (praxis) metodico-specialistica, ovvero, in senso unitario e pregnante, ‘esperienza’ metodicamente qualificata, il cui ‘idion’ epistemologico, inteso nel precipuo significato tecnico di ‘individualità scientifica’, è dato appunto dalla peculiarità del fine, che Celso riassume nella formula tecnica ‘bonum et aequum’».

 

[10] Come già per il Cerami e il Mantello, da lui esplicitamente richiamati, anche per G. Falcone, La ‘vera philosophia’ dei ‘sacerdotes iuris’. Sulla raffigurazione ulpianea dei giuristi (D. 1.1.1.1), in Annali del Seminario giuridico della Università di Palermo, XLIX, 2004, 33 (la citazione è dall’estratto), «l’‘ars’ di Celso è da intendere in senso teleologico, come ricerca che tende all’applicazione del bonum et aequum».

 

[11] F. Gallo, Sulla definizione celsina del diritto, cit., p. 46.

 

[12] Cfr. M. Talamanca, Il ‘Corpus iuris’ giustinianeo fra il diritto romano e il diritto vigente, in Studi in onore di M. Mazziotti di Celso, Padova, 1995, 777: «nel ius controversum … tutti i pareri dei giuristi erano diritto, in quanto astrattamente applicabili senza che nessuno potesse imputare al giudice, che avesse scelto o l’uno o l’altro, di aver deciso contra ius; ma, contemporaneamente, il diritto effettivamente vigente nella singola controversia veniva individuato soltanto attraverso la pronuncia del giudice».

 

[13] Essi, per quanto qui interessa, sono da consultare alle pagine 164 ss. della versione italiana curata da V. Arangio Ruiz, pubblicata a Firenze nel 1946 con il titolo I principii del diritto romano.

 

[14] Cfr. W. Schadewaldt, ‘Humanitas Romana’, in Aufstieg und Niedergang der römischen Welt, I, 4, Berlin-New York, 1973, 52 ss.

 

[15] Cfr. H. Kupiszewski, ‘Humanitas’ et le droit romain, in Scritti minori, Napoli, 2000, 89.

 

[16] Cfr. J. Gaudemet, Des ‘droits de l’homme’ ont-ils été reconnus dans l’Empire romain?, in Labeo, XXXIII, 1987, 11 s.

 

[17] Cfr. A. Palma, ‘Humanior interpretatio’. ‘Humanitas’ nell’interpretazione e nella normazione da Adriano ai Severi, Torino, 1992, 21.

 

[18] «L’idée de humanitas implique une large éducation spirituelle, et une préparation approfondie à la vie civique», dice H. Kupiszewski, ‘Humanitas’ et le droit romain, cit., 89.

 

[19] M. Heidegger, Lettera sull’«umanismo», trad. it., Milano, 1995, 41.

 

[20] Particolarmente significativo in proposito è Gell. 13,17, il quale registra anche il fenomeno della progressiva riduzione di significato di humanitas, che finirà per designare unicamente, almeno presso la gente comune, una generica inclinazione e benevolenza verso la specie umana, dopo aver indicato pure, e anzi soprattutto, ciò che nel mondo greco è detto paideia, di cui sono manifestazioni l’eruditio e l’institutio in bonas artes. Proprio sulla base di questo passo, del resto, M. Heidegger, Lettera sull’«umanismo», cit., 41, che pur non lo richiama espressamente, può osservare che «l’homo humanus è … il Romano che eleva e nobilita la virtus romana attraverso l’‘incorporazione’ della paideia assunta dai Greci». Per altre fonti letterarie che concorrono a chiarire il campo semantico del vocabolo humanitas, tra le quali rientrano brani importanti dell’opera di Cicerone e Seneca, cfr. S. Riccobono jr., L’idea di ‘humanitas’ come fonte di progresso del diritto, in Studi in onore di B. Biondi, II, Milano, 1965, 596 ss.; A. Palma, ‘Humanior interpretatio’. ‘Humanitas’ nell’interpretazione e nella normazione da Adriano ai Severi, cit., 21 ss.

