N. 4 – 2005 – In Memoriam – Da Passano

 

Mario Da Passano

Preside della Facoltà di Scienze Politiche

dell’Università di Sassari

 

Il «delitto di Regina Cœli»

 

In carcere, come noi, lo costrinsero a pregare

i giudici, gli stessi nostri, in latino

nel nome del popolo hanno sentenziato,

sul letto di contenzione, come noi, nudo

l’hanno disteso.

D. Fo, Sono carcerato, da E il settimo giorno Dio

creò le carceri, 1973, non messo in scena

 

 

Sommario: 1. Di carcere si può morire. – 2. Ferri, cinture e camicie di forza. – 3. Morire in contenzione. – 4. L’«orribile morte di un detenuto» – 5. Il “caso D’Angelo” in Parlamento. – 6. Una morte senza responsabili. – 7. Il regio decreto 14 novembre 1903 n. 484 e la sua applicazione. – 8. La repressione dei ribelli fra nostalgie e suggerimenti di innovazioni tecniche: i risultati di un Referendum. – 9. Una prassi dura a morire.

 

 

1. – Di carcere si può morire

 

Ai delitti commessi dai rappresentanti del potere e dai loro agenti alla luce del giorno, si aggiungono quelli che vengon da loro commessi nelle tenebre delle prigioni, su persone affidate al loro arbitrio, i cui gemiti vengono soffocati dal pugno di ferro del carnefice. Abbiamo già visto a che punto può giungere la crudeltà umana nelle prigioni, dove vengono rinchiusi i grandi criminali (…) e a quali raffinatezze può arrivare per rendere la vita una vera agonia, sia in senso fisico, sia in senso morale. Nessuno potrebbe credere a tutti i delitti che si possono commettere nei confronti di uomini sepolti vivi, ai quali è stata tolta ogni possibilità di comunicare, non solo con l’esterno, ma anche con il mondo interno alla prigione stessa … E non è solo nei bagni penali che sono possibili simili infamie. Le nostre prigioni, preventive o correzionali, sono forse le peggiori che esistano nei paesi civili … Ed in queste prigioni, abbandonate al vergognoso affarismo dei direttori, degli appaltatori e dei fornitori – in queste prigioni, in cui i regolamenti moderni, nel loro sistematico disprezzo per ogni sentimento umano, hanno chiuso anche i più piccoli spiragli attraverso i quali si alimentava un tempo la vita morale dei prigionieri –, in queste prigioni regna l’arbitrio sfrontato di carcerieri senza cuore e senza intelligenza, arbitrio permesso, voluto, garantito nelle sue criminali conseguenze non soltanto dai superiori gerarchici degli stessi carcerieri, ma da quei magistrati, più crudeli dei carcerieri, e più incuranti del proprio dovere, che la legge incarica di visitare le prigioni e di ascoltare i reclami dei detenuti … Ma quello che non possiamo tacere sono gli assassinî che si commettono nelle prigioni, non di tanto in tanto, incidentalmente, ma in continuazione, sistematicamente, per un’ininterrotta tradizione … Dal 1869 al 1889 vent’anni di continui assassinî, malgrado i processi, le grida d’indignazione della stampa e i cambiamenti di personale. Ogni prigione ha il suo martirologio.

 

Francesco Saverio Merlino, che scrive queste pagine di indignata e veemente denuncia nel 1890[1], non può certo essere considerato un osservatore imparziale, ma egli stesso ne è consapevole e, proprio per questo, per avvalorare le sue affermazioni non riporta «nulla che non sia ammesso da persone non sospette di tendenze rivoluzionarie e provato da numerose testimonianze ed anche da atti processuali». E’ comunque un dato di fatto difficilmente contestabile che, nell’Italia liberale, nei luoghi in cui si può finire detenuti a vario titolo (come condannati, imputati, indagati o magari solo arrestati a fini “preventivi”) – siano essi bagni, case di pena, carceri giudiziarie, riformatori, camere di sicurezza della polizia o dei carabinieri – la violenza e l’arbitrio regnano sovrani, per cui possono essere assai pericolosi per l’incolumità e la vita stessa di chi è costretto a soggiornarvi; e questo avviene sia in virtù delle norme stesse che stabiliscono i modi in cui è regolata la vita dei reclusi nei diversi istituti, sia a causa delle continue e sistematiche vessazioni abusive a cui questi sono sottoposti[2]. Ne fa fede una fonte certo non sospetta, quale è la «cronaca spicciola dei singoli stabilimenti penali, riportata con incosciente candore nelle prime annate del “Bullettino ufficiale della Direzione generale delle carceri”»[3] e «intessuta di continui episodi di brutalità e violenza»[4].

Non mancano neppure le denunce in Parlamento, anche se quasi sempre sono destinate a non trovare molta udienza. Nel 1897 Matteo Renato Imbriani-Poerio, uno fra i deputati che prestano maggiore attenzione a questi temi, parla in proposito di

 

moderni farisei, i quali hanno abolito la pena di morte, ma d’altra parte fra le pareti sorde dei reclusori, dai quali non possono uscire né lamenti né proteste di vittime, infieriscono con torture molto peggiori della morte[5]

 

e pochi giorni dopo aggiunge:

 

è da considerarsi specialmente che, se l’Italia ha l’onore, fra le nazioni civili, di avere abolita la pena di morte, non deve poi darle dei succedanei. Se la pena di morte in se stessa è stata come concetto etico abolita, non le si deve far succedere una serie di vessazioni che diventano delle torture, che conducono allo stesso scopo in un tempo più lungo; e queste sono condizioni ancora più incivili della pena di morte stessa![6]

 

Nel quadro di questa situazione generale, i cui aspetti più negativi si acuiscono nel corso della crisi di fine secolo, alcuni episodi assumono una particolare gravità, talvolta arrivando anche a suscitare una forte impressione in parte dell’opinione pubblica, soprattutto perché riguardano fatti e personaggi di immediato e diretto rilievo politico.

Così, ad esempio, la vicenda di Giovanni Passanante, che nel 1878, a Napoli, ha tentato di uccidere con un pugnale Umberto I, riuscendo soltanto a ferire lui e Benedetto Cairoli, viene solitamente ricordata per segnalare che, anche nel caso di un reato così grave come l’attentato al re, questi non venga meno alla clemenza e conceda la grazia sovrana[7], come sempre in quegli anni, soprattutto dopo il secondo voto della Camera elettiva a favore dell’abolizione della pena capitale[8]. Ma in che cosa consista in realtà questa grazia, lo descrive Anna Maria Mozzoni, che nel 1885 ha accompagnato in una visita Agostino Bertani[9], il solo che riesca ad ottenere di vedere Passanante sia pure accettando severissime condizioni restrittive[10]: condannato a morte in quanto riconosciuto sano di mente (non senza polemiche[11]) dopo un processo con qualche aspetto non proprio limpido e subito graziato, Passanante viene inviato al bagno di Portoferraio nell’isola d’Elba; qui per due anni e mezzo giace, nella più completa oscurità, in una cella sotto il livello del mare e

 

là l’infelice, roso dalle infiltrazioni saline e dalla umidità subì il lurido amplesso dello scorbuto. Gli caddero letteralmente tutti i peli dal corpo, le palpebre si rovesciarono sugli occhi, le guancie si svuotarono e gonfiarono come due bisaccie, e scolorì fino all’inverosimile;

 

viene quindi trasferito in un’altra cella sopra il livello del mare, sempre in assoluto isolamento[12], «ed era già in tale stato che s’ajutava a stento con le mani a sorreggere la pesante catena di diciotto chili che gli opprime perpetuamente le reni». La denuncia, viene ripresa anche da altri giornali, in particolare il «Messaggero» e il «Caffaro», che sottolinea l’illegalità di questo trattamento, e il ministero è costretto a fare un comunicato in cui si tenta di minimizzare e si dà notizia che nel 1889 Passanante è stato riconosciuto pazzo[13] e trasferito al manicomio criminale di Montelupo[14], dove morirà nel 1910[15].

Non molto dissimile, anzi per certi versi peggiore poiché dura più a lungo, è la vicenda di Pietro Acciarito, autore nel 1897 di un altro fallito attentato a Umberto I a Roma: condannato dopo un processo lampo attentamente seguito dal ministro dell’Interno tramite la questura di Roma, viene rinchiuso prima a S. Stefano e poi a Portoferraio e infine, impazzito per le continue vessazioni[16], viene a sua volta trasferito al manicomio di Montelupo, dove morirà soltanto nel 1943[17].

E proprio in occasione dell’attentato di Acciarito si verifica un episodio che, a seguito di una campagna sull’«Avanti!» e dell’azione dei deputati socialisti, radicali e repubblicani, occupa a lungo l’attenzione della stampa e della Camera, anche se il punto centrale dello scontro politico che si innesta sulla vicenda finisce con l’essere soprattutto quello delle violenze e degli abusi della polizia (e in particolare la questione degli arresti arbitrari), che è ormai da tempo e sarà ancora a lungo oggetto di vivaci polemiche, e poi anche quello più generale dei rapporti fra esecutivo e giudiziario. Subito dopo il fallito attentato e con l’avvicinarsi del 1° maggio, per ordine di Di Rudinì vengono operati a Roma numerosi arresti, fra cui, il 29 aprile 1897, quello del falegname Romeo Frezzi, in casa del quale viene trovata una foto di gruppo in cui casualmente compare anche Acciarito; rinchiuso nel carcere di S. Michele, allora in uso alla polizia, tre giorni dopo Frezzi muore per le percosse ricevute, mentre la questura fornisce tre diverse versioni successive sulle cause del suo decesso (si è suicidato battendo la testa contro il muro, è morto per cause naturali colpito da aneurisma, si è suicidato arrampicandosi al primo piano e buttandosi di sotto); il medico di fiducia della questura non fa nulla per approfondire l’esame, una prima perizia medica del dottor De Pedys[18], col parere contrario del suo collega Pardo, e due indagini amministrative (una sommaria del senatore Beltrani Scalia e una formale affidata al capo divisione Talpo e al capo dell’ufficio riservato della pubblica sicurezza Scrocca) cercano di avvalorare la tesi del suicidio, ma sono smentite dalla nuova perizia chiesta dalla magistratura, che dispone anche l’arresto di alcuni agenti, una perquisizione della questura e un mandato di comparizione per il questore, mentre Di Rudinì interviene a difesa della polizia, suscitando ulteriori polemiche[19]. Il 30 aprile 1898 il processo contro il questore (per arresto arbitrario), un delegato (per occultamento di reato) e due agenti di polizia (per omicidio volontario), si chiude in istruttoria con il proscioglimento di tutti gli imputati, il primo per inesistenza del reato, gli altri per insufficienza d’indizi[20].

Infine il regicida Gaetano Bresci, dopo qualche mese in assoluto isolamento a S. Vittore, incatenato e sorvegliato notte e giorno da due guardiani, a novembre viene trasferito in gran segreto a Portoferraio e rinchiuso nella cella sotterranea che aveva già ospitato Passanante, in palese violazione delle stesse norme del regolamento carcerario del 1891; quindi, anche per le complicazioni sorte con gli altri detenuti e per evitare che ciò venga a conoscenza dell’opinione pubblica, alla fine di gennaio del 1901 Bresci è trasferito a S. Stefano, dove è stata costruita una nuova cella appositamente per lui, sul modello di quella di Dreyfus all’Ile du Diable, completamente separata dalle altre, e lì il 22 maggio inaspettatamente e inspiegabilmente, nonostante la continua sorveglianza a vista a cui è sottoposto, si sarebbe suicidato impiccandosi con un asciugamano che non avrebbe dovuto avere o con il fazzoletto in dotazione, secondo le due diverse versioni fornite dalle autorità[21].

Fra l’altro in due di queste vicende è coinvolto più o meno direttamente un funzionario dell’amministrazione carceraria, Alessandro Doria, che ha iniziato a lavorare come copista a Volterra, ma ha fatto rapidi progressi da quando, dirigendo provvisoriamente Regina Cœli, ha avuto suoi “ospiti” illustri personaggi coinvolti nello scandalo della Banca romana. Già nel 1896 cumula numerose cariche[22]; nel 1898 è capo di gabinetto del direttore generale, Giuseppe Canevelli, e assieme a lui, al capo della polizia, Francesco Leonardi, e al direttore carcerario di terza classe Alfredo Angelelli, appositamente trasferito da Catanzaro a S. Stefano (ma nella vicenda hanno parte anche l’ex direttore generale Beltrani Scalia, Pelloux e Di Rudinì), mette in piedi una atroce macchinazione per indurre Acciarito a confessare che si è trattato di un complotto e a rivelare i nomi dei complici[23]; al processo che ne segue però la montatura cade e Angelelli, i cui metodi vengono definiti da Doria «sotto ogni aspetto, deplorevoli e ributtanti», si assume tutta la responsabilità ed è immediatamente scaricato e trasferito in Sardegna; nel 1905, grazie alle rivelazioni di Angelelli (che finisce anche in manicomio), il cattolico «Avvenire d’Italia» porta alla luce l’intera vicenda, provocando anche un dibattito alla Camera a seguito delle numerose interrogazioni presentate[24], ma il conseguente processo, condotto in maniera non proprio esemplare, si conclude con l’assoluzione di Doria e Canevelli, protetti da Giolitti[25]. Nel caso del preteso suicidio di Bresci, alquanto sospetto e mai chiarito, il giorno stesso del fatto Doria viene mandato a condurre l’inchiesta amministrativa, ma anche quattro giorni prima risulta una sua visita a S. Stefano, a seguito della quale ha fatto una «relazione personale» segreta a Giolitti (poi scomparsa) sul penitenziario e la detenzione di Bresci, e l’esame autoptico del cadavere rileva uno stato di decomposizione inspiegabile a soli due giorni dal decesso; queste circostanze, assieme alla sparizione di documenti relativi ad esse, ben a ragione hanno indotto a formulare l’ipotesi inquietante di un omicidio premeditato[26]. Ebbene, dopo questi due episodi, il cavalier Doria nel 1902 diventa direttore generale delle carceri, con un avanzamento nella carriera assolutamente eccezionale (e un consistente aumento retributivo)[27].

Ma quello che più colpisce sono le ripetute denunce, che peraltro non suscitano molta commozione né hanno grande risonanza, di quanto accade normalmente nel buio delle carceri ai detenuti qualunque, vicende che molte volte si concludono con la loro morte, spesso travestita da suicidio o da decesso accidentale, mentre i responsabili, se e quando vengono individuati e perseguiti, finiscono quasi sempre col non subire alcuna conseguenza.

Così, per citare alcuni esempi, tralasciando i ripetuti casi di detenuti feriti o uccisi a colpi di fucile dalle guardie, anche in circostanze non particolarmente gravi e pericolose[28], l’anarchico Amilcare Cipriani[29], assiduo e involontario ospite delle prigioni italiane (e non solo), nelle sue lettere Da Rimini a Portolongone, pubblicate sul «Messaggero», parla «di condannati uccisi a colpi di chiave nelle celle sotterranee di punizione»; si scopre che nel bagno di Civitavecchia «un detenuto che era stato fatto passare per morto di morte naturale, era stato in realtà assassinato dai secondini (…) e si seppe che altri delitti della stessa natura erano stati perpetrati in precedenza»; nel 1888 la «Tribuna giudiziaria» di Napoli fa «dolorose rivelazioni sugli omicidî camuffati da suicidî, che avvengono nelle prigioni» e segnala un episodio avvenuto a Venosa[30]; nel 1896, nel corso della discussione sul bilancio dell’Interno, Imbriani sostiene alla Camera che

 

sventuratamente vi sono anche altri luoghi di pena, specie fra i più lontani, per esempio quello di Portoferraio, i quali lasciano molto a desiderare. Là si commettono addirittura delitti che rimangono impuniti … si trasportano alle volte in celle di sicurezza i detenuti, e loro si danno colpi sullo stomaco, con sacchetti di sabbia, i quali spesse volte ne producono la morte. E i dottori, compiacenti, non ne trovano poi traccia[31];

 

e l’anno seguente rinnova la sua denuncia:

 

negli ergastoli, nei luoghi di pena si usa di colpire i poveri detenuti colle sacchette di arena, le quali rompono internamente alcuni visceri, eppoi viene il medico, dà uno sguardo, non trova lesione apparente e fa il verbale di morte naturale … Riaffermo qui, signor presidente del Consiglio, ciò che ho detto l’anno passato, che nelle case di pena, nelle reclusioni, negli ergastoli, si usano contro i detenuti modi assolutamente incivili, e che molti di essi ricevono la morte sotto diverse forme[32].

 

E infine vanno segnalate alcune interrogazioni al ministro dell’Interno, poi decadute: nel 1900 quella di Bovio sulle «responsabilità del potere di polizia e dei medici carcerarii nella morte di Mariano Picardi nel carcere di Napoli e se le torture e la pena di morte, abolite dalla legge e dalla civiltà, debbono entrare per altre vie nel presente sistema carcerario» e nel 1901 quelle di Giacomo Morando «per sapere se il suicidio di Bresci si deve considerare come uno dei tanti risultati di mancata sorveglianza così frequenti nei nostri stabilimenti penali» e di De Felice Giuffrida «sui maltrattamenti inflitti al condannato Emilio Riccardi nella casa di reclusione di Alessandria»[33].

 

2. – Ferri, cinture e camicie di forza

 

Anche dopo l’Unità, tutte le successive disposizioni che regolano la vita nei luoghi di detenzione, continuano a prevedere punizioni corporali per i reclusi[34], sino a quel «mostruoso strumento normativo» che è il regolamento del 1891[35], che generalizza il ricorso ai ferri, alla cintura e alla camicia di forza come mezzi di punizione e di contenzione (applicabili anche a donne e minori)[36], ma nella prassi l’armamentario a cui si fa ricorso è ancora più ampio e variegato.

Così nel 1896 sempre Imbriani sostiene che «sia nelle camere di sicurezza dello Stato, sia nelle prigioni dei carabinieri, sia in quelle delle guardie di pubblica sicurezza» si usano ancora i ceppi e forse i bracciali:

 

I bracciali consistono in due anelli infissi al muro, con due catene e poi due manette nelle quali si pongono i polsi dell’arrestato in modo che egli resta così appeso; mentre i ceppi consistono in due incavi posti nella tavola che fa orlo al tavolato, sui quali poi si ripiegano due altri pezzi di legno che prendono come in una scatola i piedi dell’infelice che vi è sottoposto … I carabinieri conducono là dentro l’arrestato, magari lo mettono ai ceppi, e poi se ne vanno pei fatti loro, forse a bere per il paese. Intanto il povero infelice deve passar la notte in tortura[37];

 

Di Rudinì, dopo averlo interrotto per chiosare, non si capisce a che fine, che gli Abissini chiamano i ceppi ghindò, risponde che le manette le conosce come tutti, ma che non crede che «altri strumenti di punizione e di tortura (…) esistano nelle nostre carceri», poiché i regolamenti non lo permettono, e assicura che comunque adotterà opportuni provvedimenti se dovesse risultargli qualcosa in contrario[38]. Ma ancora diversi anni dopo l’«Avanti!» pubblica una descrizione e uno schizzo dei ceppi, evidentemente tutt’altro che abbandonati[39].

Nel 1900 il tribunale di Cassino condanna un vice brigadiere per sevizie e omicidio colposo e un carabiniere per omicidio colposo e vilipendio di cadavere: nell’ottobre del 1898, a Minturno, i due, dopo aver arrestato tal Mariano Conte

 

perché avvinazzato, ebbero, sembra, a colluttare con lui. Dapprima gli strinsero i polsi fino a farlo sanguinare, poi gli passarono una catena al collo e lo lasciarono così per tutta la notte in camera di sicurezza. Almeno si constatò che la catena aveva causato lo strangolamento. L’autopsia avrebbe inoltre posto in rilievo che al Conte erano state inferte delle battiture. Il vilipendio consisteva nell’aver il Lucchetti sputato sulla bara, pronunziato parole ingiuriose in previsione delle noie che il fatto gli avrebbe procurato[40].

 

Se poi si passa ai luoghi di detenzione vera e propria la situazione è ancora molto peggiore. Nel 1867 il Tribunale di Firenze assolve il responsabile del giornale torinese della sinistra parlamentare «Il diritto», Enrico Giovanni, che ha pubblicato un articolo di denuncia delle violenze e degli abusi commessi nel carcere di Parma ed è stato querelato per diffamazione dal direttore, Paolo Belmondi Quesada; al processo, fra l’altro, emerge che

 

persona qualificata vide da uno spiraglio di cella carceraria che un detenuto, legate le mani strettamente al dorso, e avvinto di ferri ai piedi, si divincolava per terra, e con grandi sforzi poté col mento serrare al muro un pezzo di pane e addentarlo. Furono riscontrate contusioni e offese in tre detenuti, prodotte dall’attrito di corpetto e di cinto graduabile nella sua applicazione, e prodotte da compressione e in seguito alla strozzatura del cingolo[41].

 

Poco dopo Federico Bellazzi, che con la pubblicazione del suo volume Prigioni e prigionieri nel Regno d’Italia ha già suscitato vivaci polemiche[42], presenta alla Camera un’interpellanza sugli stabilimenti penali italiani e nella discussione che ne segue Giuseppe Civinini fra l’altro, riferendosi sempre al caso di Parma, sostiene che essendo quella una casa penale,

 

a norma dei regolamenti, non si sarebbe potuta applicare né la camicia di forza né il cingolo. Eppure questo fu applicato con tale severità, che se qualche onorevole membro di questo parlamento ebbe a riconoscerne, come perito medico, gli effetti, ve ne volesse fare la funesta descrizione, potrebbe farvi ancora inorridire[43].

 

Nel 1869 un tipografo napoletano, Gennaro de Angelis, pubblica un opuscolo in cui, raccontando la sua esperienza personale, testimonia dello stato in cui versano le carceri giudiziarie della sua città e degli abusi di cui sono vittime i detenuti[44], riprendendo anche le denunce già apparse sul «Piccolo giornale di Napoli» del ricorso prolungato alla camicia di forza; l’opuscolo ha un’eco immediata e molto forte su tutta la stampa locale, indipendentemente dall’orientamento politico («Il piccolo», «L’avvenire», «Il pungolo», «Roma», «Il conciliatore», «La patria», «Il vero messaggiero di Napoli», «Nuova Roma», «La libertà», «L’Italia», «Il popolo d’Italia», «L’indipendente», «La libertà cattolica»)[45], ma anche sulla «Gazzetta del popolo» di Torino, che si sofferma in particolare sulle sevizie a cui sono sottoposti i carcerati:

 

La camicia di forza “è una specie di giubbettino di forte traliccio, che abbraccia il torace e stringe il petto così da far mancare il respiro”. Il gastigo della palla consiste “nell’avvicinare il detenuto al muro, dove all’altezza di otto palmi, sono due forti anelli: s’incrociano le braccia del paziente con correggia di cuoio legata dietro le reni”. Quindi “gli si attaccano ai polsi due piccole catene, le quali passano entro gli anelli di ferro e cadono per il peso di 2 palle di circa 10 Kg., attaccate alle 2 estremità”. Il cassone è: “né più né meno che una cassa da morto, lunga e larga appena quanto basti per contenervi un uomo di statura ordinaria”. Al di sotto vi è un foro, per cui il paziente “possa compiere le sue funzioni fisiche”. Altri fori sono praticati nelle parti laterali, per dove passano forti stringhe di cuoio che stringono il malleolo, le ginocchia, il torace, la gola. Così si ottiene per il paziente un’immobilità assoluta, terribile; e per tenerlo in vita, il carceriere “gli caccia in bocca un po’ di pane spezzato, come si caccerebbe del carbone in panello”. Il puntale è un collare di ferro chiuso alla gola dell’individuo con apposito fermaglio, e legato ad un anello conficcato nel muro; per cui “bisogna mangiare in piedi, dormire in piedi, compiere in piedi gli atti naturali”. La tortura detta dei ferri curti poi consiste “nel legare all’individuo le mani coi piedi, e tenerlo così accovacciato, accartocciato, raggometolato sulla nuda terra”[46].

 

Anche il corrispondente del «Times», Wredford, si occupa del tema e, oltre che sul suo giornale, in un articolo apparso su «La riforma» e in una lettera all’«Avvenire» denuncia che si ricorre non solo alla cintura e alla camicia di forza, ma al “cassone”[47], come sostitutivo del “puntale” («una catena corta, colla quale il prigioniero era una volta attaccato colle gambe al muro» di cui ha visto vari esemplari nella stanza del direttore); si apre così una polemica con la rivista dell’amministrazione carceraria[48], sulle cui pagine viene pubblicata una replica, già inviata alla «Gazzetta del popolo», dell’ex direttore delle carceri giudiziarie napoletane, Martino Garrone, che nega l’uso del puntale, ma ammette e giustifica quello del cassone solo come «mezzo di sicurezza», affermando che invece «sono invenzioni maligne il coperchio che del cennato letto farebbe una scatola, e l’acqua fredda che si disse versarsi sopra la persona giacente»[49].

La campagna di stampa costringe il governo ad istituire una commissione ministeriale per condurre un’inchiesta sulle carceri giudiziarie napoletane (Di Rudinì pres., Pirro De Luca, Domenico Pisacane, Giovanni Minghelli Vaini, Stefano Di Maria di Castelnuovo)[50] e la sua relazione finale, oltre a fornire in generale una versione molto edulcorata di una realtà notoriamente disastrosa, sul punto specifico afferma che dei tre letti di contenzione, ereditati nel 1862 dall’abolito ospedale centrale delle carceri, «l’uno fu ritenuto per quel di S. Francesco, e mandato l’altro in quel di Castelcapuano, il terzo, quello per le donne, a S. Maria ad Agnone», dove sono rimasti chiusi nei magazzini, e che questo strumento è stato «due volte sole (…), per ragioni d’infermità, adoperato: nel 1862, per il caso del Monti, e poi, nel 1865, per quello di altro pazzo sottoposto a giacervi per poche ore, durante il delirio furioso, e toltovi, appena la urgenza del pericolo era venuta a scemare»[51]. E tuttavia, in sede di proposte conclusive, la commissione, dopo aver osservato che «è parso che nel regolamento il castigo, talvolta, soverchi la colpa, e nei castighi si largheggi di quelli che affliggono e viziano il corpo», auspica che l’applicazione della camicia di forza come punizione sia abolita «e lo strumento rimandato alle infermerie, dove dovrebbero stare altresì i letti costringenti, siccome quelli che non furono mai adoperati altrove, né possono adoperarsi altrimenti, che a preservazione degli infermi»[52].

