N. 4 – 2005 – Tradizione Romana

 

 

Teodor Sambrian

Università di Craiova

 

La mancipatio nei trittici della Transilvania

 

Sommario: 1. Preliminari. – 2. Le persone nella Dacia Romana. Presentazione generale. – 3. Breve descrizione dei trittici della Transilvania. – 4. Presentazione dei trittici che hanno come oggetto i contratti di compravendita. – A. Contratto di compravendita di una bimba-schiava, del 17 marzo 139. – B. Contratto di compravendita di un bimbo-schiavo, del 16 maggio 142. – C. Contratto di compravendita di una schiava, del 4 ottobre 160. – D. Contratto di compravendita di una metà di casa (concluso il 6 maggio 159). – 5. Lo statuto giuridico delle persone che partecipano alla conclusione dei contratti di compravendita. – 6. Natura giuridica degli atti conclusi. – 7. Natura giuridica degli atti conclusi (continuazione). – 8. Conclusione.

 

 

1. – Preliminari

 

Nell’anno 106 d.C., in seguito a due campagne militari condotte dall’imperatore M. Ulpio Traiano, il più importante conquistatore romano dopo Cesare[1], il regno daco fu sciolto, la maggior parte di esso diventando provincia romana, che si estendeva, come mostra, dopo quattro decenni da questo avvenimento, il celebre geografo Ptolemeo, fra i Carpazi a Nord, il Danubio a Sud, il Tibisco ad Ovest e lo Hierasos (il Siret o il Prut?) a Est. La nuova provincia imperiale Dacia allargò, quindi, i confini dell’Impero a nord del Danubio, costituendo un vero baluardo del mondo romano nel quadro dei territori “barbari” con cui confinava; per la sorveglianza dei confini l’Impero mantenne nella provincia, in alcuni momenti, un esercito di 50.000 uomini[2].

Per più di un decennio, la Dacia costituì una sola provincia nell’ambito dell’Impero Romano. Necessità di natura amministrativa e militare determinarono l’imperatore Adriano a riorganizzarla, per primo, fra il 118 e il 119 d.C., in due province (Dacia superiore e Dacia inferiore), e dal 123 in tre province, per il distacco dalla Dacia superiore della provincia Dacia porolissense. L’ultima riorganizzazione fu opera dell’imperatore Marco Aurelio, il quale, nell’anno 168 d.C., unificò la Dacia inferiore e la Dacia superiore nella provincia Dacia Apulensis, da cui, nel 169, si distaccò la Dacia Malvensis. Le tre province daciche – Dacia Apulensis, Dacia Porolissensis e Dacia Malvensis – si trovavano sotto l’autorità di un governatore supremo dell’ordine senatoriale e di rango consolare chiamato legatus Augusti pro praetore trium Daciarum, con la residenza nella città di Ulpia Traiana Sarmizegetusa[3]. Dunque, per “Dacia Romana” intendiamo, secondo il caso, una, due o tre province, che esistettero nell’ambito dell’Impero Romano nel periodo 106-275 d.C. a nord del Danubio, su una parte dei territori abitati dai daci.

 

2. – Le persone nella Dacia Romana. Presentazione generale

 

Subito dopo la conquista della Dacia, lo Stato romano incominciò un processo di colonizzazione massiccia della provincia[4]. Così come nota nel IV secolo lo storico Eutropio, «Traiano, dopo che conquistò la Dacia, portò qui da tutto l’Impero molte persone, affinché coltivassero i campi e popolassero le città»[5]. Come in tutto l’impero, la provincia di Dacia era organizzata dal punto di vista amministrativo in località urbane (municipia e coloniae) e rurali (vici seu pagi).

Degno di ricordo, per la conoscenza della capacità giuridica degli abitanti della Dacia, è il fatto che il numero dei municipi e delle colonie era di 44, come sostiene Tolemeo[6]; ma il numero attestato ufficialmente era di 11 colonie, di cui, come attesta Ulpiano, 5 godevano dello ius italicum[7].

Le colonie erano abitate, per la maggior parte, da cittadini romani (cives), mentre la maggior parte degli abitanti dei municipi avevano la condizione giuridica di latini fittizi. Le località rurali erano popolate, in generale, con peregrini – autoctoni o coloni – senza escludere però la presenza di cittadini e di latini.

Durante tutto il II secolo, cioè nella prima metà del periodo in cui la Dacia si trovò sotto il dominio romano, la delimitazione fra le diverse categorie di uomini liberi della provincia, cittadini, latini e peregrini, era molto chiara, nel senso che a ogni categoria di persone corrispondeva un determinato statuto giuridico[8].

I cittadini provenivano, soprattutto, dalle decine di migliaia di militari che sostarono in permanenza in Dacia o dai veterani che, nel caso non fossero cittadini, ricevevano la cittadinanza, assieme ai membri delle loro famiglie, dopo aver compiuto per 25 anni il servizio militare. La maggior parte dei veterani continuavano a vivere in Dacia, dove erano resi proprietari di un lotto di terreno, come risulta anche dal fatto che dei 32 diplomi militari (veri atti di identità della cittadinanza e nello stesso tempo autentici libretti militari) provenienti dai militari che si congedarono nella Dacia, 28 sono stati scoperti proprio sul territorio della provincia[9].

In base allo ius civile, i cittadini godevano della pienezza dei diritti politici e civili, cioè di ius honarum, ius suffragii, ius militiae, ius commercii e ius connubii; però, essendo la Dacia una provincia imperiale il cui territorio era stato trasformato in ager publicus, la sola limitazione nell’esercitazione dei diritti dei cittadini riguardava il diritto di proprietà fondiaria, fatta eccezione per i cittadini delle cinque località che godevano dello ius italicum, motivo per cui erano esentati del pagamento dell’imposta sulla terra.

Come abbiamo mostrato, i latini abitavano soprattutto nei municipi e nelle località rurali. Nel periodo in cui la Dacia appartenne all’Impero romano non si può parlare né di latini prisci (veteres) né di latini coloniari, ma solo di latini aeliani e di latini iuniani, provenienti soprattutto dalle emancipazioni e che godevano di un ius commercii limitato.

Dunque, per quanto riguarda la capacità giuridica dei cittadini e dei latini della Dacia Romana, non ci sono problemi speciali, essendo qui applicate le stesse norme di diritto che si applicavano nell’Impero romano, motivo per cui crediamo che non sia più il caso di insistere.

Il problema della capacità giuridica dei peregrini è però più delicato[10]. Come regola generale, sappiamo che i peregrini avevano una condizione inferiore a quella dei cittadini e dei latini, non godendo né di diritti politici né di diritti civili. A loro si applicavano, in genere, soltanto le norme dello ius gentium. In particolare però la categoria dei peregrini non era omogenea nel quadro del sistema del diritto romano. Quando facciamo questa affermazione, non pensiamo alla divisione dei peregrini in due categorie, e cioè quella dei peregrini ordinari e quella dei peregrini dediticii (tutte e due le categorie essendo presenti anche nella Dacia), ma al fatto che le norme che regolavano lo statuto dei peregrini erano diverse da una provincia all’altra. Così i peregrini erano sottomessi alle norme di diritto stabilite sia con la legge costitutiva della provincia (lex provinciae), sia con gli editti che i governatori delle province emettevano alla loro entrata in carica. Come dice Cicerone[11], questo editto aveva due parti: una riguardante i cittadini romani dalla provincia che, di solito, riproduceva l’editto del pretore urbano, e una che costituiva edictum provinciale in senso stretto, che riguardava i provinciali e che conteneva anche disposti di diritto locale[12].

Sfortunatamente, nel caso della Dacia non si conoscono né “la legge organica” con cui l’imperatore Traiano fondò questa provincia, né le leggi seguenti con cui gli imperatori Adriano e Marco Aurelio riorganizzarono la provincia; né alcuno degli editti dei governatori emessi in occasione del loro insediamento nella funzione. Aggiungiamo che, tranne il riferimento di Ulpiano alle località della Dacia, alle quali era stato accordato lo ius italicum, neanche nelle opere dei giureconsulti romani o di altri autori antichi troviamo alcuna menzione riguardante il diritto applicato nella Dacia romana. Ecco perché la scoperta ad Alburnus Maior nella Dacia superiore (Apulensis) delle tavolette cerate, conosciute sotto il nome di “trittici della Transilvania”, che contengono diversi contratti in cui le parti, i garanti e i testimoni sono – come indicano i nomi – cittadini romani e peregrini, suscitò un enorme interesse, essendo, finora, il solo documento riguardante l’applicazione del diritto romano in Dacia.

 

3. – Breve descrizione dei trittici della Transilvania

 

Fra gli anni 1786-1855, in seguito ad alcuni lavori di scavatura fatti nella zona aurifera della località Roşia Montană (che si trova sul luogo dell’antica Alburnus Maior), in una miniera abbandonata, sono state scoperte 25 tavolette cerate, di cui 22 realizzate sotto forma di trittici. Però, dal punto di vista fisico hanno resistito, totalmente o quasi totalmente leggibili, soltanto 14 tavolette. Esse contengono quattro contratti di compravendita, tre contratti di affitto del lavoro (locatio operarum), due contratti di prestito, un contratto di società, un contratto di deposito, un verbale per cui si constata lo scioglimento di un’associazione funeraria, l’elenco delle spese per l’organizzazione di un banchetto e una ricevuta che conferma l’obbligo di una persona di pagare un debito. Tutti questi atti giuridici furono realizzati negli anni 131-167. Per la ricchezza delle informazioni di ordine filologico-linguistico, economico-sociale, demografico e, soprattutto, giuridico, le tavolette cerate della Transilvania hanno suscitato un interesse speciale fra i romanisti e gli epigrafisti. Publicate integralmente per la prima volta a Berlino, nel 1873, da Theodor Mommsen, nel monumentale Corpus Inscriptionum Latinarum[13], vol. III, parte II, pp. 921-966: Instrumenta Dacica in tabulis ceratae conscripta, il contenuto delle tavolette è stato riprodotto o interpretato finora in più di cento lavori scientifici[14].

I trittici della Transilvania sono realizzati nella modalità utilizzata più spesso in quell’epoca, rispettivamente da tavolette cerate (tabulae ceratae), composte da più targhette di legno, leggermente scavate all’interno e legate fra loro. Secondo il numero delle tavolette, questi “libri in legno” si chiamavano duplices, triplices, quinquiplices ecc.[15].

