N. 4 – 2005 – Tradizione Romana

 

Valerij. N. Tokmakov

Accademia delle Scienze di Russia, Mosca

 

 

Disciplina militare e la situazione giuridica dei milites nella Roma della prima età repubblicana

 

 

Com'è noto, la potenza di Roma si fondò sulla sua organizzazione militare, la cui struttura si venne perfezionando lungo i secoli, ma le basi furono gettate nella prima età repubblicana (V–IV sec. av. Cr.). Il sistema di rapporti giuridici dell'organizzazione militare romana con la comunità civile si sviluppò anch'esso nel corso dei secoli. Quest'organizzazione penetrava tutti i pori dell'organismo sociale rappresentando la potenza della comunità di fronte al mondo circostante. Perciò da un lato, l'esercito era quasi una continuazione del sistema politico e sociale, essendo il servizio militare (fino alla riforma mariana della fine del secondo secolo av. Cr.) un diritto-obbligo di tutti i cittadini di pieni diritti. Dall'altro lato, l'esercito in quanto forza militare era opposto al collettivo civile essendo subordinato alla disciplina militare anziché al diritto.

Già Theodor Mommsen ha espresso l'opinione della radicale differenza fra il diritto militare e quello civile. Secondo lo storico tedesco mentre nel diritto civile vigeva la legge, in quello militare lo facevano l'ascia e i fasci, cioè il potere personale e illimitato del capo militare. Così Mommsen, seguito poi da molti studiosi moderni, ha visto la base della disciplina militare romana prevalentemente nel terrore e coercizione. Di regola la disciplina militare viene considerata nella storiografia come un dato universale in sé, indipendente dal grado di sviluppo dell'organizzazione militare e separata dall'evoluzione della costituzione romana. Perciò spesso gli storici tracciano paragoni fra i rapporti di milites e comandanti, dell'esercito e la comunità civile della prima età repubblicana precedente le riforme di C. Mario e l'alta disciplina dell'esercito professionale della Tarda repubblica. Ma teniamo presente che alla sua base vi erano delle chiare norme giuridiche considerandosi il soldato come una specie di soggetto di diritto. Già Polibio descrive i rapporti fra i soldati e i comandanti dell'esercito romano della prima metà del II sec. av. Cr. come fondati su dei principi giuridici comprendenti una assai netta definizione degli obblighi dei milites e delle prerogative dei capi nonché una dettagliata tipologia di infrazioni e le rispettive punizioni la cui applicazione era soggetta alle regole pressoché identiche a quelle della procedura penale normale, eccezion fatta per la specificità militare (Polyb. VI. 37. 713). Nel periodo imperiale la teoria del diritto militare venne attivamente elaborata dal talentato storico e giurista romano Lucio Cincio, autore dell'opera in almeno sei libri intitolata De re militari. Purtroppo essa non si è conservata e non ci sono pervenute che citazioni, numerose ma scarse di contenuto in Gellio, Festo e Macrobio. Nella sua forma completa il sistema dei rapporti fra lo stato e il milite, il comandante e il soldato si formò all'epoca imperiale: nelle leggi di Traiano, Settimio Severo, e fu ricapitolata nel titolo 16 della sezione XLIX del Digesto conosciuto anch'esso con il nome De re militari. Ma le origini della disciplina militare vanno giù fino all'epoca arcaica. Perciò lo sviluppo delle basi giuridiche della disciplina militare proprio in quel periodo sarà l'oggetto di questo saggio.

Per esempio nel Digesto viene fissato che: In bello qui rem a duce prohibitam fecit aut mandata non servavit, capite punitur, etiamsi res bene gesserit[1]. Ma simili sanzioni trovano riflessione già nelle notizie della tradizione scritta sull'esecuzione ad opera dei consoli dei propri figli per violazione del divieto di abbandonare le file ed entrare nel combattimento senza ordine[2]. Suscita però dei dubbi il fatto che per due secoli (V e IV av. Cr.) le fonti ce ne menzionino solo due casi. Nel 432 il dittatore Aulo Postumio ordinò di battere con verghe e decapitare davanti alle file il proprio figlio vincitore perché questi iniussu discesserit praesideo[3]. Nel 340 si comportò analogamente il console Tito Manlio Imperioso. Diede ordine di decapitare davanti alle file il proprio figlio per un duello a cavallo con il capo dei cavalieri tuscolani Gemino Mescio che era stato ucciso e la sua armatura gettata dal vincitore ai piedi del padre console[4]. Da notare che in entrambi i casi si tratta della punizione dei comandanti per combattimenti vittoriosi ma intrapresi senza l'ordine del capo superiore. Salta agli occhi l'osservazione di Livio da lui messa in bocca a Tito Manlio:

 

Quandoque, inquit, tu, T. Manli, neque imperium consulare neque maiestatem patriam veritus adversus edictum nostrum extra ordinem in hostem pugnasti et, quantum in te fuit, disciplinam militarem, qua stetit ad hanc diem Romana res, solvisti meque in eam necessitatem adduxisti, ut aut rei publicae mihi aut mei meorumque obliviscendum sit, nos potius nostro delicto plectemur, quam res publica tanto suo damno nostra peccata luat[5].

 

E poi Livio mette in bocca al console Manlio una caratteristica frase secondo cui si doveva:

 

... sed cum aut morte tua sancienda sint consulum imperia aut inpunitate in perpetuum abroganda, ne te quidem, si quid in te nostri sanguinis est, recusare censeam, qiun disciplinam militarem culpa tua prolapsam poena restituas[6].

 

A proposito, seppure provocando uno shock e maledizioni da parte dei milites, ma nelle parole dello stesso Livio «una punizione così severa rese l'esercito più ubbidiente agli ordini del capo; dappertutto si cominciò a compiere con più zelo il servizio di sentinelle e di pattuglie, e nella battaglia decisiva, quando ci si scontrò con il nemico faccia a faccia, questa severità di Manlio risultò anche qui utile»[7]. In questi passi si rivelano dunque due aspetti che escono fuori dai limiti della disciplina militare come tale, ma che ne sono la base. E' la dimostrazione della patria potestas e il mantenimento dell'imperium consolare in quanto strumento più efficace per la regolazione della disciplina militare.

Però gli esempi citati sopra dell'esecuzione dei propri figli da parte dei capi militari non attestano, a mio avviso, la rigidità della disciplina nell'esercito della Prima repubblica, ma piuttosto al contrario, il suo scarso sviluppo. Infatti, nonostante la severa punizione del figlio Marco da parte del console Tito Manlio, poco dopo fu un altro ufficiale di cavalleria a intraprendere un combattimento senza permesso[8]. Si tratta del magister equitum Marco Fabio. Nel 325, essendo il dittatore Lucio Papirio Cursore assente dall'esercito in occasione degli auspicia statali, Fabio entrò in combattimento con i sanniti e vinse brillantemente, facendo un'enorme preda e moltissimi trofei[9]. E qui alla base della sua accusa da parte del dittatore non vi fu tanto la violazione della disciplina come tale, quanto piuttosto l'attentato contro l'imperium del dittatore e la volontà degli dèi che determinava la gerarchia dei magistrati. Papirio apporta i seguenti argomenti (nell'interpretazione di Livio):

 

... cum summum imperium dictatoris sit pareantque ei consules, regia potestas, praetores, iisdem auspiciis quibus consules creati, aequum censeas (Fabio) necne magistrum equitum dicto audientem esse?[10].

 

Con ciò il dittatore si appella alla violazione del proprio imperium, dei sacri auspicia statali e dunque a un’offesa arrecata agli dèi, la cui volontà, come si sa, determinava tutte le azioni dei capi militari e delle truppe[11]. In altre parole, nell'arcaica mentalità giuridica romana la disciplina militare si trova in uno stretto legame con le basi sacrali e costituzionali della civitas. Ciò viene confermato anche da quest'altra sentenza del dittatore Papirio, esposta da Livio:

 

... cum pollita semel militari disciplina non miles centuriones, non centurio tribuni, non tribunus legati, non legatus consulis, non magister equitum dictatoris pareat imperio, (8) nemo hominum, nemo deorum verecundiam habeat, non edicta imperatorum, non auspicia observentur, (9) sine commeatu vagi milites in pacato, in hostico errent, inmemores sacramenti licentia sola se, ubi velint, exauctorent, (10) infrequentia deserantur signa neque conveniatur ad edictum nec discernatur, interdiu nocte, aequo iniquo loco, iussu iniussu imperatoris pugnent, et non sbgna, non ordines servent, latrocinii modo caeca et fortuita pro solemni et sacrata militia sit[12].

 

E' una sorta di manifesto della disciplina militare romana che prende la forma di un servizio sacrale e fa pensare che con disciplina i romani non intendessero solo l'arte militare come tale e non tanto l'ordine del comportamento del milite nella battaglia. L'essenza, il nucleo della disciplina militare arcaica era la definizione e consacrazione del legame fra il milite e la società nel suo insieme, la sua sottomissione agli istituti giuridici e sacrali della comunità e innanzitutto all'autorità del capo militare.

Di un imperium indivisibile venivano investiti, com'è noto, solo i magistrati supremi: consoli e dittatori, nonché tribuni consolari, ossia capi militari (Cic., De leg. III. 3. 69). L'imperium militare includeva i seguenti diritti: di attuare la leva, nominare comandanti, fare la guerra, concludere l'armistizio, distribuire la preda, ricevere il trionfo e realizzare gli auspicia militari (ius auspicandi)[13]. E questo probabilmente era il punto principale. Infatti, il comando formalmente si esercitava per la volontà delle divinità e il console non era che l'intermediario e il realizzatore di questa volontà. Una parte dei propri poteri il console la cedeva ai suoi subordinati, ma lo poteva fare solo con l'osservanza di tutte le procedure sacre che nel periodo arcaico rappresentavano una specie di atti giuridici. La violazione dell'ordine non era dunque, dal punto di vista dei romani, solo un'infrazione rientrante esclusivamente nella sfera del diritto, ma anche un attentato contro il sacro imperium del console e contro i divini auspicia, cioè all'interpretazione della volontà degli dèi manifestata nei segnali sacri. Perciò un combattimento, anche vittorioso, intrapreso da un comandante privo del diritto di auspicia, senza gli auspicia, con cattivi auspicia oppure contrariamente ad un ordine basato sugli auspicia supremi e impartito da una persona rivestita di imperium, significava nella tradizione sacro-giuridica dei romani la disubbidienza ai sommi capi delle forze militari, gli dèi.