Invece il direttore generale delle carceri, Napoleone Vazio, in risposta alle osservazioni della commissione, sostiene che l’uso di mezzi come il cassone e il puntale costituisce una violazione del regolamento, un «eccesso condannevole», ma che il ricorso a «strumenti meccanici di repressione delle violenze e delle indisciplinatezze dei prigionieri», «destinati, se non ad opprimere, almeno a contenere», è una dolorosa necessità[53], un rimedio estremo, che però non deve avere «altro scopo fuor di quello di costringere all’inazione il detenuto, affinché non offenda e non si offenda» e che in particolare la cintura e la camicia di forza, ordinariamente utilizzate nei manicomi, sono «mezzi atti più a contenere che ad offendere e comprimere», anzi

 

tanto per la loro flessibilità, che permette la libertà dei movimenti, e non arreca danno al detenuto che voglia reagire, quanto per la loro uniformità in tutte le prigioni del Regno, questi stromenti sono il portato del progresso moderno, il quale, dappoiché non vede ancor giunta l’era della abolizione dei mezzi meccanici di costrizione, intende però che essi siano informati a quella mitezza che vuolsi usare verso i prevenuti[54].

 

Nel 1881, Luigi Lucchini, in una relazione su un viaggio d’istruzione compiuto con i neolaureati in giurisprudenza dell’università di Siena, racconta fra l’altro che nel bagno di Portoferraio i condannati alla cella di punizione occupano «uno stanzone a parte, ove si tengono costantemente con la catena fissa al suolo, come belve feroci, per impedir loro di nuocere anche nella gran gabbia del bagno» e che un forzato, per l’uccisione di un carabiniere di scorta, è stato condannato all’isolamento con la catena fissa per dieci anni[55].

Nel 1903, ad Ancona, un giovane processato in pretura per oltraggio alle guardie carcerarie, suscitando viva impressione nel pubblico, denuncia «di essere stato legato per 15 giorni con la camicia di forza!»[56].

E ancora, un detenuto politico racconta nelle sue memorie un episodio che testimonia quale uso abbia visto fare della camicia di forza e con quali modalità di applicazione nel carcere di Trani:

 

Una guardia più delle altre zelante consigliò di porre al Faccetti la camicia di forza, le altre aderirono e senz’altro si posero alla valorosa opera: la camicia di forza per la corporatura esile del Faccetti era un po’ larga e perché stesse meglio in corporatura gli fu passato un guanciale per la schiena e in quattro dico quattro guardie, si misero a tirare a tutta forza le cinghie. Il sotto capo guardia, che era presente e nello svolgimento della triste scena mai aveva fatto una parola, per un solo momento sentì d’esser uomo e disse: non tirate tanto. Ma la solita zelante guardia sovreccitata disse: con questa gente non ci vuol compassione, e con più forza stringeva ancora più le cinghie … Al mattino presto vennero gli sgherri e tolsero al povero Faccetti la camicia di forza; egli disteso sull’indecente saccone (…) non parlava, più non fiatava, ed io lo chiamavo, e lui con flebile voce per rassicurarmi tentava dirmi che nulla era[57].

 

Ed ecco infine una descrizione della camicia di forza, dei suoi effetti e delle impressioni che suscitano:

 

legati e stretti violentemente da una pesante blouse, con le braccia incrociate sul petto e le mani inchiodate sulle spalle dalle cinghie pendenti dai polsi, tese ed annodate sull’anello che posteriormente porta alla cintola, ed impossibilitati al riposo sui fianchi da due altri grossi anelli di ferro, i derelitti sopportano inaudite sofferenze ancora più inasprite dal nutrimento di solo pane, da ostinata insonnia, dalle molestie degli insetti che pullulano nell’odiato vestito, e dalla necessità di imbrattarsi dei loro escrementi nella soddisfazione dei bisogni corporali … E bisogna vederli, come li ho visti io, in quale stato orrendo essi ne vengono fuori. Ischeletriti, barcollanti, con gli occhi infossati sono ridotti cadaveri ambulanti, uomini che già furono pieni di vita e di vigore. Qualcuno di tempo in tempo vi rimane vittima[58].

 

Io fui testimone degli strazi nefandi e assistei al tremendo spettacolo di questa maledetta camicia di forza, ed anche oggi la memoria rifugge inorridita, al triste ricordo … Io non saprei descrivervi il senso da cui due volte fui preso allorché mi fu giocoforza assistere ai lamenti di un torturato dalla camicia di forza. Nella notte si sentivano gli urli dei disgraziati a cui era applicata; e forse saranno state le più tristi creature che possano germogliare nel rigagnolo delle vie, ma bisognava sentire le proteste che si elevavano da tutto il carcere in quel momento, ed io sono sicuro che, se quei detenuti fossero riusciti a scardinare le porte in quel momento di santo altruismo, si sarebbero lanciati contro i cannibali che non rispettano i deboli, perché il carcerato che non può reagire è pari alla donna ed al fanciullo e deve essere sacro a tutte le persone di cuore come dev’essere maledetto chi lo percuote[59].

 

3. – Morire in contenzione

 

Questo largo ricorso alla camicia di forza come strumento di contenzione e di punizione – anche oltre i casi in cui è ammesso dalle norme vigenti – e i modi in cui viene praticato, hanno spesso conseguenze letali per chi vi è sottoposto e, visto che negli episodi che vengono alla luce più volte le autorità carcerarie cercano di occultare o di mascherare la verità, si può a ragione supporre che in realtà i casi di decesso che si verificano siano ben più numerosi.

Il 18 giugno 1866 a Napoli, nel carcere di Castelcapuano, il detenuto Vito Monti viene ricoverato in infermeria, dove risulta essere «travagliato da rammollimento cerebrale e gastroenterite, e da ciò le convulsioni ed i rettiformi, il delirio, dapprima tranquillo e poi furioso, mano a mano che, intorno ai punti rammolliti del cervello, intervenivano le ricorrenti congestioni capillari»; questa situazione porta il medico a prescrivere il 2 luglio «il letto costringente» e a raccomandare il ricovero in manicomio, ma quando arriva «la licenza a collocarlo in Aversa, l’infermità si aggravava, ed il Monti, addì 8 dell’agosto, soggiaceva»[60].

Nel 1869 il giornale napoletano «Il vero», riferendo dei risultati dell’inchiesta sulle carceri giudiziarie napoletane, scrive che a S. Efremo Nuovo

 

è risultato che si abusava dei ferri e delle camicie di forza, sino a far morire i prigionieri nei ferri, poi si trasportava il cadavere nell’infermeria per far credere che l’uomo era morto di malattia. Si seppe, inoltre, che molti condannati avevano la testa rotta, altri i denti spezzati, altri infine, spinti alla disperazione, si erano suicidati. Inutile parlare del trattamento inflitto ai detenuti, della scarsità e della grossolanità del cibo, inutile raccontare come per punizione si rifiutasse ai detenuti una goccia d’acqua, come li si incatenasse come bestie feroci, senza liberarli, neppure quando dovevano soddisfare qualche bisogno[61].

 

Nel 1873 un detenuto, «imputato di gravi reati, di pessima condotta, soggetto a continue punizioni», è chiuso in cella di punizione e gli si applica la camicia di forza, per aver ferito il direttore, che accompagnava la commissione sanitaria provinciale in visita al carcere, e un guardiano; ma

 

poche ore dopo, quando un guardiano aprì quella cella di punizione per la consegna del pane, vide sul letto la camicia di forza ridotta in brandelli ed il P. giacente in terra morto strangolato. Nella parete aveva incise, con l’ardiglione della fibbia che era alla cintura della camicia di forza, le seguenti parole: Muoio contento perché mi sono vendicato[62].

 

Nel 1888 la «Tribuna giudiziaria » di Napoli denuncia che ancora nel carcere di S. Efremo Nuovo un detenuto ammalato, dopo essere stato lasciato per 35 giorni a dieta in cella d’osservazione, protesta e per tutta risposta un sotto capo e alcune guardie, dopo una colluttazione, lo legano con la camicia di forza: il giorno seguente viene trovato morto e, provocando una protesta dei reclusi prontamente sedata, si avanza l’ipotesi del suicidio, peraltro esclusa dallo stesso ispettore delle carceri[63].

Nel 1890 si celebra il processo a carico di alcune guardie del bagno di Civitavecchia, accusate di aver causato nell’autunno del 1887 la morte di un forzato, che aveva già dato segni di squilibrio e si era ribellato alle guardie che volevano portarlo in isolamento: queste, assieme a un altro forzato assegnato ai servizi interni, «a furia di calci e di percosse» lo avevano gettato nella cella, assicurandolo al puntale e applicandogli la camicia di forza e il bavaglio, e, di fronte ai suoi tentativi di resistenza, «gli sono sopra, lo serrano alla gola, lo strozzano»; in aula, dove depongono anche dei forzati, qualcuno dichiara fra l’altro che il sistema di strangolare era usuale nel bagno; il processo si conclude con la condanna di una sola guardia e del forzato addetto ai servizi interni come complici necessari, ma il primo a tre anni di reclusione e il secondo a nove, non essendogli riconosciuta alcuna attenuante[64].

Nel 1901, ad Ancona, Ezio Pierani di 29 anni, arrestato perché si è opposto all’arresto di due mendicanti, oppone «viva resistenza oltraggiando gli agenti»; portato in carcere e condannato per direttissima a sette giorni di reclusione,

 

subito dopo cominciò a mostrarsi eccessivamente agitato, e (…) il capo guardia, ritenendo avere da fare con un matto, o con uno che simulasse la pazzia, per evitare che potesse offendere sé e gli agenti di sorveglianza, gli fece applicare il busto di forza, dando ordine alle guardie di sorvegliarlo di continuo dalla bocchetta lasciata espressamente aperta.

 

La notte seguente Pierani viene trovato morto e, toltagli la camicia di forza, vengono avvisati un medico, il direttore e il pretore, ma quest’ultimo constata «che il cadavere presentava alla parte interiore e alla base del collo una striscia rossastra il che fece sorgere il sospetto che al Pierani fosse stata applicata la cosiddetta camicia di forza e gli agenti di custodia risposero affermativamente» e, sulla base dell’autopsia, riferisce che

 

la morte del Pierani, esclusa ogni altra causa, debba attribuirsi ad asfissia e stasi meningoencefalica in seguito a compressione del collo … la camicia di forza ha potuto esercitare, nei movimenti incomposti fatti dal paziente, una pressione tale da produrre la soffocazione … tutto esclude che nel fatto doloroso vi sia stato dolo, ma nel medesimo tempo tutto fa sospettare che vi sia concorsa la massima imprudenza da parte di chi ha applicato la camicia di forza senza il consiglio del medico e senza la debita vigilanza nel Pierani assoggettato a tale mezzo di rigore.

 

Il prefetto, preoccupato per l’ordine pubblico poiché il fatto «ha impressionato la popolazione» e immediatamente il Partito repubblicano indipendente ha tenuto un comizio di protesta, mentre «on. Barilari, con socialista Bocconi e anarchico Giangiacomi (…) hanno fatta dichiarazione per eseguire domani passeggiata dimostrativa dal centro città al cimitero», suggerisce di aprire prontamente un’inchiesta amministrativa, dando subito notizia dei risultati. Il direttore generale Canevelli si affretta a seguire il consiglio e affida l’incarico ad Alessandro Doria (ancora lui), che, pur facendo risalire le cause dell’accaduto al detenuto stesso, non può fare a meno di rilevare le responsabilità del personale carcerario:

 

Dalla rigorosa inchiesta eseguita circa cause morte Pierani Ezio risultommi che costui poté ubbriacarsi nel carcere essendo digiuno da 48 ore e che ciò produssegli straordinario eccitamento nervoso da farlo supporre impazzito. La morte per asfissia se la produsse da se divincolandosi perché camicia di forza non fu certamente assicurata bene sul davanti in modo da impedirgli salire al collo. Era un alcoolizzato il cui organismo trovavasi in condizioni anormali ed aveva inoltre forte iperemia polmonare tanto da ritenere che per quelle cause individuo sano e robusto non sarebbe deceduto. Capo guardia Gaddo autorizzò e agente Alberico misegli prima e dopo consenso superiore e senza giustificate imprescindibili ragioni camicia di forza mentre avrebbero potuto quando Pierani dava in escandescenze farlo assistere da altri detenuti o toglierlo dalla segregazione cellulare. Direttore informato della applicazione suddetta non pensò di accertare di persona vero stato di cose ciò che avrebbe determinata immediata revoca misura arbitraria presa. Sanitario dottor Fuà richiesto dal capo guardia non visitò mai Pierani[65].

 

Nell’aprile del 1903, a Sulmona, il detenuto Giovanni Disancarlo viene rinchiuso in cella di rigore con la camicia di forza, strumento di cui «in questo carcere dell’Abbadia si abusa applicandosi di frequente per non sempre gravi motivi, ed il più delle volte nel suo limite massimo di un mese»; «dopo soli pochi giorni» viene trovato morto, ma sul fatto cala «una vera congiura di impenetrabile silenzio, se ne togli gli otto giorni di sala inflitti ad una guardia»[66].

 

4. – L’«orribile morte di un detenuto»

 

L’episodio più famoso, anche perché costituisce l’occasione di una vera e propria campagna di stampa e di mobilitazione popolare condotta da socialisti, repubblicani, radicali e anarchici, è però quello del marinaio Giacomo D’Angelo. A seguito di ripetute discussioni col capitano della goletta Rosalia Emilia Galante, su cui era imbarcato, causate dal suo licenziamento, il 29 aprile 1903, a Fiumicino, D’Angelo, forse alticcio, viene arrestato dai carabinieri, che lo avevano già portato in caserma e rilasciato il giorno prima; il 30 aprile viene tradotto a Roma e presentato a un delegato di pubblica sicurezza, che, in attesa di accertamenti per un equivoco sulla sua identità e i suoi precedenti, lo fa trattenere e portare a Regina Cœli a disposizione della questura. Nella notte dal 2 al 3 maggio, avendo dato in escandescenze e rotto un vetro, un sotto capo guardia, «allo scopo d’impedire che il detenuto potesse recare danno a sé», lo fa rinchiudere in una delle celle apposite e gli fa applicare la camicia di forza: secondo la ricostruzione del tribunale di Roma

 

la camicia fu apposta dalla guardia Landi, la quale dichiara d’aver fermato le braccia con due strisce di tela legate rispettivamente ai ferri laterali della branda e di avere applicati ai piedi del paziente due gambaletti di cuoio, assicurati pure ai ferri della branda con spago. In seguito dalla guardia Sopranzi, che ha la diretta sorveglianza di giorno sul braccio intermedio, furono sostituiti i gambaletti di cuoio con una fascia di tela, ed una fascia simile venne applicata alle ginocchia ed assicurata come le altre ai ferri laterali della branda. Durante l’istruttoria si accennò pure all’esistenza di una fascia che avrebbe circondato il petto del D’Angelo ed i cui capi sarebbero stati legati al ferro superiore della branda. Negata costantemente dalle guardie Sopranzi ed Orlando, dal medico dott. Ponzi, negata pure nella prima loro deposizione dai detenuti Albani e Mattei, che frequentarono nel giorno 3 la cella n. 29, l’esistenza di quella fu poi invece affermata da costoro nel seguito dell’istruttoria ed al pubblico dibattimento.

 

D’Angelo rimane così immobilizzato per più di due giorni, durante i quali viene visitato per due volte da un medico del carcere, che «trovò regolarmente applicata la camicia di forza, appose il bene fatto sul registro all’uopo destinato dal direttore Kustermann e chiese informazioni sullo stato del malato alla guardia Sopranzi (…), la quale lo assicurò che il D’Angelo aveva mangiato. Non diede alcuna speciale prescrizione, ma raccomandò la sorveglianza». Nella notte tra il 4 e il 5 maggio il marinaio urla per ore e cerca di divincolarsi, sollevando anche la branda fissata al muro, ma

 

le grida però si affievolirono e cessarono poi del tutto nelle prime ore del 5 maggio e quando verso le 6 1/2 la guardia Sopranzi ed il detenuto Albani entrarono nella cella n. 29 per la solita pulizia mattinale, trovarono il povero D’Angelo morente. Lo sciolsero subito, lo portarono all’infermeria, ove, nonostante i soccorsi prestatigli, moriva alle ore 7,30 del medesimo giorno[67].

 

Per alcuni giorni si riesce a tenere nascosto il fatto, ma il 10 maggio la notizia compare nella cronaca di Roma del «Giornale d’Italia»[68], del «Messaggero»[69] e dell’«Avanti!», i quali ultimi già nel titolo sollevano pesanti interrogativi sulla vicenda, anche in seguito ai risultati della prima autopsia[70], mentre il «Popolo romano» assume una posizione molto più cauta[71]; l’11 il «Giornale d’Italia» la riporta in prima pagina[72] e il quotidiano socialista anche sulle colonne nazionali, accompagnata da un duro commento[73]. Col passare dei giorni emergono particolari sempre più inquietanti: i medici che eseguono il primo esame autoptico attribuiscono immediatamente la causa della morte a soffocamento e constatano che «il morto non aveva da parecchi giorni preso alimento alcuno»[74]; il medico del carcere, Pietro Ponzi, in un’intervista al «Messaggero», dice di non credere alla morte per fame, ma, pur non escludendo né affermando in modo assoluto alcuna causa, ritiene piuttosto che il decesso sia avvenuto «per congestione cerebrale» a seguito di percosse ricevute sulla nave («l’aneurisma del Frezzi!» commenta l’«Avanti!»), afferma che, pur avendo ordinato di dare del cibo a D’Angelo, non è certo i suoi ordini siano stati eseguiti[75], difende i guardiani e il direttore[76], pur rimettendosi ai risultati delle inchieste, e ammette un ricorso frequente alla camicia di forza[77]; sembra che nella notte fatale una guardia, infastidita dalle urla del marinaio «che non mangiava da tre giorni», gli abbia ulteriormente stretto le cinghie della camicia di forza e poi si sia addormentata[78]; secondo il «Messaggero» la stessa guardia gli avrebbe messo anche uno straccio bagnato in bocca per impedirgli di gridare[79], mentre secondo il «Giornale d’Italia», avrebbe usato un vero e proprio bavaglio, strumento peraltro in uso e che si dice sia conforme alle disposizioni regolamentari[80]; sempre il «Messaggero» riferisce che, dopo la prima notte, il vicino di cella, l’ex deputato Raffaele Palizzolo, si era lamentato con una guardia di non aver potuto riposare disturbato dai lamenti di D’Angelo e che questa gli avrebbe risposto ammiccando:

 

ha ragione, onorevole; ma la colpa è di quel fre…scone del mio compagno che ogni tanto si lascia convincere a dargli dell’acqua. Con la gola inumidita si capisce che grida. Ma io non sono tanto fre…scone; da oggi non gli do più da bere e stanotte, con la gola secca, ha voglia di gridare. Stia tranquillo, onorevole, che dormirà tranquillamente[81].

 

Le autorità dal canto loro tentano di ridurre al minimo i danni, senza peraltro cercare di andare a fondo nella ricerca della verità: la direzione generale delle carceri dispone un’inchiesta e Giolitti, allora ministro dell’Interno, ne affida personalmente un’altra al cavalier Cardosa, già direttore delle Carceri Nuove, inchieste di cui peraltro si riesce a sapere poco o nulla[82]; pare che sempre Giolitti faccia mettere agli arresti per misura disciplinare alcune guardie; il direttore di Regina Cœli, Enrico Kustermann, in carica da quattro anni dopo essere stato a Volterra e a Civitavecchia, viene immediatamente trasferito a Catania[83], suscitando le proteste della stampa siciliana[84] e dei socialisti, che sembrano stimarlo e soprattutto ritengono la sua presenza indispensabile per le indagini[85].

Ma la stampa non si limita a seguire attentamente gli sviluppi della vicenda. Sulle pagine dell’«Avanti!», oltre a dettagliati resoconti nella cronaca di Roma, compaiono in prima pagina anche alcune feroci vignette di Galantara[86] e ripetuti articoli nelle colonne nazionali che attaccano direttamente e pesantemente Giolitti, collegando il caso all’annosa polemica sugli arresti arbitrari (operati del resto anche negli stessi giorni di quello di D’Angelo, in occasione della visita del re d’Inghilterra e dell’imperatore tedesco[87]), ma anche contestando in generale i sistemi in uso nelle carceri italiane (e in particolare il ricorso alla camicia di forza) e criticando i tentativi di rallentare e insabbiare le indagini per coprire le responsabilità dirette nell’episodio[88]; alla vicenda viene dedicato anche un articolo di fondo, in cui Enrico Ferri, dopo aver stigmatizzato sarcasticamente l’episodio, sintomo in realtà di un sistema, ribadisce le sue idee sull’inutilità della carcerazione cellulare e in favore delle colonie penali agricole, ritorna sulla questione degli arresti arbitrari e denuncia le responsabilità politiche di Giolitti[89]. Il «Messaggero», a sua volta, fa risalire la causa della morte al ricorso alla camicia di forza e ai sistemi disciplinari in uso a Regina Cœli[90], ma ne trae anche conclusioni di carattere generale sulle condizioni di internamento nelle carceri italiane:

 

E’ l’ambiente che necessita cambiare, rifare, rimodernare. Occorre fissar bene in mente a tutto il personale direttivo, amministrativo, sanitario e subalterno, che i detenuti non sono animali da macello, bensì cittadini; e che tra gli avariati stanno i sani, gli onesti, gli innocenti come Giacomo D’Angelo: e che, ad ogni modo, verso tutti, indistintamente, si devono usare modi civili; che le guardie carcerarie devono considerarsi infermieri, non aguzzini; e molto meno carnefici[91].

 

Lo stesso giornale scrive che secondo alcuni ci sarebbero state altre morti misteriose a Regina Cœli[92], dove le sevizie sarebbero usuali[93], dà notizia di una denuncia sui maltrattamenti inflitti a dei detenuti a Napoli (percossi a sangue e poi astretti nella camicia di forza), che porta ad un’altra inchiesta affidata a Cardosa[94], e pubblica in prima pagina un’intervista di Italo Carlo Falbo ad Enrico Morselli, in cui «l’insigne psichiatra e alienista», pur non pronunziandosi sull’episodio specifico e ammettendo il ricorso alla camicia di forza (ma solo «in casi estremi», sotto completa responsabilità del medico e se opportunamente e adeguatamente applicata), afferma che «si può esser giustamente rigorosi, senza tramutarsi in veri e propri aguzzini», che, se ciò che è emerso dalle indagini è vero, «è orribile», che occorre dare maggiore importanza al servizio medico nelle carceri, affidandolo ad esperti «scelti fra gli studiosi di scienze psichiatriche e criminali, e mediante regolare concorso, e, soprattutto, che «è necessario creare degli istituti intermedi tra le carceri e i manicomii: i manicomii criminali», poiché

 

Altrimenti, si dica pure che la pena di morte è abolita solo di nome, ma in realtà conservata sotto forma più crudele perché più lenta e meditata. L’aver tolto ad un individuo la libertà, la donna e ogni divertimento, è di per sé pena gravissima, che aggravare con altre privazioni e con altre angherie non è umano[95].

 

E infine il «Giornale d’Italia», accentrando la sua attenzione soprattutto su Regina Cœli, dopo aver scritto che forse è stato occultato qualche mese prima un altro caso di morte sospetta in quel carcere[96], dove l’uso dei ferri corti ai piedi e del bavaglio sarebbe normale[97], chiede al ministro dell’Interno se sia vero che l’anno precedente è stata trasferita una guardia che aveva denunciato i maltrattamenti ai detenuti, che pochi mesi prima è morto un detenuto alle Carceri Nuove per mancanza di cure, che a Regina Cœli c’è un reparto, denominato “Bolognesi” dal cognome di una guardia, appositamente destinato all’applicazione della camicia di forza «con una frequenza addirittura eccessiva», che ad Alghero «vi fu una volta un direttore che aveva inventato una speciale camicia di forza (…) che chiudeva anche le gambe e che poi fu destituito, ma in seguito assunto come impiegato al Ministero dell’Interno»[98]; riferisce delle lettere di cittadini che testimoniano sulle urla continue dei reclusi e dei numerosi casi di suicidio[99]; denuncia le violazioni del regolamento e i maltrattamenti inflitti anche ad ammalati e minori[100].

Ma la campagna segue anche la via della mobilitazione popolare: di giorno in giorno si moltiplicano le prese di posizione e le iniziative «contro il sistema carcerario e contro l’assassinio del marinaio D’Angelo» da parte delle organizzazioni locali del Partito socialista, dal Galluzzo a Bologna, da Roma a Tivoli, da Livorno a Certaldo, da Firenze a Genova, da Napoli a Sanremo, da Castellamare a Vittoria[101]. Il 21 maggio, promossa dalla sezione romana del Partito repubblicano e accuratamente preparata[102], si tiene a Roma una grande manifestazione popolare – come era già accaduto per il caso Frezzi – per protestare «contro le inqualificabili infamie che si consumano impunitariamente nel silenzio impenetrabile delle nostre carceri»: all’iniziativa aderiscono la Camera del lavoro e numerose leghe operaie, l’Unione democratica, i radicali, i socialisti, i repubblicani e gli anarchici[103]; controllato da quasi 2700 tra carabinieri e poliziotti, il corteo, a cui partecipano anche il padre e il fratello del marinaio e diversi deputati, (50.000 persone secondo l’«Avanti!», 15-16.000 secondo il «Messaggero», senza bandiere e senza musica, in silenzio, solo con corone[104]) parte da Campo dei Fiori, raggiunge piazza Guglielmo Pepe, dove parlano gli oratori designati (Libero Merlino per gli anarchici, il deputato Italo Pozzato per i repubblicani, l’avvocato Ernesto Orrei per i radicali, Enrico Ferri per i socialisti e l’anarchico Pietro Calcagno «più volte sepolto a Regina Cœli arbitrariamente»), per concludersi al Verano «a deporre fiori sulla fossa di Giacomo D’Angelo»[105].