Delle 25 tavolette cerate scoperte ad Alburnus Maior, 22 appartengono alla categoria dei trittici, essendo dunque composte da tre targhette di legno, di cui per la scrittura erano sistemate soltanto quattro “pagine”, e cioè le parti interne, dunque la seconda pagina della prima tavoletta, ambedue le parti della seconda tavoletta (rispettivamente la terza e la quarta pagina) e la prima pagina della terza tavoletta (la quinta pagina); le superficie esterne (la prima e la sesta pagina) non erano unte con cera, giocando esse il ruolo di copertine.

Il testo era scritto due volte: un testo interiore (scriptura interior), scritto sulla seconda e la terza pagina, e un testo esteriore (scriptura esteriore), scritto sulla quarta e la quinta pagina; nella parte destra della quarta pagina erano indicati i nomi dei testimoni e dei garanti che avevano assistito alla conclusione dell’atto giuridico, ed i loro sigilli.

La seconda e la terza pagina, che contenevano il testo interiore, erano legate in un modo speciale, per un filo che aveva le estremità fissate nella quarta pagina, sotto i sigilli dei testimoni, mentre un altro filo legava le tre tavolette così che quello che voleva sapere il contenuto dell’atto leggeva il testo dalla quarta e la quinta pagina (scriptura exterior). Per quanto riguarda il testo interiore, questo poteva essere consultato soltanto in modo eccezionale, se esistesse un litigio riguardante il rispettivo atto giuridico; allora erano rotti i sigilli dei testimoni e il filo che legava le tavolette che contenevano il testo interiore, per essere letto e comparato con il testo esteriore.

Questa modalità di redazione di due testi identici, di cui uno (scriptura interior) poteva essere letto soltanto con la violazione dei sigilli, era obbligatoria nel diritto romano nel caso degli atti giuridici conclusi inter vivos, cominciando con l’anno 61 d. C., quando fu emesso Senatusconsultum Neronianum (adversos falsorios)[16], che aveva come scopo la preveggenza della falsificazione dei contratti.

Dei 22 trittici realizzati con la modalità descritta sopra, presenteremo in seguito i quattro contratti di compravendita, essendo quelli che hanno generato più discussioni fra i romanisti e gli storici del diritto, per quanto riguarda la capacità giuridica dei peregrini della provincia romana della Dacia.

 

4. – Presentazione dei trittici che hanno come oggetto i contratti di compravendita

A. Contratto di compravendita di una bimba-schiava, del 17 marzo 139[17]

 

Exempli interioris, pagina prior (tab. 1’)

 

Maximus Batonis puellam nomine

Passiam, sive ea quo alio nomine est, an-

norum / circiter p(lus) m(inus) sex empta sportelaria / emit mancipioque accepit[18]

de Dasio Verzonis Piruesta ex Kaviereti[o],

(denariis) ducentis quinque.

Iam[19] puellam sanam esse a furtis noxisque

solutam, fugitiuam erronem non esse

praestari. Quot si quis eam puellam

partemve quam ex eo[20] quis evicerit,

quominus Maximum Batonis quo-

ve ea res pertinebit habere possi-

dereque recte liceat, tum quanti

ea puella empta est, tam pecuniam

 

Exempli interioris, pagina posterior (tab. 2 r)

 

et alterum tantum dari fide rogavit

Maximus Batonis, fide promisit Dasius

Verzonis Pirusta ex Kaviereti.

Proque ea puella, quae s(upra) s(cripta) est (denarios) ducen-

tos quinque accepisse et habere

se dixit Dasius Verzonis a Maximo Batonis.

Actum Karto XVI k(alendas) Apriles

Tito Aelio Caesare Antonino Pio II et Bruttio

Praesente II co(n)s(ulibus).

 

Exempli exterioris, pagina prior (tab. 2’)

 

Maximus Batonis puellam                                                Maximi Ve-

nomine Passiam, sive ea                                                 neti princi-

quo alio nomine est, anno-                                               pis

rum circiter p(lus) m(inus) sex, emp-                     Masuri Messi

ta sportellaria, emit man-                                                          dec(urionis)

cipioque accepit de                                                Anneses An-

Dasio Verzonis Pirusta                                                     dunocuetis

ex Kavieretio (denariis) ducen-

tis et quinque.                                                        Plani Verzo-

Eam puellam sanam esse, furtis no-                                nis Sclaietis

xaque solutam, fugi-                                              Liccai Epicadi

tivam erronem non                                                                   Marciniesi

esse praestari. Quot                                               Epicadi Plaren-

si quis eam puellam                                                         tis qui-

partemve quam ex eo[21]                                                 et Mico

quis evicerit, quo                                                   Dasi Verzonis

minus Maximum Ba-                                                       ipsius vendi-

tonis quove ea re[s]                                                        toris

(la continuazione del testo si trovava sulla                       

pagina posteriore, sparita)                                              

 

Traduzione: Massimo di Bato compra e acquisisce – con 205 denari – per mancipazione, da Dasio di Verzo; (di origine) pirusto di Kavieretium, una bimba (schiava) dal nome di Passia o di un altro nome, in età di circa sei anni, presa (cioè entrata nella proprietà del venditore) come bimba trovata (“empta sportellaria”).

Si dà garanzia (per il fatto) che questa bimba è sana, che non ha commesso nessun furto o danno (a qualcuno), che non è latitante, né vagabonda. E se qualcuno evincesse quella bimba o parte di lei, così che a Massimo di Bato o a quello a cui apparterà quella cosa (rispettivamente, la bimba schiava) gli sia permesso meno di averla o di possederla di diritto, allora, con quanto è stata comprata quella bimba, tanta somma di denaro e ancora una volta questa ha chiesto Massimo di Bato che gli si desse in buonafede (e) nella (sua) buonafede ha promesso (di dare) Dasio di Verzo Pirusto di Kavieretium.

E per quella bimba, che è scritta sopra, Dasio di Verzo ha detto che ha ricevuto e ha 205 denari da Massimo di Bato.

Concluso a Kartum, 16 giorni prima delle calende del mese di aprile, (nell’anno quando) Tito Aelio Caesare Antonino Pio e Bruttio Praesens sono consoli per la seconda volta.

(Le firme dei testimoni): di Massimo Venetus, appuntato; di Masurio Messus, decurione; Annesses Andunocnetis, di Planus Verzonius Sclaies, di Liccaius Epicadi Marciniesus, di Epicadus Plarentis detto anche Mieus e di Dasio di Verzo, il venditore.

B. Contratto di compravendita di un bimbo-schiavo, del 16 maggio 142[22]

 

Exempli interioris, pagina prior (tab. 1’)

 

Dasius Breucus emit mancipioque accepit

puerum Apalaustum, sive is quo alio nomine

est, n(atione) Grecum[23], apocatum pro uncis duabus

(denariis) DC de Bellico Alexandri, f(ide) r(ogato) M(arco) Vibio Longo.

Eum puerum sanum traditum esse furtis noxaque

solutum, erronem fugitium[24] caducum non esse

prestari[25]: et si quis eum puerum, q(uo) d(e) a(agitur)

partenve[26] quam quis ex eo evicerit, q(uo) m(inus)

emptorem s(upra) s(criptum) eunve[27] ad q(uem) ea res pertinebit

uti frui habere possidereq(ue) recte liceat:

tunc quantum id erit quod ita ex eo evic-

tum fuerit

 

Exempli interioris, pagina posterior (tab. 2 r)

 

t(antam) p(ecuniam) duplam p(robam) r(ecte) d(ari) f(ide) r(ogavit) Dasius

Breucus, d(ari) f(ide) p(romisit)

Bellicus Alexandri. Id(em) fide sua esse

iussit Vibius Longus.

Proque eo puero, q(ui) s(upra) s(criptus) est, pretium

eius (denarios) DC accepisse et habere se dixit

Bellicus Alexandri ab Dasio Breuco.

Act(um) kanab(is) leg(ionis) XIII g(eminae) XVII kal(endas) Iunias

Rufino et Quadrato co(n)s(ulibus).

 

Exempli exterioris, pagina prior (tab. 2’)

 

Dassius Breucus [emit man-]                       Appi Procli vert(erani)

cipioque accepit [pu]e[rum]                         leg(ionis) XIII g(eminae)

Apalaustum, sive is quo ali[o]                                Antoni Celeris

nomine est, n(atione) Grecum[28], a[po-]                Iul(i) Viatoris

chatum pro uncis duabus,                                       Ulp(i) Severi-

(denariis) DC de Bellico Alexandri                                     ni

f(ide) r(ogato) M(arco) Vibio Longo               L(uci) Firmi Primiti-

Eu(m puer]um sanum traditum                                        vi

[esse] furtis noxaque so-                             M(arci) Vibi Longi

[lutu]m, erronem fugiti-                                         fideiussor(is)

vum kaducum non esse                                Bellici Alex[a]n-

prestari[29] et si quis eum pu-                                 dri vendit(oris)      

erum, q(uo) d(e) a(gitur), partemve

quam quis ex eo evicerit

 

Exempli exterioris, pagina posterior (tab. 3 r)

 

quo minus emptorem s(upra) s(criptum) eumve ad quem ea res

pertinebit uti frui habere possideretque[30] rec-

te liceat: um[31] quantum id erit, quod ita ex eo e-

victum fuerit, tantam pecuniam duplam

probam recte f(ide) r(ogavit) Dassius Breuci, d(ari) f(ide) p(romisit) Bel-

licus Alexandri. Idem fide sua esse iussit M(arcus)

Vibius Longus.

Proque eo puero, qui s(upra) s(criptus) [est, pr]etium eius (denarios) DC

                                                                             acc[e-]

pisse et habere se dix[i]t Bellicus Alexand[ri]

ab Dassio Breuci.

 

Traduzione: Dassio Breuco compra e acquisisce per mancipazione il bimbo Apalaustus, o se ha un altro nome di origine greca, dato con ricevuta, per due once (con il prezzo di) 600 denari, da Bellico di Alessandro; essendo domandato, Marco Vibio Longo ha garantito con la sua parola che quel bimbo è consegnato sano, che non ha commesso nessun furto o danno, che non è vagabondo, latitante o inutile; e se qualcuno evincesse quel bimbo di cui si tratta o una parte di lui, così che il compratore menzionato sopra, o quello a cui apparterà quella cosa, non lo usi, lo abbia o lo possieda, di diritto, allora, a quanto ammonterà il danno provocato per l’evizione, due volte tanti denari buoni ha chiesto per buona fede Dasio Breuco che gli si dessero, (e) Bellico di Alessandro ha promesso di dare con buonafede. La stessa cosa si è incaricato per la sua onestà di dare Vibio Longo. E per quel bimbo, che è menzionato sopra, Bellico di Alessandro, ha riconosciuto che ha ricevuto e ha, da Dasio Breuco, il suo prezzo di 600 denari.