 

[21] Esso va comunque tenuto ben distinto da quello, moderno, di ‘human rights’. Come sottolinea M. Talamanca, L’antichità e i ‘diritti dell’uomo’, in Convenzione del Consiglio d’Europa per la protezione dei diritti umani e delle libertà fondamentali, in Atti dei Convegni lincei, 174, Roma, 2001, 51, non si deve infatti equivocare fra il problema dell’humanitas e quello di tali diritti, «fra l’aspetto di un tipo di diritti – di cui, anche nel presente, sono soggette a discussione ed a cautela l’individuazione e le modalità in cui, nella loro effettività, essi si presentano nella concreta fenomenologia giuridica – e quello dei valori che li sottendono, e che possono assumere anche altri modi di evidenziarsi in diversi contesti storici in cui l’operatività non ne è necessariamente correlata all’esistenza di ‘diritti dell’uomo’ come li intendiamo noi moderni»: valori che «nel mondo antico si possono riconnettere alla terminologia di humanitas».

 

[22] Cfr. C. Castello, ‘Humanitas’ e ‘favor libertatis’. Schiavi e liberti nel I secolo, in ‘Sodalitas’. Scritti in onore di G. Guarino, Napoli, 1982, 138.

 

[23] Ma non così a ritroso come vorrebbe S. Riccobono jr., L’idea di ‘humanitas’ come fonte di progresso del diritto, cit., 590 ss.

 

[24] Dissonante è la voce di C. Sanfilippo, che nella Recensione al lavoro del Maschi citato infra, alla nt. 30, in Iura, II, 1951, 335, ritiene che, anche a voler credere alla genuinità di tutti i testi classici in cui è menzione dell’humanitas, se ne potrebbe solo ricavare che «qua e là, caso per caso, un giurista qualificò humana un’opinione o una decisione»; non certo che l’humanitas fosse «un principio generale ispiratore dell’ordinamento giuridico romano-classico, dell’ordinamento degli organizzatori e spettatori dei ludi circenses».

 

[25] F. Schulz, I principii del diritto romano, cit., 166.

 

[26] Così F. Schulz, I principii del diritto romano, cit., 182.

 

[27] Cfr. M.I. Núñez Paz, ‘Humanitas’ y limitaciones al ‘ius occidendi’, in Scritti in ricordo di B. Bonfiglio, Milano, 2004, 265.

 

[28] Cfr. L. Garofalo, Concetti e vitalità del diritto penale romano, in ‘Iuris vincula’. Studi in onore di M. Talamanca, IV, Napoli, 2001, 95 ss.

 

[29] Cfr. H. Kupiszewski, ‘Humanitas’ et le droit romain, cit., 93.

 

[30] In ‘Humanitas’ come motivo giuridico. Con un esempio: nel diritto dotale romano, in Scritti in memoria di L. Cosattini, in Annali triestini, XVIII, 1, 1948, 271.

 

[31] Correttamente scrive M. Talamanca, Il ‘Corpus iuris’ giustinianeo fra il diritto romano e il diritto vigente, cit., 779: «la metodologia dei prudentes è essenzialmente casistica e topicamente orientata: essa aggredisce il caso concreto e lo risolve mediante la sussunzione in categorie generali, che non hanno però la rigidità di quelle elaborate dalla scienza giuridica contemporanea a partire dai dati legislativi. A parte i problemi di inquadramento espositivo, caratteristico strumento della giurisprudenza casistica romana è la regula che fissa un principio di carattere più o meno generale … che va in linea di massima applicato ove ricorrano situazioni di fatto che in essa rientrino»: tuttavia «la regula … va sempre reimmersa nella concretezza dei nuovi casi che essa è chiamata a disciplinare». Alla medesima, dunque, inerisce un elevato coefficiente di elasticità: come ancora precisa lo studioso, «essa va applicata nei limiti in cui non ricorrano nel caso concreto elementi di fatto specifici che, non tenuti presenti nell’enunciazione del principio, impongano un’altra soluzione, ma può anche essere superata in base ad una diversa considerazione della portata politico-legislativa degli elementi di fatto già tenuti presente».