 

5. – Il “caso D’Angelo” in Parlamento

 

La vicenda approda naturalmente anche alla Camera, dove vengono presentate numerose interrogazioni (e non solo da deputati di sinistra)[106], alle quali il 16 maggio, dopo qualche rinvio[107], risponde però non Giolitti[108], ma il sottosegretario Scipione Ronchetti, mentre «la Camera si fa attentissima; le tribune pubbliche sono gremite». Questi, dopo aver ricostruito l’episodio in maniera burocraticamente minuziosa ma reticente, seguendo una prassi usuale, afferma, interrotto più volte, di non poter né rispondere ai molti interrogativi ancora aperti, nonostante i «sentimenti palpitanti» del suo animo, né fornire informazioni sui risultati dell’inchiesta amministrativa, perché è ancora in corso un’indagine giudiziaria, ma dichiara di assumere l’impegno, dovuto,

 

che noi agevoleremo in tutti i modi l’azione dell’autorità giudiziaria, che apporteremo il concorso volonteroso della nostra opera perché intera si conosca la verità, perché le investigazioni siano sollecite e complete, e perché nessuno, in qualunque ufficio si trovi, qualunque il nome che porti, sfugga alle responsabilità che gli possano spettare.

 

Ronchetti difende quindi i provvedimenti governativi, compreso il trasferimento di Kustermann e di altri due impiegati, deciso per favorire la scoperta di possibili colpevoli consentendo di raccogliere testimonianze senza condizionamenti, e conclude affermando che da tempo il governo è impegnato ed ha avviato gli studi per una riforma dei regolamenti carcerari «che pur troppo non rispondono in alcun modo né alle esigenze moderne delle discipline carcerarie, né alle esigenze in parte dell’umanità», come dimostra la presentazione del progetto di legge sul lavoro dei condannati all’aperto[109], ma che si tratta di un problema che «per la sua complessità e importanza, non si poteva risolvere senza meditazione»[110].

Nessuno degli interroganti si accontenta però di queste assicurazioni e promesse ministeriali. Socci si dichiara insoddisfatto della risposta, con l’eccezione dell’ultima parte (sempre che alle parole seguano i fatti), si sofferma sul comportamento del medico del carcere, che ritiene riprovevole, ma soprattutto condanna fermamente l’uso della camicia di forza, «strumento di inquisizione e indegno di un popolo che si rispetta, maledetto da tutta la gente di cuore», a cui invece si ricorre largamente[111], e ne auspica l’immediata abolizione, in mancanza della quale il governo sarebbe «non solo responsabile, ma complice di tanto delitto». Santini lamenta di non aver ricevuto alcuna risposta sulle «cause che avrebbero determinato la morte, non naturale, frase molto cortese» di D’Angelo, dichiara che si vergogna dell’accaduto «quale italiano e quale medico», che l’applicazione della camicia di forza è avvenuta violando le norme in proposito[112], che la vittima non avrebbe dovuto essere portata in un carcere, che «il Governo ha voluto levarsi la responsabilità, punendo il direttore; ma non è sicuro se questo sia colpevole o no», che è certo che tutto finirà «in un bicchier d’acqua», come nel caso Frezzi, perché «ormai anche i partiti estremi sono addomesticati», e conclude chiedendo un ritorno alla pena di morte[113]. Turati, dopo aver accennato al fatto che l’arresto di D’Angelo (come di consueto) era illegale, che «i mezzi di tortura autorizzati nelle nostre case di pena sono ormai aboliti anche nei manicomi per gli stessi pazzi furiosi» e che «ad ogni modo, anche per le nostre carceri, il regolamento pone dei freni, e al regolamento non fu obbedito»[114], afferma che fatti del genere sono «come finestre che si aprono d’un tratto e che gettano un’immensa luce su tutto un tenebroso viluppo di cose tristi e delittuose», cioè sul mondo delle prigioni, «un paese assolutamente sconosciuto … un paese di dolori e di soprusi in cui occhio umano non penetra» e dove tutto può accadere[115]; l’unica soluzione è quella di cambiare radicalmente tutto il sistema[116], certo non limitandosi ad adottare provvedimenti come i lavori all’aperto – «riforma, dice Turati, che io temo troppo nasconda un ritorno alla pena di morte per effetto di malaria contro infelici sprovvisti d’ogni difesa» – e per fare ciò sarebbe forse bene cominciare a valutare se non sia opportuno affidare la competenza sulle carceri al ministero di Grazia e giustizia anziché a quello dell’Interno[117] e soprattutto istituire una commissione parlamentare d’inchiesta sul sistema carcerario italiano «fatta da persone oneste, competenti, indipendenti, munite di pieni poteri, che vivano per un po’ di giorni la vita delle carceri». Infine Mazza sostiene che la prima parte della risposta di Ronchetti è «una confessione manifesta ed esplicita che tanto l’autorità di pubblica sicurezza, quanto i carabinieri (…) e le autorità carcerarie hanno violato la legge» e che conferma «la responsabilità amministrativa e penale di coloro che, con tanta ferocia e con tanta inciviltà» hanno deciso di ricorrere alla camicia di forza, accusa il medico del carcere di essere «il principale complice di questo delitto» e ricorda che egli stesso già nel 1901, nella relazione al bilancio dell’interno, definiva il regolamento carcerario (riferendosi in particolare anche alla previsione del digiuno, dei ferri e della camicia di forza) «difettoso e incivile», «iniquo, orrendo, cento volte più orrendo del capestro e della mannaia».

Non a caso quindi, due giorni dopo, numerosi deputati delle opposizioni di sinistra (Filippo Turati, Enrico Ferri, Agostino Berenini, Savino Varazzani, Ettore Ciccotti, Oddino Morgari, Angiolo Cabrini, Carlo Catanzaro, Ettore Socci, Gustavo Chiesi e Filippo Garavetti) presentano una mozione formale perché «ad una Commissione di dieci deputati eletti dal Presidente della Camera sia demandata un’inchiesta con pieni poteri d’indagini su tutto il sistema delle carceri e dei riformatorii con mandato di riferire alla Camera nel novembre prossimo»[118], ma l’iniziativa è destinata a cadere nel vuoto; del resto già alcuni anni prima due proposte analoghe avanzate da Imbriani con la presentazione di una mozione e di un ordine del giorno[119], si sono scontrate con il rifiuto di Di Rudinì[120] e miglior sorte non ha avuto la stessa richiesta fatta da Socci con un’interrogazione [121], né avranno seguito le richieste in tal senso avanzate da Romussi e Turati nel 1906 con due delle interpellanze relative al caso Angelelli-Acciarito[122].

E infine Chimienti presenta un’interpellanza al ministro dell’Interno per sollecitare comunque un’immediata modifica del regolamento carcerario

 

nel senso di togliere dal novero delle punizioni da infliggersi ai detenuti la camicia di forza, la quale, discussa dalla scienza medica ed ammessa, e non da tutti, come necessità dolorosa, costituisce, senza dubbio, inflitta come pena disciplinare, dalle autorità dirigenti delle carceri e dei reclusorî, uno strumento obbrobrioso e selvaggio di tortura fisica[123],

 

mentre il professor Luigi Maria Bossi, che sull’argomento ha già pubblicato una lettera aperta ai medici italiani[124], coglie l’occasione per presentare un’interrogazione sui criteri di nomina dei medici carcerari e sull’opportunità di provvedervi con concorso, ma Ronchetti risponde che ciò si fa già, almeno per le carceri di maggiore importanza, e con ottimi risultati[125], lasciando almeno in parte insoddisfatto l’interrogante[126].

L’anno seguente, nel corso della discussione sul bilancio dell’Interno, Turati ricorderà nuovamente i casi di Frezzi e D’Angelo, come esempi dell’interesse solo occasionale per la situazione delle carceri italiane, destinato a rimanere senza seguito dopo l’emozione momentanea suscitata da singoli episodi:

 

tratto tratto, qualche caso sanguinoso, l’episodio di un Frezzi, o di un D’Angelo, apre una breccia, projetta un raggio sinistro nel buio delle cose dei morti nel nostro Paese. Allora l’opinione pubblica insorge per un momento, qualche deputato interroga, il ministro dell’Interno risponde che provvederà, e i sepolcri tornano a chiudersi ermeticamente finché qualche nuova tragedia non li dissuggelli[127].

 

6. – Una morte senza responsabili

 

Pochi mesi dopo, il 7 novembre, alla sesta sezione del Tribunale di Roma si apre il processo contro il medico, l’ex direttore, un capoguardia, due sottocapi e quattro guardie di Regina Cœli imputati di omicidio colposo[128]. Nel corso delle udienze emergono molti elementi che gettano nuove ombre sia sul caso specifico in discussione sia, più in generale, sulle condizioni di vita nelle carceri italiane. Un sottocapo dice di non saper nulla della fascia al torace, ma «ammette però che fu applicata ad altri detenuti», un altro, già condannato per ferimento, «alla osservazione del presidente che egli avrebbe avuto l’obbligo di assicurarsi che il D’Angelo fosse sciolto nelle ore del pasto risponde che la disposizione riguarda i detenuti in punizione e non quelli aventi la camicia di forza per misura precauzionale» e una guardia «trovò che [D’Angelo] aveva orinato nel letto, ma non lo sciolse perché, essendo agitato, doveva aspettare la visita medica»; il dottor Ponzi, che riceve attestati di stima pressoché unanimi, sostiene che la camicia di forza è stata applicata a D’Angelo «secondo il regolamento», ricorda che «qualche anno indietro propose ed ottenne l’abolizione di un certo cassone che era una barbarie», «afferma che la discussione del processo si deve a lui» e spiega che dopo la morte del marinaio la camicia di forza non è stata più messa agli agitati, ma che «questo provvedimento ha tramutato il reparto in una bolgia infernale»; Kustermann spiega che

 

diverso è il sistema di applicazione della camicia di forza a seconda che si tratti di agitati o puniti. Al D’Angelo fu messo un corpetto con le braccia piegate sull’addome, lateralmente assicurate con cinghie ai ferri della branda per impedire che si muovesse. La camicia di forza che si applica ai puniti ha le fibbie dietro e permette di stare in piedi[129].

 

Una guardia, sempre rispondendo ad una domanda del presidente, afferma «che i detenuti legati per sicurezza personale non vengono sciolti durante i pasti e per i bisogni corporali»[130]. Un detenuto

 

fa inoltre rilevare che le guardie non mostrano al dottor Ponzi tutti i detenuti ai quali applicano la camicia di forza, perché essendo egli di cuore buono li fa subito sciogliere. Invece li fanno visitare dal Montechiari che li fa stare fino a venti giorni legati,

 

e un altro dichiara che

 

fu per punizione tenuto quindici giorni con la camicia di forza; questa era talmente stretta che si sentiva soffocare, tanto più che la guardia Orlando gli aveva messo una coperta sul viso. Dalla guardia Sopranzi fu anche battuto. Assicura che fu visitato dal Montechiari una volta sola in quei quindici giorni[131].

 

Un ex detenuto testimonia a sua volta che

 

gli fu applicata più volte la camicia di forza che veniva sempre fatta allentare dal dottor Ponzi perché gli agenti, quando non vi sono i superiori, non hanno pietà per alcuno. Ricorda pure che il dottor Ponzi raccomandava sempre alle guardie che pensassero alla nutrizione dei detenuti legati[132].

 

Il cavalier Cardosa cerca di sminuire le responsabilità del personale, rispetto a quanto ha scritto nella relazione al ministro, acquisita agli atti, mentre il direttore generale Doria

 

afferma che il personale carcerario è vittima continua di ingiuste accuse … Dichiara di avere una grandissima stima del dottor Ponzi come uomo e come professionista, tanto che se non fosse sopravvenuto il caso D’Angelo era già pronta la sua nomina a cavaliere della Corona. Circa il cavalier Kustermann dice che è un distinto funzionario, ma non crede che abbia tutte le qualità necessarie per dirigere uno stabilimento qual’è Regina Cœli[133].

 

Infine

 

un emozionante incidente, si ebbe quando il p. m. annunziò di aver ricevuto dalla madre del detenuto Albani, uno dei più importanti testi a carico, una lettera nella quale denunziava che il proprio figlio era stato maltrattato dai guardiani a causa della deposizione resa in giudizio, e chiese che fosse richiamato e sentito il teste. Infatti, di lì a poco, compariva pallido, emaciato, disfatto l’Albani negli abiti del recluso, mentre la prima volta era comparso vestito dei suoi panni e di florido aspetto; ma la difesa si oppose energicamente a che fosse inteso, e il tribunale le diede ragione. Fu allora che un avvocato della p. c. osservò giustamente che non importava sentirlo, ma bastava vederlo[134].

 

Il 1° dicembre il tribunale pronunzia la sua sentenza, che, nonostante tutto ciò, assolve gli imputati «per inesistenza del reato loro ascritto»[135]: secondo la corte, la stessa perizia d’accusa, caratterizzata da dubbi e incertezze, sostiene che D’Angelo doveva essere affetto da delirio acuto – una «cerebro-psicopatia (…) determinata sopra un fondo di debolezza nervosa, presumibilmente congenito, e resa ancor più suscettibile dall’azione dell’alcol, dalle contrarietà recentemente subite dal D’Angelo e soprattutto dagli ultimi episodi della sua vita» – anche se non è possibile stabilirne la gravità, e in presenza di tale affezione, come sostiene la perizia a difesa del dottor Ponzi, la causa immediata della morte va individuata nel «collasso, fine naturale e normale del delirio acuto», «in un fatto cioè naturale», mentre gli altri presunti coefficienti colposi (l’applicazione della camicia di forza, l’alimentazione insufficiente, le condizioni igieniche, la mancanza di assistenza[136]), né singolarmente né nel loro complesso, «in ogni caso non avrebbero mai il carattere di causa efficiente per la evidente, intuitiva sproporzione tra la loro entità, i loro effetti anormali e l’evento letale che avrebbe dovuto esserne la conseguenza».

Quei coefficienti, «sempre quando ne fosse dimostrata la sussistenza», potrebbero però aver causato un danno e quindi essere puniti come lesioni personali colpose, ma l’esame delle singole specifiche responsabilità degli imputati porta ad escludere anche questa ipotesi. Infatti, quanto al medico e agli agenti, va anzitutto tenuto conto dell’«ambiente delle carceri, nel quale da una parte la pazzia va soventi accanto alla simulazione e d’altra parte manca qualsiasi personale tecnico d’infermieri che possa fornire al medico i dati necessari per distinguere i pazzi dai simulatori». Perciò il medico – la cui responsabilità «non può essere misurata con i criteri comuni in materia di colpa, ma alla stregua di quei criteri più larghi universalmente riconosciuti, che reggono oggi la valutazione capacità professionale dei medici» e quindi limitata alla colpa grave – non avrebbe potuto «formare (…) una diagnosi della malattia» e sarebbe stato legittimo il sospetto di simulazione, per cui non gli si può rimproverare né «la permanenza di mezzi coercitivi contrari alla natura del morbo», anche ammessa tale discussa contrarietà e tenuto conto che ha usato quello che aveva a disposizione[137], né il «nichilismo alimentare»; anche altri addebiti, indicati «nella brevità delle visite, e nell’aver usato il dermotatto anziché il termometro (…) ed infine nel nichilismo terapeutico» sono privi di fondamento[138]; inoltre «alla pubblica udienza ebbe da medici illustri, da agenti del carcere, dai detenuti tutti unanimi lodi per la sua intelligenza, perizia e mitezza». Quanto agli agenti di custodia[139], la loro responsabilità «appare nei riguardi della malattia del D’Angelo anche minore di quella del medico, che coll’approvazione data all’applicazione della camicia di forza viene quasi ad eliminare su questo punto la responsabilità degli agenti». Infine, per ciò che riguarda il capoguardia e il direttore, «l’alta sorveglianza che spettava a costoro, e specialmente all’ultimo, sull’intero stabilimento di Regina Cœli la cui popolazione varia fra i 1200 e i 1500 detenuti, basterebbe già ad eliminare qualsiasi diretta responsabilità penale»; inoltre, avendo il capoguardia visitato due volte D’Angelo e riferito al direttore, «da lui non si poteva pretendere maggiore diligenza», mentre, «trattandosi di sospetto alienato» dell’applicazione della camicia di forza era «arbitro» il medico e non Kustermann, al quale non si può neppure addebitare né il fatto di non aver visitato personalmente D’Angelo né un’abituale applicazione della camicia di forza eccessivamente frequente[140].

La sentenza, oltre ad un tentativo di manifestazione di protesta[141], suscita qualche polemica: la «Rivista di discipline carcerarie», prima ancora di pubblicare «di buon grado» il testo della sentenza assolutoria «per aderire alle ripetute raccomandazioni fatteci dai nostri abbonati»[142], esprime la sua viva soddisfazione per l’esito del processo:

 

Di questo pronunziato dei magistrati nostri molto hanno da compiacersi la «Rivista» e l’Amministrazione carceraria, inquantoché, più di una vittoria giudiziaria, esso rappresenta per il personale delle Carceri una rivincita morale, contro una corrente di ingiusta antipatia e di mal dissimulato odio di parte. Nel lungo dibattito, malgrado l’artifiziosa e preconcetta montatura dell’ambiente, la voce serena della scienza ha prevalso … Così l’Amministrazione delle Carceri ed il suo benemerito personale, contro cui eransi scagliate per naturale reazione dello spirito pubblico, al primo annunzio del caso insolito, le ire dei malevoli, risorge ora detersa da questo lavacro di prove giuridico-scientifiche; perché, come mai era avvenuto che funzionarî ed agenti preposti ad un delicato ed importante servizio pubblico, qual è quello della custodia dei detenuti, si fossero macchiati di un reato tanto grave, neppure nell’ordine giuridico della semplice colpa, così oggi è luminosamente provato da elementi testimoniali non sospetti, che manca nel personale stesso anche la capacità a delinquere, malgrado la lotta incresciosa ch’esso combatte ogni giorno, e le occasioni provocatrici e pericolose, ed i sistemi che gli sono imposti nella lotta stessa[143];

 

la «Rivista penale» è invece particolarmente critica nei confronti della sentenza, che commenta con amaro sarcasmo:

 

Per l’uccisione di Frezzi tutto fu liquidato in sede istruttoria; per la morte, non uccisione, del marinaio D’Angelo c’è voluto il dibattimento alla sesta sezione del Tribunale di Roma. Un dibattimento che à dato uno splendido risultato: assoluzione generale … per quanto sembri inverosimile, nessuna responsabilità si è potuta stabilire di fronte al fatto accertato e inconcusso che Giacomo D’Angelo, arbitrariamente detenuto nel carcere di Regina Cœli, sottoposto alla tortura della camicia di forza, vale a dire con gambali di cuoio ai piedi e con solide fascie alle braccia e al petto, fissate agli orli della branda, dopo cinquant’ore di spasimi moriva la mattina del 5 maggio 1903. Diamo dunque la colpa all’enormità e medievalità dei regolamenti come già fece alla udienza il sost. proc. del re Puija, invocandone l’immediata e completa riforma[144];

 

e anche il «Messaggero» pubblica un articolo altrettanto severo, anche se addebita una buona parte di responsabilità ai periti:

 

La sentenza che li assolve è logica … Poiché gli uomini della scienza si erano ricreduti e ritenevano il marinaio morto di morte naturale, era naturalissimo che i giudici accettassero le loro ultime conclusioni. Dato che D’Angelo doveva morire, in carcere come in casa, come in mare ad epoca fissa, o quasi e che morì perché tale era il suo destino, che sarebbe morto anche se ben nutrito, i giudici dovevano passar sopra a tutte le testimonianze in contrario e ritenere che unico colpevole della sua morte fosse il destino. E come nessun tribunale è chiamato a giudicare il destino, ma solamente gli uomini, poiché gli incausati apparivano colpevoli solo di qualche negligenza era in obbligo di assolverli. E li assolse … Il buon vecchio marinaio [il padre] vada a nascondere il suo atroce dolore sui flutti dell’Oceano, invece di presentarsi dinanzi ai giudici a chiedere vendetta per la morte del figlio. Questi è morto di morte naturale. Lo ha detto la scienza e lo ha confermato la giustizia. Tutt’al più si potrà pensare a far ricoverare la madre di Giacomo nel manicomio quando verrà dimostrato che ella sia veramente impazzita per la miseranda fine del figlio suo![145]

 

7. – Il regio decreto 14 novembre 1903 n. 484 e la sua applicazione

 

Con l’assoluzione di tutti gli imputati cala definitivamente il sipario anche sul «pietoso caso di quel povero marinaio D’Angelo, morto, non ammazzato, nel carcere di Regina Cœli a Roma»[146] e tuttavia il clamore suscitato dalla vicenda e la battaglia delle opposizioni portano a qualche risultato, sia pure minimo. Infatti poco prima della sentenza viene pubblicato un decreto che si limita però a modificare alcuni articoli del regolamento generale carcerario, senza intaccarne l’impianto complessivo: non quindi una riforma generale, come aveva promesso il sottosegretario Ronchetti, ma solo qualche ritocco al regolamento del 1891, come rileva criticamente Turati[147]. E se si legge la relazione al ministro del direttore generale Doria, a nome della commissione, si vede chiaramente come

 

l’intento della riforma – scontato un generico fine umanitario e pietistico – non è di mutare il fondamento del sistema disciplinare, ma semplicemente di razionalizzarlo, eliminando alcune infrazioni e punizioni che non avevano dato buona prova e introducendone altre di cui si era avvertita l’esigenza, in modo da snellire la complessa materia e renderla di più facile interpretazione e applicazione[148].

 

In particolare ferri, cintura e camicia di forza scompaiono dal novero delle punizioni previste per le infrazioni disciplinari dei detenuti ed è ammesso soltanto il ricorso alla cintura come «mezzo preventivo e repressivo contro le violenze», a determinate condizioni e con particolari cautele:

 

Art. 5. Quando sia assolutamente indispensabile di reprimere le violenze a cui i detenuti si abbandonino per momentanea esaltazione mentale o per deliberato proposito di aperta ribellione, è ammesso l’uso della cintura di sicurezza, come mezzo preventivo e repressivo ad un tempo, al solo scopo di contenerli e di impedire che essi producano danno materiale a se stessi e agli altri. L’applicazione di siffatta cintura, quando i mezzi morali siano riusciti inefficaci e vani, può essere fatta, in via d’urgenza, per ordine del comandante o capoguardia, e alla sua presenza, con ogni cautela; detti graduati hanno però l’obbligo di darne immediato avviso al direttore, il quale fa chiamare subito sul luogo il sanitario e a lui rimette il giudicare se tale sistema di repressione sia per ogni singolo caso da continuarsi, e per quanto tempo, da sospendersi o da risparmiarsi; il sanitario stesso dà in proposito le opportune disposizioni scritte, da firmarsi sul registro dei rapporti.

 

Anche in questo caso specifico, la relazione di Doria palesa però come la misura sia suggerita senza molta convinzione, quasi per forza, a seguito anche del clamore suscitato dal “caso D’Angelo”, e come la proposta non manchi di ambiguità:

 

Degli antichi sistemi carcerari, inspirantisi ad un concetto di vendetta sociale, residui della barbarie derivante dall’antica legge mosaica del taglione, è oggi tuttora in piedi, come un rudero superstite tra gli edificî della civiltà nuova, quello della coercizione corporale afflittiva, quale mezzo di punizione e di repressione ad un tempo, constituente in sostanza un aggravamento indebito, anzi un inasprimento della pena. La lunga esitanza nello sbarazzarsi di tale vestigio di crudeltà deve però attribuirsi piuttosto alla necessità della difesa contro il maleficio; che tanti sono purtroppo, ora più che mai, gli agguati e i tradimenti avverso la legge, quella penale in ispecie, nella sua applicazione, e così disperata è la lotta per la libertà e contro l’individuale costringimento. La persistenza nel mantenerlo, malgrado la critica incessante, è dovuta senza dubbio assai più alla indomita malvagità umana che alla pretesa crudeltà di legislatori e di amministratori; questo ultimo avanzo di un sistema ormai condannato ha resistito finora quale bisogno disciplinare supremo, ritenuto imprescindibile arma di difesa e come garanzia d’ordine nelle carceri. Cionondimeno la pubblica opinione, la coscienza universale reclamano ora l’abolizione anche di questo ultimo vestigio dei tempi andati … [la commissione] credette poi suo imprescindibile dovere proporre la soppressione d’ogni strumento di coercizione corporale e di tortura fisica, come la camicia di forza ed i ferri … si è ritenuto necessario ammettere però l’uso di una cintura di sicurezza quale mezzo contenitivo per gli agitati, siano essi affetti da vere psicosi, o semplicemente spinti alle violenze da cosciente malvagità, ma si è riservato l’uso di tale mezzo al giudizio e alla responsabilità del sanitario, onde evitare lo stesso pericolo d’inconvenienti e di danni alla salute fisica e psichica dei detenuti[149].

 

E sempre Doria, pochi mesi dopo, definisce le questioni interpretative poste dai direttori «dubbiezze e perplessità, di carattere assolutamente transitorio, d’altronde inevitabili nel passaggio rapido quanto inopinato da un metodo all’altro»[150].

Non si creda però che anche una riforma minima come questa passi in maniera pacifica ed indolore e sia tranquillamente accettata da tutti. Lo stesso direttore generale, pur prendendo in qualche modo le distanze[151], ospita sulle pagine della rivista dell’amministrazione carceraria un articolo fortemente critico di Epaminonda Querci Seriacopi[152], un funzionario che diventerà ispettore generale. A suo parere, infatti, l’abolizione dei ferri e della camicia di forza come strumenti punitivi, dopo quella della catena dei forzati[153], è certo un’idea «nobile ed elevata»,

 

ma se agli entusiasmi generosi del primo momento succeda la calma riflessione dello spirito, potrà forse apparire troppo ardita e non sufficientemente ponderata questa riforma così radicale, dovuta evidentemente ad una spinta occasionale, irresistibile per la sua natura e forma rivoluzionaria, più che alla evoluzione logicamente e ragionevolmente innovatrice ch’è il risultato naturale del felice connubio tra scienza ed esperienza. Perché noi, chiamati per dovere d’ufficio ad applicare la legge penitenziaria, noi soli che sosteniamo il peso di una responsabilità gravissima, noi soli che combattiamo la lotta contro il malefizio, acuita dalle circostanze speciali inerenti alla espiazione della pena, possiamo avere la visione chiara e completa delle conseguenze di una troppo ardita riforma; visione che sfugge naturalmente a tutti coloro i quali dopo aver propugnato per ispirito di liberalità e per intenti di civile filantropia la causa dei pretesi oppressi, non sanno, o non possono o non curano d’interessarsi degli effetti relativi. E un dubbio penoso ci assale al pensiero, non pure della responsabilità personale nostra, ma delle conseguenze immediate e mediate di un mutamento forse troppo repentino nella compagine dell’organismo carcerario, con tanto evidente e rimarchevole sproporzione tra causa ed effetto; e pensiamo che il voler secondare con arrendevolezza forse soverchia una corrente artifiziosa e diremo pur tendenziosa nei riguardi della spinta ad essa data dai partiti estremi, provocata da un fatto singolo ed unico – alimentata in sostanza dalla propaganda di un morboso sentimentalismo; il voler seguire l’impulso occasionale onde s’impone una riforma che i pratici giudicano prematura perché non reclamata dai risultati positivi di un sistema che la scienza e l’umanità abbiano veramente condannato, o dagli eccessi nell’abuso di un metodo – né richiesta infine dal maturo consiglio della dottrina e dell’esperienza, rechi una scossa sensibile all’organismo stesso – inceppi per avventura il retto funzionamento di una istituzione secolare – nuoccia all’ordine pubblico e all’amministrazione della giustizia e non giovi per converso al principio fondamentale della emenda dei colpevoli.