Diventa chiaro che per il rappresentante delle forze divine nell'esercito, cioè per il capo militare cum imperio era necessario espiare quanto prima il sacrilegio commesso, senza aspettare la punizione divina. E né il risultato del sacrilegio né i sentimenti familiari contavano. Con lo sviluppo del diritto pubblico questa norma sacro-giuridica arcaica si trasformò in puramente giuridica (ricordiamo la norma di Modestino in D 49. 16. 3. 15). Tanto che gli aspetti sacrali della violazione non vengono più menzionati. Notiamo che questo principio puramente romano (non ne troviamo niente di simile in Grecia) fu posto alla base del diritto militare e dei regolamenti militari in Europa per duemila anni successivi.

L'imperium rivestiva il suo portatore della forza e potere supremo nella vita e la morte dei subordinati (il diritto di coercio et iudicatio)[14]. La sua manifestazione esterna questo diritto la trovava nei fasci littori. Nel suo aspetto universale questo diritto può essere trovato nello stesso Digesto in cui leggiamo: Is, qui exploratione emanet hostibus insistentibus aut qui a fossato recedit, capite puniendus est[15]; mentre altrove l'infrazione analoga è oggetto di un trattamento più mite: Sed qui agmen excessit, ex causa vel fustibus caeditur vel mutare militiam solet[16]. Ma anche due secoli prima della redazione del Digesto Livio lo formula pure sotto forma di norma giuridica, probabilmente già esistente all'epoca sua: Fustuarium meretur qui signa relinquit aut praesidio decedit ...[17]. Polibio descrive la procedura di una tale punizione per il II secolo av. Cr. I colpevoli di aver dormito sul posto di guardia dell'accampamento venivano fustigati su ordine del consiglio di tribuni della legione. E' curioso che all'ora dell'investigazione si osservi una specie di procedura giudiziaria: espongono le loro dichiarazioni sia le guardie accusate sia il centurione della pattuglia di ispezione che chiama come testimoni i suoi compagni (Polyb. VI. 36. 89). La decisione, come vediamo viene presa in maniera collegiale dal consiglio dei tribuni anziché individualmente dal capo militare come nella Prima Repubblica. L'esecuzione della condanna si realizza così, secondo Polibio[18]: un tribuno prende un bastone e quasi che tocca soltanto il condannato; dopo di che tutti i legionari lo picchiano con bastoni e pietre. Se qualcuno dei condannati sopravvive, viene "privato di acqua e fuoco"; gli si proibisce di tornare a casa e ai famigliari di riceverlo a casa loro. In altre parole le sanzioni sono identiche a una condanna penale ordinaria. Il sistema del mantenimento della disciplina nella descrizione di Polibio è basata sulla responsabilità personale del capo di ogni grado per le infrazioni dei subordinati (Polyb. VI. 37. 56).

Una delle manifestazioni estreme del diritto di punire i milites furono le decimazioni ovvero esecuzioni di ogni decimo (scelto a sorte) fra i soldati nel caso di una loro fuga dal campo di battaglia. Polibio parla della fustigazione spietata di quelli cui toccava questa sorte e per gli altri delle sanzioni consistenti nel sostituire nella loro razione il grano con l'orzo e nel mettere le loro tende fuori dal terrapieno dell'accampamento (VI. 38. 24). Ma la decimazione risale ancora all'epoca della Prima Repubblica. La prima fu eseguita, secondo la tradizione, nel 471 da Appio Claudio[19]. Da notare che secondo quanto precisa Frontino, Claudio uccise personalmente ogni decimo con una mazza (Frontin. IV. I. 33). Tale decimazione sembra dunque piuttosto una repressione selvaggia operata da capi sfrenati secondo le usanze primitive anziché un atto di diritto. Finalmente all'inizio del IV sec. av. Cr. Marco Furio Camillo giustiziò i militi fuggiti dalle mura di Veio (Liv. V. 19. 4). Come vediamo, per tutto un secolo la tradizione ci ha conservato solo due casi dell'uso di questa misura estrema di ristabilimento della disciplina militare.

La decimazione aveva come origine, indubbiamente, le norme sacre e i tabù già menzionati: con questa specie di sacrificio di militi impuri per aver violato la volontà divina si pretendeva di espiare l'onta della sconfitta e di ristabilire la forza dell'esercito. Perciò inizialmente solo un capo militare provvisto di imperium poteva realizzarla. In questo consiste la differenza della decimazione arcaica sacrale dalla procedura di punizione ai tempi di Polibio presieduta da un tribuno che riuniva in sé le funzioni di giudice ed esecutore. Vorrei notare che l'estrema severità delle punizioni all'epoca della Prima Repubblica (che ha motivato la loro fissazione negli annali della storia) attesta per quei tempi piuttosto la debolezza della disciplina militare propriamente detta e il fatto che il periodo di formulazione giuridica dei principi dei rapporti fra i militi e il capo militare, come parti o soggetti di diritto, non era che agli inizi, insieme alla genesi della civitas romana, nei giorni in cui i concetti di "cittadino" e "milite" pressoché coincidevano.

Le ragioni della sottomissione così completa dei militi al potere del capo militare nella Roma dei primi tempi consistono nel fatto che dal punto di vista giuridico il milite nell'esercito di campo era come se perdesse tutti i diritti civili cadendo sotto il potere del comandante–patrono. In quanto membro della comunità il cittadino si trovava sotto il riparo delle leggi, dell'assemblea popolare di cui era legittimo partecipante, nonché sotto la protezione del diritto consuetudinario e dei culti sacri. Ne è una testimonianza il diritto di provocazione. Ma partendo in una spedizione militare i romani varcavano la frontiera di Roma, il che significava la loro trasformazione da cittadini pii e rispettosi nei confronti della legge (come si supponevano di essere dentro il pomerio) in un bando di rapinatori, stupratori e assassini spietati[20]. E in questo senso la comunità civile quasi si astraeva dalle loro azioni, contrapponendosi nettamente all'organizzazione militare. E come anello di connessione fra di esse restava solo il magistrato provvisto di imperium[21].

Così, una volta dichiarata la guerra, si chiudevano i tribunali, si sospendeva l'attività delle assemblee popolari, nell'esercito stesso venivano proibite le riunioni di militi[22] e non vigeva più il diritto alla provocazione[23] né l'intercessione dei tribuni della plebe[24]. Perciò così spesso troviamo nella tradizione la comparazione del servizio militare con la schiavitù[25]. Non sarà stata questa la causa delle sommosse e ribellioni nell'esercito nei primi due secoli della Repubblica! Vi furono casi di passaggio all'avversario dei militi mandati nelle fortezze lontane e che non si associavano più con la comunità romana. E ciò fu una caratteristica tipica del periodo di formazione dello stato patrizio–plebeo romano quando non troviamo nelle fonti né la completa sottomissione né l'alta disciplina militare come comportamento cosciente e mediato dalle norme giuridiche dei militi e dei comandanti.

Anzi, nella Roma arcaica i militi non ubbidivano ai capi militari perché magistrati oppure comandanti, ma proprio in quanto persone provviste di imperium, cioè il diritto di realizzare la volontà degli dèi. In altre parole nel periodo arcaico la disciplina si fondava piuttosto sul terreno religioso anziché giuridico, sulla credenza nella protezione divina e nella loro – in un certo senso – direzione dell’esercito. Ma bisogna prendere in considerazione anche il fatto che i rapporti stessi con gli dèi assunsero per i romani il carattere di atti giuridici regolati da rigide procedure, innanzitutto gli auspicia. Furono proprio essi che si andarono trasformando gradualmente, con lo sviluppo delle strutture politiche e il cambiamento del carattere dell’esercito, in norme di diritto pubblico, perdendo poco a poco la loro base sacrale.

Allo stesso tempo la subordinazione dei militi al magistrato significava essenzialmente la loro sottomissione alle norme giuridiche della comunità. E anche questo contribuiva a mantenere la disciplina militare. In pratica gli obblighi dei militi davanti alla comunità e al magistrato si manifestavano nell’istituzione del giuramento. E’ stato proprio questo istituto a determinare nei tempi della formazione della civitas romana i principi e i metodi fondamentali del mantenimento della disciplina nelle forze armate e ad effettuare il legame spirituale (nelle società primitive prevalentemente religioso) dell’individuo armato con il collettivo civile traducendo in norme giuridiche sia le responsabilità del milite, sia i suoi diritti. Livio informa:

 

(nel 216) ... tum, quod numquam antea factum erat, iure iurando ab tribunis militum adacti milites; (3) nam ad eam diem nihil praeter sacramentum fuerat, iussu consulum conventuros neque iniussu abituros, et ubi ad decuriatum aut centuriatum convenissent, (4) sua voluntate ipsi inter sese decuriati equites, centuriati pedites coniurabant sese fugae atque formidinis ergo non abituros neque ex ordine recessuros nisi teli sumendi aut aptandi et aut hostis feriendi aut civis servandi causa. (5) Id ex voluntario inter ipsos foedere ad tribunos ac legitimam (sic!) iuris iurandi adactionem translatum[26].

 

Una formula analoga viene riportata anche da Frontino: durante la seconda guerra punica i «militi per la prima volta si obbligarono attraverso un giuramento»[27]. Facciamo notare che si può rintracciare una netta differenza fra il giuramento ufficiale (ius iurandum) e i sacramenta dei militi. Sia quello che questi erano obblighi assunti di ubbidire al capo. Ma mentre il primo era legato alle norme del diritto pubblico (ius) e regolava gli obblighi reciproci dei soldati e dello stato e per questa ragione venne prestato ai tribuni in quanto funzionari statali[28], il secondo (sacramentum), più antico per la sua origine, appellava alle norme sacrali e sottometteva i soldati all’ubbidienza degli ordini personali del capo[29]. Pare giustificata la supposizione che quest’ultimo fosse geneticamente legato alle leges sacratae adottate dopo la secessione della plebe nel 494[30].