 

[32] Nell’ambito del medesimo, infatti, accadeva che si valutasse – come nota M. Talamanca, Elementi di diritto privato romano, Milano, 2001, 22 – «la rilevanza di ulteriori elementi di fatto che si potesse sostenere non aver il princeps tenuti presenti nella decisione».

 

[33] L’attività attraverso la quale il principe arriva a creare nuove norme – osserva M. Bretone, Storia del diritto romano, Bari, 1995, 246 – «è in se stessa episodica»: ed è alla giurisprudenza che «spetta invece una funzione unificatrice». Fra i suoi compiti vi è infatti anche «quello di guadagnare, o riguadagnare, di volta in volta l’equilibrio ‘formale’ dell’ordinamento». La giurisprudenza dà dunque rilievo ai criteri – quali l’aequitas e l’humanitas, come l’autore precisa a pag. 237 – che spesso ispirano quell’attività e non rinuncia a cogliere la forza innovatrice delle statuizioni imperiali: ma di fronte al procedere saltuario di tale attività, «e alle sue ragioni spesso contingenti, essa, in quanto scienza, si considera custode di una ratio più profonda, da cui dipende l’unità e la continuità del diritto».

 

[34] F. Schulz, I principii del diritto romano, cit., 165.

 

[35] Solo lievemente più cauto è S. Riccobono jr., ‘Humanitas’, in Atti del Congresso internazionale di diritto romano e di storia del diritto (Verona, 27-28-29, IX, 1948), a cura di G. Moschetti, II, Milano, 1951, 226.

 

[36] Cfr. infatti, per tutti, C.A. Maschi, ‘Humanitas’ come motivo giuridico. Con un esempio: nel diritto dotale romano, cit., 277 ss.

 

[37] Cfr. J. Gaudemet, Des ‘droits de l’homme’ ont-ils été reconnus dans l’Empire romain?, cit., 12; G. Crifò, A proposito di ‘humanitas’, in ‘Ars boni et aequi’. Festschrift für W. Waldstein zum 65. Geburstag, herausgegeben von M.J. Schermaier und Z. Végh, Stuttgart, 1993, 79.

 

[38] Essa, del resto, già si trova in A. Palma, ‘Humanior interpretatio’. ‘Humanitas’ nell’interpretazione e nella normazione da Adriano ai Severi, cit., 23 ss.

 

[39] Stando a G. Crifò, A proposito di ‘humanitas’, cit., 87, «lo scrutinio delle testimonianze giuridiche in cui ricorre humanitas, humanus ecc. permette di rilevare la costanza e, per quanto riguarda la giurisprudenza, il prevalere … del collegamento con l’evenienza funebre».

 

[40] Seppure di poco, posto che il primo, attivo tra la fine del I e l’inizio del II secolo d.C., di Giuliano fu il maestro: cfr. C.A. Cannata, Lineamenti di storia della giurisprudenza europea, cit., 58.

 

[41] Cfr. C.A. Maschi, ‘Humanitas’ come motivo giuridico. Con un esempio: nel diritto dotale romano, cit., 289 s., che della genuinità del passo non sembra però del tutto persuaso.

 

[42] Ne situa l’opera tra Adriano e i Divi Fratres C.A. Cannata, Lineamenti di storia della giurisprudenza europea, cit., 56.

 

[43] Cfr. A. Palma, ‘Humanior interpretatio’. ‘Humanitas’ nell’interpretazione e nella normazione da Adriano ai Severi, cit., 32 s.

 

[44] Cfr. P. Lambrini, In tema di ‘advocatus  fisci’, in SDHI, LIX, 1993, 333 ss.

 

[45] Cfr. A. Palma, ‘Humanior interpretatio’. ‘Humanitas’ nell’interpretazione e nella normazione da Adriano ai Severi, cit., 40.