 

Gli argomenti che Querci Seriacopi usa per contestare la novità introdotta dal decreto appena pubblicato sono vari e di vario genere. Anzitutto va premesso che le prigioni sono essenzialmente luoghi di punizione e quindi di sofferenza e di costrizione, attuate inevitabilmente con l’impiego della forza[154]; ciò costituisce una «causa, benché ingiusta, di avversione latente … un elemento di dissensione e di lotta» dei detenuti nei confronti del personale di custodia, che comporta «la evidente necessità di un sistema di difesa (…) che consiste appunto nell’istituto disciplinare, il quale vuole essere rigoroso nei mezzi e nella applicazione » e che quindi «deve trascendere a dibattito di lotta materiale violenta». In secondo luogo le punizioni corporali sono in uso, e in misura ben maggiore, in tutti i paesi civili, a cominciare dall’Inghilterra (e qui fa capolino anche una velata nostalgia per la pena di morte)[155]. Inoltre l’abolizione non trova una giustificazione logica né «nel progresso della educazione individuale e sociale e nel sollevarsi del livello morale del popolo», cioè in una diminuzione della delinquenza e in un miglioramento degli istinti della «folla delinquente», né nel fatto che tali castighi siano «un aggravamento arbitrario della pena stabilita dal codice, arbitrariamente inflitti come un raffinamento di crudeltà, anziché una vera e propria garanzia dell’ordine contro l’opera demolitrice di elementi sovversivi» ed è invece «in aperta contraddizione colle necessità antropologiche, biologiche e sociologiche del modo moderno»[156]. Infine il ricorso a quei mezzi, all’impiego della forza, non ha uno scopo offensivo, ma puramente difensivo e, abbandonando il campo della teoria, l’esperienza pratica dimostra che è assolutamente necessario[157].

Se poi si passa dal campo delle disquisizioni teoriche a quello dell’applicazione pratica del decreto, come spesso accade, le sorprese non mancano.

Qualche mese dopo la pubblicazione, la Direzione generale delle carceri stabilisce che le cinture di sicurezza «di tipo uniforme unico» saranno prodotte dal penitenziario di Ancona e che i singoli stabilimenti dovranno rivolgersi a quello, «incaricato della preparazione e fornitura di tale strumento»[158], anche perché alcuni direttori continuano domandare informazioni in proposito e a proporre soluzioni temporanee[159]: il direttore di Padova chiede di poter «usare frattanto la camicia di forza per quei detenuti che trovansi nelle condizioni d’esaltazione pericolosa di cui parla lo stesso articolo e dei quali trovansi in questi stabilimenti tre o quattro» e viene autorizzato «con ogni cautela e solo quando il Sanitario lo ravvisi opportuno»[160]; quello di Napoli, «per i bisogni del momento che purtroppo in queste carceri facilmente si verificano», riterrebbe opportuno rivolgersi al manicomio e ottiene una risposta favorevole «qualora a parere del Sanitario non sia conveniente applicare gli strumenti di coercizione finora in uso»[161]; quello di Turi chiede se, in attesa di avere le cinture, «possa continuarsi a fare uso della camicia di forza»[162].

Ma le consegne delle nuove cinture di sicurezza procedono a rilento e comunque alcuni direttori continuano ad usare i vecchi sistemi, chiedendo esplicitamente di essere autorizzati a farlo. Il direttore di Firenze, su sollecitazione del medico, domanda se le nuove disposizioni si devono intendere estese anche «all’uso, nelle infermerie carcerarie, del letto di forza, (…) il quale anche prima d’ora fu mezzo non di punizione, ma di cura»[163] e richieste analoghe giungono da L’Aquila[164], Sulmona[165], Pianosa[166] e Venezia[167]; il procuratore generale di Napoli riferisce che il procuratore del re di S. Maria Capua Vetere gli ha chiesto l’autorizzazione al trasferimento dalla carceri locali di un pericoloso camorrista,

 

il quale simulando una pazzia tendente al suicidio, manteneva in movimento tutto il personale di custodia, con grave danno del servizio; ed aggiungeva che, nel fine di evitare qualche sinistro, quel Direttore, a premura del Sanitario, gli aveva fatto applicare la camicia di forza. Interessato da me a dire come, non ostante la abolizione, si adoperasse tuttora la camicia di forza, ha ora assicurato che, in mancanza delle cinture di sicurezza delle quali, dopo reiterate richieste alla Casa di Reclusione di Ancona, unica fornitrice, soltanto nel 16 volgente ne furono spedite talune, fu dai sanitari delle carceri, sotto la loro responsabilità, ordinato l’uso della camicia, come unico mezzo di freno, essendosi il Puglisi, nel momento della sovraeccitazione, da cui venne preso, reso pericoloso a sé ed agli altri detenuti; ma che la stessa fu tolta immediatamente, poiché il detto detenuto rientrò subito in calma[168];

 

la direzione delle carceri giudiziarie di Napoli invece «propone l’imbottitura di alcune celle da destinarsi agli epilettici che non è conveniente conferire nei manicomi giudiziari del Regno», ma non ottiene risposta[169].

Ciò che più colpisce non è però questa sorta di resistenza passiva da parte delle autorità periferiche, che, peraltro, almeno formalmente, fa riferimento soprattutto al problema del trattamento da riservare agli “agitati”, quanto piuttosto l’atteggiamento che assume la Direzione generale, che infatti, dopo qualche titubanza iniziale[170], provvede a stilare una risposta standard che viene poi inviata tale e quale a tutte le richieste: il decreto non autorizza alcuna interpretazione arbitraria, ma

 

si avverte che (…) ha bensì soppresso gli strumenti di coercizione corporale in uso come aggravamento di gastigo, e cioè la camicia di forza ed i ferri, ma non ha introdotto limiti a quelle prescrizioni, che i sanitari credessero di stabilire in ogni singolo caso per la sicurezza dei detenuti e di coloro che devono avvicinarli[171],

 

per cui tutte le domande vengono accolte, purché siano rispettate tali condizioni.

Il problema non si pone soltanto nella fase transitoria di prima applicazione del decreto; anzi, col passare del tempo, le cinture di sicurezza risultano (o vengono ritenute) inefficaci e di difficile applicazione, per cui alcuni direttori chiedono di poter ricorrere a mezzi alternativi, fra cui i ferri, il cui utilizzo è stato implicitamente abolito.

Il direttore della colonia coatta delle Tremiti chiede, senza alcuna spiegazione, l’autorizzazione ad «acquistare sei ferri in uso presso i RR. Carabinieri ed Agenti di Pubblica Sicurezza da sostituire alle cinture di sicurezza» ed in questo caso la risposta, forse anche per la mancanza di qualsiasi motivazione, è negativa «perché l’uso di tali mezzi repressivi non sarebbe consentito dalle attuali norme disciplinari per gli Stabilimenti carcerari alle quali sono anche i coatti assoggettati»[172]. Qualche tempo dopo però il direttore di Portoferraio chiede un parere sul fatto che ha applicato i ferri ad alcuni detenuti aggregati dalla sezione di rigore di Portolongone, «che trascendevano a violenza contro le cose e contro le persone, e per i quali erano stati inutili i modi persuasivi e la presenza della forza pubblica», così come lo stesso impiego delle cinture di sicurezza, che in generale «non sono di pratica applicazione a detenuti ribelli, sia per la fatica che occorre per adattarle, sia perché dopo adattate i detenuti se ne liberano in pochissimo tempo e se ne fanno un’arma con la quale aggrediscono gli agenti posti alla loro custodia»[173]; il direttore della casa di reclusione di Amelia chiede se può aderire alla richiesta, avanzata da quello delle carceri giudiziarie di Perugia, «di cessione gratuita dei ferri di punizione qui disponibili» e se può usare i ferri anche lui «in caso di assoluta necessità, poiché mancano qui le celle d’isolamento»[174]; il direttore di Firenze scrive a sua volta:

 

la poca praticità delle attuali cinture di sicurezza e facilità con cui i detenuti ribelli riescono a liberarsene, mettono spesso la Direzione in una condizione veramente imbarazzante perché, dagl’inconvenienti suddetti, i cattivi tolgono argomento per imporsi e tenere in non cale la disciplina sapendo che per essi non esistono altri mezzi di repressione. In attesa quindi di provvedimenti atti a sostituire altro ordigno alla cintura predetta, io vedomi obbligato a chiedere a codesto R. Ministero l’autorizzazione, in via eccezionale, per l’uso dei ferri alle mani ed ai piedi. E siccome so che tale autorizzazione è già stata impartita ad altre Direzioni, resto in attesa degli ordini opportuni, avvertendo che detto mezzo di repressione sarà usato unicamente in casi eccezionalissimi e previo parere del Medico Chirurgo[175].

 

In tutti questi casi, con un significativo mutamento d’indirizzo, la direzione generale risponde positivamente: «nulla vieta che ove i detenuti ribellandosi al regime disciplinare si rendano pericolosi a sé e agli altri, sul consiglio del Sanitario, si usino mezzi idonei a contenerli nei loro atti impulsivi e violenti», compresi i ferri[176].

Invece il direttore di Saliceta S. Giovanni (Modena), dopo ripetute insistenze del medico, manda una sua relazione in cui afferma

 

avergli l’esperienza dimostrato in modo assoluto che la cintura di sicurezza (…) non si può convenientemente adottare per frenare i detenuti in preda a delirio maniaco, ed agli epilettici durante gli accessi, in quanto che, oltre di essere di non facile applicazione, riesce dannosa ai pazienti per la sua conformazione. Soggiunge che molto più adatto e pratico sotto ogni aspetto è un corpetto di tela in uso presso quasi tutti gli ospedali civili, (…) le cui cinghie posteriori sono da legare tra loro sotto la branda

 

e ne allega un modello avuto dall’ospedale di Modena, «dove la sua diuturna applicazione non ha mai cagionato inconvenienti»; la direzione generale, pur contestando le affermazioni del medico, anche in questo caso rinvia alle autorità locali la scelta dei mezzi più idonei:

 

il Ministero osserva anzitutto essere egli il primo e l’unico che abbia espresso un giudizio così assoluto in senso negativo sull’uso della cintura di sicurezza, adottata ormai da più di un anno in tutti gli stabilimenti carcerari del Regno senza gravi obbiezioni da parte delle respettive Direzioni. D’altronde siffatto istrumento venne sottoposto, prima dell’adozione definitiva, al giudizio di persone competenti in materia, e di distinti alienisti, fra cui lo stesso professor Leonardo Bianchi, e fu debitamente sperimentato, per lo che il Ministero non può soffermarsi ora sul tardivo giudizio di un solo sanitario per introdurre modificazioni nel sistema adottato, e intende che la cintura di sicurezza rimanga qual’è e venga mantenuta in uso ai sensi e per gli effetti indicati nel decreto 14 novembre 1903 n. 484. Occorre avvertire peraltro come l’uso della detta cintura, sostituito semplicemente alla camicia di forza, non tolga al medico la facoltà preesistente di valersi sotto la sua responsabilità per contenere gli agitati, di quei mezzi che la scienza e l’esperienza gli suggeriscano, come il letto di sicurezza, le fascie, e anche il corpetto[177].

 

Il direttore della casa penale femminile di Torino, comunica che nell’istituto, in sostituzione della camicia di forza, «era già in uso, e vige tuttora, un apparecchio di contenzione, formato di strisce di tela, quale si usa comunemente nei manicomi» e chiede se «detto apparecchio possa surrogare il cinturino di sicurezza di prescrizione (…) riuscendo questo di difficile applicazione per una donna»; la direzione generale risponde che le norme «non indicano la forma dello strumento che, con diverso nome, è destinato a contenere materialmente gli atti di ribellione e di violenza dei detenuti delle carceri», per cui

 

Se l’apparecchio usato a questo scopo per le donne dal dottor Salvotti in cotesto penitenziario in casi eccezionalissimi, pur essendo diverso nella forma dal tipo comunemente usato, raggiunge con efficacia e senza danno per le persone pazienti, l’intento che la legge nel suo spirito e nella lettera stessa si prefigge, il Ministero non ha che da approvare la variante; anzi loda lo interessamento posto dal Sanitario predetto nel ricercare il mezzo migliore di applicazione delle disposizioni vigenti sulla materia[178].

 

Il direttore del riformatorio di Torino chiede invece se esistono disposizioni particolari e se comunque «in casi eccezionali» si possa procedere all’applicazione della cintura di sicurezza anche nei confronti dei minori «ricoverati che, con atti di aperta e violenta ribellione, minacciano la disciplina dello Stabilimento», «come mezzo di sicurezza e di prevenzione allo scopo di evitare il ripetersi di altre violenze»; la direzione generale risponde che non esiste alcuna circolare in proposito, «né vi era bisogno di dare al riguardo disposizioni, dovendo nelle speciali contingenze provvedersi dal medico chirurgo il quale, esaminato il soggetto, dispone secondo le esigenze del momento e l’interesse del minorenne»[179]. E quattro anni dopo l’allora militante anarchica Maria Rygier denuncia che

 

in tutti, o quasi tutti i Riformatori d’Italia s’infliggono ai minorenni, per lunghe settimane, la cella a solo pane e acqua, senza passeggio, i ferri ai piedi e alle mani – quei ferri il cui uso è proibito ormai anche nelle case penali – la camicia di forza e le cinghie, senza contare le percosse largamente distribuite dal personale di custodia;

 

in particolare in quello di Pisa

 

la tortura peggiore consiste nell’immobilizzare i ragazzi per lunghe ore, e talvolta per giornate e settimane intere, sul letto di forza, legandoli strettamente con grosse cinghie di cuoio, che, penetrando nelle carni, le fanno diventare livide e gonfie e spesso lacerano la pelle, facendo spruzzare sangue dalle ferite

 

mentre appunto in quello di Torino

 

atroce a dirsi, nonostante che dai regolamenti non solo dei riformatori, ma anche delle stesse case di pena, siano state cancellate le barbare punizioni dei ferri e delle cinghie, viceversa alla «Generala» (come del resto avviene anche in altri riformatori) vi sono ben dieci celle con letti di forza, che vengono adoperati spesso e per futili motivi[180].

 

«Essendo inammissibile l’uso nei penitenziari di attrezzi non consentiti dal regolamento generale», viene invece respinta, «pur apprezzando le considerazioni svolte», la richiesta del direttore di Alessandria di acquistare una specie di idrante, utilizzabile anche come estintore, da cui «il liquido, ch’è risultato innocuo, (…) uscendo con violenza stordisce l’aggressore e lo rende impotente»[181].

Il prefetto di Napoli comunica che il direttore della colonia coatta di Ventotene, assicurando di aver ricevuto da Ancona le sei cinture di sicurezza richieste, chiede al tempo stesso di sapere

 

se in caso di esaltazione od alienazione mentale di qualche coatto, ovvero in caso di eccessiva e sfrenata ubbriachezza da parte degli stessi possa, previo il parere del sanitario, far uso del letto di forza già esistente in caricamento di quella colonia, al fine di scongiurare eventuali pericoli o danni ai predetti coatti, ovvero ad altri, come in simili casi si è praticato[182].

 

Il direttore di S. Maria Capua Vetere segnala che

 

in breve periodo di tempo, si è avuto occasione di riconfermare il dubbio sulla efficacia del cinto di sicurezza, nei momenti critici in cui è necessario ricorrervi. E ne è derivato un duplice convincimento negativo: nei detenuti, che basti il non volerlo subire per toglierselo; negli agenti di custodia, che quel cinto non è una difesa contro il pericolo, e che sia pressoché sprecata la fatica di applicarlo. Ne consegue uno stato di affannosa incertezza, per la quale, spesso si ricorre ad assicurare sul letto di sicurezza i ribelli od i violenti contro se stessi od altrui – specie gli epilettici o i dilettanti di epilessia. E’ risaputo che molti, pur di spuntarla a non subire, almeno per il momento, la cella di punizione, ricorrono a tutte le violenze e le simulazioni di fenomeni epilettoidi, per essere trasportati sul letto di sicurezza, nell’infermeria, dove trovano la cointeressata compiacenza dei guarda-matti;

 

per tali ragioni, col parere favorevole dei due sanitari e del procuratore del re, ha fatto spostare in una cella sottostante («la più aerata ed illuminata») un letto di sicurezza per «i puniti violenti contro se stessi e altrui», mentre «per gli altri – gli epilettici e i maniaci – il letto omonimo seguiterà a funzionare nell’apposita sezione della infermeria», e la direzione generale approva[183].

E ancora, quando la direzione generale svolge un’indagine per sapere «se e quante celle imbottite esistano» nelle singole case di pena per i detenuti epilettici, il direttore di Civitavecchia risponde che (come nella maggior parte dei penitenziari) non ce n’è nessuna e che «si fa uso, in casi urgenti e gravi, di letti di contenzione»[184].

Infine il direttore del carcere giudiziario di Pozzuoli trasmette la descrizione e il modello di un «nuovo sistema di repressione e di sicurezza ad un tempo pei detenuti ribelli e per quelli esaltati», inventato da un sottocapo guardia:

 

Con detto apparecchio si avrebbe un tipo unico per qualsiasi corporatura. Esso è composto di due fogli di cuoio che arrotolandosi prendono la forma di due maniche di vestiario, contro le quali verrebbero assicurate le braccia, e che perciò il sottoscritto ha dato il nome di bracciali di sicurezza. Invece di cuoio potrebbero essere d’altra materia leggiera purché resistente … Per la chiusura di detti bracciali si adatterebbero bene quei bottoni automatici che sono in uso nella cinta di sicurezza d’ultima costruzione. Detti bracciali verrebbero assicurati al corpo per mezzo di cinghie che partendo da essi si andrebbero a congiungere dietro la schiena. Verrebbero pure assicurati ad un collaretto, da chiudersi dietro la nuca, la cui striscia interna sarebbe bene, per maggior resistenza, fosse di fascia metallica … Per la sicurezza delle gambe basterebbero i gambali della cinta di sicurezza in uso, e solo sarei di parere che non starebbe male un lucchetto piccolo e forte (come quello che usano i carabbinieri) per raccorciare all’occorrenza la catena dei medesimi per il riottoso che si dà a dar calci contro la porta della cella.

 

Ma la direzione generale, pur apprezzando l’impegno del graduato, tanto ad attribuirgli un compenso in danaro anche per rimborsarlo della spesa sostenuta per il modello, risponde di ritenere lo strumento «troppo complicato, troppo pesante ed ingombrante, e di difficile applicazione, e non esclude anche il pericolo di materiali lesioni alle persone cui dovrebbe applicarsi»[185].

 

8. – La repressione dei ribelli fra nostalgie e suggerimenti di innovazioni tecniche: i risultati di un Referendum

 

Quasi tutta la parte prima dell’annata 1908 della «Rivista di discipline carcerarie» è dedicata ad ospitare le numerose risposte pervenute ad un Referendum sul sistema di governo dei detenuti indisciplinati, ribelli ed agitati, negli stabilimenti carcerari, risposte, che, pur con qualche diversificazione, lasciano pochi dubbi su quali siano gli orientamenti degli addetti ai lavori. La direzione ha elaborato un questionario rivolto a sociologi, antropologi, psichiatri, pubblicisti, funzionari e «a tutti i cultori della pianta uomo nelle sue varie manifestazioni di attività e d’inerzia, coscienti ed incoscienti, riflesse ed impulsive», al fine di offrire «una serena analisi scientifica per la soluzione del problema», nella convinzione che il decreto del 1903 abbia prodotto un effetto contrario a quello ingenuamente sperato di una riduzione dell’indisciplina nelle carceri[186]; in particolare il quinto e ultimo quesito è così formulato e giustificato:

 

Quali nell’ordine fisico dovrebbero essere i mezzi di repressione degli attentati violenti al fine di impedire ai soggetti impulsivi il male a sé medesimi ed agli altri? Di quali istrumenti o congegni sia possibile valersi per attutire le forze fisiche degli esaltati e per rendere i conati di violenza egualmente innocui al soggetto agente e al personale di custodia? … Conviene avvertire che tale istrumento [la cintura di sicurezza], di difficile applicazione, complicato con manopole, pedali e numerose fibbie e cinghie, mal si presta, specialmente nei casi urgenti, e fece prova non buona, anche per la relativa facilità da parte dei pazienti di liberarsene, con la forza o con l’astuzia; che in questi casi viene a mancare assolutamente il mezzo di contenzione, sicché gli agenti di custodia, esposti al pericolo gravissimo della lotta corpo a corpo, sono messi nella necessità della difesa personale, che astrae naturalmente da ogni metodo d’ordine, di disciplina e di moralità, e trae seco conseguenze talora deplorevoli, ma inevitabili.

 

Certo, non manca chi ritiene che le cause dell’indisciplina vadano ricercate anzitutto nelle condizioni delle carceri e che si debba agire con fermezza ma anche con dolcezza (Carlo Ruata, professore di materie mediche all’università e di igiene all’Istituto agrario di Perugia[187]), chi si dichiara decisamente contrario all’uso di mezzi di coercizione fisica (Lombroso[188] e Sergi[189]), chi pensa che le sanzioni disciplinari in carcere non raggiungano gli scopi della pena e che occorra usare una «umana severità» (Perozzi, vice direttore[190]), chi pensa che occorra in generale una riforma improntata agli stessi criteri di quella adottata per i riformatori e una maggiore flessibilità nel rapporto fra infrazione e sanzione (Edoardo Morvillo, segretario[191]) o ancora chi, pur giudicando «dannoso, perché eccessivamente ideale, e starei quasi per dire pastorale, il concetto» della riforma del 1903, approva ed elogia la soppressione dei ferri e della camicia di forza (Alessandro Stoppato, professore di diritto e procedura penale a Bologna e deputato[192]). Nello stesso senso si esprime anche il medico del penitenziario di Civitavecchia, Carlo Mauri, che sostiene essere preferibile l’isolamento in quanto più temuto e afferma che «se non ripugna adottare la cintura o il letto di sicurezza contro un ribelle, che lo sia per un fatto patologico, conoscendo che la sua ragione è offuscata, non è così quando si tratti di un essere che deliberatamente si ribella»[193]. Ed anche l’allievo di Virgilio e suo successore alla direzione del manicomio criminale di Aversa, Filippo Saporito, nel suo lungo e argomentato parere, – pur pensando che alla fine l’uso di una qualche forma di coercizione meccanica nei confronti degli incorreggibili e nei manicomi è inevitabile, tanto che la sua totale abolizione, per quanto teorizzata, non viene poi messa in pratica, e che « tutto (…) si riduce a stabilire i confini entro cui la coercizione meccanica può ritenersi compatibile» – afferma che

 

… Limitando (…) tutta la coercizione al solo comune giubbotto di sicurezza, con gli accessori indispensabili, bisogna bandirne l’applicazione intesa come punizione o come mezzo disciplinare … è forse questa la ragione per cui l’uso della così detta camicia di forza è divenuto non solo inutile negli stabilimenti carcerari comuni, ma si è tramutato in una fonte di inconvenienti maggiori di quelli che essa sarebbe destinata a combattere,

 

che quindi, nella sua applicazione, occorre sostituire a quello disciplinare un criterio «assolutamente sanitario e curativo» e che ciò

 

toglierebbe alla coercizione meccanica tutto ciò che essa ha di odioso, e non lascerebbe – generalmente – rancori di sorta nei detenuti coscienti, ma incapaci di autoinibizione … Un tal sistema, che, dopo tutto, rientra nell’orbita della legge più volte citata [il decreto del 1903], garantirebbe da ogni abuso e troncherebbe ogni pretesto a recriminazioni e lamenti postumi, che assai spesso, sorpassando le mura delle prigioni, guaste e ingigantite dalla fantasia popolare, eccitano falsi sentimentalismi che turbano la quiete dell’amministrazione[194].

 

Ma se molti propongono la creazione nelle carceri di “sezioni agitati” con personale specializzato e vorrebbero che si distinguessero nettamente gli agitati per cause psichiatriche (da trasferire e curare in manicomio) e i ribelli per natura, quanto al trattamento di questi ultimi i più, soprattutto fra il personale dell’amministrazione carceraria, ritengono opportuno il ricorso ai mezzi in uso nei manicomi[195] e quindi anche a strumenti di contenzione fisica, sia pure come soluzione estrema e con le dovute cautele[196]; e, in questo quadro, se sono diffuse le critiche alla cintura introdotta con il decreto del 1903[197], mentre alcuni rimpiangono la vecchia camicia di forza, altri propendono piuttosto per il letto, magari suggerendo innovazioni tecniche, o esercitano la propria fantasia repressiva proponendo soluzioni diverse.