Concluso nelle canabe della legione XIII Gemina, 17 giorni prima delle calende del mese di giugno, (nell’anno quando) Rufino e Quadrato (sono) consoli.

(Le firme dei testimoni, dei garanti e del venditore): di Appio Proclo, veterano della legione XIII Gemina, di Antonio Celere, di Giulio Viatore, di Firmio Primitivo, di Marco Vibio Longo – il fideiussore, di Bellico di Alessandro – il venditore.

 

C. Contratto di compravendita di una schiava, del 4 ottobre 160[32]

 

Exempli interioris, pagina prior (tab. 1’)

 

Cl(audius) Iulianus mil(es) leg(ionis) XIII G(eminae centuria) Cl(au-

di) Mari emit mancipio -

que accepit mulierem nomine Theudotem, sive ea

quo alio nomine est, n(atione) Creticam, apochatam pro uncis

duabus (denariis) quadringinta viginti de[33] Cl(audio) Phileto

f(ide) r(ogato) Alexandro Antipatri.

Eam mulierem sanam traditam esse emptori s(upra) s(cripto): et si

quis eam mulierem, q(ua) d(e) a(gitur), partemve quam quis ex ea

quid evicerit, q(uo) m(inus) emptorem s(upra) s(criptum) eumve at[34]

                                                                             quem

ea res pertinebit, uti frui habere possidereque recte

liceat, tunc, quantum it erit, quot[35] ita         ex ea quit[36]

 

Exempli interioris, pagina posterior (tab. 2 r)

 

evictum ablatunve[37] fuerit, sive quot[38] ita licitum

non erit, tantam pecuniam probam recte dari f(ide) r(ogavit)

Cl(audius) Iulianus mil(es) s(upra) s(criptus) d(ari) f(ide) p(romisit)

Cl(audius) Philetus.

Id fide sua esse iussit Alexander Antipatri

Inque ea[39] mulierem, quae s(upra) s(cripta) est, pretium eius (denarios) CCCCXX

accepisse et habere se dixit Cl(audius) Philetus a Claudio

Iuliano mil(ite) s(upra) s(cripto).

Act(um) canab(is) leg(ionis) XIII G(eminae) IIII nonas Octobres

Bradua

et Varo co(n)s(ulibus).

 

Exempli exterioris, pagina prior (tab. 2’)

 

Claudius Iulianus mil(es) leg(ionis) XIII G(eminae centuria) Claudi

Mari

emit mancipioque accepit mulierem nomine Theu -

dotem, sive ea quo alio nomine es(t), n(atione) Creticam,

apochatam pro uncis duabus (denariis) quadringentis

viginti de Cl(audio) Phileto f(ide) [r(ogato)] Alexandro Antipatri.

Eam mulierem sanam traditam esse emtori s(upra) s(cripto): et si

quis

eam mulierem, q(ua) d(e) a(gitur), partemve q(uam) q(uis) ex ea quis

evicerit, q(uo) m(inus) emptorem s(upra) s(criptum) eumve, ad quem

 ea

res pertinebit, uti habere possidereq(ue)

recte liceat, tunc quantum id erit

Val(eri) Valentis

                                                          g XIII g

                                                Cn(aei) Vari A[t]ae

                                                Ael(i) Dionysi vet(erani)

                                                          leg(ionis)

                                                Paulini s---ris

                                                Iul(i) Victorini

                                                Alexandrus

                                                Anti[p]atri

                                                seco(n)d[us] auctor

                                                segnavi

                                                Cl(audi) Phileti vendi

                                                          toris ibsius[40]

 

Exempli exterioris, pagina posterior (tab. 3 r)

 

quot[41] ita ex ea evictum ablatunve[42] fuerit, sive quot[43] ita licitum

non erit, t(an)t(am) p(ecuniam) probam recte dari f(ide) r(ogavit)

                   Cl(audius) Iulianus mil(es) s(upra) s(criptus),

d(ari) f(ide) p(romisit) Cl(audius) Philetus.

Id fide sua esse iussit Alexander Antipatri.

Inque eam mulierem, quae s(upra) s(cripta) est, pretium eius

(denarios) CCCCXX accepisse

et habere se dixit Cl(audius) Philetus a Claudio Iuliano mil(ite) s(u-

pra) s(cripto).

Act(um) kanab(is) leg(ionis) XIII G(eminae) IIII nonas Octobres Bra

dua et Varo co(n)s(ulibus).

 

Traduzione: Claudio Giuliano, soldato nella legione XIII Gemina, della centuria di Claudio Mario, compra e acquisisce per mancipazione una donna con il nome di Theudote o con ogni altro nome, originaria dell’isola di Creta, data con ricevuta, per due once (con il prezzo di) 420 denari, da Claudio Fileto; essendo domandato, Alessandro di Antipatro ha garantito con la sua parola che quella donna è stata consegnata sana al compratore menzionato sopra; e se qualcuno evincesse quella donna di cui si tratta o una parte di lei, così che il compratore menzionato o quello al quale apparterà quella cosa non la usi, la abbia o la possieda legalmente, allora, a quanto ammonterà il danno provocato per l’evizione, tanti denari buoni ha chiesto Claudio Giuliano, soldato dalla legione sopra menzionata, che gli si dessero per buonafede, (e) Claudio Fileto ha promesso con lealtà di dare. La stessa cosa si è incaricato con la sua onestà di dare Alessandro di Antipatro.

Per quanto riguarda questa donna, che è menzionata sopra, Claudio Fileto ha riconosciuto che ha ricevuto e ha il suo prezzo di 420 denari da Claudio Giuliano, il soldato sopra menzionato.

Concluso nelle canabe della legione XIII Gemina, 4 giorni prima delle none del mese di ottobre, (nell’anno quando) Bradua e Varo (sono) consoli.

(Le firme): di Valerio Valente, dalla legione XIII Gemina, di Cneo Vario A---, di Elio Dionisio, veterano della legione, di Paolino ---, di Giulio Vittorino, Alessandro di Antipatro ho firmato come secondo garante, di Claudio Fileto, lo stesso venditore.

D. Contratto di compravendita di una metà di casa (concluso il 6 maggio 159)[44]

 

Exempli interioris, pagina prior (tab. 1’)

 

Andueia Batonis emit manci[pioque accepit]

domus partem dimidiam interantibus[45] partem [dex-]

tram que[46] est Alb(urno) maiori vico Pirustar[um in]t[er] ad [fines

                                                Platorem Accep-]

tianum et Ingenum[47] Callisti (denariis) trecentis de Veturi[o Valente].

Eam domus partem dimidiam, q(ua) d(e) a(gitur), cum su[is s]aepibus sae-

pimentis finibus aditibus claustris fienestris[48] ita uti

clao[49] fixa et optima maximaque est, h(abere) r(ecte) l(iceat).

[E]t si quis eam domum partemve quam quis [e]x [ea]

evicerit, q(uo) m(inus) Andueia Batonis e(ive) a(d) q(uem) e(a) r(es)

                                      p(ertinebit) h(abere) p(ossiedere)

u(suque) c(apere) r(ecte) l(iceat) qu[o]d ita licitum n[o]n erit, t(antam)

p(ecuniam) r(ecte) d(ari) f(ide) r(ogavit) Andueia Batonis fide promisit

Veturius Valens. Proque ea do[mu partem]

[dim]idiam pretium (denarios) CCC Vetur[ius V]ales[50]

 

Exempli interioris, pagina posterior (tab. 2 r)

 

a[b A]n[du]ei[a Ba]tonis accepiss[e et] (h)ab[ere se dixit.]

Convenitq(ue) int[e]r eos, [uti] Veturius Va[lens pro ea]

          domo tributa usque ad recensum dep[e]n[dat.]

          Act(um) Alb(urno) maiori prid(ie) nonas Maias

                   Qui[n]tillo et Prisco co(n)s(ulibus).

 

Exempli exterioris, pagina prior (tab. 2’)

 

Andueia Batonis emit manci-                                  L. Vasidius V[i]c-

pioque accepit domus par-                                               tor sig(navit)

tem dimidiam interantibus[51]                                 T(iti) Fl(avi) Felicis

parte dextra, que[52] est Albur-                               M(arci) Lucani Melioris

no maiori vico Pirustarum                                                Platoris Carpi

inter adfines Platorem Ac-                                      T(iti) Aureli Prisci

ceptianum et Ingenu(u)m Cal-                                         Battonis Annaei

listi filium et si qui ali adfi-

nes sunt et viam publicam                                     Veturi Valentis vendi-

(denariis) trecentis de Veturio                                                             toris

Valente.

Eam domum, q(ua) d(e) a(gitur), cum suis

saepibus saepimentis fini-

bus aditibus claustris

 

Exempli exterioris, pagina posterior (tab. 3 r)

 

[finestris ita uti clao fixa etoptima]

ma[x]i[ma]q[ue e]st, Andueia Batonis habere recte liceat Et si

quis ea domum partem dimidiam partemve quam quis

ex ea evicerit, quo minus Andueia Batonis e(ive) a(d) q(uem) e(a)

                                                r(es) p(ertinebit)

habere possidere usuque capere recte l[i]ceat, qu[o]d

ita licitum non erit, tum quantum id erit,

qu[od ita habere possidere licitum non erit] t(antam) p(ecuniam)

r(ecte) d(ari) fide rogavit Andueia, dari fide

promisit Veturius Valens.

Proque ea [do]mu dimidia pretium (denarios) CCC Veturius

[Va]lens ab Andueia Batonis accepisse et (h)abere se

dixit. Convenitq(ue) inter eos, uti Veturius Vale[n]s

pro ea domo usque ad recensum tributa depe[n]dat.

Ac(tum) Alb(urno) maiori prid(ie) non(as) [M]aias Quintillo et Prisco

                                                          co(n)s(ulibus).