La tradizione attesta che alla base del giuramento stava una legge (novmo") avente vigore per il periodo dell’imperium del magistrato[31]. Secondo i dati di Dionigi d’Alicarnasso ancora nel V secolo av. Cr. essa concedeva ai comandanti il diritto di condannare a morte senza giudizio a tutti quanti disubbidivano o abbandonavano le bandiere, cioè rappresentava l’essenza dell’imperium. L’antichissimo giuramento sacro[32] dunque rappresentava una promessa solenne di ubbidire all’imperium militare. Legava l’esercito e il suo comandante con i vincoli invisibili della volontà divina, con il timore della punizione da parte degli dèi che si rifletteva negli auspicia. Questo giuramento imponeva all’esercito la responsabilità per il mantenimento della dignità della civitas e per l’aumento della sua potenza. Con ciò assicurava nelle fasi iniziali l’osservazione della disciplina e l’ubbidienza dell’esercito composto da “non cittadini” alla volontà unica e gli interessi della comunità.

Con la formazione dello stato con i suoi istituti politico-giuridici nella Prima Repubblica questa ipostasi sacrale del giuramento fu completata con le formule di diritto che stabilivano il legame giuridico del milite con lo stato. L’evasione dal servizio militare oppure la violazione della disciplina militare comincia ad essere visto non solo come infrazione delle leggi supreme (fas), ma anche delle norme terrene (ius). Era già in un certo senso un tradimento alla comunità (perduellio)[33]. Perciò non soltanto venne punito in forza dell’imperium del magistrato, ma anche con le misure coercitive dello stato: multe, punizioni corporali, carcere.

Il capo militare aveva il diritto di condannare a morte qualsiasi milite per disubbidienza o codardia[34]. Proprio per questo la dichiarazione di guerra e l’attuazione della leva vennero spesso usate dal senato come uno strumento di pressione sui plebei e di distensione delle lotte interne. Per esempio nel 461 i tribuni chiamavano apertamente commedia la guerra con i volsci intrapresa dal senato: Bellum innoxis Antiatibus indici, geri cum plebe Romana, quam oneratam armis ex urbe praecipiti agmine acturi essent, exilio et relegatione civium ulcissentes tribunos. Da notare che il servizio militare si confronta con il giogo schiavista (Liv. III. 10. 12). Da qui il forte desiderio, segnalato nella tradizione, dei magistrati a far prestare giuramento il popolo quanto prima[35]. Livio ci tramanda i lamenti dei plebei per cui i senatori:

 

Passim iam sine ullo discrimine bella quaeri: ab Antio Satricum, ab Satrico Velitras, inde Tusculum legiones ductas. Latinis Hernicis Praenestinis iam intentari arma civium magis quam hostium odio, ut armis terant plebem, nec respirari in urbe aut per otium libertatis meminisse sinant aut consistere in contione, ubi aliquando audiant vocem tribuniciam de levando fenore et fine aliarum iniuriarum agentem[36].

 

Senza fidarsi troppo dell’osservanza dei voti sacri e del giuramento militare, i magistrati patrizi nel V–IV secolo ricorrono sempre più spesso alle misure violente di mantenimento della disciplina infliggendo multe agli obiettori, minacciando con punizioni corporali e prigione chi cercasse di evitare di essere arruolato[37]. Infatti, secondo Livio, nel 363 il dittatore Lucio Manlio Imperioso «aveva intenzione di fare guerra agli ernici agitando tutta la gioventù con una leva spietata»[38]. Non soltanto castigava i cittadini con delle multe ma anche con punizioni corporali: «chi non rispondeva all’appello veniva fustigato oppure portato in prigione» (Liv. 4. 2). Ma dopo la ribellione contro di lui di tutti i tribuni plebei Manlio dovette rinunciare alla dittatura e fu perfino chiamato in causa[39].

Ma nemmeno queste misure portavano al risultato desiderato. Un’analisi delle testimonianze concrete dimostra che i soldati in una spedizione militare mostravano tutt’altro che sottomissione servile. Nell’espressione di Livio:

 

Primum in dilectibus saevire solitos, eosdem in bello tamen paruisse ducibus, qualicumque urbis statu manente disciplina militari sisti potuisse; iam non parendi magistratibus morem in castra quoque Romanum militem sequi (si tratta del 480!)[40].

 

Così si sviluppò la disciplina militare lungo più secoli insieme alla genesi dello stato romano. Nelle fasi iniziali essa si presenta come un insieme di riti sacri, atti giuridici, rapporti politici e obblighi individuali. Tutti insieme, essi simboleggiavano l’affidamento dell’esercito in generale di ogni singolo milite alla protezione delle forze divine. Essi regolavano inoltre gli obblighi reciproci del collettivo civile, del magistrato comandante provvisto di imperium e dei soldati, gli uni davanti agli altri. Lungo molti secoli l’arbitro supremo erano gli dèi protettori dell’esercito. Perciò fino al III secolo alla base dell’influenza della civitas romana sull’organizzazione militare e sul mantenimento delle sue qualità combattive vi erano innanzitutto i culti religiosi e gli auspicia. E su tutti loro gravava la forza mistica dell’imperium del capo militare. Ma con la graduale separazione dell’organizzazione militare dalla cittadinanza e con la trasformazione dell’esercito in uno strumento dello stato, il fondamento sacrale della disciplina militare non era più sufficiente e cominciò a completarsi con un sistema di coercizione statale. In generale si può dire che già nella prima età repubblicana vengono gettate le basi del regolamento giuridico pubblico dei rapporti fra la civitas e le forze armate.

I fondamenti spirituali ed ideologici della comunità romana sin dall’epoca dei re erano costituiti dai concetti di pietas (pietà, religiosità), fides (buona fede) e virtus (virtù, prodezza). Risalenti alla profonda antichità del regime gentilizio e tribale e formulati nei tempi della comunità curiata dei patrizi, questi concetti si erano conservati nella Prima Repubblica quando a rivendicare le antiche virtù romane vi erano solo i patrizi in un antagonismo con i plebei che, seppure non meritarono simili caratteristiche negli storici romani posteriori, in realtà non attentavano contro questi fondamenti, cercando soltanto di associarvisi anche loro. Come risultato della lunga lotta tra i patrizi e i plebei i concetti di pietas, fides e soprattutto virtus che quasi abbracciava tutti gli aspetti menzionati e molti altri della mentalità furono adottati come norme basilari del comportamento sociale e politico dal nuovo strato di élite, la nobiltà, dopo che si fu affermato nel IV–III sec. lo stato patrizio-plebeo.

La formazione di un cittadino valido, cioè virtuoso e condividente tutti i valori tradizionali della comunità e dello stato, veniva considerata dai romani della Prima Repubblica come un importantissimo affare pubblico perché in esso si vedeva giustamente il fondamento dell’unità della società (nonostante le discordie interne), della sua prosperità e potenza. Perciò la società controllava con zelo sia l’educazione della gioventù sia l’osservazione da parte sua dei mores maiorum nel resto della vita.

L’iniziazione dei giovani romani ai mores si cominciava nella famiglia con il suo culto degli antenati e i sacra gentilizi. Vi contribuiva anche l’usanza di pronunciare – di solito da parte del figlio del defunto – dei discorsi funerari con un elenco dettagliato dei meriti del genitore, il che richiedeva una buona preparazione retorica, memoria e cultura. Il concetto di pietas includeva anche l’ubbidienza incondizionata dei giovani ai più vecchi a cominciare dalla famiglia dove il padre possedeva un potere assoluto sulla vita e la morte dei figli e fino agli affari statali dove la potestas del magistrato e l’imperium del capo militare gravavano sui cittadini e milites. Ricordiamo che il famoso consolare e trionfatore Spurio Cassio accusato nel 485 av. Cr. di aspirare al potere monarchico fu messo a morte, secondo una delle versioni, da suo padre (Liv. II. 41. 10), mentre nel 432 il dittatore Aulo Postumio, come si è già detto, ordinò di vergare e decapitare davanti alle file il proprio figlio vincitore di un combattimento intrapreso senza il permesso del dittatore[41].

Agli stessi fini serviva anche l’educazione pubblica diretta a formare nei giovani romani la fides (carattere onesto, buona fede) e non soltanto nei contratti e negli affari commerciali, ma anche nella vita quotidiana e in quella politica. Così, Catone il Vecchio insegnò egli stesso al proprio figlio la scrittura, le leggi, la ginnastica e il combattimento con la spada e la lancia (Plut., Cato. 20). Senza sapere scrivere e senza conoscere le leggi era impossibile la carriera politica[42]. Una pratica normale per i figli dei senatori era frequentare insieme ai padri le sedute del senato mentre contro Manlio Imperioso che teneva il proprio figlio in campagna, addetto ai lavori contadini, e non gli procurava educazione fu iniziata una causa giudiziaria[43].

Fra i doveri imprescindibili di un romano vi era il servizio militare che veniva associato ad una sua qualità imprescindibile, quella della virtù (virtus). Il servizio militare lo trasformava in cittadino e inseriva in un unico collettivo militare e politico, saldato dagli interessi comuni e dall’unità di pensiero su cui si fondava la potenza della comunità romana. Compiuti i 17 anni il giovane veniva iscritto negli elenchi militari e doveva servire per almeno dieci anni (tanto più se aspirava a occupare magistrature). Nei primi anni da questi giovani si formavano delle unità speciali che si esercitavano nei pressi di Roma in accampamenti speciali di allenamento, ma sub signis, cioè in qualità di esercito ausiliare[44]. Lì passavano attraverso una scuola di maestria militare, imparavano l’ubbidienza ai comandanti e l’osservazione delle procedure sacrali, innanzitutto gli auspicia che penetravano tutta l’attività dell’esercito, nonché prestavano giuramento ai capi militari che veniva poi rinnovato ad ogni leva. Non per caso Sallustio ricorda con nostalgia i tempi in cui «... la gioventù non appena diventava capace di sopportare le difficoltà della guerra fra gli sforzi e le fatiche imparava l’arte militare ...» (Sall., Cat. 7. 4).