Così Paolo Funaioli, direttore della clinica delle malattie nervose e mentali di Siena, ritiene che i «criminali di natura propria refrattari ad ogni consiglio, ad ogni persuasione e qualsiasi conato messo in pratica per mantenerli calmi, ordinati nel contegno, per esercitare su di loro una benefica suggestione» vadano isolati e, se occorre, contenuti: in tal caso «non v’ha miglior mezzo del corpetto o camicia di forza» se applicato come si deve e sotto osservazione[198]. Anche per Adolfo Zerboglio

 

Ai turbolenti riluttanti ai mezzi morali si dovrebbero aprire le porte del carcere per quelle del manicomio, dove a molti spiace andare e dove, il malato sottentrando al delinquente, i metodi curativi agiscono utilmente da metodi repressivi senza prender l’aspetto di odiosità carcerarie. Nel caso di accessi in cui il soggetto agente corre rischio di ledere sé o terzi, io penso che si debba applicare la camicia di forza a mio avviso preferibile a quel «basto» che è la cintura di sicurezza colla quale la si volle sostituire. La «camicia di forza» deve essere proibita come ordigno di punizione ma non quale provvedimento non surrogabile in diversa maniera. Molti carcerieri addosso ad un indemoniato possono portare ad effetti identici a quelli della camicia di forza male applicata, e, d’altronde il personale di custodia ha diritto a riguardi … almeno al pari di un omicida in delirio od in preda a convulsioni epilettiche![199]

 

E dello stesso parere sono il direttore Napoleone Foà, anche se pensa che la maggiore indisciplina non sia addebitabile al decreto del 1903, il vice direttore Cesare Verdelli, che invece mette l’accento sulle cause “sociali” (fra cui l’eccesso di benessere e di diritti, l’odio di classe e «la commiserazione del pubblico e della stampa strillanti quando nella colluttazione un condannato resta ferito, silenziosi se una guardia viene scannata», ma soprattutto la soppressione dei mezzi repressivi) e il contabile Pietro Franti, che vagheggia una riclassificazione complessiva degli istituti di pena:

 

Al cinto di sicurezza che ha fatto cattiva prova, se la scienza non ha trovato di meglio, bisogna sostituire ancora la camicia di forza; ma a giudizio del sanitario, e purché sia pronto ed energico, nei casi estremi si può ricorrere ad un bagno caldo, generale, in tinozza, o ad una docciatura: ottimi calmanti che non danneggiano la salute e non abbrutiscono[200] … senza lo spauracchio di un severo castigo immediato i sentimenti pravi non si contengono. Vada per la cella oscura – l’igiene non l’ammette – si lascino nel dimenticatoio i ferri –avanzo di barbarie – ma si rimetta la camicia di forza, la quale oltre essere intimidatrice, mette il riottoso nella impossibilità di recar guasti, di nuocere a sé ed agli altri. Un solo caso isolato, ancora dubbio perché più unico che raro, non può, non deve far sparire un mezzo tanto eccellentemente repressivo[201] … il regime disciplinare [delle case penali ordinarie] sarà spogliato di ogni sentimentalismo ed avrà per caposaldo la camicia di forza[202].

 

E ancora il medico del penitenziario di Procida, Nicola De Maria, sostiene che l’aumento di «repulsività» nelle carceri italiane sia da addebitare all’impunità derivata dal decreto del 1903 ed è dell’opinione che

 

si debba conservare per i casi ordinari l’attuale sistema punitivo della cella e per i casi straordinari dei ribelli ed incorreggibili (…), senza tema d’essere retrivo, che si debba ritornare un poco al passato … Il giubbotto di sicurezza, comunemente chiamato camicia di forza, e contro il quale si elevarono tanti clamori, non è che una semplice giubba grossolana di tela, la quale non produce altra molestia che quella di tener le braccia al sen conserte. Esso si applica e si toglie facilmente e quindi è l’arnese più semplice che si possa immaginare. In tanti anni non ha prodotto mai gravi inconvenienti, specialmente quando si applica con diligenza, col parere del sanitario e sotto la responsabilità del personale di custodia. Qualche caso accidentale o disgraziato che ha potuto avvenire non può costituire la norma generale. La cintura di sicurezza che fu sostituita al giubbotto, oltre di essere un arnese poco artistico e molto complicato, è per unanime consenso, di difficile applicazione, senza dire di molti fatti che provano la sua inutilità;

 

non solo, ma aggiunge:

 

molti però son d’avviso, che l’uso temporaneo dei ferri sia il miglior mezzo per ridurre all’impotenza i violenti e gl’incorreggibili, giacché tali strumenti, applicati agli arti, non producono nessun danno ad organi importanti del corpo e quindi impediscono al paziente di far male a sé ed agli altri. Parrebbe che al giubbotto di sicurezza fosse preferibile l’uso dei ferri, perché oltre della surriferita ragione di nessuna compressione ad organi vitali, ricordo che i detenuti erano scontenti dell’uso di quest’ultimo mezzo[203].

 

E il direttore Francesco Bufardeci sostiene che la maggiore repulsività dipende dalla vita in comune e dall’ozio dei detenuti e dalla eccessiva mitezza delle leggi penali e dei regolamenti carcerari e che quindi l’unico rimedio è il rigore e «soprattutto niente sentimentalismo con soggetti che si allontanano dalla schiera dei delinquenti ordinari, per erigersi al di sopra della legge»; i mezzi che concretamente propone sono la segregazione con l’obbligo del lavoro, una nuova scala di sanzioni disciplinari «da infliggersi sempre collegialmente e che possano incutere timore agli spavaldi» e, in caso di inefficacia, la deportazione nelle colonie; in questo quadro

 

poiché nessuno strumento di coercizione sarà perfetto, sino a quando lasci libere le mani, è necessario di rivolgere il pensiero alla camicia di forza. Ma perché l’uso di essa deve permettersi nei manicomi e severamente vietarsi nelle carceri? Forse che la collettività ha interesse di garantire i violatori della legge, ribelli ad essa, più degli onesti cittadini colpiti da malattia mentale? Non si comprende perché nel manicomio l’infermiere può garantirsi dalle violenze del pazzo comune, mentre lo agente dell’ordine deve restare esposto agli attentati del pazzo delinquente, più pericoloso dell’altro … Nell’ordine fisico dunque il principale mezzo di repressione degli attentati violenti, al fine d’impedire nei soggetti impulsivi il male a sé medesimi ed agli altri, dovrebbe essere la camicia di forza, siccome quella che fece sempre buona prova. Proporrei che tale strumento di coercizione fosse modificato: 1° fissandolo con una cinghia di olona che partendo dalla estremità anteriore, corrispondente alla regione ombelicale, passi per la regione ano-perineale e si fissi all’altra estremità inferiore del dorso. 2° Scollandola sufficientemente per modo che, per quanto possa dibattersi il paziente, gli orli superiori di essa non arrivino mai al collo. Così modificata la camicia di forza affiderebbe di più e risponderebbe ugualmente allo scopo di contenere i movimenti delle braccia e delle mani. E poiché gli agitati, quando non possono usare le mani, tentano di farlo coi piedi, sarebbe indispensabile, limitatamente a tali estremità, l’uso dei ferri, rimedio assolutamente innocuo ed efficace[204].

 

Anche il contabile Armando Giani ha nostalgia per i ferri, che

 

erano, e sono, il mezzo di maggiore intimidazione che mai esistà o possa esistere per i ribelli, ma poiché non è possibile riavere questo mezzo, adattissimo, nella primiera piena disponibilità, è certo desiderabile di poter arrivare allo stesso scopo per altra via, senza bisogno di dover ricorrere a mezzi qualsiasi di forza, che, naturalmente, è necessario però poter avere sempre sotto mano per gli inevitabili casi d’eccezione … Quando occorra indispensabilmente reprimere violenze dipendenti da esaltazioni momentanee o da propositi malvagi, dovrebbe il Consiglio di disciplina deliberare che il detenuto venisse assicurato nel letto di forza, come mezzo preventivo e repressivo[205].

 

Gian Giacomo Perrando, professore di medicina legale a Catania, sostiene che in tutti gli stabilimenti carcerari andrebbe aperta una «sezione pericolosi», «oggetto di particolari cure» da parte dei medici (che «dovrebbero essere sempre autorevoli ed insospettabili specialisti, non mai reclutati, senza garanzie speciali, tra lo scarto del proletariato professionale, come purtroppo, non raramente avviene»); in tale sezione, che «potrebbe anche avere qualche efficacia intimidativa sull’animo degli impulsivi»,

 

qualsiasi metodo fisico di repressione degli attentati violenti potrebbe essere praticato a seconda dei casi e dei mezzi disponibili, così come si pratica negli istituti manicomiali. In questo modo verrebbero eliminate molte delle responsabilità del personale carcerario troppo sinistramente sospettato dall’opinione pubblica per ingiusti tradizionali preconcetti, ed anche per diffidenza (non sempre ingiustificata) sulle attitudini morali e di competenza tecnica[206].

 

Anche l’avvocato Giovanni Battista De Mauro, che ha «in generale (…) poca fiducia in mezzi puramente morali», ritiene che i condannati ribelli andrebbero assegnati ad una «sezione speciale», quando passino ad atti di violenza andrebbero isolati in celle imbottite e

 

nei casi estremi e quando l’isolamento non è stato sufficiente a calmare il condannato, allora potrebbe venirgli applicata la camicia di forza (che del resto, in mancanza di meglio, si adopera ancora nei manicomi), non però dalle guardie ma da appositi infermieri e in seguito a parere favorevole di un medico specialista per le malattie mentali, e possibilmente sotto la sua direzione e sorveglianza[207].

 

Secondo Augusto Saccozzi, direttore del manicomio giudiziario di Reggio Emilia, «la cella e i mezzi di repressione non sono sfregi alla dignità umana (…), ma sono mezzi validissimi di prevenzione e di cura … il contenere, il frenare impedendo la violenza, è dunque per tutte le ragioni necessario», sia pure scegliendo opportunamente gli strumenti e il personale addetto, e, pur apprezzando la camicia di forza, «che, pel passato, e quantunque non si voglia dirlo, anche al presente, presta ottimi servigi nei manicomi, sfidando certe aure di sentimentalismo esagerato, che confido quanto prima svanirà, davanti alla necessità della custodia e della cura dei folli», ritiene che «si possa escogitare un mezzo più semplice di repressione e di più facile applicazione, scevro da qualunque pericolo» e a tal fine sta mettendo a punto «un tipo di bustina» di cui presenterà presto un modello[208].

Alfredo Goffredo, primo segretario del Ministero dell’interno, convinto che in generale «urge (…) ricostituire, come in tutti gli ordinamenti, anche in quelli carcerari, il principio di autorità e di disciplina» e che «bisogna dimostrare coi fatti che le violenze, le ribellioni debbono essere a qualunque costo e con qualsiasi mezzo represse, e che l’autorità deve rimanere salda», non solo pensa che «si potrà ancora ricorrere alle bende che sono in uso nei manicomi o anche ripristinare la soppressa (forse troppo presto!) camicia di forza, o rinchiuderli nelle celle imbottite lasciandoli sbraitare finché si stanchino», ma, poiché «non è possibile tenerli sempre rinchiusi o legati; e dall’altra parte le bende e le cinture non sempre si possono applicare per le violenze stesse dei soggetti, i quali anche spesse volte riescono a liberarsene», sostiene l’opportunità di ricorrere ai «mezzi (…) estremi, adoperati in tanti altri paesi civili, delle costrizioni corporali», come i «gastighi mediante battiture», naturalmente da applicarsi «con la massima prudenza e col più giusto criterio»[209].

Il giudice di tribunale Silvio Longhi, che abbonda in dotte citazioni, sarebbe favorevole alla pena disciplinare del bastone, «men dannosa e crudele di altre pene, contro cui la crociata venne dichiarata», e, contrario agli eccessi di mitezza, sostiene che comunque non si può rinunciare come soluzione estrema alle «prevenzioni e repressioni corporali»[210].

Invece Cesare Polidori, medico degli stabilimenti carcerari di Viterbo, scrive una lunga e articolata memoria, in cui fra l’altro propone dei miglioramenti al tipo di letto di contenzione in uso, sostenendo che

 

non si può seriamente affermare di sopprimere ogni mezzo di contenzione nelle case di criminali e specie negli stabilimenti per pazzi violenti … la necessità di un mezzo prontamente e completamente dominatore della violenza si impone. Non si tratta, in nome di un umanitarismo di maniera, di sopprimere la contenzione ma di applicarla, come ogni altro provvedimento nel regime penale, togliendole ogni movente e carattere di offesa, di vendetta, di coercizione punitiva. Né occorre in quest’ordine, che gli inventori lambicchino i propri cervelli per spremere cinture, cinturini, istrumenti e apparecchi complicati e decorativi. Il letto di forza (e poiché la qualifica è ostica alla gente che guarda alle parole) diremo meglio, di sicurezza, è il solo mezzo di contenzione adatto e possibile. Non giuocattoli e finimenti da museo; ma mezzi curativi corrispondenti a dati fisiologici e patologici. Il letto è tra questi poiché la neuroterapia lo designa fra i migliori calmanti, è inoltre sempre e facilmente applicabile. Migliorato l’attuale rozzo modello di letto di sicurezza; reso più stabile nelle fascie da allacciamento; resone mobile il giogo che fissa gli arti inferiori pur lasciandoli allacciati; tolti gli angoli acuti, imbottitone bene il fondo, esso diviene l’ideale dei mezzi contenitivi ed arrecherebbe meraviglia somma chi, avendolo a disposizione, ne cercasse altri. Il suo uso non può produrre inconvenienti e permette che un piantone, nel periodo di dibattersi violento, possa moderare completamente ogni eccesso, evitando anche al detenuto ogni pericolo. La posizione orizzontale e la subitanea impotenza motoria, del resto, affievoliscono prontamente il violento, e l’effetto immobilizzante sarà massimo se invece di portare il letto in celle sotterranee e tetre, lo si ponga in celle piene di luce, possibilmente anzi illuminate dall’alto. La fisiologia insegna quanto grande sia l’influenza sonnifera dei potenti stimoli luminosi diretti; e un buon fascio di luce che stanchi le retine dell’agitato completerà l’opera del letto, accelerando il sonno riparatore[211].

 

A sua volta il sottocapo Gustavo Campagna propone che siano creati degli stabilimenti speciali per i ribelli diretti da un alienista, in cui i mezzi repressivi siano «quelli ordinari dei manicomi», mentre

 

in tutti gli stabilimenti ordinari dovrebbero esserci una o più celle imbottite, o letti di speciale costruzione muniti in ogni parte di reti metalliche solidissime, pel che rinchiudendovi un agitato, questi, pur restando libero nei suoi movimenti, sarebbe posto nella assoluta impossibilità di nuocere a sé o ad altri[212].

 

Il medico di Favignana, Emanuele Mirabella, persuaso anche lui che l’indisciplina nelle carceri rifletta in qualche modo quanto sta accadendo nel paese, propone la «abolizione completa della inutile cintura di sicurezza, dappoiché questa se da un lato frena le manifestazioni esterne, rende l’animo più perverso» e il ricorso a celle imbottite, idranti, bastoni elettrici, ma soprattutto all’immobilizzazione dei ribelli non sul letto ma su una sedia di forza[213]. Quest’ultima soluzione è suggerita, nella forma di una specie di scatola e con dovizia di particolari, anche dal direttore Enrico Danese:

 

Essa dovrebbe essere imbottita, infissa al suolo nelle celle dove sarebbero rinchiusi i detenuti nell’atto che si abbandonino a conati di violenza. Tale sedia dovrebbe avere sportelli di legno noce, solidi, massicci ed imbottiti, per modo che, messo a sedere il paziente e chiusi gli sportelli, la sola testa starebbe di fuori. Una sedia quasi simile (…) è adoperata negli stabilimenti termali per le stufe, cui sono sottoposti gl’infermi di artriti, e nelle cliniche pei così detti bagni di luce elettrica, consigliati per attivare il ricambio organico nei sofferenti di gotta. La sedia di sicurezza, oltre ad impedire al ribelle di continuare a nuocere, sarebbe assolutamente innocua all’agitato ed avrebbe la prerogativa di essere, più che un congegno, un mobile tappezzato, senza cinghie, senza ferri, senza anelli, senza catene, così da soddisfare le maggiori esigenze di umanità, giacché se prima si doveva «legare» il ribelle, d’ora innanzi lo si metterebbe semplicemente a sedere[214].

 

Per il direttore di Lucca, Egidio Savio, i mezzi repressivi andrebbero “limitati” ai seguenti:

 

1° - Manette di ferro come le usano i carabinieri. 2° - Cinturino semplice di cuoio robusto, munito di manopole di cuoio imbottito, fisse lateralmente al cinturino, per tenere costrette le braccia in prossimità dei fianchi. 3° - Letto di sicurezza quale s’usa nei manicomi per gli epilettici e gli agitati (il tipo adottato nelle carceri è troppo monumentale, causa i molti cuscini per imbottire il fondo, i fianchi e le testate …). 4° - Pei soli agitati che danno segni di pazzia e hanno tendenza a rompere tutto, propongo una cella colla finestra alta, munita di uno strato di alga marina sterilizzata e nel quale si dovrebbero lasciare liberi ma nudi. Questa alga servirebbe loro di letto e di vestimenta … 5° - Una pompa, capace di un buon getto d’acqua, da dirigersi sugli agitati o ribelli[215].

 

Infine per il direttore Federico Alborghetti il ritorno al passato dovrebbe essere ancora più drastico: per i ribelli responsabili delle proprie azioni «non è il caso di parlare di cure o di blandizie, ma di gastighi e di rigori» ed è

 

necessario di mezzi repressivi più efficaci selezionando i peggiori elementi e segregandoli, senza troppe difficoltà e formalità burocratiche, in apposite case di rigore, nelle quali sarebbe opportuno adottare gli antichi sistemi disciplinari … sarebbe bene di sostituire quale mezzo di repressione, alla cintura di sicurezza, il vecchio cassone, di cui più facile riesce l’applicazione e dal quale è impossibile al ribelle di sciogliersi, come frequentemente si verifica colla detta cintura[216].

 

9. – Una prassi dura a morire

 

In conclusione, teoricamente il decreto del 1904 prevede esplicitamente soltanto il ricorso alla cintura di sicurezza, di cui viene adottato un tipo unico per tutti gli stabilimenti carcerari, ma lo consente a fini sia “curativi” sia repressivi, e quindi in qualche modo anche punitivi, nonostante non sia prevista alcuna sanzione corporale per le infrazioni disciplinari, lasciando così ampi margini di discrezionalità alle autorità carcerarie, sia pure con l’intervento del medico. La riforma non viene certo accolta con entusiasmo e in pratica nei singoli istituti ferri, letti di forza ed altri strumenti di contenzione, che spesso se non sono camicie di forza vi somigliano molto, continuano ad essere largamente utilizzati, con il beneplacito della direzione generale, che dà un’interpretazione del decreto molto estensiva, ponendo come unica condizione reale, oltre alla valutazione sull’eccezionalità ovviamente molto discrezionale, la richiesta o il parere favorevole del sanitario. In particolare si diffonde sempre di più, nella prassi e al di fuori di ogni norma, il ricorso al letto di contenzione, che finirà con l’essere identificato con la cintura di sicurezza.

E quanto alle finalità del ricorso a tali strumenti, è significativo che nella circolare 27783-4.F del 29 luglio 1911, preparata sulla base di un progetto del sanitario di Viterbo, Cesare Polidori, e inviata dalla direzione generale ai direttori di tutti gli stabilimenti in vista dell’allestimento di uno stand all’Esposizione internazionale di igiene sociale, lo Schema per la raccolta e la disposizione degli elementi dimostrativi della evoluzione igienico-sociale degli stabilimenti carcerari e dei riformatori governativi in Italia, disponga che «Ogni stabilimento specifichi quali strumenti punitivi possieda perché se ne possa richiedere, occorrendo, la spedizione», mentre il Modello di relazione da compilarsi per ogni stabilimento, alla voce Disciplina, elenca «Locali di punizione. Strumenti di repressione. Metodi repressivi. Celle antiche e moderne (fotografie, disegni etc.). Ferri (tipi originali o disegni). Letti di forza (tipi originali o disegni)»[217]. E di questi ultimi attrezzi nello stand ne verranno esposti due, uno di vecchio e uno di nuovo tipo (modello del dottor Polidori)[218].

Anche il regolamento carcerario fascista del 1931 riprende quasi alla lettera la norma del 1904: le uniche variazioni riguardano il fatto che l’applicazione della (sola) cintura è permesso più genericamente soltanto «nei casi di assoluta necessità» e che è prescritta una visita quotidiana del medico al detenuto[219]. Ma, ancora una volta, l’uso del letto di contenzione con finalità anche punitive continua e continua ad avere le sue vittime[220] e nelle carceri italiane (e a maggior ragione ovviamente nei manicomi giudiziari[221]) è purtroppo destinato a durare sino a tempi a noi molto, troppo, vicini.

Due circolari del 1946 e del 1951 cercano di limitarne l’uso indiscriminato, il che significa palesemente che nella pratica è ancora diffuso; la prima, poiché «alcuni mezzi di contenzione possono riuscire pregiudizievoli alla salute dei detenuti», prescrive che «vengano usati solo nei casi di assoluta necessità»[222] e la seconda, recependo sul punto le conclusioni della commissione parlamentare d’inchiesta che ha concluso i suoi lavori nel 1950, vieta l’impiego a fini repressivi della cintura di sicurezza[223]; comunque entrambe vengono largamente disattese e le testimonianze dirette sulla presenza e l’uso del letto di forza sono molte, naturalmente in prevalenza di detenuti[224], ma anche di qualche magistrato[225]; nelle carceri ce ne sono anzi di due tipi, uno che è una normale branda, fissata al pavimento e dotata di un materasso di crine con un buco al centro per i bisogni fisiologici, a cui il detenuto completamente nudo viene legato con fasce di cuoio o di stoffa, l’altro, noto nel gergo carcerario come la “balilla”, che funziona allo stesso modo ma è costituito da un tavolaccio dotato di polsiere e cavigliere in ferro[226].

Se direttori e funzionari ministeriali sostengono che «il letto contenzione viene usato raramente e solo in casi di evidente squilibrio mentale», in realtà esso costituisce «l’ultimo anello della catena repressiva», a cui si ricorre frequentemente e soprattutto come mezzo di intimidazione e punizione «per chi dà segni di insofferenza per il regime disciplinare»[227]. E’ significativo al riguardo che, nella sua relazione al primo congresso nazionale dell’Associazione dei medici dell’amministrazione penitenziaria italiana (Perugia, 16-18 maggio 1969), Carlo Mastantuono, pur premettendo «che il suo uso nelle carceri in Italia è oggi limitatissimo. Alcuni istituti ne sono addirittura sprovvisti … che numerose circolari ministeriali invitano le singole Direzioni a ricorrervi soltanto in casi di effettiva, estrema necessità», scriva poi:

 

Il letto di contenzione attende ancora una definizione. E’ un mezzo di natura disciplinare? E’ uno strumento sanitario? L’essere adottato nelle carceri e soprattutto nei manicomi, ne fa l’una e l’altra cosa insieme … La sua presenza nelle carceri è giustificata? In astratto dovremmo non ammetterla… nelle carceri finisce per rappresentare un mezzo di quasi esclusiva natura disciplinare e questo fatto non può lasciare che perplessi circa la sua utilizzazione a questo fine;

 

e, quanto alle modalità di applicazione del letto e all’opportunità di continuare a ricorrervi, aggiunge:

 

Tre casi sono possibili in pratica: a) il medico è presente e decide di persona b) il medico è assente e il detenuto viene sorvegliato a vista fino al suo arrivo; c) il medico è assente e il detenuto viene assicurato. La prima eventualità non dà luogo, per ora, a discussioni. Nel secondo caso, quale motivo dovrebbe sussistere, per assicurare un detenuto, quando è sufficiente sorvegliarlo? Il terzo caso non dovrebbe verificarsi. Perché allora dovrebbe essere mantenuto l’uso del letto di sicurezza? …io mi faccio (ed invito anche voi colleghi a farlo), un esame critico tutte le volte che mi è capitato di esaminare un soggetto al letto di contenzione, o di esprimere un giudizio preventivo circa l’opportunità di assicurarvelo. Personalmente sono tormentato dal sospetto che, nell’adottare la misura vi sia stata sempre una certa fretta. Il nostro animo, signori, è purtroppo influenzabile da innumerevoli condizioni … In frangenti che il nostro tempo e la nostra responsabilità e che investono altri di identiche preoccupazioni, non dobbiamo scegliere sempre la strada più breve, per raggiungere un fine, che ci lasci tranquilli. Questo discorso valido per i medici, è validissimo anche per le direzioni, che hanno il dovere di non influire sui sanitari perché prendano al più presto un provvedimento, che ponga fine ad uno stato di allarme e che non imponga sacrifici di personale od ore di insonnia … sono convinto che il letto di contenzione possa essere abolito. A sostegno di questa affermazione (…) riporto le seguenti considerazioni: 1) I detenuti delle carceri normali, sono persone sane di mente e pertanto trattabili sempre con appropriata psicoterapia. 2) Nei reparti per malati o per tubercolotici, che dal punto di vista disciplinare, costituiscono il gruppo di soggetti meno facilmente governabili, il letto di contenzione è, di norma, abolito. 3) In epoche, anche non lontane, quando si faceva largo uso del letto di contenzione, i gravi atti d’indisciplina o le manifestazioni di violenza contro se stessi o contro altri, non erano meno frequenti o con minori conseguenze;

 

e sostiene infine che, se anche si decidesse di mantenerlo, il medico deve avere «il dovere e diritto di pretendere che un uomo assicurato sul letto di contenzione sia sorvegliato a vista (e non soltanto come generica sorveglianza di reparto) da un agente infermiere, per tutto il tempo in cui dovrà soggiacervi»[228]. Nella stessa occasione peraltro il sanitario di Spoleto racconta che, avendo fatto obiezioni al direttore in proposito, questi gli aveva risposto seccamente «Qui comando io»[229].

E tale prassi diffusa continua ad avere effetti talvolta letali. Nel 1947 suscita scalpore la denuncia da parte di alcuni giornali locali e nazionali (fra cui «L’umanità», «Momento sera», «L’europeo») di gravi sevizie ai detenuti operate da un gruppo di agenti di custodia nei sotterranei del carcere di Poggioreale a Napoli, che hanno portato alla morte di uno di essi, e forse anche di altri[230]; nonostante l’inchiesta giudiziaria e quella amministrativa procedano con impegno, nell’estate dell’anno seguente un altro detenuto, Luigi Volpe, già ammalato di tubercolosi, muore a seguito delle percosse inflittegli, dopo che gli è stata applicata la camicia di forza, da una guardia, aiutata da un altro carcerato (soprannominato dai suoi compagni «il boia dei sotterranei di Poggioreale») e con la complicità del medico; durante le indagini emergono altri episodi di violenze e in una cella dei sotterranei vengono trovati «un bastone, che come provavano le alterazioni, serviva per le fustigazioni e, inoltre, cinghie, camicie di forza, materassi, tutto macchiato di sangue» e «ciocche di capelli (…) strappate durante la tortura»[231]. Nel 1962 esce il film di Pier Paolo Pasolini Mamma Roma e nella sequenza che precede il finale, che nella sua geometrica e tragica bellezza rimanda esplicitamente al Cristo morto di Mantegna, il figlio della protagonista, incarcerato per un piccolo furto, muore su un letto di contenzione; ma non si tratta di una semplice invenzione cinematografica: come raccontava lo stesso Pasolini, l’idea gli era venuta leggendo la notizia di un fatto analogo realmente avvenuto ancora una volta a Regina Cœli alla fine del 1959, protagonista involontario un giovane detenuto, Marcello Elisei di diciotto anni, che, colpito da un attacco di peritonite mentre era legato sul letto di forza, «in preda a dolori fortissimi urlò, urlò a lungo, ma nessuno si accorse di lui. Urlò finché morì»[232].