 

Traduzione: Andueia di Bato (secondo I.I. Russu, “Andueea di Bato”) compra e riceve per mancipazione metà di una casa, la parte destra dall’ingresso, che si trova ad Alburnus Maior, nel villaggio Pirustilor, fra i vicini Plator Acceptianus e Ingenuo, figlio di Callisto, ed anche altri vicini che sarebbero, e la strada pubblica, per il prezzo di trecento denari, da Veturio Valente. Quella parte della casa, di cui si tratta, con i suoi cancelli, terreni recintati, confini, ingressi, spazi chiusi, finestre, così come è costruita e libera di qualsiasi carico[53] gli sia permesso di possederla legittimamente. E se qualcuno evincesse quella casa o qualche parte di essa, così che Andueia di Bato o quello al quale apparterà quella cosa non possa averla, possederla o usucapirla legalmente, il che non sarebbe permesso di succedere, tanti soldi ha chiesto legalmente Andueia di Bato che gli si dessero con buonafede, (e) Veturio Valente ha promesso con buonafede di dare. E per quella metà della casa, Veturio Valente ha dichiarato che ha ricevuto il prezzo di 300 denari da Andueia di Bato e ha i rispettivi soldi. Si è inoltre convenuto fra loro che Veturio Valente pagasse le tasse per quella casa fino al censimento.

Concluso ad Alburnus Maior alla vigilia delle none del (mese di) maggio, (nell’anno in cui) Quintillus e Priscus (sono) consoli.

(Le firme): L. Vasidio Victor ha firmato, di Tito Flavio Felice, di M(arco) Lucano Melior, di Plator Carpi, di T(ito) Aurelio Prisco, di Bato Anneio, di Veturio Valente, il venditore.

 

5. – Lo statuto giuridico delle persone che partecipano alla conclusione dei contratti di compravendita.

 

Così come abbiamo mostrato, secondo il loro statuto giuridico, le persone libere potevano essere cittadini, latini o peregrini. Nel caso dei quattro trittici presentati sopra, le persone che partecipano alla conclusione dei contratti di compravendita in qualità di parti, garanti o testimoni sono, nell’opinione di tutti gli autori che hanno affrontato questo argomento sia cittadini sia peregrini. Il criterio determinante nello stabilire la loro appartenenza a una o all’altra categoria di persone è costituito dal nome corroborato, quando è stato possibile, con il mestiere della persona. In mancanza di altre informazioni è impossibile stabilire l’eventuale appartenenza alla categoria dei latini di qualcuno dei partecipanti alla conclusione degli atti ricordati.

Riferendoci al criterio usato per stabilire lo statuto giuridico delle persone che partecipano nei quattro trittici, ricordiamo che specifico dei cittadini romani era il nome composto di tre parti (tria nomina) e cioè praenomen, nomen gentilicium e cognomen.

Come osserva l’epigrafista romeno Ioan I. Russu[54], «cittadini romani possono essere considerati tutti quelli che hanno un nomen gentilicium romano seguito da un cognomen (romano, greco, illirico o di qualsiasi altra origine non romana)», mentre i peregrini sono i provinciali con un solo antroponimo seguito da un patronimico (il nome del padre in genitivo), greco, illiro o proprio romano, ma senza alcun nomen gentilicium. Dunque, essenziale nella determinazione della qualità di cittadino o di non cittadino (cioè peregrino) di una persona è il nomen gentilicium; gli altri dettagli offrono eventualmente informazioni riguardanti l’origine della persona.

Analizzando da questo punto di vista le persone che appaiono nei quattro trittici, osserviamo:

a) Nel caso del contratto del 17 marzo 139, le parti (il venditore Dasius Verzonis e il compratore Maximus Batonis) e tutti i testimoni sono illirici di condizione peregrina; anche se alcuni hanno nomi romani (come Maximus Batonis o il testimone Maximus Veneti), nessuno porta un nomen gentilicium romano, ed il patronimico è espresso al genitivo.

b) Nel caso del contratto del 16 maggio 142, il compratore Dasius (Dassius) Breucus (o Breuci) è un illirico non cittadino (peregrino), il venditore un greco-orientale con nome romano (Bellicus) e patronimico greco-orientale (Alexander), di condizione giuridica peregrina, mentre tutti i testimoni e il garante Marcus Vibius Longus sono cittadini romani[55].

c) Nel caso del contratto del 4 ottobre 160, il compratore Claudius Iulianus è cittadino romano, come attestano sia il suo nomen gentilicium, sia il fatto che è soldato in servizio (miles) nella legione XIII Gemina; per quanto riguarda il venditore Claudius Philetus, a differenza del romanista ungherese Elemer Pólay, che lo considera peregrino di origine greca[56], Ioan I. Russu crede che si tratta di un greco naturalizzato e romanizzato come cittadino romano, così anche gli altri greci, rispettivamente Aelius Dionysius e Iulius Alexander, che appaiono come testimoni; la prova è costituita dal fatto che il venditore Claudius Philetus non ha il nome del padre al genitivo, invece ha il nome gentilicium (Claudius) con cognomen greco, cioè il suo antroponimo individuale anteriore alla naturalizzazione (Philetus)[57]; il garante (Alexander figlio di Antipater) «è evidentemente un peregrino greco-orientale»[58].

d) Nel caso del contratto del 6 maggio 159, il compratore Andueia Batonis è illirico di condizione giuridica peregrina, e il venditore (Veturius Valens) è cittadino romano; per quanto riguarda i testimoni, quattro di loro sono cittadini romani con tria nomina e due peregrini illirici (Plator Carpi e Batto Anaei)[59].

Tutte le considerazioni esposte sopra devono però essere accettate con riserva, perché il nome non è un indizio sicuro per quanto riguarda la condizione giuridica di una persona, essendo conosciuto il fatto che nell’antichità, come diceva anche Svetonio[60], erano frequenti i casi in cui i peregrini assumevano abusivamente un nome gentilicium romano. D’altra parte, anche se per ogni provinciale era un ideale arrivare a dire “civis Romanus sum”, non dobbiamo escludere neanche la situazione inversa, quando sotto un nome tipico di peregrino si trovava una persona che aveva la condizione giuridica di latino o proprio di cittadino romano. Così si deve osservare che i trittici sono, di fatto, atti privati, dunque meno sottomessi ai rigori che presuppone un atto ufficiale, come è il caso dei diplomi militari. Quindi sarebbe possibile che un liberto che ha acquistato la condizione giuridica di latino o di cittadino romano, o un veterano peregrino che ha acquistato la cittadinanza romana dopo il congedo dal servizio militare, continuasse a usare nelle relazioni con i familiari, anche negli atti privati che non mettono il problema della validità da questo punto di vista, il nome che ha avuto, forse, per decine di anni prima della liberazione (dalla schiavitù o dall’esercito), nome che è ben conosciuto dai parenti, dagli amici, dai vicini e, in generale, dai familiari. In questa situazione, l’eventuale nomen gentilicium preso in prestito dal patrone o dall’imperatore appare, tuttavia, come un nome straniero, strano, che porta da poco tempo e che si sente obbligato a “presentare” soltanto negli atti ufficiali. A sostegno di questa asserzione vengono molti documenti epigrafici (iscrizioni funerarie) scoperte nel territorio della Dacia superiore.

Come abbiamo mostrato nel contratto concluso il 16 maggio 142, il compratore Dasius Breucus (Breuci) è stato identificato come un illirico di condizione giuridica peregrina. Lo stesso nome, Breucus, si incontra su una lapide sepolcrale scoperta nella stessa località Alburnus Maior, in cui è stato scoperto anche il rispettivo trittico. Il contenuto del lapide sepolcrale, che è riprodotto anche in Corpus Inscriptionum Latinarum[61], è il seguente: D(is) M(anibus). Arria Mama vix(it) ann(is) XXV, pos(uit) B(r)eucus ser(vus) co/niugi b(ene) m(erenti) [Traduzione: Agli Dei Mani. Arria Mama ha vissuto 25 anni; Breucus lo schiavo ha messo (il monumento) a sua moglie che ha ben meritato]. Le similitudini fra la lapide sepolcrale e il trittico del 16 maggio 142 ci permettiamo di presupporre che il Breucus del trittico fosse la stessa persona dello schiavo Breucus o, forse, il figlio dello schiavo. Quindi, Dasius Breucus potrebbe essere un liberto, situazione in cui la sua condizione giuridica, in funzione dei diversi fattori (la condizione giuridica del padrone, il modo in cui avvenne la liberazione ecc.) può essere, secondo il caso, quella di un cittadino romano, di un latino, di un peregrino comune o di un peregrino dediticio.

Il fatto che in casi particolari il liberto continuava a usare il suo nome di schiavo, e non quello di uomo libero con una certa condizione giuridica, è rilevabile anche in altri documenti epigrafici dalla Dacia superiore. Ecco qualche esempio: Proshodus, liberto ed erede di Quinto Aurelio Terzo, decurione e flamine della colonia di Sarmizegetusa[62]; Carpion, liberto dell’imperatore e capo di un ufficio (tabularius)[63]; Philetus, liberto di Claudia Marciana[64]; Zmaragdus, liberto dell’imperatore e capo di un ufficio (tabularius)[65]; Nepturalis, liberto dell’imperatore e capo dell’ufficio delle miniere d’oro della Dacia (tabul(arius) aur(ariaru)m) Dacicarum)[66] ecc.

In conclusione, il nome delle persone può costituire un indizio approssimativo nella determinazione della loro origine etnica; mentre è estremamente relativa e anche illusoria la determinazione della condizione giuridica delle persone che partecipano alla conclusione dei quattro atti di compravendita, solo sulla base dei nomi registrati nei rispettivi trittici.

 

6. – Natura giuridica degli atti conclusi

 

Tutti i romanisti che hanno studiato la natura giuridica degli atti giuridici contenuti nei quattro trittici hanno constatato che si tratta di contratti di compravendita, in quanto le parti si appellano alla mancipatio come modalità di trasferimento del diritto di proprietà. Argomentare che si tratti di mancipationes potrebbe sembrare superfluo, dato che in ogni contratto appare la formula emit mancipioque accepit, tradotta «compra e acquisisce per mancipazione». Opinioni divergenti appaiono, invece, quando si tratta di determinare sia la validità della mancipazione nei quattro contratti, essendo questa legata alla condizione giuridica delle parti e dei testimoni, sia l’oggetto del contratto del 6 maggio 159.