Tutto il sistema di educazione, soprattutto fra i patrizi era volto a formare nel cittadino i sentimenti di amore verso la propria comunità, della necessità e onore di difenderne gli interessi e aumentarne la potenza. Ogni cittadino era obbligato a dedicare almeno dieci anni al servizio nell’esercito, il che era insieme un suo obbligo e diritto[45]. Secondo lo storico greco del II sec. av. Cr. Polibio a Roma «nessuno può occupare una carica dello stato prima di aver fatto dieci campagne di un anno» (Polyb. VI. 23). La morte nel campo di battaglia era un onore e un capo militare caduto meritava i funerali a spese dello stato. Ennio scrive con orgoglio:

 

Ut pro Romano populo prognariter armis

Certando prudens animam de corpore mitto (Enn. 201).

 

Già dal V secolo comincia a formarsi un sistema di premi per soldati e e comandanti distintisi: da una parte addizionale della preda fino alle corone d’onore. E la dimostrazione delle ferite nel petto dei candidati alle magistrature facilitava enormemente la loro elezione (il che comportò l’introduzione per loro dell’obbligatoria toga candida, cioè bianca, per nascondere le cicatrici[46]), e talvolta salvava i nobili accusati di gravi delitti dalla punizione meritata.

La storiografia romana, soprattutto della fine della Repubblica e dell’epoca di Augusto, usò attivamente gli esempi di atti brillanti e delle prodezze guerriere dei viri illustri nel campo di battaglia per la maggior gloria della comunità romana della prima età repubblicana[47], per elogiare i tradizionali valori della polis, far rinascere i severi mores maiorum ed educare i sentimenti civici di patriottismo e servizio alla patria. Basti ricordare le eroiche azioni di Orazio Cocles[48] e Mucio Scevola agli albori della repubblica, durante l’assedio di Roma da Porsenna, il coraggio dei trecento Fabi, caduti nella battaglia di Cremera contro gli etruschi nel 478[49], la virtù del dittatore Cincinnato che sconfisse gli equi nel 458 salvando le truppe consolari da essi assediate[50], le vittorie nei duelli di Cornelio Cosso contro il re di Veio Lars Tolumnio nel 437[51] e di Marco Valerio Corvo contro un capo dei galli nel 348[52], le clamorose vittorie di Marco Furio Camillo contro Veio e i falisci[53], la sconfitta da lui inflitta ai galli invasori nell’inizio del IV secolo av. Cr., le azioni di Decio Mus e Curio Dentato ecc.

Ma se passiamo dalle descrizioni eroicizzate delle prodezze belliche dei romani (a proposito, quasi esclusivamente patrizi) all’analisi delle informazioni concrete delle fonti antiche, il quadro sarà del tutto diverso. Verifichiamo che una parte considerevole dei romani all’epoca della Prima Repubblica, tutt’altro che sognare di morire per gli interessi della patria che li aveva creati e nutriti, assumeva un atteggiamento, secondo i nostri criteri d’oggi, assolutamente antipatriottico. E’ che se era vero il principio: ogni cittadino è milite, non meno lo era anche il principio contrario: ogni milite è automaticamente cittadino. A Roma sin dall’epoca di Servio Tullio (VI sec. av. Cr.) furono inclusi nell’esercito sia gli antichi cittadini romani, patrizi, sia i plebei, prima sprovvisti di diritti civili[54]. Com’è noto il loro posto nell’esercito non si determinava più dall’appartenenza all’organizzazione gentilizia delle curie, ma dal volume del patrimonio secondo il censo[55]. Ma diventando milites, i plebei nel sistema centuriato risultavano privi di una serie di diritti fondamentali: partecipazione alla pari dei patrizi alla distribuzione dell’ager publicus[56], l’accesso alle magistrature supreme e il diritto di compiere i sacra pubblici, innanzitutto gli auspicia senza cui era impossibile il comando militare (e civile) e la celebrazione di qualsiasi atto pubblico e privato.

Nella Prima Repubblica si creava, dunque, una situazione apparentemente paradossale. Il principale contingente militare e di leva passò gradualmente ad essere costituito dai plebei, ma essi non ottenevano i principali vantaggi dal servizio militare: l’uguaglianza dei diritti civili e la partecipazione uguale nella spartizione del bottino (di cui la parte più importante era costituita dalla terra); infatti, l’ager publicus e la gran parte della preda restante che entrava nel fisco statale (aerarium) erano amministrati dal senato patrizio[57], mentre il comando dell’esercito e le magistrature venivano affidati soltanto alle persone aventi diritto agli auspicia e possedenti il simbolo magico del supremo potere sacro: l’imperium che si concedeva con una lex curiata de imperio[58] adottata dai patrizi.

Questa situazione condizionò la forte divisione della società romana e della sua organizzazione militare generando da un lato il fenomeno dello “sfruttamento militare” dei plebei come ceto sociale[59] e dall’altro una lotta tenace ed accanita dei plebei per l’uguaglianza di diritti nella civitas e nell’esercito con i patrizi. E fu proprio la milizia della comunità a diventare l’arena e lo strumento di questa lotta, perché la partecipazione ad essa giustificava le pretese dei plebei. Non è casuale che le fonti ci diano tanti dettagli pittoreschi delle discordie fra i ceti e tanti discorsi retorici dei rappresentanti dell’una e dell’altra parte in cui gli argomenti dei partigiani dell’uguaglianza dei plebei sembrano (anche contrariamente alla volontà degli storici patrizi) logici e perfetti dal punto di vista sia giuridico, sia morale.

Per esempio alla vigilia della prima secessione della plebe nel 495 i plebei soggetti alla leva si rifiutarono di iscriversi nell’esercito allegando che la guerra era stata iniziata negli interessi dei patrizi i quali tra l’altro si negavano a risolvere il problema del gravame dei debiti[60]. Scrive Livio:

 

Dimisso senatu consules in tribunal escendunt; citant nominatim iuniores. Cum ad nomen nemo responderet, circumfusa multitudo in contionis modum negare ultra decipi plebem posse, numquam unum militem habituros, ni praestaretur fides publica; libertatem unicuique prius reddendam esse quam arma danda, ut pro patria civibusque, non pro dominis pugnent. Consules, quid mandatum esset a senatu, videbant; sed eorum, qui intra parietes curiae ferociter loquerentur, neminem adesse invidiae suae participem. Et apparebat, atrox cum plebe certamen[61].

 

Come vediamo, i plebei non si negavano a combattere in principio, ma erano pronti a farlo per gli interessi comuni anziché quelli del senato patrizio. In questo senso la loro posizione era più patriottica e civica. La resistenza dei plebei giunse a tal grado che essi impedivano per forza ai littori di prendere le reclute, e allora i senatori, avendo capito che «la lotta contro i plebei doveva essere dura», preferirono nominare un dittatore munito di potere assoluto.

I capi militare, per effettuare la leva e mantenere l’ubbidienza dell’esercito (soprattutto nei momenti di aggravamento delle contraddizioni) dovettero ricorrere alle concessioni ai plebei. Infatti, alla vigilia della prima secessione, il console e il dittatore fecero una solenne promessa a nome del senato di perdonare i debiti a quanti si arruolavano nell’esercito e non arrestare né schiavizzare durante la campagna nessuno dei militari e i loro familiari[62]. Dopo la sommossa campana fu adottata la lex sacrata che proibiva di cancellare il nome del milite dalle liste di censo (dunque schiavizzarlo) senza il suo consenso[63].

Nell’accampamento i milites discutono attivamente (e spesso criticano) le azioni dei capi. E il principale motivo dell’atteggiamento nei confronti del capo diventa il suo modo di spartire la preda. Nella Prima Repubblica non esisteva una regola stabilita a questo proposito quindi la questione della preda si lasciava alla discrezione del capo militare. Egli poteva distribuirla fra i soldati (o permettere loro di saccheggiare per conto proprio) oppure consegnarla interamente all’erario di cui disponeva il senato, oppure venderla all’asta. Nell’ultimo caso i soldati dovevano ricomprare le cose già acquistate con le armi, mentre la parte da leone andava a finire nelle mani dei patrizi che non avevano nemmeno partecipato alla campagna.

Nel primo dei casi i soldati avevano un atteggiamento benevolo verso il capo e ubbidivano volentieri. Persino il severo dittatore Cincinnato, avversario dei diritti uguali per i plebei, meritò una corona d’oro dai milites per aver dato, dopo la sconfitta degli Equi nel 458, tutta la preda ai soldati (Liv. III. 29. 1), e nel 357 il console Caio Marzio militem praeda inplevit. Secondo quanto informa Livio, ad copiam rerum addidit munificentiam, quod nihil in publicum secernendo augenti rem privatum militi favit[64], con cui si attirò la loro benevolenza e sollevò lo spirito combattivo. Ma la privazione della legittima preda (ricordiamo che spesso era il maggior motivo per la partecipazione dei plebei nelle spedizioni e l’unico mezzo di sostentamento dell’economia di molti perché non ricevevano le terre dell’ager publicus) provocava la loro ira. Ne fu vittima nel 485 il console Quinto Fabio che vendette il bottino consegnando tutti i soldi all’erario (Liv. II. 42. 13). Di conseguenza, presto l’esercito si rifiutò di combattere contro gli Equi e in ipso certamine consensu exercitus traditam ultro victoriam victis Aequis, signa deserta, imperatorem in acie relictum, iniussu in castra reditum[65].

Nel caso di mancata approvazione del comportamento del capo militare, innanzitutto nei confronti degli stessi soldati, essi organizzano riunioni. Ne apporteremo un esempio caratteristico: nel 471 il capo degli aristocratici e nemico dei plebei Appio Claudio, eletto console, fu mandato in una spedizione contro i volsci. Secondo quanto narra Livio:

 

Eadem in militia saevitia Appi quae domi esse, liberior, quod sine tribuniciis vinculis erat. Odisse plebem plus quam paterno odio ... (6) haec ira indignatioque ferocem animum ad vexandum saevo imperio exercitum stimulabat. Nec ulla vi domari poterat: tantum certamen animis inbiberant. Segniter otiose, neglegenter contumaciter omnia agere. Nec pudor nec metus coercebat. Si citius agi vellet agmen, tardius sedulo incedere; si adhortator operis adesset, omnes sua sponte motam remittere industriam; (8) praesenti vultus demittere, tacite praetereuntem exseclari, ut invictus ille odio plebeio animus interdum moveretur. (9) Omni nequiquam acerbitate prompta nihil iam cum militibus agere, a centurionibus corruptum exercitum dicere, tribunos plebei cavillans interdum et Volerones vocare[66].