 

[46] Cfr. C.A. Maschi, ‘Humanitas’ come motivo giuridico. Con un esempio: nel diritto dotale romano, cit., 279 s.

 

[47] Il quale, nel frammento riportato in D. 50,1,24, menziona anche una costituzione degli imperatori Antoninus et Verus che poggia su considerazioni umanitarie, come ricorda A. Palma, ‘Humanior interpretatio’. ‘Humanitas’ nell’interpretazione e nella normazione da Adriano ai Severi, cit., 45 e nt. 39.

 

[48] Come si apprende da C.A. Cannata, Lineamenti di storia della giurisprudenza europea, cit., 58 s., il primo giurista è attivo a cavallo del I e II secolo d.C.; il secondo tra Marco Aurelio e Settimio Severo; il terzo, che morirà nel 212 d.C., sotto Settimio Severo e Caracalla.

 

[49] La produzione di questi, di poco più vecchio di Marciano, si pone tra Settimio e Alessandro Severo: cfr. C.A. Cannata, Lineamenti di storia della giurisprudenza europea, cit., 56 e 58.

 

[50] Morto dopo il 239 d.C.: cfr. ancora C.A. Cannata, Lineamenti di storia della giurisprudenza europea, cit., 58. Quanto a Ulpiano, è da rinviare alla precedente nt. 1.

 

[51] La sententia di Ulpiano, scrive C.A. Maschi, ‘Humanitas’ romana e ‘caritas’ cristiana come motivi giuridici, in Jus, I, 1950, 272, dando rilievo alla veridicità della risposta dell’interrogato, pur non formalmente esatta, è rispettosa di «uno dei diritti essenziali della persona»: perché «chi pronuncia determinate parole in modo consapevole e veritiero ha il diritto che esse vengano rettamente interpretate, non deve subire il danno che deriverebbe da una capziosa, formalistica interpretazione; come chi interpreta ha il dovere di seguire tale criterio. Sono due aspetti, soggettivo ed oggettivo, dell’humanitas. L’interpretazione è ‘umana’ nel senso che l’interprete è sensibile all’idea di humanitas, riconoscendo quella ‘umanità’ che il dichiarante ha l’aspettativa che non venga disconosciuta. Così l’idea di ‘umanità’ si insinua nei più dettagliati meandri della vita di relazione, nel regolamento e nella tutela che ad essa fornisce il diritto, lo irrora come una linfa vitale». E questo, conclude l’autore, «è un aspetto eminente del diritto romano classico giunto alla perfetta maturità».

 

[52] Esaminato in L. Garofalo, Scienza giuridica, Europa, Stati: una dialettica incessante, in O. Troiano - G. Rizzelli - M.N. Miletti, Harmonisation involves history? Il diritto privato europeo al vaglio della comparazione e della storia (Foggia, 20-21 giugno 2003), Milano, 2004, 104 s.

 

[53] Giurista il cui impegno scientifico si ha sotto Traiano e Adriano: cfr. C.A. Cannata, Lineamenti di storia della giurisprudenza europea, cit., 58.

 

[54] Cioè la vendita con patto aggiunto dalle parti in virtù del quale essa sarebbe venuta meno ove il compratore non avesse pagato il prezzo entro il termine consensualmente stabilito.

 

[55] La perdita dell’anticipo da parte del compratore, peraltro, si sarebbe trasformata in elemento naturale della vendita con lex commissoria in età postclassica, secondo un’autorevole dottrina ricordata da P. Ziliotto, Vendita con ‘lex commissoria’ o ‘in diem addictio’: la portata dell’espressione ‘res inempta’, in Il ruolo della buona fede oggettiva nell’esperienza giuridica storica e contemporanea, in Atti del Convegno internazionale di studi in onore di A. Burdese (Padova - Venezia - Treviso, 14-15-16 giugno 2001), a cura di L. Garofalo, IV, Padova, 2003, 503 s., nt. 50.