Alcuni autori, muovendo dal fatto che in tutti i quattro contratti almeno una delle parti è di condizione giuridica peregrina, ritengono nulli gli atti giuridici conclusi con la mancipazione, modo di trasmissione della proprietà specifico dei cittadini romani. La trasmissione della proprietà sarebbe tuttavia valida, però non come mancipazione, ma come tradizione[67]. Alla domanda che viene posta da questa situazione, e cioè, perché i peregrini ricorressero alla mancipazione pur sapendo che l’atto da questo punto di vista sarebbe stato nullo; si è risposto che ricorrevano a questa, probabilmente, mossi dallo spirito di imitazione[68]. Paul-Frédéric Girard affermava che «gli atti di vendita dalla Transilvania sono in modo certo copiati da moduli romani»[69]. La prova “categorica” del fatto che i trittici di cui parliamo sono stati realizzati «da uno spirito di imitazione» secondo la “regola” dei moduli che circolavano nella pratica sarebbe costituita, a parere di coloro che sostengono questa tesi, da alcuni disaccordi fra il modulo e la situazione concreta dal contratto.

Si danno in questo senso due esempi: il primo, nel caso del contratto del 17 marzo 139 in cui, anche se si vende una schiava, invece di usarsi il pronome dimostrativo femminile “ea”, con cui si accordava, si usa il pronome dimostrativo maschile “eo”, prova che è stato usato come modello un modulo per la vendita di uno schiavo; il secondo esempio riguarda il contratto del 6 maggio 159, in cui, anche se si vende metà di una casa (dimidia), la formula della garanzia di evizione si riferisce a una casa intera e, infine, anche se un simile edificio costituiva un fondo provinciale, nel qual caso la mancipazione non era valida nemmeno fra i cittadini romani, le parti ricorrono a questo procedimento, secondo il modello di un modulo con cui si alienava in modo valido un edificio[70].

Per quanto riguarda il contratto di qui sopra, alcuni autori hanno sostenuto che, anche se nell’epoca antica soltanto i beni mancipi potevano costituire l’oggetto della mancipazione, nel secolo II d.C. era possibile utilizzare la mancipazione anche per le cose nec mancipi, come è il caso di un fondo provinciale[71].

Si è argomentato con un frammento dalla Storia Naturale di Plinio[72], in cui si parla della mancipazione di perle (cose nec mancipi). Alla domanda perché si ricorreva alla mancipazione nel caso del trasferimento del diritto di proprietà su cose nec mancipi, quando lo stesso effetto (l’acquisto della proprietà quiritaria) si sarebbe potuto detenere per la semplice tradizione delle cose, si è risposto che questo procedimento «è la conseguenza del fatto che i praticoni sono sempre tentati di moltiplicare le formalità: quello che è in più non danneggerà: Quod abundat, non vitiat»[73].

La tesi della nullità della mancipazione non porta a concludere che i peregrini della Dacia – anche se non avevano la capacità giuridica di effettuare la mancipatio – ricorressero nella realtà a questo procedimento di trasferimento della proprietà specifico dello ius civile; il diritto di proprietà era piuttosto trasmesso per traditio. In queste condizioni, si è sostenuto che «il diritto romano classico non si applica in Dacia come in altre province, in tutta la sua purezza, ma in una forma alcune volte semplificata per i bisogni della pratica quotidiana»[74], trattandosi di «quello che alcuni autori hanno nominato diritto romano vulgare»[75].

In un’altra tesi si è affermato che i peregrini della Dacia avevano la capacità giuridica di trasmettere il diritto di proprietà per mancipazione e, dunque, i quattro contratti sono validi come mancipazione. Il principale argomento di quelli che sostengono questa tesi è costituito da un frammento del Tituli ex corpore Ulpiani: mancipatio locum habet inter cives Romanos et Latinos coloniarios, Latinosque / iunianos eosque peregrinos, quibus commercium datum est[76]; da cui risulterebbe, secondo alcuni autori[77], che i peregrini delle tavole cerate erano di quelli che avevano ricevuto lo ius commercii, come un favore speciale per alcuni coloni della Dacia, potendo così concludere contratti in conformità con il diritto riservato ai cives Romani.

I professori Constantin Tomulescu, Emil Cernea ed Emil Molcuţ[78] estendono questa constatazione a tutti i peregrini della Dacia e arrivano alla conclusione che i trittici della Transilvania, soprattutto quelli che si riferiscono ai contratti di compravendita, sono una prova dell’esistenza nel II secolo di un diritto daco-romano, che permetteva ai cittadini e ai peregrini di concludere fra di loro atti contenenti elementi di diritto romano e di diritto autoctono; in questo quadro, sono messe in una nuova luce le incapacità che derivano, nel diritto romano, dalla condizione giuridica delle persone, perché nella Dacia Romana «le incapacità di cui erano colpiti i peregrini tendono ad attenuarsi ed anche a sparire»[79].

Gli autori ricordati sopra, studiando la forma degli atti contenuti nei trittici, i loro effetti e la condizione giuridica delle parti, arrivano alla conclusione che essi non sono conformi totalmente né con il diritto civile romano né con il diritto delle genti, che hanno una fisionomia specifica, tale da conferire loro una identità propria, come atti giuridici di diritto daco-romano[80], sostenendo i seguenti argomenti:

a) in uno dei contratti, una delle parti, Anduenna Batonis, è una donna peregrina; però sia il diritto romano sia le altre legislazioni dell’antichità (come quella greca) avevano ristretto radicalmente la capacità giuridica della donna, così che essa non poteva concludere atti giuridici in nome proprio, si dovrebbe ammettere che nel caso dei trittici della Transilvania l’atto di compravendita sia stato concluso in base ad una consuetudine locale, assimilata dal nuovo sistema di diritto in corso di formazione[81];

b) la forma dei quattro atti di compravendita è diversa da quella propria al diritto romano, anche se gli effetti sono identici; così, se nel diritto romano tutti gli effetti della vendita derivavano dalla semplice intesa delle due parti, per quanto riguarda l’oggetto e il prezzo, nel diritto “daco-romano” era necessaria una clausola speciale (una dichiarazione di acquisto, una clausola riguardante il prezzo, clausole distinte riguardanti la garanzia per vizi e la garanzia per evizione e una dichiarazione del garante);

c) una curiosità difficilmente spiegabile è considerato il fatto che una delle operazioni giuridiche della vendita si realizza con due atti giuridici distinti: la mancipazione, atto di diritto civile, e il contratto di vendita, atto di diritto delle genti;

d) per quanto riguarda la forma della vendita, si osserva il fatto che gli atti sono firmati non solo dai testimoni, ma anche dalle parti ed alcune volte anche dai garanti, mentre nel diritto romano gli atti redatti in forma obiettiva erano firmati soltanto dai testimoni e quelli redatti in forma soggettiva erano firmati soltanto dalle parti[82]; il che indica nel «diritto “daco-romano” una forma intermediaria fra quella obiettiva e quella soggettiva, o semplicemente la transizione dalla forma obiettiva a quella soggettiva»[83].

Si constata così che gli atti compresi nelle tavolette cerate hanno una fisionomia speciale, originaria, essendo la loro formulazione espressione di una sintesi realizzata per l’utilizzazione di elementi di tecnica giuridica estremamente diversi, allo scopo di soddisfare gli interessi delle parti che, anche se non avevano la stessa condizione giuridica, «hanno corretto il carattere rigido e formalista di alcuni atti di diritto romano e hanno creato istituzioni giuridiche nuove»[84].

 

7. – Natura giuridica degli atti conclusi (continuazione)

 

Tutti quelli che hanno trattato la natura giuridica degli atti contenuti nei quattro trittici sono partiti dalla premessa che le parti hanno fatto una mancipazione, secondo alcuni autori valida, secondo altri nulla, considerando, come abbiamo già mostrato, che almeno una delle parti era di condizione giuridica peregrina. Stabilire la natura giuridica degli atti conclusi è essenziale per determinare la capacità giuridica dei peregrini della Dacia Romana; per confermare l’idea che questi peregrini, o almeno una parte di essi, godevano di ius commercii fin dalla prima metà del I secolo, poiché avevano appunto la possibilità di fare mancipazioni.

La nostra opinione, nonostante in tutti i quattro atti si legga che la cosa è stata comprata e acquisita per mancipazione (mancipioque accepit), non si pone il problema della validità della mancipazione, in quanto considera questo modo di trasmissione del diritto di proprietà, non solo nullo, ma semplicemente non esistente.

Prima di dimostrare questa tesi, ricordiamo, in breve, condizioni e forme della mancipatio.

Per il giurista Gaio la mancipatio, modalità civilistica di trasmissione della proprietà, costituisce un privilegio riservato soltanto ai cittadini romani, che si realizza in presenza di almeno cinque testimoni, cittadini romani puberi, e di un libripens, della stessa condizione, secondo un rituale che presuppone la presenza della cosa da alienare, la pronuncia di “parole solenni” ed il compimento di certi gesti rituali, come porre la mano sulla cosa[85].

Anteriormente alla Legge delle XII Tavole, la mancipatio era una vendita con pagamento immediato, essendo considerato legalmente concluso l’atto quando il venditore metteva la cosa comprata nelle mani del compratore (mancepare) ed il compratore pagava simultaneamente al venditore il prezzo stabilito alla presenza dei testimoni[86]; ma nel secolo II, al tempo di Gaio, essa era diventata una vendita fittizia.

Gaio e Ulpiano affermano che in tal modo potevano essere alienate soltanto le cose mancipi; ma il secondo afferma anche, come si è già mostrato, che la mancipatio poteva essere fatta da tutti quelli che avevano ius commercii. L’inosservanza degli obblighi da parte del venditore era sanzionata per mezzo dell’actio auctoritatis, che consisteva nella restituzione del doppio del prezzo.

L’esame delle condizioni e delle forme della mancipatio in rapporto al contenuto dei quattro trittici ci porta alla conclusione che in questi casi non si è trattato di mancipazione, poiché nessuna delle condizioni essenziali risulta osservata.