Nel gennaio del 1972 il giudice di sorveglianza di Napoli trasmette senza esito una relazione sulla morte di Luigi Cesaro, avvenuta mentre era legato sul letto di contenzione nel manicomio giudiziario; ma qualche mese dopo si trova a doverne inoltrare un’altra sul caso del detenuto Giovanni B. di 20 anni, incriminato dalla procura per resistenza a pubblico ufficiale e lesioni ai danni degli agenti di custodia, colpito da «paralisi degli arti superiori da lesione del plesso brachiale sui due lati derivante dalla costrizione sul letto di contenzione durata tre giorni e, dopo oltre due mesi di ricovero in ospedale, giudicata non guarita»[233]. Questa volta il ministero, per opera di Girolamo Minervini, interviene decisamente con una circolare, che finalmente intima a tutte le direzioni di «rimuovere immediatamente i letti di contenzione»; tuttavia lo stesso giudice di sorveglianza di Napoli racconta che, avendo chiesto ai direttori degli istituti di sua competenza assicurazione scritta dell’adempimento, mentre quelli di Poggioreale, di Procida e del manicomio giudiziario femminile di Pozzuoli rispondono positivamente (anche se non sempre sinceramente, visto che proprio in quest’ultimo si verificherà di lì a qualche anno il caso già ricordato di Antonia Bernardini), quello del manicomio giudiziario di Napoli si limita ad informare di aver domandato «istruzioni e chiarimenti alle Superiori Autorità»[234]. Ancora una volta, nonostante questa esplicita disposizione, il letto di contenzione continua a venire arbitrariamente usato, sia pure forse in misura sempre minore, ed esistono testimonianze sul suo impiego ancora nei tardi anni Settanta[235], anche dopo la riforma del 1975, che pure al riguardo è abbastanza chiara e netta[236].

 

 



 

Abbreviazioni: APC: Atti Parlamentari. Camera dei deputati. Discussioni; ACS: Archivio Centrale dello Stato; MI. DGC. AG: Ministero dell’interno. Direzione generale delle carceri e dei riformatori. Archivio generale; MGG. DGI. AG: Ministero di grazia e giustizia. Direzione generale degli istituti di prevenzione e pena. Archivio generale; «A»: «Avanti!»; «GI»: «Il giornale d’Italia»; «M»: «Il messaggero»; «PR»: «Il popolo romano»; EC»: «Effemeride carceraria»; «RDC»: «Rivista di discipline carcerarie» (poi «Rivista di discipline carcerarie e correttive»); «RP»: Rivista penale».

 

[1] F.S. Merlino, L’Italie telle qu’elle est, Paris 1890, trad. it. di M. Bertini Bongiovanni, Milano 1974, 129 ss. Su Merlino, oltre a M. Nettlau, Saverio Merlino, Montevideo 1948, v., anche per altri rinvii, la breve nota biografica in E. Santarelli, Il socialismo anarchico in Italia, Milano 1973, 219 s. e la voce di G.M. Bravo in Il movimento operaio italiano. Dizionario biografico 1853-1943, a c. di F. Andreucci e T. Detti, Roma 1975-78, III, 429 ss.

 

[2] Cfr. in proposito G. Neppi Modona, Carcere e società civile, in Storia d’Italia, V-2, I documenti, Torino 1973, 1905 ss.; D. Fozzi, Indisciplina, violenza e repressione nelle carceri italiane dopo l’Unità, in «Acta Histriæ», 10-1, 2002, 91 ss.

 

[3] Mentre la precedente «Effemeride carceraria» era divisa in una Parte non Ufficiale e in una Parte Ufficiale, con ogni numero della «Rivista di discipline carcerarie», che la sostituisce, il posto della seconda parte è preso dal «Bullettino», che è pubblicato assieme ma con numerazione e impaginazione separata e che contiene fra l’altro una rubrica intitolata Avvenimenti straordinari. Note estratte dai registri della Direzione Generale delle Carceri, che riporta appunto una cronaca minuta degli avvenimenti quotidiani nelle carceri italiane, in cui però non è mai indicato lo stabilimento dove sono accaduti.

 

[4] Neppi Modona, Carcere cit., 1912 ss., che commenta: «[ciò] dimostra con la forza indiscutibile dei fatti come la violenza bruta, condivisa e accettata dalla stessa Direzione generale, costituisca il fondamento su cui si basano la gestione degli istituti penitenziari e i rapporti tra personale di custodia e detenuti».

 

[5] APC, legisl. XX, sess. 1a, 16 giugno 1897, 1977.

 

[6] APC, legisl. XX, sess. 1a, 25 giugno 1897, 2891.

 

[7] Un tal Antonio Ghiglione pubblica anche una poesia per celebrare l’evento: Il motu proprio in occasione della grazia di Sua Maestà Re Umberto I a Passanante. Ode alcaica, [Genova 1897].

 

[8] Cfr. M. Da Passano, La pena di morte nel Regno d’Italia (1859-1889), in «Materiali per una storia della cultura giuridica», XXII-2, 1992, 380.

 

[9] A.M. Mozzoni, Ricordi e note dell’isola d’Elba, IV, in «Critica sociale», I, n. 7, 10 maggio 1891, 107 s.: «Bertani uscì dal maschio profondamente impressionato e per molti giorni ne ebbe guastati l’appetito ed il sonno. Benché già inoltrato nella infermità che non permetteva alla sua mente d’insistere in un’idea, vi ritornava spesso in tutti i giorni che ancora soggiornammo nell’isola e ad intervalli esclamava: “Questo non è un castigo, è una vendetta peggiore del patibolo!” oppure: “Il re non sa nulla: non è possibile che lo sappia: egli non tollererebbe un fatto che getta su lui un’ombra odiosa; è una vigliaccheria da cortigiani”. E un bel momento scrisse a Beltrani Scalia, indignato, minacciando una interpellanza alla Camera su tanta violazione del diritto comune. Partiti otto giorni dopo dall’isola d’Elba, dopo due giorni di sosta a Piombino, lo lasciai a Follonica. Era diretto a Roma dove passava la maggior parte del tempo. Che cosa accadde colà? Mah! Fosse la infermità che ne struggeva a vista d’occhio tutte le energie o la inquietudine che lo dominava (…), fatto sta ch’egli ne parlò con Scalia e con Depretis, ma non vi fu un’interpellanza». Su Anna Maria Mozzoni v. l’ampia voce di F. Pieroni Bortolotti, in Il movimento operaio cit., III, 595 ss.; su Bertani v. le voci di E. Cantarella, in Il movimento operaio cit., I, 259 ss. e di B. Di Porto, in Dizionario biografico degli Italiani, IX, Roma 1967, 453 ss. Notizie sulle condizioni di detenzione di Passanante erano già apparse anche su «Il pungolo», 10 aprile 1888.

 

[10] «Il vescovo della città pregò gli fosse concesso di arrivare fino a quell’infelicissimo, (…) ma gli fu negato. L’ambasciatore d’Inghilterra, parecchi alti personaggi italiani e stranieri, fecero grandi premure per vederlo, ma inutilmente. Bertani (…), stimolato dalla difficoltà, presentendo qualche cosa di grave, insistette per parecchi giorni e non volle partire da Portoferrajo senza avere visitato il maschio; e riuscì, dopo un vivo scambio di telegrammi col ministro e con Beltrani Scalia … Bertani ottenne di entrare nel maschio, ma contro l’accettazione di una specie di decalogo da osservarsi rigorosamente sotto la responsabilità del direttore del bagno. Nella segreta non si doveva assolutamente entrare. Egli poteva considerare il prigioniero per soli cinque minuti da un buco impercettibile in quella oscurità. Durante la contemplazione si doveva stare in assoluto silenzio, perché il prigioniero non doveva accorgersi di essere considerato e neppure doveva entrargli il sospetto che qualcuno dei suoi simili si occupasse di lui. Per arrivare al buco d’osservazione si doveva camminare in punta di piedi e con la massima precauzione, lungo lo stretto corridojo circolare interno, sempre per non svegliare l’attenzione del recluso».

 

[11] Cfr. Perizia sullo stato di mente di G. Passanante dei professori Tommasi, Verga, Biffi, Buonomo, Tamburini (Relatore Tamburini). Con riflessioni sul processo e sulle pubblicazioni relative, Reggio Emilia 1879 (estr. da «Rivista sperimentale di freniatria e medicina legale», V, 1878, n. 1-2), con in appendice Sulle «Considerazioni al Processo Passanante», del Prof. Lombroso; C. Lombroso, Considerazioni sul processo Passanante e Su Passanante. Risposta alle note critiche del Professor Tamburini, in «Giornale internazionale delle scienze mediche», n. s., I, 1879, 377 ss. e 990 ss.

 

[12] «Egli non vede mai faccia d’uomo, mi diceva il medico; il cibo compare per mezzo di un “turno” nella sua segreta, illuminata da una luce così tenue che i suoi occhi soltanto, stati due anni interi nella assoluta oscurità, riescono a discernere qualche cosa. Il cibo si ritrova nel “turno” nella più gran parte e ritorna spesso intatto. Egli vive miracolosamente».

 

[13] L’anno prima il direttore del manicomio di Aversa, che ha avuto in cura un fratello di Passanante e ha accuratamente raccolto «le notizie anamnestiche storico genetiche e biografiche» sull’intera famiglia, ha pubblicato un saggio in cui sosteneva la tesi che già al momento del suo gesto l’attentatore era «un semipazzo, un imbecille», uno di quelli che «sono sospesi nelle zone intermedie tra pazzi e delinquenti», un «mattoide» come aveva già sostenuto Lombroso, e che la prima perizia era stata eseguita «fra gli angusti confini dei pezzi d’appoggio consacrati nelle tavole processuali» e in «un ambiente così poco favorevole per un sereno giudizio, che gl’illustri scienziati, i quali dovevano rendere il loro parere sulla personalità psichica di Passannante, è da credere, non potettero portarne l’animo del tutto scevro di preoccupazione»: G. Virgilio, Passannante (sic) e la natura morbosa del delitto, Roma 1888, poi ripubblicato assieme a Sulla natura morbosa del delitto. Saggio di ricerche, Torino 1910. Probabilmente la pubblicazione di questo saggio è all’origine della notizia non vera che anche Giovanni Passanante fosse stato ricoverato ad Aversa sei mesi dopo la condanna, come sostiene F. Ricciardi, Il manicomio giudiziario di Aversa “Filippo Saporito”. Storia, cronaca ed aneddoti, Aversa 1965, 24 s.

 

[14] Noi, I privilegi d’un graziato dal Re, in «Critica sociale», I, n. 9, 20 giugno 1891, 139 s.: «Secondo un ultimo comunicato del ministero degli Interni, il Passanante sarebbe rinchiuso al Manicomio dell’Ambrosiana dal maggio del 1888. Nel bagno il povero demente tenevasi segregato “anche (!) per suo desiderio (!!). Le visite erano state sconsigliate dal sanitario e sfuggite dal condannato; il cibo era quello prescritto dal medico”. Queste notizie, se vere, confermano viemeglio – anziché smentirle – quelle da noi stampate e ne aggravano l’orrore. Unica scusa a quelle ferocie (…) sarebbe stata la convinzione di aver a fare con un assassino. Le “smentite” ufficiose confermano come nessuno ignorasse che l’uomo, che stavano “finendo” così scelleratamente, non era altri che un infelice mentecatto. Nessuno, tranne certo il re, il quale doveva essere completamente all’oscuro del delitto compiuto dagli inetti suoi cortigiani. Intanto un’importante corrispondenza al Caffaro da Portoferrajo ribadisce le nostre rivelazioni e aggiunge quanto segue: “Come si seppe che Passanante non era più a Portoferrajo? … Ogni battelliere, e tutti coloro che con barche passavano vicino alla torre ottagonale del bagno, a tutte le ore, specie nelle notturne, udivano un rumore di catene trascinate, ed un lamento, che a volte pareva di dolore, a volte di rabbia, e schiantava il cuore. Un giorno quel rumore cessò e cessarono le grida. – Passanante è morto – dissero prima; poi si seppe che, nottetempo, sul solito postale che da Livorno va a Portoferrajo, era stato sbarcato a Piombino e di là condotto al manicomio giudiziale di Montelupo, perché il più prossimo”». Il conte Alessandro Guiccioli, che incontra Passanante nel corso di una sua visita a Montelupo, annota nel suo diario: «Gli parlo. E’ un mezzo cretino, il quale non fa che reclamare una certa lira che, secondo lui, gli veniva data ogni mese e che ora non riceve più»: cit. in U. Alfassio Grimaldi, Il re “buono”, Milano 1970, 162.

 

[15] Sulla vicenda di Passanante v. anche L. Galleani, Giovanni Passanante, in «Cronache sovversive», 29 agosto 1908, poi in Id., Aneliti e singulti, New York, 232 ss.; Merlino, L’Italia cit., 124 ss.; Alfassio Grimaldi, Il re “buono” cit., 142 ss., 155 ss.; A. Coletti, Anarchici e questori, Padova 1971, 20, 31 s.; P.C. Masini, Storia degli anarchici italiani. Da Bakunin a Malatesta, Milano 1974, 151 ss.; G. Artieri, Cronaca del Regno d’Italia, I, Da Porta Pia all’intervento, Milano 1977, 126 ss. Il cranio, il cervello e alcuni manoscritti di Passanante, ancora oggi conservati presso il Museo criminologico di Roma, nel 1912 furono esposti, assieme ad altri reperti provenienti dai manicomi criminali, nello stand della Direzione generale delle carceri e dei riformatori all’Esposizione internazionale di igiene sociale di Roma, per dimostrare come «sull’indirizzo del regime si sia introdotto vittorioso il metodo positivo e come di questa folla inferiore, per i supremi interessi sociali, si ricerchino, con amorevole assiduità, i caratteri che la definiscono, le ragioni che la determinano, i provvedimenti che all’aggregato sociale la rendono poco o nulla grave e dannosa»: La Mostra della Direzione Generale della Carceri e dei Riformatorî all’Esposizione Internazionale d’Igiene Sociale, in «RDC», XXXVII, 1912, 207; Museo criminologico, a c. di A. Borzacchiello, Roma 2003, 58 s.

 

[16] Così lo descrive Attilio Brunialti dopo una visita nell’ottobre del 1900: «Acciarito leggeva un libro di devozione, o pareva leggesse, perché non voltava le pagine, sembrava immobile, con la faccia stupida, quasi di ebete: solo dopo molte insistenze ci volse un’occhiata, non saprei se d’odio o di sdegno, ma fu un lampo» (cit. in Alfassio Grimaldi, Il re “buono” cit., 405 e in Gli anarchici. Cronaca inedita dell’Unità d’Italia, a c. di A. De Jaco, Roma 1971, 579).

 

[17] L. Galleani, Dormiranno tranquilli ora?, in «Cronache sovversive», 29 agosto 1908 (e poi in Id., Aneliti cit., 184 ss.); Alfassio Grimaldi, Il re “buono” cit., 401 ss.; Gli anarchici cit., 581 ss.; Coletti, Anarchici e questori cit., 76; Masini, Storia degli anarchici … a Malatesta cit., 293; Id., Storia degli anarchici italiani nell’età degli attentati, Milano 1981, 107 ss.; Artieri, Cronaca cit., 598 ss.; G. Galzerano, Gaetano Bresci. La vita, l’attentato, il processo e la morte del regicida anarchico, Casalvelino Scalo 1988, 134 s.

 

[18] Cavallotti sostiene però che lo stesso dottor De Pedys, consulente del guardasigilli, «nell’intimità della confidenza, ad un suo amico che gli domandava il suo pensiero intimo (ed è un teste che può far fede, se non l’ha già fatta davanti al giudice istruttore, essendo stato già da esso interrogato) diceva queste precise testuali parole: “Ecco, se io avessi trovato quel cadavere sulla pubblica strada, non avrei potuto spiegarmi lo stato in cui si trovava con nessun’altra ipotesi, se non con questa che gli fosse passato sopra ben carico un carro dei fratelli Gondrand” (Commenti). Aveva quel convincimento, e firmava quella perizia!» (APC, legisl. XX, sess. 1a, 17 maggio 1897, 730).

 

[19] V. le ampie notizie al riguardo sulla stampa di quei giorni, in particolare sull’«Avanti!» (in parte riportate anche in Gli anarchici cit., 604 ss.), e i dibattiti alla Camera prima a seguito delle interrogazioni e delle interpellanze presentate da Morgari, Costa, Ferri e Turati (5 maggio 1897), da Cavallotti e Imbriani-Poerio, da Costa, Sichel, De Marinis e Badaloni, da Costa, Berenini, De Marinis, Sichel e Nofri, da Venturi, da Ravagli (15 e 17 maggio), da Imbriani-Poerio, Pinna, Gaetani, De Marinis e Pala (2 giugno), da Imbriani-Poerio, da Turati, Bissolati e Costa (8 giugno), da Cavallotti (9 giugno) e ancora da Imbriani-Poerio (17 giugno) e poi nel corso della discussione sul bilancio del ministero dell’Interno (17, 18, 19 e 20 giugno) e al Senato a seguito dell’interpellanza di Parenzo, Tommasi-Crudeli, Vitelleschi e Cannizzaro (26 maggio); un accurato resoconto, favorevole all’azione della magistratura, per quanto sia intervenuta «assai lentamente e quasi stentatamente», e ostile alle interferenze di Di Rudinì, viene pubblicato anche nella rubrica Corti e tribunali in «RP», XLVI, 1897, 422. Sul “caso Frezzi” v. A. Angiolini, Socialismo e socialisti in Italia, Roma 1966, 310 s.; Alfassio Grimaldi, Il re “buono” cit., 397 s.; Gli anarchici cit., 606 ss. e 619 ss.; Coletti, Anarchici e questori cit., 51 s.; Masini, Storia degli anarchici … attentati cit., 110 ss.;.A. D’Orsi, Il potere repressivo. La polizia. Le forze dell’ordine italiano, Milano 1972, 16 s.; M. Felisatti, Un delitto della polizia? Oggi 2 maggio 1897 Romeo Frezzi si è suicidato nel carcere di S. Michele, Milano 1975; N. Dell’Erba, Giornali e gruppi anarchici in Italia (1892-1900), Milano 1983, 104 s.

 

[20] «RP», LIX, 1904, 99; Coletti, Anarchici e questori cit., 76.

 

[21] Cfr. in proposito Alfassio Grimaldi, Il re “buono” cit., 460 ss.; Artieri, Cronaca cit., 743 ss. e 765 ss.; Galzerano, G. Bresci cit.; A. Petacco, L’anarchico che venne dall’America. Storia di Gaetano Bresci e del complotto per uccidere Umberto I, Milano 2000 (1a ed. 1969).

 

[22] Nel corso della discussione sul bilancio dell’Interno, il 4 giugno 1896, Imbriani sostiene fra l’altro: «Fra i canoni delle istituzioni democratiche vi è l’unicità dell’ufficio. Ora domando al presidente del Consiglio come possa adempiere al suo ufficio chi abbia le seguenti occupazioni: 1° Direttore del carcere giudiziario di Regina Cœli; 2° Ispettore di circolo; 3° Direttore delle carceri delle donne; 4° Direttore del carcere di Villa Altieri; 5° Direttore della scuola allievi guardie carcerarie, la quale è stata trasferita, per desiderio della medesima persona, da Civitavecchia a Roma, nei locali del Buon Pastore; 6° Amministratore della Gazzetta Ufficiale; 7° Direttore della tipografia delle Mantellate. Ebbene, questi sette uffici sono concentrati nella medesima persona del cavaliere Alessandro Doria … E questi uffici sono retribuiti o con stipendi propriamente detti o con indennità. Sicché si tratta di sette diversi cumuletti, che formano ciò che è contrario alla legge del 1862, cioè, il cumulo degli stipendi. Perciò richiamo l’attenzione del ministro dell’interno su questo fatto che non è lodevole. E certamente egli vi dovrà rimediare, perché né il cavaliere Doria può adempiere con coscienza a tutte queste funzioni, né è giusto che egli le abbia, perché sono contrarie alla legge ed allo spirito democratico dei tempi»; per tutta risposta Di Rudinì, presidente del Consiglio e ministro dell’Interno, pur ammettendo di non essere informato e promettendo di prendere eventualmente dei provvedimenti, argomenta così: «Evidentemente il direttore delle carceri di Roma ha alle sue dipendenze gli uffici varii, che esistono nella medesima città. Questo avviene a Roma, ma anche in varie altre città, dove esistono varii stabilimenti … Dunque il cumulo di queste funzioni lo spiego così. In quanto alle indennità bisogna vedere a quanto esse ammontano. Evidentemente, trattandosi di uffici diversi, raggruppati intorno ad una persona sola, questa persona, sia per trasferte o per altre cause, che non saprei dire, qualche volta deve sostenere spese, di cui deve essere rimborsata perché non ci può rimettere del suo stipendio. Così mi spiego le indennità … Ma mi sembra difficile che vi siano delle irregolarità (…) per due motivi: perché il cavalier Doria, secondo informazioni mie, avute anche prima che io fossi ministro dell’interno, è tenuto per uno dei più onesti funzionari dello Stato; in secondo luogo, perché egli è sotto la vigilanza diretta del Direttore generale delle carceri [Beltrani Scalia], il quale è uno dei cittadini più integri, più capaci ed onesti che siano nell’Amministrazione italiana, ed un uomo della cui amicizia, debbo dirlo all’onorevole Imbriani, altamente mi onoro» (APC, legisl. XIX, sess. 1a, 5214 s.).

 

[23] Ad Acciarito, prima affiancato da un altro ergastolano confidente del direttore, viene poi fatto credere, tramite una lettera falsa della sua innamorata, che nel frattempo, ignara di tutto, si è fidanzata con un poliziotto, che è diventato padre e che la sua famiglia versa nella più assoluta miseria, completamente abbandonata dai suoi compagni; la vicenda è narrata con dovizia di particolari nell’intervento del deputato Cameroni, che alla Camera legge e illustra i documenti pubblicati dall’«Avvenire d’Italia»: APC, legisl. XXII, sess. 1a, 18 giugno 1906, 8655 ss.; v. anche Artieri, Cronaca cit., 859 ss.

 

[24] APC, legisl. XXII, sess. 1a, 18 giugno 1906, 8652 ss.

 

[25] Gli anarchici cit., 627 ss.; Petacco, L’anarchico cit., 153 ss. Doria pubblica sulla sua rivista una lettera di ringraziamento per le numerose felicitazioni ricevute per l’assoluzione: «RDC», XXXIII, 1908, 345.

 

[26] Da subito la moglie e gli anarchici, soprattutto in America, respingono la tesi del suicidio: cfr. Masini, Storia degli anarchici … attentati cit., 166 ss.; Galzerano, G. Bresci cit., 11 ss.; Petacco, L’anarchico cit., 136 ss.; Alfassio Grimaldi, Il re “buono” cit., 468, 470 s., basandosi sulle denunce degli anarchici Luigi Galleani, Ezio Taddei, Virgilio Mazzoli e Armando Borghi e sulle testimonianze raccolte in carcere durante il fascismo dal deputato socialista Ezio Riboldi, afferma: «Quel 22 maggio tre guardie gli avevano fatto il “Santantonio”: cioè coperte e lenzuola addosso e poi bastonate fino alla fine; i resti erano stati seppelliti, in luogo rimasto senza traccia negli archivi di S. Stefano, da due ergastolani mandati appositamente da un’altra casa di pena e ricondotti subito via; il comandante dell’ergastolo era stato promosso e le tre guardie premiate»; Sandro Pertini alla Costituente (Atti dell’Assemblea Costituente. Discussioni, IX, 2179, 19 novembre 1947) sostiene la stessa tesi, ripresa peraltro anche da uno storico conservatore come Giovanni Artieri (Cronaca cit., 861 ss.).

 

[27] Petacco, L’anarchico cit., 158; scrive l’«Avanti!» (Il delitto di Regina Cœli, 13 maggio 1903): «[il comm. Doria], grazie alla benevolenza dell’on. Giolitti, spiccò di recente un balzo prodigioso fino alla Direzione generale».

 

[28] Cfr. Fozzi, Indisciplina cit., 120 s.

 

[29] Su di lui, oltre alla voce di L. Casali in Il movimento operaio italiano cit., II, 48 ss., v. Santarelli, Il socialismo cit., 213 s. e V. Emiliani, Gli anarchici, Milano 1973, 113 ss. Nel suo opuscolo Bresci e Savoia. Il regicidio, Boston s. a.3, 28 ss., Cipriani pubblica uno stralcio da un articolo apparso su «Le soir», che descrive le condizioni di detenzione e le punizioni in uso nelle carceri italiane, e ricorda che lui stesso a Portolongone è rimasto per otto anni e mezzo in isolamento assoluto e incatenato al muro.

 

[30] Merlino, L’Italia cit., 129 ss.

 

[31] APC, legisl. XIX, sess. 1a, 4 giugno 1896, 5210.

 

[32] APC, legisl. XX, sess. 1a, 17 maggio 1897, 750 e 16 giugno 1897, 1977.

 

[33] APC, legisl. XXI, sess. 1a, 987 s., 22 novembre 1900, 4322, 24 maggio 1901 e 6877, 18 dicembre 1901.

 

[34] Cfr. Fozzi, Indisciplina cit., 93 ss.

 

[35] R. d. 1° febbraio 1891 n. 260, Regolamento generale per gli stabilimenti carcerari e pei riformatori governativi del Regno; la definizione è di Neppi Modona, Carcere cit., 1913.

 

[36] Cfr. Fozzi, Indisciplina cit., 120 s.