 

[56] Così A. Palma, ‘Humanior interpretatio’. ‘Humanitas’ nell’interpretazione e nella normazione da Adriano ai Severi, cit., 160.

 

[57] Anch’essi riferiti e analizzati da A. Palma, ‘Humanior interpretatio’. ‘Humanitas’ nell’interpretazione e nella normazione da Adriano ai Severi, cit., 160 ss.

 

[58] A. Burdese, Manuale di diritto privato romano, cit., 26.

 

[59] Non va peraltro sottaciuto ciò che pur è facilmente immaginabile: ossia che anche dietro ai magistrati giusdicenti vi erano i giuristi, i quali ne guidavano sapientemente la costruzione e la modificazione degli editti, mediando così tra le spinte provenienti dall’aequitas e lo strumentario tecnico idoneo ad appagarle. Esattamente, quindi, Letizia Vacca, in un contributo non ancora pubblicato – che grazie alla cortesia dell’autrice ho avuto modo di leggere (esso comunque apparirà, sotto il titolo L’‘aequitas’ nell’‘interpretatio prudentium’ dai giuristi ‘qui fundaverunt ius civile’ a Labeone, in una raccolta di studi in ricordo di P. Silli curata da G. Santucci) –, precisa: «in questo quadro, l’aequitas che giustifica le innovazioni è formalmente riconducile al pretore, ma la determinazione del suo contenuto concreto in rapporto all’analisi della struttura delle situazioni da tutelare in modo nuovo o differente è il prodotto dell’ars del giurista, che indica le soluzioni esplicitando l’aequitas, che permea di sé il diritto della civitas».

 

[60] In D. 3,1,1,4, del resto, Ulpiano, dopo aver ricordato la proposizione edittale ‘si non habebunt advocatum, ego dabo’, aggiunge: nec solum his personis hanc humanitatem praetor solet exhibere, verum et si quis alius sit, qui certis ex causis vel ambitione adversarii vel metu patronum non invenit. E in proposito nota C.A. Maschi, ‘Humanitas’ come motivo giuridico. Con un esempio: nel diritto dotale romano, cit., 282 s., che non al testo degli editti dei magistrati giusdicenti «noi dobbiamo chiedere una dichiarazione di umanità, naturalmente introvabile», ma essenzialmente alla giurisprudenza, «che, riflettendo sul contenuto di humanitas, ritiene talvolta opportuno richiamarla e qualche volta anche usare questo vocabolo».

 

[61] Si legge in M. Talamanca, Idee vecchie e nuove su Cels.-Ulp. 26 ‘ad ed.’ D. 12,4,3,7, in BIDR, C, 1997 (ma pubblicato nel 2003), 611, che, nella produzione dei giuristi, «le predicazioni relative all’aequitas, e più spesso all’aequum (esse, videri), servono ad introdurre soluzioni non immediatamente deducibili dalle sententiae nel ius controversum, e soprattutto quelle che vanno ad urtare – sulla base soltanto dell’auctoritas prudentium – contro taluni principi rigidi e consolidati nel tempo».

 

[62] All’humanitas, secondo G. Crifò, A proposito di ‘humanitas’, cit., 79, «è possibile riconoscere lo stesso valore e la stessa funzione espressi dall’aequitas».

 

[63] Resta troppo indeterminata, a mio modo di vedere, la relazione tra aequitas e humanitas in J. Daza, ‘Aequitas et Humanitas’, in Estudios en homenaje al Profesor J. Iglesias, III, Madrid, 1988, 1229 s.

 

[64] Nell’ambito del contributo intitolato Tra Europa e America Latina: principi giuridici, tradizione romanistica e ‘humanitas’ del diritto – che riproduce una lectio doctoralis tenuta dall’autore in occasione del conferimento della laurea honoris causa da parte della Facoltà giuridica dell’Universidad de Buenos Aires –, pubblicato in Roma e America. Diritto romano comune, XVII, 2004, 30 e 32.