In primo luogo, per quanto riguarda le persone che partecipano alla conclusione degli atti, Gaio dice chiaramente nelle sue Istitutiones (I.119) che le parti e i testimoni devono essere cittadini romani. Abbiamo mostrato che stabilire lo statuto giuridico delle persone che hanno partecipato alla conclusione dei quattro contratti (venditori, compratori, garanti e testimoni) soltanto sulla base del nome è un dato estremamente relativo. Più autori inclinano a credere che almeno una delle parti fosse di condizione giuridica peregrina. Inoltre, alcuni testimoni e alcuni garanti sarebbero stati peregrini. Non vogliamo tornare su questa questione, perché, se davvero fossero peregrini, come argomento a sostegno della tesi della loro capacità di concludere atti giuridici secondo lo ius civile si porta quel testo di Ulpiano[87], citato d’altronde da molti romanisti[88], da cui risulta che eccezionalmente i peregrini potevano ricevere lo ius commercii. Senza contestare la veridicità di questo testo, dobbiamo tuttavia osservare che gli autori che invocano il testo di Ulpiano a sostegno della tesi secondo la quale i peregrini dei trittici avevano lo ius commercii, e quindi potevano fare mancipazioni, hanno trascurato un dettaglio essenziale: si tratta della data nella quale Ulpiano ha scritto la sua opera. Il celebre giureconsulto romano è stato (assieme a Paolo) praefectus praetorio sotto l’imperatore Alessandro Severo (222-235 d.C.), quindi ha scritto la sua opera nella prima metà del III secolo d.C., cioè a distanza di circa 70-100 anni dalla data nella quale sono stati realizzati i quattro trittici. In queste condizioni l’affermazione di Ulpiano è sicuramente valida, però non per la prima metà del II secolo, ma per un periodo successivo di almeno mezzo secolo, forse appena prima della constitutio Antoniniana. Che sia così lo mostra il testo delle Istituzioni di Gaio (I.119), da cui non risulta che i peregrini, sia pure eccezionalmente, godessero dello ius commercii; eppure Gaio ha scritto le Istituzioni proprio nel periodo in cui sono stati realizzati i trittici, ed è difficile credere che ad un giurista del suo livello, buon conoscitore del diritto romano e del diritto provinciale (perché è stato l’unico commentatore del codice provinciale realizzato sotto Antonino, autore di un Ad Edictum provinciale in 30 libri[89]), e, in generale, dei problemi dei peregrini[90], potesse sfuggire un dettaglio così importante come la possibilità dei peregrini di fare mancipazioni. Praticamente, questa è la sola differenza significativa nella trattazione della mancipazione fra Gaio e Ulpiano, e questo si spiega con il fatto che nel secolo II, nel tempo di Gaio, soltanto i cittadini romani avevano accesso alla mancipazione, mentre all’inizio del secolo seguente, nel tempo di Ulpiano, la sfera delle persone che potevano ricorrere a questo procedimento di trasferimento della proprietà era stata allargata anche ai peregrini, ai quali era stato accordato lo ius commercii.

Legata alla qualità delle parti che realizzano la mancipazione è anche l’asserzione che nel diritto “daco-romano” le donne avevano la capacità giuridica di concludere atti in nome proprio, come dimostrerebbe il documento che riguarda Andueia o Anduenna Batonis[91]. Tuttavia, anche qui il nome costituisce l’unico argomento, perché né nel trittico del 6 maggio 159, né in quello del 20 giugno 162, oltre al sostantivo proprio Andueia, o Anduenna Batonis, non esiste determinativo (aggettivo o verbo al participio passato) che indichi il genere della persona. È vero che nella trascrizione del trittico del 20 giugno 162 appare Anduenna s(upra) s(cripta), tradotta per «Anduenna sopra scritta», ma il testo è integrato in questa forma nel 1873, in occasione della riproduzione nel Corpus Inscriptionum Latinurum; nel trittico la scrittura risulta abbreviata: Anduenna s. s., per cui, l’integrazione potrebbe anche essere: Anduenna s(upra) s(criptus), cioè «Anduenna sopra scritto».

Gli autori che ritengono Anduenna o Andueia una donna muovono dalla constatazione che questi nomi propri finiscono in -a. Crediamo che sia troppo poco, in quanto esistono sufficienti eccezioni al fatto che, in genere, nelle lingue indoeuropee i nomi propri maschili non finiscono in -a. Così, se ci riferissimo ai nomi propri latini, ve ne sono alcuni che finiscono in -a, ma che sono di genere maschile (Agrippa, Caracalla, Geta, Seneca ecc.). Inoltre, anche fra i nomi propri di origine illirica (come sembra essere appunto Andueia o Anduenna Batonis), ne esistono alcuni di genere maschile con desinenza in -a.

Così, in un trittico contenente un contratto di locazione di opera del 20 maggio 164[92], fra i testimoni appare anche un certo Titus Beusantis qui et Bradua, cioè «Tito, figlio di Beusas, detto anche Bradua», che era evidentemente illirico[93]. Ecco perché incliniamo a credere che anche nel caso di Andueia Batonis o Anduenna si tratti di uomini e non di donne[94].

Per quanto riguarda l’oggetto della mancipazione, nessuno contesta il fatto che le cose mancipi, come gli schiavi, potevano essere alienate con questa modalità. Molto discusso è però se anche le cose nec mancipi, come quella metà di casa comprata da Andueia Batonis nel vicus Pirustarum di Alburnus Maior (Andueia Batonis emit mancipioque accepit domus partem dimidiam…), potessero essere alienate allo stesso modo. Al riguardo, abbiamo menzionato alcuni autori, i quali considerano possibile anche la mancipazione di cose nec mancipi, argomentando con un testo di Plinio; quindi, per questi autori, Andueia Batonis poteva acquistare per mancipazione un fondo provinciale.

Crediamo che questo argomento non resiste davanti alle affermazioni categoriche di Gaio e di Ulpiano[95], secondo i quali soltanto le cose mancipi potevano essere alienate per mancipazione. Così, anche se Plinio dice che le perle (dunque, cose nec mancipi) si trasmettevano per mancipazione (Storia Naturale, IX.60.35), è molto probabile che si sia sbagliato nella qualificazione giuridica dell’atto, tenendo conto che non era giureconsulto[96].

Per contrastare la tesi secondo la quale nel secolo II anche le cose nec mancipi potevano essere trasmesse per mancipazione, è decisivo il seguente passo delle Istituzioni di Gaio:

 

Gai, I.120: Eo modo et serviles et liberae personae mancipatur; animalia quoque quae mancipi sunt…; item praedia tam urbana quam rustica quae et ipsa mancipi sunt, qualia sunt Italica, eodem modo solent mancipari.

[In questo modo si mancipano sia gli schiavi sia le persone libere; e similmente gli animali che sono considerati res mancipi…; inoltre i fondi, sia quelli urbani sia quelli rustici, che sono proprio res mancipi, come sono (i fondi) italici, che si mancipano, di solito, nello stesso modo.]

 

Si può osservare in questo testo la precisazione di Gaio, nel senso che si tratta di res mancipi: animalia quoque quae mancipi sunt o praedia… quae et ipsa mancipi sunt. Se tutti gli animali o tutti i fondi avessero potuto essere emancipati, sarebbe stato sufficiente al giurista dire, semplicemente, animalia o praedia; non facendo questo, Gaio esclude dalla mancipazione sia gli animali nec mancipi, sia i fondi nec mancipi, cioè i fondi provinciali che non godevano dello ius Italicum[97]. Per quanto riguarda questi ultimi, Gaio dice chiaramente nel II commentario delle Istituzioni (paragrafi 19 e 21) che «res nec mancipi diventano di diritto totale di un altro anche soltanto per la semplice traditio…; nella stessa situazione sono anche i fondi provinciali».

Pur se eccede il periodo che analizziamo, va osservato che anche nell’epoca di Ulpiano niente era cambiato in questo senso, se nelle sue celebri Regulae si legge:

 

Tituli Ulpiani, 19.3 e 19.7: Mancipatio propria species alienationis est rerum mancipi… Traditio propria est alienatio rerum nec mancipi.

[«La mancipazione è un modo proprio di alienazione delle cose mancipi… La tradizione ha come specifico l’alienazione delle cose nec mancipi»].

 

In una questione puramente giuridica come quella di stabilire l’oggetto della mancipazione, fra l’opinione di un celebre naturalista e quella di alcuni illustri giureconsulti del periodo classico del diritto romano, può essere accettata soltanto l’opinione degli specialisti in materia, cioè quella di Gaio e di Ulpiano. Come conseguenza, nel caso del contratto del 6 maggio 159, che ha per oggetto l’alienazione di un fondo provinciale, non si può ritenere che avesse avuto luogo una mancipazione, anche se vi è scritto: emit mancipioque accepit domus partem dimidiam. Evidentemente, questo fatto mette in dubbio anche la qualificazione di mancipazioni degli altri tre trittici, in cui oggetto dell’alienazione sono degli schiavi (res mancipi) ed in cui si usa la stessa formula emit mancipioque accepit.

Nel caso della mancipazione, actio auctoritatis difende l’acquirente di un res mancipi (mancipio accipiens) contro il rischio dell’evizione con l’obbligazione del venditore alla restituzione del doppio del prezzo ricevuto. Questa azione funziona di diritto, non essendo necessario che le parti la indichino espressamente nella convenzione.

Esiste una sola possibilità che le parti deroghino dalle previdenze legali riguardanti la actio auctoritatis, e cioè quando ha luogo una mancipazione simbolica, cioè quando si paga nummo uno, rinunciando alla garanzia di evizione.

In tutte le quattro vendite dai trittici analizzati, osserviamo che la garanzia di evizione per il compratore è stata prevista espressamente: con una stipulatio duplae nei i trittici del 17 marzo 139 e del 16 maggio 142; con una stipulazione semplice nel caso degli altri trittici. Se si fosse trattato di mancipazione, sarebbe stato inutile l’inserimento di clausole per garantire il compratore, perché questo ruolo lo avrebbe avuto l’actio auctoritatis. L’esistenza di queste stipulazioni è una prova del fatto che le parti sapevano che non ponevano in essere una mancipatio.

Si pone allora la domanda: perché nei quattro trittici le parti hanno usato l’espressione emit mancipioque accepit? Nel cercare una risposta, escludiamo de plano la tesi che le parti abbiano fatto ricorso a questo procedimento per spirito di imitazione, pur sapendo che la mancipazione era nulla. Gli atti conclusi erano sicuramente validi, perché altrimenti non si giustificherebbe la conservazione scrupolosa di atti conclusi trent’anni prima (ci riferiamo ai trittici degli anni 139-142 d.C.).