 

Non è difficile vedere che i soldati fecero contro Appio una specie di “sciopero italiano” che consistette poi in una vera e propria fuga dal campo di battaglia.

Analogamente raffigura Livio anche l’uccisione del tribuno consolare Marco Postumio Regillo nel 414. Egli provocò l’odio avendo promesso ai militari la preda durante l’assalto della città di Bola (a proposito, un esempio di stimolazione involontaria dello spirito combattivo), promessa che dopo la vittoria non mantenne, anzi, minacciò i militi con punizioni qualora non si calmassero (Liv. IV.49.911). Questo modo di trattare i soldati “da schiavi” causò una sommossa nell’esercito. Postumio invece, secondo Livio, ... ad hunc tumultum accitus ... asperiora omnia fecit acerbis quaestionibus, crudelibus supplicius ordinando di punire gli iniziatori con la lapidazione. In risposta i sassi furono tirati contro il generale stesso di modo che fu ucciso dai propri soldati, di cui furono poi pochi a pagare per questo: tanto era forte il timore del senato davanti alle truppe indignate[67].

Come si vede, l’esercito è molto lontano da rimanere una massa passiva, ubbidiente a tutti gli ordini dei comandanti e indifferente ai propri interessi. Come si è già detto, erano frequenti i casi di rinuncia diretta dei soldati ad entrare nel combattimento se consideravano la guerra inutile per loro oppure odiavano il loro generale[68]. Si arrivò perfino a situazioni in cui, come per esempio nel 449 i soldati, non volendo combattere sotto il comando dei secondi decemviri, subivano sconfitte, macchiando l’onore proprio e quello dei capi militari (furono dispersi dai sabini e dagli equi) (Liv. III. 42. 15). Con ciò i plebei si mostravano pronti a rischiare la vita nella fuga oppure una punizione da parte del comandante (Dionys. IX. 34), piuttosto che perdere la vita per gli interessi dei patrizi e del senato.

Per mantenere la disciplina i comandanti non soltanto dovettero ricorrere alle promesse di spartizione della preda oppure di distribuzioni speciali, nonché della soddisfazione delle loro rivendicazioni politiche dopo la campagna (soprattutto la soluzione del problema agrario e dei debiti) ma anche a usare dei metodi “non tradizionali” per animare lo spirito combattivo. Per esempio nel 431 il console Marco Geganio durante l’assalto dell’accampamento nemico gettò persino la bandiera dietro il terrapieno perché i soldati vi si lanciassero con più impeto (Liv. IV. 29.3), e il famoso Marco Furio Camillo nel 387 ordinò anch’egli di gettare la bandiera nella folla degli anziati perché gli antesignani si precipitassero a riconquistarla (Liv. VI. 8. 3). Le bandiere o insegne militari avevano infatti la qualità di simboli sacri degli dèi e la loro perdita si considerava come una grandissima vergogna che poteva attirare sulle truppe l’ira della divinità. Ma in questa maniera ci troviamo di fronte ad un sistema di norme e di tabù sacri anziché all’ubbidienza all’ordine militare. Tutto ciò sta a confutare l’opinione della rigida disciplina caratteristica per l’organizzazione militare della Prima Repubblica.

Ma sarebbe un errore supporre che i militari plebei non si curassero affatto del bene dello stato e venissero guidati soltanto dagli interessi bassi e materiali, anche se questa è un’immagine che la storiografia patrizia cerca di imporre in sordina. Come si è già detto, erano proprio i plebei a lottare per gli interessi di tutta la civitas nel senso più completo, contro la politica interessata e strettamente classista del senato. La tradizione contiene molti esempi di attività militare dei plebei che si arruolavano con entusiasmo nell’esercito (perfino fuori dei turni, volontariamente) se Roma correva un pericolo reale, oppure se la guerra era utile a tutti i gruppi sociali (Liv. III. 69. 13). Erano soprattutto propensi a mostrare eroismo nel caso del compimento da parte dei patrizi delle giuste rivendicazioni agrarie e debitorie dei plebei. Spesso influiva sul loro ardore guerriero l’autorità morale di qualche generale, benevolo nei confronti della plebe. I plebei, infatti, erano talmente grati al dittatore Manio Valerio per i suoi tentativi disperati di compiere la promessa della cancellazione dei debiti che nel 494, nonostante il loro fiasco, gli organizzarono un’ovazione di ringraziamento come se l’avesse potuta mantenere[69].

Inoltre, non appena i plebei ebbero ottenuto i diritti desiderati (compreso il diritto di farsi eleggere consoli) si mostrarono subito veri seguaci della supremazia di Roma e diedero moltissime prove di servizio alla patria. Per esempio nel 356 av. Cr. il primo dittatore plebeo Caio Marzio Rutulo nonostante la resistenza dei patrizi ai suoi preparativi, organizzò facilmente un grande esercito in cui si arruolavano volentieri i plebei che appoggiavano tutti i preparativi del dittatore, vinse presto l’avversario e sine auctoritate patrum populi iussu triumphavit (Liv. VII. 17. 79). Ricordiamo anche le prodezze dei consoli plebei Curio Dentato[70] e Decio Mus (Liv. VIII. 9).

Non sono rare nella tradizione le notizie dell’odio dei soldati verso il capo militare per il beneficio perduto[71], delle rivendicazioni di non tirare la guerra per le lunghe (Liv. V. 10. 7) o di cominciare un combattimento[72]. Nel 480 il console Quinto Fabio se ne stava nell’accampamento di fronte alle burle dei nemici, ciò indignò talmente i milites che essi si affollarono davanti alla tenda del console chiedendo una battaglia e letteralmente esigendo che fosse dato il segnale per il combattimento (Liv. II. 45. 6). Ma i consoli per il timore della sommossa indugiano, allora i soldati si sfrenano del tutto. Allora, secondo Livio, ... totius castris undique ad consules curritur. Non iam sensim, ut ante, per centurionum principes postulant, sed passim omnes clamoribus agunt[73]. In altre parole ha luogo una grave violazione della subordinazione. E’ caratteristica la replica messa da Livio in bocca a Fabio che propose all’esercito di prestare un giuramento solenne: Consulem Romanum miles semel in acie fefellit, deos numquam fallet. E solo quando i soldati insieme al centurione Marco Flavoleio ebbero giurato in nome di Giove padre, Marte Gradivo e altri dèi di non retrocedere, si diede il segnale per il combattimento[74]. Questo passo rivela nettamente che i rapporti fra i milites e il capo militare nella Roma dei primi tempi non si costruivano sulla base delle norme giuridiche dello stato, ma invece sulla base dei tabù religiosi fissati nell’imperium del capo militare.

Anzi, nonostante l’impetuosa genesi dello stato nella seconda metà del V–IV sec. av. Cr. l’esercito continua a mostrare la propria iniziativa. Quando il dittatore Caio Sulpicio nominato nel 358 per combattere i galli tirava per le lunghe la guerra, temendo di essere sconfitto dalle forze superiori dell’avversario, i soldati scontenti prima lo criticarono fra di loro nelle pattuglie e nei posti di guardia, poi cominciarono a minacciare apertamente di iniziare il combattimento per conto proprio, oppure di muoversi verso Roma. «E non soltanto in piccoli circoli tumultuavano, ma nelle vie principali dell’accampamento e nel pretorio le voci si univano in un rumore e la folla era già grande come in una adunata ... »[75]. Viene inviato dal dittatore il rappresentante dei soldati, il centurione Sesto Tullio, primipilo per la settima volta, che espone al capo-imperatore tutta una serie di rimproveri per la mancanza di volontà, per la sfiducia nei confronti dei soldati e perfino per la cospirazione senatoriale di tenere i milites lontani dall’Urbe. Tullio getta in faccia al dittatore parole impensabili in un regolare esercito di uno stato:

 

Milites nos esse, non servos vestros, ad bellum, non in exilium missos. Si quis det signum, in aciem educat, ut viris ac Romanis dignum sit, pugnaturos; si nihil armis opus sit, otium Romae potius quam in castris acturos[76].

 

Come vediamo, nella Prima Repubblica l’esercito si comportava nei confronti del comandante in maniera assai indipendente ed era perfettamente cosciente dei propri interessi e dei limiti dell’ubbidienza. Le cause di questa situazione così strana a prima vista si nascondono in due circostanze. Da un lato, i militari non ubbidivano tanto il comandante come persona o magistrato quanto piuttosto il suo imperium sacro, cioè la volontà degli dèi e appunto erano essi a guidare l’esercito, essendo il comandante soltanto il mezzo per la trasmissione della loro volontà (di qua l’enorme importanza degli auspicia)[77]. Dunque, se il capo militare comandava male e ciò portava ad eccessive perdite di vite e della preda – questo scopo così ambito delle guerre di allora –, significava che egli aveva interpretato scorrettamente e aveva violato la volontà degli dèi e perciò non solo meritava rimproveri, ma anche una punizione giudiziaria. Per questo nella prima età repubblicana troviamo tutta una serie di menzioni dei processi giudiziari contro gli ex-consoli accusati appunto di cattivo comando. Dall’altro lato, la divisione interna della comunità romana, quando il comandante apparteneva ai patrizi e la maggioranza dell’esercito ai plebei, portava alla necessità di concludere ogni volta una specie di contratto fra loro sull’ordine dei rapporti che trovava la sua espressione nell’istituto del giuramento[78]. Una delle sue norme non scritte era quella dell’obbligo reciproco: i militari dovevano ubbidire al capo, quest’ultimo doveva garantire la fine fortunata della guerra e il guadagno dei soldati in forma di preda. Perciò la negligenza del capo militare nell’osservare queste condizioni portava alla dura reazione dei soldati.