 

[37] APC, legisl. XIX, sess. 1a, 4 giugno 1896, 5210. Per precedenti denunce sull’uso di tali strumenti da parte dei carabinieri v. Gli strumenti della tortura e I fatti di Baronissi, in «La capitale», 23-24 marzo e 5-6 aprile 1884.

 

[38] Ibid., 5212.

 

[39] Goliardo [G. Podrecca], In carcere. II. La camera di sicurezza, in «A», 27 maggio 1903: «Se non v’ha eccessiva affluenza d’inquilini, il tavolaccio compie assai meglio il suo ufficio di letto e nel tempo stesso di stromento di coercizione per gli indisciplinati che abbiano il ticchio di protestare contro la sua durezza o contro gli insetti che vi formicolano. In questo caso i piedi del detenuto son serrati nella cerniera di fondo … e buona notte! Si dorme per forza!».

 

[40] «RP», LI, 1900, 232 s. L’episodio è stato anche oggetto di un’interpellanza di De Felice Giuffrida, che peraltro il presidente del Consiglio ha dichiarato di non poter accettare essendo in corso un processo: APC, legisl. XX, sess. 3a, 23 novembre 1899, 185.

 

[41] «Cesare Beccaria», I, 1867, s. 2a, n. 1, 8. In una nota a un intervento del deputato Civinini, che ha detto che «in quel regolamento [del 1861 per le carceri giudiziarie], fra i mezzi disciplinari che i custodi ed i direttori possono adoperare in certi casi estremi di tumulto e di violenze, trovo notate anche la camicia di forza ed un certo cingolo che il regolamento si contenta di nominare, senza darne più ampia descrizione», l’«Effemeride carceraria», II, 1867, 54 s., precisa che «il cingolo (…) non è altro che la cintura di forza prescritta in determinati casi dal regolamento generale per le carceri giudiziarie 27 gennaio 1861. Chi ha pratica dei mezzi di repressione ammessi nelle prigioni dalla civiltà moderna, e voluti dalla sicurezza interna, e chi veramente ama l’interesse dei detenuti, preferirà sempre la cintura di sicurezza ai ferri. Tale almeno è la nostra opinione».

 

[42] Cfr., anche per altri rinvii bibliografici, M. Da Passano, F. Frau, Una rivista “tecnica”: l’«Effemeride carceraria», in Storia della comunicazione in Italia dalle Gazzette a Internet, a c. di A. Varni, Bologna 2002, 69 ss.; Fozzi, Indisciplina cit., 115 ss.

 

[43] «EC», II, 1867, 53 ss.

 

[44] G. de Angelis, Tre mesi di prigionia a San Francesco ed alla Concordia. Ricordi, Napoli 1869.

 

[45] Cfr. in proposito G. Machetti, “Tre mesi di prigionia”. Il caso dell’inchiesta sulle carceri giudiziarie napoletane del 1869, in L. Martone (a c. di), Giustizia penale e ordine in Italia tra Otto e Novecento, Napoli 1996, 95 ss.

 

[46] «La gazzetta del popolo», 9 marzo 1869, cit. in Machetti, Tre mesi cit., 123 s.

 

[47] «… è una cassa lunga, un letto, per colui a cui piace chiamalo così, della lunghezza d’un uomo e presso a poco delle di lui larghezza, all’estremità del quale vi sono dei ceppi, in cui si serrano i piedi ai prigionieri; ai lati del cassone sonovi due buchi, pei quali si fanno passare delle corregge da affibbiarsi sopra le gambe e sopra il capo della vittima … L’infermo o il criminale, essendo prima stato vestito colla camicia di forza, è messo in questa cassa, e vi è legato al fondo con strisce di cuoio»: cit. in N. Vazio, Le prigioni di Napoli, in «EC», V, 1870, 294 s.

 

[48] Sulle vicende della rivista v. Da Passano, Frau, Una rivista cit., 49 ss.

 

[49] Carceri giudiziarie di Napoli, in «EC», III, 1868, 222 s.: «Il puntale, la Dio mercé, non si conosce da questa Direzione. Il voluto cassone altro non è se non un fondo da letto con sponda all’intorno onde assicurare, dopo sovrapposto un pagliericcio, il detenuto affetto da mania o che si abbandoni ad atti di furore, perché non si renda nocivo a se stesso od agli altri. Questo letto – che non è stato costrutto sotto la presente amministrazione – fu sempre in uso, allorché il locale di S. Francesco serviva da ospedale centrale delle prigioni e vi si trovava addetta una facoltà medica. Là, come nelle altre carceri, il detenuto furioso veniva osservato dai professori sanitari fino a che, o ritornava allo stato di tranquillità, ovvero seguiva il suo trasferimento al manicomio. Così si pratica anche adesso giacché i metodi moderni per la cura dei pazzi non si hanno in queste carceri; epperò, è d’uopo limitarsi alla sicurezza degli individui. I letti comuni, come si è sperimentato, vengono rovesciati e rotti con danno nella persona che può riportarne contusioni e ferite … Questo letto non viene usato come mezzo di punizione, ma soltanto di sicurezza nei casi di sfrenato furore del detenuto, ed il signor Wredford, nella spiegazione che dice datagli dal direttore circa il cassone e il puntale, deve aver frainteso o scambiato la cintura di forza, mediante la quale sono assicurati al letto i furiosi, col letto stesso. La cintura o busto di forza serve anche di punizione, mentre il letto è soltanto mezzo di sicurezza»; v. anche Machetti, Tre mesi cit., 124 ss.

 

[50] Sui lavori della commissione cfr. Machetti, Tre mesi cit., 127 ss.

 

[51] Relazione della commissione d’inchiesta sulle carceri giudiziarie di Napoli, in «EC», IV, 1869, 497 ss.; comunque, per ogni evenienza, il direttore Garrone, «visto che quello di Castelcapuano s’era deteriorato assai, ordinò al cavalier Magno Oliverio, impresario attuale, che vi arrecasse i riattamenti necessari, i quali furono di conseguenza eseguiti».

 

[52] Ibid., 506.

 

[53] Vazio, Le prigioni cit., 300: «E’ doloroso certamente, che per l’altrui difesa debba venirsi fino a codesti estremi; ma quando si pensi, che senza di questi il danno sarebbe assai maggiore, non si esiterà ad ammettere le nostre teorie. Nelle prigioni non di rado s’incontrano delle nature tanto selvaggie e feroci, tanto forti e prepotenti, contro le quali i mezzi meccanici di compressione valgono appena; ed è fortuna lo averli, onde non metter codeste nature in continua lotta cogli agenti destinati alla loro custodia. E l’usarli talora è eziandio carità per impedire a taluno di suicidarsi, o di recarsi danno in qualsiasi modo».

 

[54] Vazio, Le prigioni cit., 303.

 

[55] L. Lucchini, Case di forza, bagni penali e colonie agricole. Note ed impressioni di un’escursione scientifica, in «RP», XIV, 1881, 444.

 

[56] La camicia di forza nelle carceri, in «A», 23 maggio 1903.

 

[57] V. Buttis, Carceri e domicilio coatto, Venezia 1897, 15 s. Su Vittorio Buttis v. la voce di T. Detti in Il movimento operaio italiano cit., I, 429 ss.

 

[58] Carcere omicida a Sulmona, in «A», 16 maggio 1903.

 

[59] APC, legisl. XXI, sess. 2a, 16 maggio 1903, 7686 s., Socci.

 

[60] Relazione della commissione cit., 497.

 

[61] Cit. in «La civiltà cattolica», XX, 1869, s. 7a, vol. VIII, 626 e in Merlino, L’Italia cit., 131 s.

 

[62] «Bullettino ufficiale della direzione generale delle carceri», III, 1873, 207.

 

[63] Merlino, L’Italia cit., 131.

 

[64] I drammi della galera, in «RP», 1890, 601 s.

 

[65] ACS, MI. DGC. AG, b. 373; sul “caso Pierani” v. anche Un precedente ad Ancona, in «GI», 15 maggio 1903 e Neppi Modona, Carcere cit., 1924.

 

[66] Carcere omicida a Sulmona, in «A», 16 maggio 1903. Nello stesso articolo si racconta anche che un detenuto del medesimo carcere ha denunciato due guardie per averlo percosso a sangue a colpi di battente, ma che, nonostante le «molteplici e schiaccianti prove» prodotte, il processo è stato chiuso con un non luogo a procedere per insufficienza di indizi.

 

[67] Causa D’Angelo, in «RDC», XXIX, 1904, 175 ss.

 

[68] La orribile morte di un detenuto, in «GI», 10 maggio 1903, che definisce il fatto «un caso penosissimo che le autorità tentavano tenere celato, dovuto in gran parte alla negligenza del personale carcerario di Regina Cœli» e aggiunge che si tratta di «colpevole negligenza».

 

[69] Un detenuto morto strozzato a Regina Cœli. Suicidio o delitto?, in «M», 10 maggio 1903; nell’articolo si critica il silenzio delle autorità carcerarie, si parla di una ingiustificata «morte violenta, e barbara» e si ricorda il “caso Frezzi”.

 

[70] Un nuovo caso Frezzi? Il detenuto strangolato a Regina Cœli, in «A», 10 maggio 1903: «La morte improvvisa non giustificata da alcun possibile motivo, impressionò i sanitari del carcere, che ne stesero denuncia. Il giudice istruttore Squarcetti si recò a visitare il cadavere e ne ordinò il trasporto alla camera mortuaria di Campo Verano. E colà fattagli l’autopsia dai dottori Amante e Impallomeni, si constatò doversi la morte ad asfissia. Il cadavere presentava una lunga ecchimosi nella parte anteriore del collo: nessun dubbio, l’asfissia è stata prodotta da strangolamento! Altre ecchimosi il cadavere presentava in varie parti del corpo, segno delle precedenti percosse subite. Ma la morte come era avvenuta? Si era potuto strozzare da sé il D’Angelo? E allora chi l’aveva strozzato? Sull’orribile fatto, interrogate le autorità si sono mantenute impenetrabili. In questura non ne sanno niente, perché non riguarda loro. A Regina Cœli e alla Direzione generale delle carceri si rifiutano di rispondere. Si attendono i risultati del giudice istruttore. E forse la cronaca dovrà fra giorni registrare un nuovo caso Frezzi!».

 

[71] La morte misteriosa di un detenuto, in «PR», 10 maggio 1903: «Allo stato delle cose ogni giudizio non potrebbe essere che prematuro, non potendosi nel momento determinare se la morte sia stata prodotta da cause naturali o dagli sforzi violenti fatti dal D’Angelo nel cercare di liberarsi dalla camicia di forza, oppure da mancata assistenza e quindi da negligenza colpevole del personale carcerario».

 

[72] Per un delitto carcerario, in «GI», 11 maggio 1903: l’articolo rileva che non è la prima volta che dalle carceri giungono «echi di crudeltà che destano indignazione e disgusto» e sostiene che occorre agire di fronte ad una situazione ormai insostenibile, cambiando i regolamenti, se sono sbagliati, e il personale, se non è all’altezza dei suoi compiti.

 

[73] Un nuovo caso Frezzi?, in «A», 11 maggio 1903: « L’eco raccapricciante del caso Frezzi – che a suo tempo destò nella coscienza popolare fremiti d’indignazione e di protesta – è viva ancora nella stampa italiana. Da quel tempo non si contano gli altri atti di ferocia compiuti dagli organi polizieschi italiani. Essi non hanno proprio nulla da imparare dai sistemi della czaresca polizia russa. Lo knut slavo, è sostituito dalla camicia di forza! Ma noi italiani siamo facili all’obblio ed al perdono. Gli uccisori sono stati sempre lasciati impuniti. E nelle segrete delle prigioni continua – sotto l’ala dell’impunità e del silenzio compiacente della stampa – la tortura della carne umana. E i nostri professori di diritto penale continuano a celebrare le gloriose tradizioni di Cesare Beccaria che ha combattuta la pena di morte. Nelle sordine delle questure intanto si compiono, di tanto in tanto, dei veri supplizi, dei tormenti raffinati ed odiosi. L’alta civiltà della nostra legislazione civile non se ne offende. Il governo, suo depositario, non se ne cura. I processi incoati sotto la pressione della protesta, si dissolvono come gallozzole di sapone al vento. Così nelle carceri penetra la sicurezza dell’impunità. E la ferocia si sfrena più turpe. Ora è tempo di finirla! Quando un caso di così triste degenerazione viene ad offendere il senso dell’umanità e della civiltà, bisogna costringere la giustizia a fare intero il suo corso. Essa deve essere tanto più inesorabile quanto più inutile e stupida appare la persecuzione compiuta a danno di uomini incapaci di ogni difesa. E noi vogliamo che la verità intera si faccia attorno a quest’altro delitto della buia vita carceraria». V. anche Il detenuto morto strozzato a Regina Cœli. Nuovi orribili particolari, in «M», 11 maggio 1903: «[D’Angelo è] morto dopo una lunghissima atroce agonia: ed è morto per colpa di quei carcerieri che lo ebbero in custodia. Quei carcerieri, anzi, sono i soli direttamente responsabili della sua morte violenta».

 

[74] Il delitto di Regina Cœli. Il detenuto morto per strangolamento, in «A», 11 maggio 1903: «Il D’Angelo dunque quando soffrì della violenza di cui era traccia nel collo già si trovava in condizioni disperate!»; v. anche Il detenuto morto strozzato a Regina Cœli. Nuovi orribili particolari e L’orribile morte di un detenuto, in «M» e «GI», 11 maggio 1903.

 

[75] Il detenuto morto strozzato a Regina Cœli, in «M», 12 maggio 1903; commenta l’«Avanti!» (Il delitto di Regina Cœli, 12 maggio 1903): «Bel medico! Ma noi conosciamo per esperienza personale che cosa sanno fare questi pretesi sanitarii nelle carceri del bel regno!».

 

[76] «Conosco i guardiani e non li credo crudeli … conosco i guardiani e in fondo li ritengo buona gente … Creda, ad ogni modo, che il cav. Kustermann è un’ottima persona, un valente funzionario e che se vi fu colpa questa non dev’essere attribuita a lui».

 

[77] «E’ frequente tale applicazione nello stabilimento? – Da settembre a oggi venne applicata duecento volte. – E’ un numero abbastanza rilevante! – Già; ma l’isolamento nella cella influisce sui temperamenti nervosi, li eccita e sovente li fa dare in escandescenze furiose. Diventano per qualche giorno dei pazzi pericolosi. Aggiunga poi, che molti simulano la pazzia per essere portati all’infermeria e sfuggire all’isolamento che li opprime; e l’applicazione della camicia di forza vale a render calmi specialmente i finti pazzi». Al processo, dall’esame dell’apposito registro, risulterà che la camicia di forza è stata applicata a 29 detenuti per misura di sicurezza e a 22 per provvedimento disciplinare dal 12 settembre al 31 dicembre 1901, a 87 e 22 dal 1° gennaio al 31 dicembre 1902, a 40 e 6 dal 1° gennaio al 3 maggio 1903, a 15 e 9 dal 4 maggio al 12 dicembre 1903: La morte del marinaio D’Angelo a Regina Cœli, in «GI», 13 dicembre 1903.

 

[78] Il detenuto morto strozzato a Regina Cœli. La conferma delle nostre informazioni, in «M», 13 maggio 1903; Il delitto di Regina Cœli, in «A», 13 maggio 1903: «D’Angelo non sarebbe morto per solo effetto della stretta datagli dalla guardia, se non fosse stato già agli estremi per inanizione. Il delinquente dunque non fu soltanto il guardiano. Qualcun altro non provvedendo all’alimentazione anche forzata dell’infelice lo aveva messo in fin di vita».

 

[79] Il detenuto morto strozzato a Regina Cœli. I misteri di Regina Cœli, in «M», 15 maggio 1903; Il delitto di Regina Cœli. L’autore è un guardiano, in «A», 15 maggio 1903.

 

[80] L’orribile morte di un detenuto e Intorno al detenuto ucciso a Regina Cœli, in «GI», 14 e 15 maggio 1903: «Il bavaglio si applica sulla bocca dei detenuti, quando essi si mostrano agitati ed emettono continue grida: è formato da una larga striscia di tela grigiastra alle cui estremità sono posti due lacciuoli. Nel centro della striscia e cioè nel punto che trovasi a contatto della bocca è situato una specie di tampone di tela, che entra nella bocca stessa e soffoca qualunque grido. La striscia ha poi un’apertura per il naso ed un’altra funicella perpendicolare che si tira sulla fronte e si riannoda alla nuca del detenuto con le altre due fettuccie»; Il delitto di Regina Cœli, in «A», 16 maggio 1903: «Lo straccio bagnato che il guardiano – unico responsabile! – avrebbe messo nella bocca del marinaio Giacomo D’Angelo, non sarebbe stato – secondo le ultime versioni – un trovato della fantasia delittuosa dell’omicida; ma uno strumento di punizione usuale che si applica in conseguenza delle disposizioni regolamentari pel mantenimento della disciplina. Questo corre ora sulle colonne dei giornali bene informati. Giacomo D’Angelo dunque sarebbe stato ucciso con tutte le formalità, a norma del regolamento! Già non si tratta d’un misero straccio raccattato non si sa dove ed adoperato non si sa come, ma d’un vero e proprio bavaglio con forma determinata ed uso idem … Tiranni medievali, preti della Santa Inquisizione, aguzzini del Montjuich venite, venite coi vostri amminicoli nella casa di correzione della capitale della civilissima Italia, sotto il governo del liberalissimo Giolitti! Qui può esservi scuola per voi!». Vent’anni prima uno strumento simile era stato mostrato da un imputato al tribunale militare di Napoli: La tortura nelle carceri militari, in «La capitale», 5-6 gennaio 1884.

 

[81] Il detenuto morto strozzato a Regina Cœli. La tortura della sete per lasciar dormire Palizzolo!, in «M», 19 maggio 1903; D’Angelo muore e Palizzolo dorme, in «A», 19 maggio 1903; v. anche le testimonianze in proposito rese al processo in «PR», 13 e 15 novembre 1903. Invece secondo la ricostruzione del Tribunale di Roma «il primo [il detenuto Mattei] affermò che la guardia Davidde avevagli vietato di dare da bere al D’Angelo, ma all’udienza cadde in tali contraddizioni circa il momento in cui l’ordine sarebbe stato dato, da rendere le sue dichiarazioni poco attendibili. Il Mieli [un altro detenuto] poi depose che la guardia Davidde, parlando la sera del 4 col detenuto Raffaele Palizzolo, il quale si lamentava di non aver potuto la notte precedente prender sonno per le continue grida del D’Angelo, gli avrebbe detto “Stia tranquillo, commendatore, io non gli darò né acqua né vino, così non strillerà più”. Però il Palizzolo, sentito dal Tribunale per rogatoria, spiegando le sue deposizioni scritte, affermò che la guardia Davidde avevagli semplicemente detto che non avrebbe dato da bere vino al D’Angelo. Certo se quella intenzione di non dare da bere acqua fosse stata veramente espressa dalla guardia Davidde, egli avrebbe dimostrato ferocia da delinquente, ma per rendere in qualsiasi modo imputabile quell’intenzione occorrerebbe pure sempre che essa fosse stata almeno parzialmente tradotta in atto, mentre di un principio di esecuzione manca qualsiasi prova» (Causa D’Angelo cit., 187). Sempre il 19 maggio «Il giornale d’Italia» pubblica un’intervista con il cappellano di Regina Cœli, don Saverio Damiani, che giustifica il comportamento delle guardie e sostiene che D’Angelo si sarebbe soffocato accidentalmente cercando di liberarsi della camicia di forza.

 

[82] Il delitto di Regina Cœli, in «A», 12 maggio 1903: «Ci si informa all’ultima ora che il cav. Cardosa, già direttore delle Carceri Nuove, ha consegnato oggi al Ministro la sua inchiesta. Si afferma che le conclusioni ne siano rigorose, portando allo stato di accusa per due guardie e un capo guardia»; Il delitto di Regina Cœli, in «A», 14 maggio 1903: «Attendendo le circostanze che assoderà e i provvedimenti dell’autorità giudiziaria, almeno si potesse sapere che cosa han concluso le inchieste ordinate dal Ministero dell’interno. Invece nulla di nulla. Siamo nel campo delle supposizioni, delle congetture. L’on Giolitti pare abbia ordinato di indagare e riferire per sua soddisfazione personale, come se alla morte del povero D’Angelo e alla rivelazione dei metodi barbari che si usano nelle carceri non si fosse commossa tutta l’Italia!»; Il nuovo caso Frezzi, in «A», 13 maggio 1903: «Attendevamo con viva ansietà notizie nuove sulla inchiesta promossa personalmente dal ministro Giolitti, intorno al tragico avvenimento di Regina Cœli. Ma fino all’ora che scriviamo abbiamo atteso invano»; Il nuovo caso Frezzi, in «A», 14 maggio 1903: «la sua [di Giolitti] inchiesta, che ha un compito tanto circoscritto e tanto agevole, si trascina ancora tortuosamente nel mistero». V. anche L’orribile morte di un detenuto, in «GI», 12 e 13 maggio 1903; Il detenuto morto strozzato a Regina Cœli, in «M», 12, 13 e 14 maggio 1903.

 

[83] Gravi provvedimenti (?) pel nuovo caso Frezzi. Il trasloco del direttore di Regina Cœli; Il delitto di Regina Cœli, in «A», 11, 12, 13 e 14 maggio 1903. Kustermann viene sostituito provvisoriamente con il cavalier Carlo Vitolo, proveniente da Gaeta (Il detenuto morto strozzato a Regina Cœli, in «M», 12 maggio 1903) e secondo l’«Avanti!» (Il delitto di Regina Cœli, 13 maggio 1903) «il Vitolo fu sotto Doria vice-direttore a Regina Cœli. Attualmente, come ci si dice, è direttore d’ultima categoria. Sembra che il Doria volesse da tempo premiare in lui la devozione antica ai suoi voleri. Così il provvedimento a carico del Kustermann verrebbe ad avere anche un’altra motivazione»; pochi giorni dopo viene nominato direttore Giuseppe Augier, già direttore a Lucca e poi a Oneglia, dove era stato mandato per sedare la rivolta in cui era coinvolto anche l’anarchico Paolo Schicci (Il detenuto ucciso a Regina Cœli e Il detenuto morto strozzato a Regina Cœli. I misteri di Regina Cœli, in «GI» e«M», 16 maggio 1903).

 

[84] Il delitto di Regina Cœli, in «A», 13 maggio 1903: «L’Ora di Palermo occupandosi di questo provvedimento protesta con parole vivaci “se il direttore è veramente colpevole, sia messo a disposizione dell’autorità giudiziaria o destituito, ma non inviato a Catania dando al provvedimento il clamoroso significato di una punizione”»; Il nuovo caso Frezzi, in «A», 13 maggio 1903: «A Catania la stampa giustamente protesta contro l’offesa che si fa alla Sicilia, relegando nell’isola ormai, abitualmente, i funzionari meno degni». V. anche Intorno al detenuto ucciso a Regina Cœli e Pel detenuto ucciso a Regina Cœli, in «GI», 15 e 18 maggio 1903, che segnalano anche le proteste apparse su «La Sicilia» e la «Gazzetta della sera» di Catania.

 

[85] Il delitto di Regina Cœli, in «A», 12 maggio 1903: «Trattandosi di un fatto gravissimo certamente delittuoso, di cui – a dire delle autorità – non si sono ancora accertate le cause e le responsabilità, la presenza del Kustermann, colpevole egli o no, era qui indispensabile. Ci si dice che il Kustermann – romano di nascita, già direttore del penitenziario di Volterra, ove, ai tempi delle condanne crispine pei fatti di Sicilia, ebbe in custodia l’on. De Felice – sia buon funzionario, compreso dei suoi doveri e nello stesso tempo disposto a mitigare i rigori della legge verso coloro che gli vengono affidati. Noi di tutto questo non ci occupiamo. Vogliamo rimanere nei limiti del caso attuale: o il Kustermann è colpevole ed allora bisogna accertare scrupolosamente in che ha errato e punirlo di conseguenza, o è innocente ed allora non v’è ragione alcuna d’un procedimento, sia pure non pregiudizievole, a suo carico. In ogni modo – ripetiamo – era indispensabile in questo momento la sua presenza qui. Ma come? – Accade un fatto delittuoso in un istituto dello Stato; il governo lo vede circondato da mistero e ordina due inchieste; e per primo provvedimento sottrae alle indagini il direttore di quell’istituto? Tutto questo sarebbe ridicolo … se non fosse preordinato ad uno scopo»; Il delitto di Regina Cœli, in «A», 13 maggio 1903: «Il trasloco del direttore del carcere cav. Kustermann vien giudicato anche da altri come noi lo giudicammo un’ostentazione di energia fatta per impressionare, per gettare polvere negli occhi, non certo per favorire l’accertamento delle responsabilità … noi insistiamo sul nostro primo concetto: colpevole o no il cav. Kustermann doveva essere trattenuto qui a disposizione dell’autorità amministrativa e dell’autorità giudiziaria, per la ricerca completa della verità». Anche la «Rivista penale», LIX, 1904, 99, commentando la sentenza assolutoria che concluderà il processo, definisce Kustermann «meritatamente fra i più stimati funzionari dell’amministrazione carceraria». Invece per il «Messaggero» (Il detenuto morto strozzato a Regina Cœli. I risultati dell’inchiesta, 14 maggio 1903) «A Regina Cœli v’era un direttore onesto, buono, ma debole, che ebbe il torto gravissimo di lasciarsi rimorchiare dall’ambiente e di permettere, di tollerare che la disciplina carceraria, già di per sé molto rigida, venisse incrudelita e fosse lasciata facoltà a sottocapi e guardiani di accrescerne capricciosamente i rigori; mentre, d’altra parte, la disciplina era rilassata verso i sottocapi e i guardiani che andavano a passeggiare, o a dormire, nelle ore in cui dovevano stare di guardia e vigilare, specialmente sui cosidetti “agitati”, molti dei quali non si agitavano affatto».

 

[86] Ratalanga, Gli strangolatori di “Regina Cœli”, San Domenico di Guzman a “Regina Cœli” e L’inchiesta ministeriale sulle carceri, in «A», 12, 13 e 18 maggio 1903. Su Gabriele Galantara v. G.D. Neri, Il morso dell’Asino, Milano 1965.