Per quanto riguarda l’uso della parola mancipio proponiamo la seguente spiegazione: nei trittici, questa parola ha un senso più ampio di mancipazione come modo civilistico di trasferimento del diritto di proprietà. In altre parole, nel secolo II d.C. per stabilire lo statuto giuridico o la capacità giuridica delle persone che concludono un contratto, il termine mancipio appare meno sicuro del termine Quiris (titolare dello ius Quiritium), che «nella vindicatio, nella mancipatio, nella in iure cessio serve ad escludere i peregrini da questi atti»[98]. Il termine mancipio può essere usato anche dai peregrini, ma con un senso che ci porta all’etimologia della parola, cioè alla postura della mano, evidentemente in modo simbolico; indicando in questi casi la presa di possesso. Assistiamo così, come alle origini della mancipazione, ad una vendita reale, perché in tutti i quattro contratti il pagamento è stato fatto anteriormente, ma l’atto si considera concluso in modo valido soltanto nel momento in cui è stato consegnato l’oggetto della vendita, cioè quando l’acquirente prende possesso dello schiavo o della metà della casa. Abbiamo a che fare, in queste situazioni, con quelle nova conventia di cui parlava Gaio: i contratti innominati dell’età successiva, più esattamente, i contratti della categoria do ut des.

Non può trattarsi qui di un diritto “daco-romano”, perché ci troviamo nella sfera del concetto di iura populi Romani di cui parla lo stesso Gaio nel paragrafo 2 del primo Commento delle Istituzioni e che, come mostra il professore Pierangelo Catalano[99], è un concetto più ampio di ius proprium civium Romanorum, che comprende sia lo ius gentium, usato dai Romani, sia lo ius civile, considerato dai Romani vigente per i peregrini. Le vendite dai quattro trittici sono realizzati in forme romane, ma su un fondo che appartiene allo ius gentium.

 

8. – Conclusioni

 

Senza dubbio, i trittici della Transilvania presentano un interesse speciale per la conoscenza pratica del diritto romano; ma la loro importanza è stata alcune volte esagerata. Dato che non si conosce, neppure frammentariamente, il diritto daco, crediamo azzardato tentare di accreditare l’esistenza di un diritto daco-romano, basandosi sulle 14 tavolette cerate; tanto più che tutte le analisi fatte in relazione ai nomi dei personaggi che appaiono nei trittici hanno rilevato nomi romani, illirici, greco-orientali, ma nessun nome daco.

Inoltre, dato che si riconosce la partecipazione dei peregrini alla conclusione di alcuni atti di diritto civile, è esagerato affermare che nella Dacia del secolo II d.C. i peregrini, o parte di essi, avessero una capacità giuridica più ampia di quella dei peregrini di altre province romane. In realtà, a 30-60 anni dalla conquista della Dacia, i peregrini di questa provincia avevano uno statuto giuridico identico con quello dei peregrini di qualsiasi angolo dell’Impero.

Gli atti giuridici registrati nei trittici della Transilvania hanno, senza dubbio, alcune particolarità. Abbiamo espresso l’opinione che, per quanto riguarda i quattro trittici esaminati, si tratta di contratti innominati della categoria do ut des, cioè vendite reali, che si svilupperanno nella parte orientale dell’Impero e poi nell’Impero Bizantino. D’altronde, la vendita reale, ereditata dal diritto bizantino, ha marcato l’intera esistenza del vecchio diritto romeno, fino all’adozione, nel 1864, del Codice civile. Nata dal diritto delle genti, la vendita reale non poneva problemi sotto l’aspetto della capacità giuridica delle parti, essendo l’istituto ugualmente accessibile ai peregrini ed ai cittadini romani.

 

 

 



 

[1] H. C. Matei, O istorie a lumii antice (Una storia del mondo antico), Editura Albatros, Bucarest 1984, 300.

 

[2] P. Mac Kendric, The Dacian stones speak, The University of North Carolina Press, 1975, traduzione in romeno: Pietrele dacilor vorbesc, Editura Ştiinţifică şi Enciclopedică, Bucarest 1978, 79.

 

[3] C. Daicoviciu, in Istoria României.Compendiu (Storia della Romania. Compendio), 2a Edizione, Editura Didactică şi Pedagogică, Bucarest 1971, 50-51; C.C. Giurescu, Formarea poporului român (La formazione del popolo romeno), Editura Scrisul Românesc, Craiova 1973, 62-63; C.C. Giurescu, D.C. Giurescu, Istoria românilor (Storia dei Romeni), vol. 1, Editura Ştiinţifică şi Enciclopedică, Bucarest 1975, 83.

 

[4] D. Protase, Autohtonii în Dacia (Gli autoctoni nella Dacia Romana), vol. I, Dacia Romana, Editura Ştiinţifică şi Enciclopedică, Bucarest 1980, 232.

 

[5] Eutropio, VIII.6.2.

 

[6] C.C. Giurescu, D.C. Giurescu, Op. cit., 93.

 

[7] Ulpiano, D. 50.15.1.8-9: In Dacia quoque Zernenzium colonia a Divo Traiano deducta iuris Italici est. Zarmizegetusa quoque eiusdem iuris est: item Napocensis colonia et Apulensis et Patavissensium vicus, qui a divo Severo ius coloniae impetravit.

 

[8] E. Cernea, E. Molcut, Istoria statului şi dreptului românesc (Storia dello stato e del diritto romeno), 3a Edizione, Casa de editură şi de presă “Şansa” e l’Editura Universul, Bucarest 1993, 24.

 

[9] D. Protase, Op. cit., 237.

 

[10] I. Peretz, Curs de istoria dreptului român (Corso di storia del diritto romeno), parte I, Originile dreptului român (Le origini del diritto romeno), Editura Curierul Judiciar, Bucarest 1915, 359 ss.

 

[11] Cicerone, Ad Atticum, VI.1.15.

 

[12] I. Peretz, Op. cit., 360.

 

[13] Il lavoro è citato in seguito sotto la forma abbreviata CIL.

 

[14] Il romanista ungherese Pólay Elemér, in A Daciai viaszostáblák szerződései, Budapest, Kőzgazdasági és Jogi Kőnyvkiadó, 1972, cita più di cento titoli di lavori, dei più diversi, da alcuni con carattere soltanto informativo a studi monografici che trattano eruditamente la problematica sociale-economica e giuridica suscitata dalle tavolette cerate. Evidentemente, la bibliografia indicata è incompleta, perché quantunque grandi siano gli sforzi intrapresi in questa direzione, non possono essere compresi tutti i lavori che hanno guardato direttamente o indirettamente, in una misura più grande o più piccola, i trittici della Transilvania, soprattutto se sono stati scritti in lingue che non sono di circolazione internazionale. Per la descrizione generale dei trittici della Transilvania, elenchiamo in seguito i lavori consultati più frequentemente dagli autori romeni: CIL, III, 922; G. Popa, Le tavole cerate scoperte in Transilvania, Bucarest 1890, 40; I. Peretz, Op. cit., 370; Idem, Op. cit., 1926, 272; I. Baltariu, I trittici della Transilvania. Contribuzioni alla storia del diritto romeno, Aiud 1930; P.F. Girard, Textes de droit romain, Parigi 1923, 849; G. Popa-Lisseanu, in Romanica. Studi filologici e archeologici, Bucarest 1925; V. Hanga, Crestomazia per lo studio della storia dello stato e del diritto della R. P. R., vol. I, Bucarest 1955, 211; D. Tudor, Storia della schiavitù nella Dacia Romana, Editura Academiei Republicii Populare Române (Supplimentum epigraphicum), Bucarest 1957, 266 ss.; E. Pólay, Op. cit., 44; I.I. Russu, Le iscrizioni della Dacia Romana, vol. I, Editura Academiei Republicii Socialiste România, Bucarest 1975; C.St. Tomulescu, Le droit romain dans les triptyques de Transylvanie (Les actes de vente et de mancipation), in Revue internationale des droits de l’antiquité 18, 1971.

 

[15] U.E. Paoli, Urbs. La vida en la Roma Antigua (traducción del italiano), tercera edición, Editorial Iberia S. A., Barcelona 1964, 245-246; N. Lascu, Come vivevano i romani, Editura Ştiinţifică, Bucarest 1965, 145.

 

[16] F. del Giudice, S. Beltrani, Dizionario giuridico romano, 2a Edizione, Napoli 1996, 479.

 

[17] Bibliografia: CIL, III, 936 e 2215; Fontes iuris Romani antiqui, edidit Carolus Georgius Bruns, pars prior, Leges et negotia, post euras Theodori Mommseni, septimum edidit Otto Gradenuritz, Tubingae 1909, 330, nr. 131; I. Peretz, Op. cit., 1915, 379-380; P.F. Girard, Op. cit., 850, nr.3; G. Popa, Op. cit., 18-19, nr. 2; Idem, Romanica. Studii filolofice şi arheologice, Bucarest 1925, 156-157, n. 2; I. Baltariu, Op. cit., 52-53; V. Arangio-Ruiz, Fontes iuris Romani Anteiustiniani, pars III, Negotia, Florentiae 1943, pp. 283-285; V. Hanga, Op. cit., 212-213; D. Tudor, Op. cit., 266-267; E. Pólay, Op. cit., 277; I.I. Russu, Op. cit., 212-217.

 

[18] Sulla tavoletta, la terza riga ha il seguente contenuto: -norum sex emit mancipioque accepit. L’autore della scrittura, rendendosi conto che aveva sbagliato, ha intercalato dopo la parola “sex”, fra la seconda e la terza riga, le parole: circiter p. m. emta sportellaria, così che la terza riga deve essere letta: norum circiter p(lus) m(inus) sex empta sportellaria emit mancipioque accepit (secondo I.I. Russu, Op. cit., 213).

 

[19] Corretto: Eam.

 

[20] Corretto: ea (secondo I.I. Russu).

 

[21] Corretto: ex ea.

 

[22] Bibliografia: M.J. Ackner, Fr. Müller, Die römschen Inschriften in Dacien, Wien 1865, 626; CIL, III, 940-943, VII, 2215; Fontes iuris Romani antiqui…, Tubingae 1909, 329; I. Peretz, Op. cit., 381-383; P.F. Girard, Op. cit., 849, nr. 2; G. Popa, Op. cit., 17-18, nr. 2; Idem, Romanica. Studii filolofice şi arheologice, cit., 155-156, n. 1; I. Baltariu, Op. cit., 51-52; V. Arangio-Ruiz, Fontes iuris Romani Anteiustiniani, pars III, 285-287; V. Hanga, Op. cit., 213; D. Tudor, Op. cit., 266; E. Pólay, Op. cit., 278; I.I. Russu, Op. cit., 217-223.

 

[23] Corretto: Graecum.

 

[24] Corretto: fugitivum.

 

[25] Corretto: praestari.

 

[26] Corretto: partemve.

 

[27] Corretto: eumve.

 

[28] Corretto: Graecum.