Il ruolo politico dell’esercito trova la sua manifestazione suprema negli eventi noti delle due secessioni della plebe cominciate appunto come ribellioni dell’esercito plebeo in reazione al mancato compimento delle promesse del senato patrizio. La causa della prima secessione (494 av. Cr.) fu il rifiuto del senato a cancellare i debiti dei plebei in cambio della loro partecipazione alle campagne militari[79]. E la situazione che si era creata era davvero tragica. Come conseguenza di una serie quasi ininterrotta di campagne, l’economia familiare di molti plebei andava in rovina per l’assenza dei padroni (i plebei, a differenza dei patrizi, non avevano terre gentilizie né eserciti di clienti, mentre la schiavitù non era ancora molto sviluppata[80]), e per la devastazione delle loro parcelle ad opera dei nemici[81]. Per sopportare il tributum[82] e altri obblighi pubblici i plebei (anche di un livello medio di benessere Plut., Marc. 5) dovevano contrarre debiti (innanzitutto con i padri senatori) a interessi pazzi. Il mancato pagamento del debito portava alla perdita della proprietà ma anche della libertà dei suoi figli dello stesso debitore. Diventato schiavo, il plebeo perdeva persino quei pochi diritti civili che prima aveva avuto[83]. In pratica non vi era speranza di liberazione neanche dopo la compensazione del debito con il lavoro[84], tanto più che il debitore poteva perfettamente essere venduto “oltre il Tevere” (XII tab. III. 5). Si creava una situazione straordinaria: il plebeo rischiava la vita nell’esercito conquistando per Roma potenza e ricchezze, di cui godevano i patrizi, mentre egli, una volta ritornato si trovava in gogna e manette, lavorando duramente sotto la frusta del sorvegliante[85]. Il famoso episodio del 495, secondo cui nel Foro scese un centurione, che aveva trascorso vent’anni nelle campagne militari, ma aveva perso la terra e la libertà ed era stato fustigato dal creditore, sembra essere tutt’altro che un passo moraleggiante degli storici posteriori[86].

La secessione plebea è ben nota alla scienza, a noi invece ci interessa piuttosto quella sensazione dell’esistenza di due comunità separate a Roma che si crea quando si leggono le notizie della tradizione romana, ed ancora della estrema acutezza delle contraddizioni fra i patrizi governanti e i plebei sfruttati (sia nel senso economico che militare). Non a caso Dionigi mette in bocca a Manio Valerio le parole sulle due comunità: nell’una, quella patrizia, regna la tirannide e la superbia, nell’altra l’umiliazione e la miseria[87]. E i leader dei plebei in secessione durante le trattative con gli ambasciatori del senato parlano dei servizi offertigli dalla plebe nelle numerose guerre come se si trattasse dei rapporti di alleati e non di un’unica civitas.

Anche nella seconda secessione la causa non era tanto la tirannide dei secondi decemviri, quanto piuttosto l’usurpazione del potere da parte del senato dopo che essi furono praticamente allontanati, e la resistenza a ristabilire i poteri dei tribuni e il diritto di provocazione, il che perpetuava la situazione in cui i plebei erano privi di diritti[88]. In ambedue i casi l’esercito plebeo formando delle file si allontanò in forma dimostrativa da Roma attirando con sè il resto della plebe, e nel Monte Sacro elesse i propri comandanti[89].

Ma l’esempio più eloquente dell’autonomia e attività politica dell’esercito fu mostrato già verso la fine della lotta fra i patrizi e i plebei nel 342 av. Cr. durante la cosiddetta sommossa campana. Nella guerra con i sanniti nel 342 av. Cr. i soldati, una volta finita la campagna contro i falisci e i sanniti, furono lasciati svernare negli accampamenti in Campania il che provocò il loro disagio. A Roma nel frattempo si aggravò di nuovo il problema degli usurai e dei debiti[90], in cui si erano impegolati molti plebei[91]. Fu proprio questa la causa della sommossa. In tantissime adunate segrete i milites esigevano o di tornare a casa, o di conquistare ricche città campane stabilendovi colonie romane. Il console Caio Marzio Rutulo cercò di allontanare i promotori dall’accampamento sotto diversi pretesti e incarichi da lui escogitati e calmare gli animi con la diffusione delle notizie sull’alloggio nelle città della Campania[92]. L’esercito indignato si mosse nella sua totalità verso Roma e solo la persuasione di Marco Valerio Corvo riuscì a calmare il conflitto pronto a esplodere.

Si sono, però, conservate anche le notizie che si giunse a uno scontro aperto fra le truppe fedeli al senato e i ribelli presso la porta di Roma e che solo allora, trovandosi faccia a faccia, i vicini e parenti si sono abbracciati in lacrime (VII. 42. 3‑6). La sommossa campana ebbe conseguenze durature. Essa dimostrò l’alto grado di tensione dei rapporti interni a Roma: per la prima volta l’esercito aveva alzato le armi contro la patria in difesa dei propri diritti. Ristabilita la pace, l’assemblea popolare approvò una riduzione del salario dei cavalieri, già assai benestanti (prima avevano ricevuto tre volte più di un soldato di fanteria) (Liv. VII. 41. 38). Inoltre fu proibito di occupare la stessa carica più spesso di ogni dieci anni. Alcuni autori informano che fu proprio allora che il tribuno della plebe Lucio Genucio propose la legge che proiva l’usura (VII. 42. 12). Livio dice che se tutte queste concessioni furono davvero fatte alla plebe, vuol dire che «le loro forze evidentemente erano grandi» (VII. 42. 2).

Dunque, la breve rassegna, da noi fatta, delle notizie della tradizione romana permette di procedere alla conclusione che lo sviluppo dell’organizzazione militare romana nell’età della Prima Repubblica era strettamente condizionato dalle peripezie della lotta sociale nella comunità romana[93]. Essendo una milizia di cittadini, l’esercito romano diventò il focolaio dei conflitti sociali, il che esercitò un’influenza determinante sulla psicologia sociale dei cittadini soggetti alla leva, innanzitutto plebei. Senza negare la grande importanza degli aspetti religiosi e morali del comportamento dei militari plebei bisogna sottolineare la coscienza dei propri diritti e doveri. La lesione arrecata ai primi spingeva i plebei a elaborare un codice autonomo di rapporti con il comando supremo e l’insistenza nel far rispettare i propri diritti civili e interessi militari. Dall’altra parte la crescente convinzione dell’importanza del proprio ruolo nel consolidare la potenza e la prosperità romana aumentavano il grado di maturità psicologica dei plebei nell’arena politica. Non soltanto l’aspirazione alla preda, ma anche il desiderio di inserirsi più completamente nella struttura sociopolitica della civitas romana, per diventare partecipi di pieno diritto della formazione dell’unico collettivo civile, spingeva i plebei a entrare nelle forze armate. Spesso la loro posizione (soggetta a gravi distorsioni nell’interpretazione delle fonti) era quella che rispondeva di più e meglio agli interessi profondi della comunità romana e lasciò una forte impronta nel corso dei processi della genesi dello stato patrizio e plebeo.

 

 

 



 

[1] D. 49.16.3.15. Mod. 4 De poen.

 

[2] Si veda, per esempio: N. A. Maškin, Istorija drevnego Rima (Storia di Roma Antica), М. 1947, 131; M. Nillson, The Introduction of the Hoplite Tactics in Rome, in JRS 19, 1929, 4 ss.; A. Toynbee, Hannibal’s Legasy, Vol. 1, L. 1965, 509.

 

[3] Si veda: Liv. IV. 29. 56; si confronti Diod. XII. 64. 3; Val. Max. II. 7.6; Gell. XVI. 21. 7. Notiamo che Livio si rifiuta perfino di credere a questa notizia ricordando l’esistenza di altre opinioni che confutano questa severità (Liv. IV. 29. 6).

 

[4] Liv. VIII. 7. 13-22; Aur. Vict. XX. VIII. 4; Val. Max. V. 4. 3; Cic., De off. III. 112; Sall., Cat. 52. 30; Frontin. IV. I. 39.

 

[5] Liv. VIII. 7. 1517.

 

[6] Liv. VIII. 7. 19.

 

[7] Liv. VIII. 8. 1: Fecit tamen atrocitas poenae oboedientiorem duci militem, et praeterquam quod custodiae vigiliaeque et ordo stationum intentioris ubique curae erant, in ultimo etiam certamine, cum descensum in aciem est, ea severitas profuit. Ma da questo passo si può concludere che prima della repressone l’esercito non usava molta fatica e molto zelo nel compiere le funzioni praticamente di routine. E’ dunque difficile parlare degli obblighi che avessero una netta definizione giuridica di ciò che oggi chiamiamo regolamento.

 

[8] Si veda: Je. А. Skripiliov, K postanovke problemy vojennogo prava Drevnego Rima (Per l’imposizione del problema del diritto militare dell’Antica Roma), in Trudy Vojenno-juridičeskoj Akademii Sovietskoj Armii, Т. 10, М. 1949, 178 ss.

 

[9] Liv. VIII. 3035; Aur. Vict. XXX. 13.

 

[10] Liv. VIII. 32. 3.

 

[11] Questa tesi è chiaramente formulata da Livio nel discorso di Postumio. Si veda: Liv. VIII. 32. 4: cum me incertis auspiciis profectum ab domo scirem, utrum mihi turbatis religionibus res publica in discrimrn commitenda fuerit, an auspicia repetenda, ne quid dubiis dis agerem? ...(7) Quo tu imperio meo spreto, incertis auspiciis, turbatis religionibus adversus morem militarem disciplinamque maiorum et numen deorum ausus es cum hoste confligere. Come vediamo, il primo posto nella disciplina militare è occupato indubbiamente dall’imperium, seguito dagli auspicia e tutto quanto è basato sulla solida base sacrale dei mores maiorum.

 

[12] Liv. VIII. 34. 7. Indubbiamente in questo passo retorico trovano riflesso anche le idee dei tempi di Livio a proposito dell’ideale della disciplina militare, il che non le rende meno applicabili per la Roma arcaica con i mores maiorum idealizzati di cui tanto si faceva sentire la mancanza nei tempi perversi della Tarda Repubblica.