 

[29] Corretto: praestari.

 

[30] Corretto: possidereque.

 

[31] Corretto: tum.

 

[32] Bibliografia: CIL, III, 959 e 2215, nr. XXV; Fontes iuris Romani antiqui…, 330-331, nr. 132; I. Peretz, Op. cit., 385-388; P.F. Girard, Op. cit., 850, nr. 4; G. Popa, Op. cit., 20, nr. 4; Idem, Romanica. Studii filolofice şi arheologice, 158-159; I. Baltariu, Op. cit., 53-54; Fontes iuris Romani Anteiustiniani, pars III, 287-288; V. Hanga, Op. cit., vol. I, 211-212; D. Tudor, Op. cit., 267-268, nr. 120; E. Pólay, Op. cit., 284-285; I.I. Russu, Op. cit., 223-226.

 

[33] Sulla tavoletta, la parola de si ripete.

 

[34] Corretto: ad.

 

[35] Corretto: quod.

 

[36] Corretto: quid.

 

[37] Corretto: ablatumve.

 

[38] Corretto: quod.

 

[39] Corretto: eam.

 

[40] Corretto: ipsius.

 

[41] Corretto: quod.

 

[42] Corretto: ablatumve.

 

[43] Corretto: quod.

 

[44] Bibliografia: CIL, III, 945; Fontes iuris Romani antiqui…, 331-332, nr. 133; I. Peretz, Op. cit., 383-384; P.F. Girard, Op. cit., 851-852, nr. 5; G. Popa, Op. cit., 19, nr. 3; Idem, Romanica. Studii filolofice şi arheologice, 157-158, n. 3; I. Baltariu, Op. cit., 55-56; Fontes iuris Romani Anteiustiniani, pars III, 289; V. Hanga, Op. cit., vol. I, 212; E. Pólay, Op. cit., 279-280; I.I. Russu, Op. cit., 226-231.

 

[45] Corretto: intrantibus.

 

[46] Corretto: quae.

 

[47] Corretto: Ingenuum.

 

[48] Corretto: fenestris.

 

[49] Corretto: clavo.

 

[50] Corretto: Valens.

 

[51] Corretto: intrantibus.

 

[52] Corretto: quae.

 

[53] Per la traduzione di optima maximaque con il senso di «libera da qualsiasi carico», cioè con la garanzia dell’inesistenza di qualche servitù prediale o di qualunque altro ius in re aliena (compresa un’ipoteca) di natura a diminuire il valore economico e l’autonomia giuridica del fondo venduto, si vedano: G. May, Éléments de droit romain, treizième édition, Parigi 1920, p. 348; P.-F. Girard, Manuel élémentaire de droit romain, huitième édition, Parigi 1929, 596; Valentin Al. Georgescu, OPTIMVS şi OFTIMVS MAXIMVS în tehnica juridică romană: optima lex, optimvm ius, fundus optimus maximusque, in Studii clasice 10, 1968, 185-205; F. Del Giudice, S. Beltrani, Op. cit., 222. L’eminente epigrafista romeno Ioan I. Russu traduce, a nostro avviso inadeguatamente, optima maximaque con «e senza guasto» (I.I. Russu, Op. cit., 231).

 

[54] I.I. Russu, Op. cit., 184-185.

 

[55] I.I. Russu, Op. cit., 222.

 

[56] E. Pólay, Op. cit., 72.

 

[57] I.I. Russu, Op. cit., 185.

 

[58] I.I. Russu, Op. cit., 226.

 

[59] I.I. Russu, Op. cit., 231.

 

[60] Suetonius, Claudius, 25: peregrinae conditionis homines vetuit usurpare romana nomina dumtaxat gentilicia.

 

[61] CIL, III, 7830 (1263); D. Tudor, Op. cit., 265.

 

[62] CIL, III, 7981; A. Kerényi, Die Personennamen von Dazien, Budapest 1941, 2007 e 2063; D. Tudor, Op. cit., 249.

 

[63] CIL, III, 7939 e 1467; A. Kerényi, Op. cit., 1887 e 2038; D. Tudor, Op. cit., 250, nr. 43-44.

 

[64] CIL, III, 1232; A. Kerény, Op. cit., nr. 2051; D. Tudor, Op. cit., p. 256, nr. 74.

 

[65] CIL, III, 1286; A. Kerény, Op. cit., 2115; D. Tudor, Op. cit., 260, nr. 89.

 

[66] CIL, III, 1297; A. Kerény, Op. cit., 1102; D. Tudor, Op. cit., 260, nr. 90.

 

[67] P.-F. Girard, Manuel élémentaire de droit romain, huitième édition, Paris 1929, 313.

 

[68] I. Peretz, Op. cit., 388; V. Hanga, in Istoria dreptului românesc (Storia del diritto romeno), vol. I, Editura Academiei Republicii Socialiste România, Bucarest 1980, 109; Idem, Istoria dreptului românesc. Dreptul cutumiar (Storia del diritto romeno. Diritto consuetudinario), Editura della Fondazione “Chemarea”, Iaşi 1993, 27; M. Ruja, H. Oprean, Istoria dreptului românesc (Storia del diritto romeno), Editura Servo-Sat, Arad, 32.

 

[69] P.-F. Girard, Op. cit., 594.

 

[70] I. Peretz, Op. cit., 389; V. Hanga, Op. cit., 1980, 109.

 

[71] P. Collinet, A. Giffard, Précis de droit romain, tome premier, troisième édition, Dalloz, Parigi 1930, 321; C. Hamangiu, M. Nicolau, Dreptul roman (Il diritto romano), vol. I, Socec, Bucarest 1930, 514; Gh. Ciulei, Dreptul roman. Instituţiile dreptului privat roman (Il diritto romano. Le istituzioni del diritto privato romano), Editura “Omega Lux”, Bucarest 1995, 129.

 

[72] Plinio il Vecchio, Historia Naturalis, 9.60.35.

 

[73] P. Collinet, A. Giffard, Op. cit., luogo cit.

 

[74] V. Hanga, Op. cit., 1980, 115; Idem, Op. cit., 1993, 27.

 

[75] M. Ruja, H. Oprean, Op. cit., luogo cit.

 

[76] Tituli Ulpiani, 19.4.

 

[77] D. Tudor, Op. cit., 164, 167, 172; D.V. Firoiu, Istoria statului şi dreptului românesc (Storia dello stato e del diritto romeno), Editura Didactică şi Pedagogică, Bucarest 1976, 29-31; Idem, Op. cit., Editura della Fondazione “Chemarea”, Iaşi 1992, 37-38.

 

[78] C.St. Tomulescu, Op. cit., luogo cit.; E. Cernea, Istoria statului şi dreptului român (Storia dello stato e del diritto romeno), vol. I, Tipografia Universităţii din Bucureşti, 1976, 40-41; E. Cernea, E. Molcuţ, Op. cit., 27-31.

 

[79] E. Cernea, E. Molcuţ, Op. cit., 31.

 

[80] C.St. Tomulescu, Elements vulgaires romains dans la practique juridique de la Dacie, in Bullettino dell’Istituto di diritto romano “Vittorio Scialoja” 81, 1978, apud. E. Cernea, E. Molcuţ, Op. cit., 28.

 

[81] E. Molcuţ, in Analele Universităţii din Bucureşti, seria Drept, 1978, 69, apud E. Cernea, E. Molcuţ, Op. cit., 28.

 

[82] E. Cernea, E. Molcuţ, Op. cit., 31.

 

[83] Ibidem.

 

[84] Ibidem.

 

[85] Gaio, I.119; II.65.

 

[86] Th. Mommsen, Istoria romană, vol. I, Editura Ştiinţifică şi Enciclopedică, Bucarest 1987, 100; P. Collinet, A. Giffard, Op. cit., 317; P.F. Girard, Op. cit., 590-591; J. Miquel, Derecho privado romano, Madrid 1992, 178; R. Robaye, Le droit romain, tome 1, Bruxelles 1996, 130.

 

[87] Tituli Ulpiani, 19.4.

 

[88] G. May, Élements de droit romain, treizième édition, Sirey, Parigi, 1920, 208; P.F. Girard, Op. cit., 313; P. Collinet, A. Giffard, Op. cit., 321; C. Hamangiu, M. Nicolau, Op. cit., 505-506; V. Hanga, Drept privat roman (Diritto privato romano), Editura Didactică şi Pedagogică, Bucarest 1971, 208; C.St. Tomulescu, Drept privat roman, Tipografia Universităţii din Bucureşti 1973, 172; V.M. Ciucă, Lecţii de drept roman (Lezioni di diritto romano), vol. I, Polirom, Iaşi 1998, 276.

 

[89] A.N. Popescu, Studiu introductiv la Gaius, Instituţiunile (Studio introduttivo a Gaio, Istituzioni), Editura Academiei Republicii Socialiste România, Bucarest 1982, 16.

 

[90] Nelle Istituzioni, Gaio fa 72 riferimenti ai peregrini e 121 riferimenti a cives e civitas Romana.

 

[91] Il nome di Andueia si trova nel trittico del 6 maggio 159, in cui appare nella qualità di compratore, mentre il nome di Anduenna appare in un contratto di prestito o di deposito, concluso il 20 giugno 162 fra Anduenna Batonis e Iulius Alexander.

 

[92] CIL, III, 984, X (cautio de operis locandis opere auraris).

 

[93] I.I. Russu, Op. cit., 235.

 

[94] L’onomastica maschile comprende anche altri esempi di nomi che finiscono in -a. Esemplifichiamo, per l’antichità, con il nome daco di Burebista o con il nome ebreo di Iuda o, per il presente, con nomi romeni (Andruţa, Aldea, Cristea, Florea, Horia, Mihnea, Mircea, Preda ecc.), russi (Serioja, Vania), iugoslavi (Sava), italiani (Andrea) ecc.

 

[95] Gaio, Inst. I.120; Ulpiano, Regulae (Tit.Ulp.), 19.3.

 

[96] S. Meitani, Evoluţiunea dreptului de proprietate la romani. Studiu juridic şi istoric (L’evoluzione del diritto di proprietà presso i romani. Studio giuridico e storico), Institutul de Arte Grafice “Carol Göbl”, Bucuresci 1902, 146.

 

[97] S. Meitani, Op. cit., 149.

 

[98] P. Catalano, Populus Romanus Quirites, Torino 1974, 148.

 

[99] P. Catalano, Diritto e persone, I, Torino 1996, 56-57.