 

[13] Si veda la predica moraleggiante di Cicerone: Cic., De leg. III. 3. 9: «I portatori di imperium, i portatori della potestas e i legati – dopo l’ordine del senato e il mandato del popolo – abbandonino l’Urbe, facendo in maniera giusta le guerre giuste, proteggendo gli alleati, praticando la temperanza loro stessi e temperando quanti sono con loro; aumentino la gloria del popolo e tornino a casa con onore. (10) Tutti i magistrati possiedano il diritto di auspicia e il potere giudiziario e costituiscano il senato». Si veda con più dettagli: V. N. Tokmakov, Sakral’nyje aspekty voinskoj discipliny v Rime Rannej Respubliki (Aspetti sacrali della disciplina militare nella Roma della Prima Repubblica), in Vestnik Drevnej Istorii 2, 1997, 47-48. Si veda anche: J. Bleicken, Die Verfassung der romischen Republik: Grundlagen und Entwicklung, Paderborn 1975, 80.

 

[14] Cic., De leg. III. 3. 6. 8; Liv. II. 18. 8; cfr. D. I. 2. 18.

 

[15] D. 49.16.3.4. Mod. 4 De poen.

 

[16] D 49.16.3.16. Mod. 4 De poen. Cfr.: Ibid. 3. 5: Qui stationis minus relinquit, plus quam emansor est: Itaque pro modo delicti aut castigatur aut gradu militiae deicitur.

 

[17] Liv. V. 6. 14.

 

[18] Polyb. VI. 37. 2-4: kaqivsantoõ de; paracrh'ma sunedrivou tw'n ciliavrcwn krivnetai, ka]n katadikasqh', xulokopei'tai. to; de; th'õ xulokopivaõ ejsti; toiou'ton, labw;n xuvlon oJ cilivarcoõ touvtw tou' katakriqevntoõ oi|on h{yato movnon, ou\ genomevnou pavnteõ oiJ tou' stratopevdou tuvptonteõ toi'õ xuvloiõ kai; toi'õ livqoiõ tou;õ me;n pleivstouõ ejn aujth' th' stratopedeivv katabavllousi, toi'õ dejkpes(ei'n dun)amevnoiõ oujdw}õ uJpavrcei swthriva pw'õ gavrÉ oi|õ ou[tÆ eijõ th;n patrivda th;n eJautw'n ejpanelqei'n e[xestin ou[te tw'n ajnagkaivwn oujdei;õ a[n oijkiva tolmhvseie devxasqai to;n toiou'ton.

 

[19] Liv. II. 59. 911; Dionys. IX. 50. 6.

 

[20] Si veda: G. S. Knabe, Istoričeskoje prostranstvo i istoričeskoje vremia v kul’ture Drevnego Rima (Lo spazio storico e il tempo storico nella cultura della Roma Antica), in Kul’tura Drevnego Rima, Т. 2, М. 1985, 111.

 

[21] Si veda la versione stoica in Cicerone: Cic., De leg. III. 1. 2: «... niente corrisponde di più al diritto e all’ordine naturale (dicendolo voglio che si intenda la legge) che l’imperium senza di cui non possono reggersi né la casa, né la comunità civile, né il popolo, né l’umanità in generale, né la natura tutta, né tutto l’universo. Perché anche l’universo ubbidisce la divinità, le ubbidiscono i mari, la terra, e la vita degli uomini ubbidisce ai mandati della legge divina (fas)».

 

[22] Non a caso dopo la celebrazione dell’assemblea tributa nel 357 nell’accampamento presso Sutri fu adottata una legge sacra che proibiva simili assemblee nel futuro perché i militi avendo fatto giuramento al console possono votare per qualsiasi cosa perfino nociva per il popolo. (Liv. VII. 16. 7-8). Si veda anche: Liv. II. 28. 5: (anno 495) Per calmare i tumulti dei plebei provocati dall’aggravamento del problema dei debiti, ... decernernunt, ut dilectum quam acerrimum habeant: otio lascivire plebem.

 

[23] Si veda: Cic., De leg. III. 6: Militiae ab eo qui imperabit provocatio nec esto, quodque is qui bellum geret imperassit, ius ratumque esto. Si confronti.: Liv. III. 20. 7: omnis id iussuros quod consules vellent, neque enim provocationem esse longius ab urbe mille passuum, et tribunos, si eo veniant, in alia turba Quiritium subiectos fore consulari imperio.

 

[24] Si veda: Liv. III. 20. 7: Omnis id iussuros quod consules vellent, neque enim provocationem esse longius ab urbe mille passuum, et tribunos, si eo veniant, in alia turba Quiritium subiectos fore consulari imperio.

 

[25] Liv. II. 23. 2; III. 10. 12; V. 2. 4-12.

 

[26] Liv. XXII. 38. 2.

 

[27] Si veda: Frontin. IV. 1. 4: L. Paulo et C. Varrone consulibus milites primo iure iurando adacti sunt: antea enim sacramento tantummodo a tribunis rogabantur, ceterum ipsi inter se coniurabant se fugae atque formidinis causa non abituros neque ex ordine recessuros nisi teli petendi feriendive hostis aut civis servandi causa.

 

[28] Cfr.: Gell. XVI. 4. 2: Item in libro eiusdem Cincii de re militari quinto ita scriptum est: “Cum dilectus antiquitus fieret et milites scriberentur, iusiurandum eos tribunus militaris adigebat ... (4) Militibus autem scriptis dies praefinibatur, quo die adessent et citanti consuli responderent; deinde concipiebatur iusiurandum, ut adessent, his additis exceptionibus ... Cincio citato da Gellio riduce il contenuto del giuramento (troppo lungo per citarlo per intero) alle promesse di conservare le armi, di recarsi il giorno indicato dai consoli per la rassegna e ubbidire agli ordini dei comandanti, astenendosi dagli atti di mala fede (dolo malo), il nuovo ci fa tornare alle norme del diritto stavolta pubblico e privato.

 

[29] Liv. II. 32. 1-2; III. 20. 3-4; IV. 5. 2; 30. 14; 53. 8; VI. 32. 4; 38. 8; VII. 11. 5; X. 21. 4; Dionys. VI. 23. 2; VIII. 88. 1; IX. 44. 6; X. 16. 1; 18. 2; XI. 43. 2; 44. 5.

 

[30] Cic., De leg. II. 22; Tull. 48; cfr. Dionys. VI. 89. 3; VIII. 88. 1.

 

[31] Dionys. XI. 43. 2: o{ te ga;r o{rko" oJ stratiwtikov", o}n aJpavntwn mavlista ejmpedou'si JRwmai'oi, toi'" strathgoi'" ajkolouqei'n keleuvei tou;" strateuomevnou" o{poi pota[n a[gwsin, o{ te novmo" ajpoktei'nein e[dwke toi'" hJgemovsin ejxousivan tou;" ajpeiqou'nta" h] ta; shmei'a katalipovnta" ajkrivtw". Cfr. anche: Dionys. X. 18. 2.; 43. 2.

 

[32] Ciò si riflette anche nel suo nome: sacramentum (Liv. II. 32. 1-2; III. 20. 34; IV. 5. 2; 30. 14; 53. 8; VI. 32. 4; 38. 8; VII. 11. 5; X. 3. 4) e o{rko" (Dionys. VI. 23. 2; VIII. 88. 1; IX. 44. 6; X. 16. 1; 18. 2; XI. 43. 2; 44. 5.

 

[33] Si veda, per esempio: D 49. 16. 4. 10. Men. 1 De re mil.: Gravius autem delictum est detrectare minus militiae quam adpetere: nam et qui ad dilectum olim non respondebant, ut proditores libertatis in servitutem redigebantur. Sed mutato statu militiae recessum a capitis poena est, quia plerumque voluntario milite numeri supplentur.

 

[34] Liv. II. 18. 8; III. 20. 8.

 

[35] Liv. IV. 43. 7; 53. 4-8; VI. 38. 8.

 

[36] Liv. VI. 27. 7.

 

[37] Liv. III. 27. 4-5; 63. 6-7; IV. 26. 11; VII. 4.2; VIII. 20. 3; Dionys. IX. 87. 5; XI. 3. 4.

 

[38] Liv. VII. 3. 9: Qua de causa creatus L. Manlius, perinde ac rei gerendae ac non solvendae religionis gratia creatus esset (i.e. clavi figendi causa iussit. VII. 3. 3), bellum Hernicum adfectans dilectu acerbo iuventutem agitavit; tandemque omnibus in eum tribunis plebis coortis, seu ni seu verecundia victus, dictatura abiit. Notiamo che una delle cause dello scontento nei confronti del dittatore era la violazione dei limiti della propria competenza.

 

[39] Liv. VII. 4. 1-3: Neque eo minus principio insequentis annis Q. Servilio Ahala L. Genucio consilibus dies Manlio dicitur a M. Pomponio tribuno plebis. Acerbitas in dilectu, non damno modo civium sed etiam laceratione corporum cumulata, partim virgis caesis, qui ad nomina non respondissent, partim in vincula ductis, invisa erat, et ante omnia invisum ipsum ingenium atrox cognomenque Imperiosi ...

 

[40] Liv. II. 44. 10.

 

[41] Liv. IV. 29. 5-6; Diod. XII. 64. 3; Val. Max. II. 7. 6; Gell. XVI. 21. 7.

 

[42] Si veda con più dettaglio: I. L. Majak, Značenije voinskoj služby dlia vospitanija ideal’nogo graždanina \Epokha Rannej Respubliki\ (Importanza del servizio militare per l’educazione di un cittadino ideale \Epoca della Prima Repubblica\), in Antičnost’ i srednevekovje Jevropy, Perm’ 1996, 123 ss.

 

[43] Liv. VII. 4-6. Ma è curioso che il figlio stesso, Tito Manlio Torquato, futuro vincitore del duello contro il gallo, si indignasse per questa accusa e, recatosi dal tribuno accusatore e minacciandolo con un coltello, lo costrinse a ritirare l’accusa. (Ibid. 5. 4-6). Qui vediamo un bell’esempio dell’ubbidienza del figlio al potere del padre.

 

[44] Dionys. V. 14. 1; cfr. VIII. 38. 3; IX. 5. 2; Liv. VII. 33. 2 (dei giochi militari in cui i coetanei facevano competizioni nella forza e velocità ...).

 

[45] Si veda: I. L. Majak, Rimliane v bytu... (I romani nella vita quotidiana...), cit., 25-27.

 

[46] Liv. IV. 25. 13. Cfr. Fest., 15.20 L.; Paul., 5.15 L.; Varro, De ling. lat. V. 28; Cic., Mur. 35. 72.

 

[47] Si vedano gli esempi: I. L. Majak, Rimliane v bytu i na obščestvennom poprišče \Ranniaja Respublika\ (I romani nella vita quotidiana e nella sfera pubblica \Prima Repubblica\), in Čelovek i obščestvo v antičnom mire, М. 1998, 24 ss.; Eadem., Rimliane rannej Respubliki (I romani della prima Repubblica), М. 1993, 25-58.

 

[48] Liv. II. 10. 2-12; Frontin. II. 13. 5; Polyb. VI. 55.

 

[49] Liv. II. 49-50.

 

[50] Liv. III. 27-29.

 

[51] Liv. III. 19-20.

 

[52] Liv. VII. 26; Perioch. VII; Gell. IX. 11. 1; 3-9.

 

[53] Liv. V. 20-21; Plut., Cam. 5. 6.

 

[54] J.-Cl. Richard, Patricians and Plebeians: The Origin of the Social Dichotomy. Social Struggles in Archaic Rome, L. 1986, 126-128.

 

[55] Con più dettaglio si veda: V. N. Tokmakov, Vojennaja organizacija Rima Rannej Respubliki \VI – IV vv. do n.e.\ (L’organizzazione militare della Roma della Prima Repubblica \VI-IV sec. av. Cr. \), М. 1998, 83-128. Cfr. L. L. Kofanov, Dolžnik i kreditor v prave i žizni Rannego Rima (Debitore e creditore nel diritto e nella vita della Roma dei primi tempi), in Čelovek i obščestvo..., cit., 43-46.

 

[56] F. De Martino, La gens, lo stato e le classi in Roma arcaica, in Studi in onore di V. Arangio-Ruiz, Vol. IV, Napoli 1953, 51-74; F. Serrao, Individuo, Familia e Società nell’epoca decemvirale, in Storia e diritto nell’epoca decemvirale, Napoli 1988, 111 ss. Si veda anche: I. L. Majak, Rimliane rannej Respubliki (I romani della prima Repubblica), М. 1993, 121 e s., 125-126.

 

[57] Dionys. VIII. 73. 3; IX. 52.

 

[58] V.N. Tokmakov, Sakral’nyje aspekty voinskoj discipliny v Rime Rannej Respubliki (Aspetti sacrali della disciplina militare nella Roma della Prima Repubblica), in Vestnik Drevnej Istorii № 1, 1997, 54-55.

 

[59] Si veda a questo proposito: I. L. Majak, K voprosu o social’noj strukture i političeskoj organizacii Arkhaičeskogo Rima (Per il problema della struttura sociale e dell’organizzazione politica della Roma Arcaica), in Vestnik Drevnej Istorii № 3, 1989, 96; Eadem., Ranniaja Respublika v Rime \V-IV vv. do n.e.\ (La Prima Repubblica in Roma \V-IV sec. av. Cr.\), in Istorija Jevropy Т. 1, М. 1988, 353.

 

[60] Liv. 24. 1-2: Quae audita adeo duas ex una civitate discordia fecerat longe aliter patres ac plebem adfecer. Exultare gaudio plebis, ultores superbiae patrum adesse dicere deos. Alius alium confirmare, ne nomina darent, cum omnibus potius quam solos perituros. Patres militarent, patres arma caperent, ut penes eosdem pericula belli, penes quos praemia essent.

 

[61] Liv. II. 28. 6-8. Questa è una testimonianza del fatto che la leva di solito si trasformava in una vera e propria battaglia del senato e dei magistrati contro la plebe, in cui le parti difendevano i propri interessi politici e sociali.

 

[62] Si veda: Liv. II. 24. 6: (Editto di Servilio) Contioni deinde edicto addidit fidem, quo edixit, ne quis civem Romanum vinctum aut clausum teneret, quo minus ei nominis edendi apud consules potestas fieret, neu quis militis, donec in castris esset, bona possideret aut venderet, liberos nepotesve eius moraretur. Cfr.: Liv. II. 30. 6; Dionys. VI. 29. 1 (editto del dittatore Manio Valerio del 494).

 

[63] Liv. VII. 41. 4: Lex quoque sacrata militaris lata est, ne cuius militis scripti nomen nisi ipso volente deleretur; additumque legi, ne quis, ubi ordinum ductor fuisset, postea tribunus militum esset.

 

[64] Liv. VII. 16. 3.

 

[65] Liv. II. 44. 11.

 

[66] Liv. II. 58. 4-9.

 

[67] Liv. 50. 4-6; 51. 3.

 

[68] Liv. II. 43. 7-9; 44. 11-12; 45; 58. 6-9; 59;III. 42. 2; IV. 50-53; Dionys. IX. 50. 3-7; App., Rom. II (Ital.) 6; Frontin. X. 9. 1; Cic., De rep. II. 37. 62.

 

[69] Liv. II. 31. 7-11; Dionys. VI.

 

[70] Plut., Pyrr. 24; Flor. I. 13-14; Vell. Paterc. I. 14; Eutrop. II. 9.

 

[71] Liv. V. 2. 1-12; 10. 8.

 

[72] Liv. II. 45. 6; 65. 3; III. 29. 3; 62. 5; VI. 23. 8.

 

[73] Liv. II. 45. 11.

 

[74] Liv. II. 45. 14-15: M. Flavoleius inquit: “Victor, M. Fabi, revertar ex acie”. Si fallat, Iovem patrem Gradivumque Martem aliosque iratos invocat deos. Idem deinceps omnis exercitus in se quisque iurat. Iuratis datur signum.

 

[75] Liv. VII. 12. 12: Milites aegre id patientes primo in stationibus vigiliisque inter se dictatorem sermonibus carpere, interdum patres communiter increpare, quod non iussissent per consules geri bellum: (13) electum esse eximium imperatorem, unicum ducem, qui nihil agenti sibi de caelo devolaturam in sinum victoriam censeat. Eadem deinde haec interdiu propalam ac ferociora his iactare: se iniussu imperatoris aut dimicaturos aut agmine ituros; (14) inmiscerique militibus centuriones, nec in circulis modo fremere, sed iam in principiis ac praetorio in unum sermones confundi, atque in contionis magnitudinem crescere turba et vociferari ex omnibus locis, ut extemplo ad dictatorem iretur; verba pro exercitu faceret Sex. Tullius, ut virtute eius dignum esset.

 

[76] Liv. VII. 13. 9.

 

[77] Si veda: V. N. Tokmakov, Sakral’nyje aspekty (Gli aspetti sacrali), cit., 50, cfr. 55.

 

[78] Con più dettaglio sullo sviluppo dell’istituto del giuramento e sull’evoluzione del suo contenuto dalle formule sacre alle norme giuridiche si veda: V. N. Tokmakov, Sakral’nyje aspekty (Gli aspetti sacrali), cit., 43-59; Idem, Voinskaja prisiaga i “sviaščennyje zakony” v vojennoj organizacii rannerimskoj Respubliki (Il giuramento dei militi e le “leggi sacre” nell’organizzazione militare della prima Repubblica romana), in Religija i obščina v Drevnem Rime, М. 1994, 125-148.

 

[79] Si veda: Liv. II. 23; Dionys. V. 22; Plut., Marc. 5; Flor. I. 23; Gell. XVI. 21; Cic., De rep. II. 33. 57; Brut. 14. 57; Vir. ill. 17; Fest., 422 L.; Zonar. IV. 17. 1-2; Lyd., De mag. I. 44.

 

[80] Si veda: I. L. Majak, Rimliane rannej Respubliki (I romani della prima Repubblica), cit., 68, 94-100, 127, 134.

 

[81] Con più dettaglio si veda: J.-Cl. Richard, Les origines de la plebe romain, Roma 1978, 512.

 

[82] Si veda, per esempio: P. Bodianskij, Istorija narodnogo tribunata v period soslovnoj bor’by (La storia del tribunato popolare nel periodo delle lotte di ceti sociali), in Universistetskije izvestija № 1, Kiev 1884, 8-12.

 

[83] Con più dettaglio si veda: L. L. Kofanov, Obiazatel’stvennoje pravo v arkhaičeskom Rime \VI-IV vv. do n. e.\ (Diritto di obbligazioni nella Roma arcaica \VI-IV sec. av. Cr.\), М. 1994, 56-61.

 

[84] Si veda, per esempio: L. L. Kofanov, Dolžnik i kreditor (Debitore e creditore), cit., 48.

 

[85] Dionys. IV. 9. 7; 10. 2; VI. 26. 1-2; 79. 2-3; XV. 3. 15; App., Rom. III. 1. 1.

 

[86] Liv. II. 23; Dionys. VI. 26. 1-2.

 

[87] Dionys. VI. 53. 2; Cfr. 69.1; Val. Max. 9. 1.

 

[88] Con più dettaglio si veda: V. N. Tokmakov, Lucij Sikcij Dentat i padenije decemvirov (Lucio Sictio Dentato e la caduta dei decemviri), in Sreda, ličnost’, obščestvo, М. 1992, 162-168.

 

[89] Liv. III. 50-54; Dionys. XI. 42-44.

 

[90] Sul gravame dei debiti come causa principale dei tumulti a Roma e nell’esercito si veda: Liv. VII. 38; Dionys. XV. 3. 3-15; App., Samn. III. 1. 1. 2; Vir. ill. 29. 3.

 

[91] Si veda: L. L. Kofanov, Obiazatel’stvennoje pravo (Diritto delle obbligazioni), cit., 170-171.

 

[92] Liv. VII. 38. 4-7; 9-10; 39.

 

[93] Si veda anche: V. N. Tokmakov, Narod i armija \ Rol’ armii v stanovlenii rannerimskoj Respubliki\ (Il popolo e l’esercito \ Il ruolo dell’esercito nella formazione della prima Repubblica romana\), in Antičnost’ i sovremennost’: Doklady konferencii, М. 1991, 77-80.