 

[87] Cfr. Trenta “casi D’Angelo”, in «A», 13 maggio 1903.

 

[88] Oltre al già citato Un nuovo caso Frezzi? (11 maggio), v. gli articoli intitolati Il nuovo caso Frezzi pubblicati il 12 («Il D’Angelo – per alcuni suoi atti di protesta – dovette essere serrato tra le strette mitigatrici di quell’ignobile strumento di tortura che è la camicia di forza. Noi non vogliamo qui discutere se è proprio necessario per assicurarsi l’incolumità di un disgraziato, il serrarne e torturarne le membra tra le cinghie in cui si avvincono i pazzi furibondi e pericolosi. A tale scopo sarebbe bastato l’isolamento. Contro l’applicazione di questa tortura protesta il senso umanitario d’ogni animo civile … le responsabilità denunciate si allargano fino a colpire persone estranee all’autorità carceraria. Si tratta di sapere perché e come il morto fosse strappato alla libertà …»), 13 («Occorre ora scovrire i colpevoli. E’ necessario per assicurare un funzionamento più civile e più umano della disciplina carceraria italiana. L’impunità non solo sarebbe oltraggio alla famiglia, che ha veduto così inopinatamente cadere il lutto sulla sua casa, ma soprattutto perché essa non serva come bill d’indennità per altre ferocie e per altri frezzamenti … egli fu arrestato arbitrariamente, come tutti i detenuti politici che la stupidaggine poliziesca avea ghermiti … Egli dunque si trovava in arresto in modo arbitrario per un mero sequestro di persona. Che cosa ne dice il ministro Giolitti?»), 14 («Sarebbe una vergogna per la pubblica coscienza italiana, se stendesse il velo dell’indifferenza sul raccapricciante delitto di Regina Cœli. Notiamo già nei compiacenti giornali, ligi al governo, un rallentamento d’interesse attorno allo sciagurato caso D’Angelo … non daremo tregua e staremo con la spada alle reni a questo ministero che va dando prove di così musulmana indifferenza in un fatto che va commuovendo tutto il mondo civile … è possibile che si arrivi a tale stato raccapricciante di cose che la vita e la libertà dei cittadini italiani debbano stare all’arbitrio cieco d’una polizia stupida e crudele, presidiata e incoraggiata dal governo nella sua opera liberticida e omicida. L’on Giolitti – in questa occasione – mostra ancora una volta il suo cinismo politico») e 16 maggio («La posizione del ministro è assai scabrosa. Nessun provvedimento ancora è stato preso di fronte alla voce implacabile della pubblica indignazione … il ministro Giolitti sta preparando intanto la sua difesa. Ma è tempo perso per lui. Non riuscirà che ad accumulare sul governo più gravi responsabilità»).

 

[89] E. Ferri, Carcere omicida. A proposito del nuovo caso Frezzi, in «Avanti», 15 maggio 1903: «Oh! non l’hanno gettato dalla balaustra del secondo piano fracassandogli cranio e costole, come il povero Frezzi – non lo hanno assassinato a colpi di sacchetti di sabbia, che non lasciano traccie, come altri! No. Pare che nel caso D’Angelo si tratti di “omicidio involontario” – per negligenza. Se l’erano dimenticato, dopo avergli messo la camicia di forza, che ora non si mette quasi più neanche ai pazzi. No, egli è morto – pare – un po’ per fame un po’ per strangolamento. Una morte eclettica … i casi Frezzi flagellano, di tanto in tanto l’intorpidita coscienza dei governanti, portando alla luce della ribalta pochi fra i mille casi di tortura misteriosa nel carcere … il carcere, stupidamente regolato com’è dalle nostre leggi penali, che imposero il sistema cellulare quando già l’esperienza di tutto il mondo aveva dichiarato la bancarotta di questo, che io chiamai e ripeto “una aberrazione del secolo XIX”, il carcere è strumento di tortura, e forma ipocrita della pena di morte, anche senza il malvolere dei guardiani e dei direttori. L’albero dà i suoi frutti – e la sepoltura di un uomo in una cella non può farne che una bestia arrabbiata o un povero istupidito. Nell’un caso e nell’altro, un candidato alla recidiva, che è la piaga cancrenosa della odierna giustizia penale: irreparabile sventura per i colpiti – insufficiente difesa per la società degli onesti! … non vi può essere carcere, dove la creatura umana diventa un numero di matricola (e ancora si pretende di volerne così la riabilitazione e l’emenda!) senza i tormenti dei guardiani e direttori, ignoranti di psicologia e di psichiatria (…) né senza i frezzamenti di Regina Cœli. E’ il sistema cellulare che bisogna cambiare, sostituendovi il lavoro igienico e ristoratore dell’aria libera, nelle colonie agricole, con semplice divisione notturnaio non credo si debba addossare all’on. Giolitti la responsabilità personale per questo “omicidio colposo”. Ma penso che egli, come ministro dell’interno, è responsabile del punto di partenza: l’arresto arbitrario – e del punto di arrivo: il danno inenarrabile della vedova e dei figli del morto … che giace. Responsabile politicamente, s’intende. Cioè … irresponsabile praticamente, finché la coscienza popolare italiana non arrivi, con parola leonina, ad imporre che lo Stato, il Governo, la Polizia non siano impresari impuniti degli omicidii legali da Candela a Regina Cœli».

 

[90] Il detenuto morto strozzato a Regina Cœli. La conferma delle nostre informazioni, in «M», 13 maggio 1903: «Ci risulta che a Regina Cœli si infligge con generosa abbondanza il castigo della camicia di forza, la quale viene applicata allegramente per dieci, quindici, venti giorni, anche per un mese ai detenuti turbolenti; e sotto la qualifica di “turbolenti” passano molti di temperamento eccitabile che sono o si credono arrestati e imprigionati ingiustamente … la prolungata applicazione della camicia di forza vale ad irritare maggiormente, a sconvolgere il cervello dei detenuti più assai dell’isolamento, del sistema cellulare che pure dà di per sé un notevole contingente ai manicomi criminali. Quando poi si tratta di “agitati” cioè di detenuti esaltati, l’applicazione della camicia di forza vien fatta senza limitazione di tempo e senza intermittenze. I castigati hanno diritto di farsi sciogliere da questo sacco in cui vengono legati e fermati con corregge, ogni volta che occorre loro un bisogno corporale … Ma il diritto accordato ai turbolenti, è negato agli agitati; per cui questi devono fare le loro occorrenze restando insaccati nella camicia di forza; e questa vien loro cambiata quando il carceriere si accorge che … la detta camicia non è molto pulita, né molto odorosa … Il coefficiente maggiore sta nel sistema, nella disciplina – chiamiamola così – che è in vigore a Regina Cœli. La morte violenta di Giacomo D’Angelo è un lugubre effetto di tale sistema, di questa strana specie di disciplina che è in vigore nel detto carcere».

 

[91] Il detenuto morto strozzato a Regina Cœli. I risultati dell’inchiesta, in «M», 14 maggio 1903.

 

[92] Il detenuto morto strozzato a Regina Cœli. I misteri di Regina Cœli, in «M», 15 maggio 1903.

 

[93] Il detenuto morto strozzato a Regina Cœli, in «M», 18 e 20 maggio 1903.

 

[94] I misteri delle prigioni, in «M», 21 maggio 1903; v. anche Dopo la morte del detenuto D’Angelo, in «GI», 21 e 22 maggio 1903.

 

[95] A proposito del caso D’Angelo. Le miserie delle nostre carceri. Un’intervista col prof. Enrico Morselli. Mali e rimedi, in «M», 21 maggio 1903.

 

[96] L’orribile morte di un detenuto, in «GI», 14 maggio 1903.

 

[97] Intorno al detenuto ucciso a Regina Cœli, in «GI», 15 maggio 1903.

 

[98] Ibid.; v. anche Il detenuto ucciso a Regina Cœli, in «GI», 16 maggio 1903.

 

[99] Il detenuto ucciso a Regina Cœli, in «GI», 16 maggio 1903.

 

[100] Notizie di una rivolta a Regina Cœli. Altri incidenti impressionanti. Una nostra inchiesta, in «GI,», 17 maggio 1903.

 

[101] «A», 15-25 maggio 1903, «M», 25 maggio 1903.

 

[102] Il delitto di Regina Cœli, in «A», 14, 16, 20 maggio 1903.

 

[103] La dimostrazione di domani per D’Angelo, in «A», 21 maggio 1903; nel manifesto pubblicato dal comitato ordinatore si legge: «Cittadini, Un’altra morte misteriosa è venuta a gettare una luce sinistra nel buio tetro e muto del nostro ambiente carcerario: essa è sintomo pauroso, rivelazione improvvisa di una nascosta e fitta serie di dolori e di lagrime. Una giovane, innocente esistenza fu troncata, un uomo fu spento, perché il silenzioso isolamento della cella ed il pensiero torturatore della ingiustificata detenzione avevano agitato il suo povero cervello. L’angoscia morale fu calmata e vinta con la camicia di forza e col bavaglio. Dimostrate che il cuore di Roma ha palpiti di commiserazione e di simpatia per chi sofferse durante tre giorni spasimi e strazi, come quelli che uccisero Giacomo D’Angelo. Dimostrate che per voi la vita umana è sacra, e va protetta non soltanto dalle notturne e rare aggressioni dei teppisti, ma anche dagli articoli di regolamenti più adatti a governare serragli che a disciplinare moltitudini di uomini. Dimostrate che la libertà personale è patrimonio comune di tutti i cittadini, e non soffre restrizioni a danno di coloro, cui infiammano ideali politici eterodossi».

 

[104] Queste sono infatti le direttive del comitato «per l’ordinamento del corteo»: «intendiamo che nessuna bandiera e nessun concerto venga a dare un linguaggio di colori od una eloquenza di inni al corteo; il popolo esprima il suo cruccio, rimpianto e minaccia ad un tempo, tacendo, astenendosi dall’emettere qualsiasi grido, che potrebbe dar pretesto a chiassi e disordini desiderati da coloro, che hanno interesse di dimostrare essere il popolo impari alle libertà, che reclama. Così i nastri delle corone ricordino la vittima senza inutili imprecazioni contro gli assassini; poiché noi non vogliamo restringere la protesta ai 4 o 5 aguzzini che assassinarono D’Angelo, ma allargarla alla barbarie dei sistemi, dei quali Roma, città civile, deve dirsi nauseata, partecipando alla solennità di questa dimostrazione popolare» (ibid.).

 

[105] Il delitto di Regina Cœli. La dimostrazione popolare d’oggi, in «A», 22 maggio 1903; v. anche La grande dimostrazione di ieri pel detenuto morto strozzato a Regina Cœli, in «M» e La commemorazione popolare pel detenuto ucciso, in «GI», 22 maggio 1903. Invece «Il popolo romano» (Una dimostrazione di protesta, 21 maggio 1903) critica l’iniziativa e difende l’azione del governo, l’uso della camicia di forza e il personale carcerario: «Chiunque abbia sentimenti umani non può che deplorare il triste caso toccato al disgraziato marinaio … Ma da questo a farlo passare per un martire della efferatezza del personale delle carceri ci corre, o per dire meglio occorre conoscere prima i risultati dell’inchiesta, ordinata dal Governo, sulla quale il Ministro stesso, pur avendo preso pronti provvedimenti, allontanando o infliggendo talune punizioni al personale per provate negligenze, perché l’inchiesta riesca libera e completa, non è in grado, come dichiarò alla Camera, di dare notizie positive, per essere l’inchiesta tuttora in corso … Resta la questione generica dell’uso della camicia di forza nelle carceri … Che vi possano essere dei casi e delle circostanze, in cui si debba ricorrere alla misura, per quanto eccezionalissima, della camicia di forza per qualche detenuto, irrefrenabile con ogni altro mezzo, nessuno potrà contestare, come lo prova il fatto che in tutti i regolamenti carcerari del mondo è ammessa, con opportune garanzie, s’intende, la camicia di forza. D’altronde poiché il Ministero dell’Interno ha riconosciuta la necessità d’una revisione dei regolamenti, ci sembra che ogni discussione al riguardo sia superflua. Quello che noi, fino a prova contraria e nonostante tutte le declamazioni, ci rifiutiamo di credere è che la deplorata morte del D’Angelo sia dovuta ad impulso di efferatezza o di feroci istinti, come si vorrebbe far credere, da parte del nostro personale carcerario. Il quale, come affermano anche scrittori stranieri competenti e specialisti in materia carceraria, è per disciplina, attitudine e modi urbani e pazienti, non inferiore al personale dei più civili Stati d’Europa. Certamente tutto è possibile ed anche nel numeroso personale delle carceri può trovarsi talvolta qualcuno che ecceda o si lasci trascinare da malvagio impulso, ma non è giusto perciò proiettare una luce sinistra sopra un Corpo di qualche migliaio di funzionari ed agenti, che prestano un servizio faticoso e poco grato allo stato e alla società».

 

[106] APC, legisl. XXI, sess. 2a, 16 maggio 1903, 7683 ss. Le interrogazioni sono di Salvatore Barzilai ed Ettore Socci («sulla tragica fine del detenuto D’angelo a Regina Cœli»), del generale Felice Santini («intorno alle cause che avrebbero determinato la morte, non naturale, di un detenuto nel carcere di Regina Cœli»), di Alfredo Bertesi («per sapere le cause della morte del detenuto D’Angelo, avvenuta nelle carceri di Regina Cœli, e per sapere quali provvedimenti egli abbia presi e intenda prendere a punizione degli eventuali colpevoli e a tutela della vita e di un umano trattamento dei detenuti»), di Filippo Turati («sulla legalità dell’arresto e della detenzione del marinaio D’Angelo, defunto a Regina Cœli; e inoltre per sapere se il ripetersi di fatti analoghi a quello che determinò la sua morte, quali che siano le responsabilità immediate in ogni caso speciale, non sembri al Governo sintomo sufficiente per determinarlo a proporre una riforma radicale nell’ordinamento degli stabilimenti carcerari in genere») e di Pilade Mazza («sulla morte del detenuto D’Angelo»).

 

[107] Il nuovo caso Frezzi, in «A», 16 maggio 1903: «Il governo chiede ancora tregua per rispondere all’interrogazione sull’efferato assassinio di Regina Cœli. Oggi alla Camera l’attesa era assai viva. Invece il pubblico accorso in folla è rimasto deluso».

 

[108] Il quotidiano socialista commenta: «Al banco dei ministri non v’è l’on. Giolitti il quale avrebbe dovuto sentire oggi il dovere di essere presente, dovendosi svolgere alcune interrogazioni di grande interesse per il suo ufficio di ministro degli interni»: L’omicidio D’Angelo alla Camera, in «A», 17 maggio 1903.

 

[109] Cfr. in proposito M. Da Passano, «Il male contro il male». L’impiego dei condannati nei lavori di bonifica e dissodamento, in Dall’antichità al mondo contemporaneo. Studi in onore di M. Brigaglia offerti dal Dipartimento di storia dell’Università di Sassari, Roma 2001, 599 ss.

 

[110] Commenta il quotidiano socialista: «La risposta dell’on. Ronchetti ha ribadito purtroppo l’incorreggibilità governativa – sotto qualunque ministero – in fatto di libertà personale. Parole commosse per “la morte” di quel disgraziato, sì. Ma non una parola per condannare la illegalità dell’arresto, che pure è stata la origine prima dell’omicidio del povero D’Angelo! Qui sta il marcio: in questa ostinata indifferenza di ogni governo, reazionario o liberale, per il rispetto alla libertà personale dei cittadini. Tanto più che nel caso D’Angelo non c’era nemmeno il pretesto dell’ordine pubblico, come facile bill d’indennità agli arresti arbitrarii dei pretesi sovversivi. E questo silenzio del governo significa incoraggiamento a proseguire, per la polizia che arresta e getta in carcere, come per i magistrati che assolvono sempre i funzionari di polizia quando sono querelati per arresto illegale! Quanto al carcere omicida, l’on. Ronchetti ha annunciato la nomina di una delle solite commissioni, fatte apposta per spargere fiori di papavero sulle questioni … messe a dormire»: Note alla seduta della Camera. Il caso D’Angelo, in «A», 17 maggio 1903.

 

[111] «E questa camicia di forza, della quale io spero che la Commissione nominata dal ministro dell’interno farà giustizia sommaria nelle carceri, sapete quante volte, a detta dello stesso medico Ponzi, intervistato da un redattore del Messaggero, è stata applicata dal settembre a questa parte? Duecento volte, nel solo carcere di Regina Cœli».

 

[112] «La camicia di forza non si deve applicare che quando il medico la prescrive; e quei signori, che hanno applicato la camicia di forza a quel disgraziato, avevano il tempo di mandare una carrozza a prendere il medico delle carceri, perché egli solo deve giudicare se la camicia di forza doveva o no mettersi; il medico, e non il secondino, è l’arbitro di questa applicazione».

 

[113] «Per mio conto, dinanzi a questi fatti crudeli, se è vero, come purtroppo ne ho la convinzione, come medico, che il D’Angelo sia stato condannato a morte, un ritorno a quella pena che riconosceva non aver diritto alla vita colui che ad altri l’ha tolta, non sarebbe a rimpiangere. Datemi pure del forcaiolo; ma di fronte a tanta colpabilità, quando fosse provata, io non esiterei a sopprimere colui che avesse ammazzato il povero D’Angelo». Commenta l’«Avanti!» (Note alla seduta cit.): «Anche l’on. Santini si è associato alla protesta, pur concludendo – con la solita psicologia dei militaristi, che non sanno vedere altro che la violenza sanguinosa – per il ritorno alla pena di morte agli uccisori del D’Angelo. Come se impiccando uno o due guardiani omicidi, sarebbero tolte le cause sociali e legali, che provocano di tanto in tanto l’assassinio e mantengono sempre la tortura, lenta e quotidiana, nelle carceri! E’ tutto il sistema che bisogna cambiare – nella polizia, nei tribunali, nelle carceri – triade cieca alle più luminose verità della scienza».

 

[114] «La camicia di forza non può essere applicata che due giorni su tre e deve essere tolta all’ora dei pasti, e (…) l’articolo 355 del regolamento impone che, quando occorre di applicarla, si faccia subito denunzia all’autorità giudiziaria. E tutto questo non fu, sciaguratamente, osservato».

 

[115] «Ivi non la pena emendatrice, non la custodia tutrice, ma si esercita la vendetta sociale più obbrobriosa, fatta di ferocia e di viltà; nessun controllo effettivo, nessun reclamo efficace è possibile, e nessun detenuto (lo dichiaro sul mio onore) farà mai un reclamo, perché sa bene che il reclamo non giungerà al suo destino, e, se giungesse, sarebbe tanto peggio per lui, sarebbe il frezzamento, sarebbe il d’angelamento (creiamo questi tristi neologismi!), perché il Governo è lontano e l’aguzzino invece gli sta sopra e gli farà scontare a caro prezzo l’audacia di aver fatto appello alla giustizia … Dall’istante che uno vi è entrato, che è sottomesso a quella operazione obbrobriosa della tosatura, che gli è infilato quell’esecrabile vestito a righe, che è diventato un numero, che ha cessato di essere un uomo, l’infelice diventa l’oggetto di tutte le ferocie, di tutte le viltà, di uno schiacciamento sistematico, continuo, contro il quale non esiste possibilità di difesa, e che deve condurre alla follia o all’abbrutimento, se non giunge prima la morte liberatrice».

 

[116] «La segregazione cellulare è un delitto senza nome; fortunatamente noi la instaurammo sulla carta, ad attuarla interamente ci mancano i quattrini. Ma ne venne un sistema misto che concilia quasi tutti i difetti della segregazione e quelli della promiscuità. Il regolamento carcerario, quale uscì dal pensiero del Beltrani Scalia, consterebbe di due parti: una parte per l’intimidazione e per il terrore; l’altra destinata ad elevare il condannato, a confortarlo a prepararlo a una nuova vita. Senonché, soltanto la prima parte viene realmente applicata: ed è naturale, poiché chiudere un uomo, spaventarlo, mettergli la camicia di forza, tutto ciò è molto facile e libera i custodi da qualunque altra noia; ma tutta la parte che dovrebbe essere educativa, redentrice, le scuole, le biblioteche, l’esame e la cura dei condannati, tutto ciò che costerebbe un po’ di fatica, di lavoro, di pietà, di ingegno rimane lettera morta. I direttori non sono che funzionarii amministrativi e contabili, che non conoscono neppure i loro detenuti; e il personale inferiore è come carcerato esso stesso, odia le carceri e si vendica sui condannati della vita maledetta che gli è imposta».

 

[117] «E’ invero molto sintomatico questo fatto, che il condannato sia considerato come un oggetto che non appartiene più né alla giustizia né alla grazia, e sul quale i criteri della pubblica sicurezza debbono imperare da soli».

 

[118] APC, legisl. XXI, sess. 2a, 18 maggio 1903, 7766 s.

 

[119] APC, legisl. XX, sess. 1a, 17 maggio 1897, 750; 16 21 e 25 giugno 1897, 1974, 2215 e 2392.

 

[120] APC, legisl. XX, sess. 1a, 17 maggio 1897, 751: «Io non posso accettare una inchiesta, che si farebbe contro l’amministrazione, che io presiedo. Questa non l’accetterò mai; datemi un voto di sfiducia e buona notte, ma che io accetti un’inchiesta contro di me, questo non sarà mai. Posso accettare un’inchiesta sopra l’amministrazione, ma non un’inchiesta sulle sevizie, che commette l’amministrazione, perché nego che si commettano; e, se avessi notizia di un fatto qualsiasi, non avrei bisogno dell’inchiesta per punire»; 25 giugno 1897, 2395: «non c’è bisogno di questa inchiesta, perché le condizioni delle nostre carceri sono precisamente conosciute; e si sanno due cose: primo, che l’amministrazione carceraria italiana è una fra le più civili e le più progredite che vi siano nel mondo civile; secondo, che gli sforzi che da più anni si fanno in questa amministrazione urtano contro una grave difficoltà che è quella dei fabbricati carcerari … è certo che la nostra Amministrazione carceraria, a giusta ragione gode nel mondo civile una grande reputazione per le sue tendenze sinceramente civili ed umanitarie; ed io non vorrei che proprio con le nostre mani stesse si dovesse offuscare questa riputazione che fa onore al nostro paese».

 

[121] APC, legisl. XX, sess. 3a, 27 novembre 1899, 194 s.: «Bertolini, sotto-segretario di Stato per l’interno. Debbo dichiarare all’onorevole Socci che non è negli intendimenti del Ministero di procedere, come egli desidererebbe, ad una inchiesta generale circa i frequenti deplorevoli fatti che avverrebbero nelle case di pena. E colgo questa occasione per deplorare la vera campagna di denigrazione che è stata intrapresa contro il personale carcerario, dando troppo sovente ascolto e facendo assorgere a testimonianza di verità le deposizioni di gente la quale costituisce il rifiuto della società civile. Ma nello stesso tempo devo dichiarare all’onorevole Socci che è fermissimo il proposito del Ministero di accertare tutte le responsabilità nelle quali possano essere incorsi funzionari od agenti carcerari, e di punire severamente chi di essi abbia mancato».

 

[122] APC, legisl. XXII, sess. 1a, 18 giugno 1906, 8652 s., 8670, 8672.

 

[123] APC, legisl. XXI, sess. 2a, 20 maggio 1903, 7841.

 

[124] I medici carcerari, in «A», 19 maggio 1903: «tendono a rendersi troppo frequenti i casi in cui i colleghi funzionanti da sanitari nelle carceri apparirebbero (non discuto se o meno giustamente) quasi complici dei barbari abusi dei carcerieri e dei questurini e non tali da comprendere i moderni inconfutabili progressi dell’igiene in generale e della profilassi criminologica particolare … la nomina dei medici delle carceri, perché la scelta sia socialmente e scientificamente utile dovrebbe spettare non all’autorità politica ma al giudizio cumulativo del neuropatologo, dello psichiatra e dell’igienista».

 

[125] APC, legisl. XXI, sess. 2a, 29 maggio 1903, XXX: «La cura dei detenuti è fatta con amore e senza indebite economie: i medicamenti son buoni, non si rifugge spese di specialità farmaceutiche che sieno trovate necessarie, non si esita a mutamenti di luoghi di espiazione di pena se il mutamento di clima è imposto da ragioni comprovate di salute. Tutto considerato, noi crediamo che a questo ramo di servizio si soddisfi in modo lodevole; e che non ci sieno novità da introdurre».

 

[126] «… io come sanitario debbo lamentare il troppo frequente ripetersi di casi come quello di Regina Cœli, i quali mostrano che purtroppo molti sanitari non comprendono l’importanza della carica che rivestono e non la comprendono né dal lato umanitario, né da quello sanitario e neanche dal lato scientifico … prego il Governo di voler dare opera perché non si ripetano più d’ora innanzi casi come quello di Regina Cœli, a proposito del quale un sanitario ha impunemente scritto e stampato di aver consentito più di duecento applicazioni di camicia di forza in un breve periodo di tempo ed è risultato che non solo alcuni condannati hanno scontata la punizione con la sete e con la fame, ma qualche volta perfino dei disgraziati carcerati forse anche innocenti. Richiamo su tutto questo l’attenzione del Governo perché (…) voglia obbligare subito i prefetti a nominare i medici carcerari fra coloro che hanno dato prova di conoscere i moderni progressi dell’igiene, della psichiatria e della neuropatologia».

 

[127] APC, legisl. XXI, sess. 2a, 11821, 18 marzo 1904; il discorso viene pubblicato anche come opuscolo: F. Turati, I cimiteri dei vivi (Per la riforma carceraria), Roma 1904.

 

[128] «GI», «M» e «PR», 7 e 8 novembre 1903.

 

[129] «PR», 10 novembre 1903. Questa e le citazioni che seguono sono tratte dalla cronaca giudiziaria del «Popolo romano», ma dettagliati resoconti quotidiani delle udienze si possono leggere anche sul «Giornale d’Italia» e sul «Messaggero».

 

[130] «PR», 11 novembre 1903.

 

[131] «PR», 13 novembre 1903.

 

[132] «PR», 15 novembre 1903. Nella stessa udienza il tribunale si trasferisce anche in carcere per fare un esperimento sull’applicazione della camicia di forza e si appura che gli strumenti in uso a Regina Cœli, acquistati al manicomio, sono di un modello vecchio: «GI», 15 novembre 1903.

 

[133] «PR», 17 novembre 1903. Oltre a Cardosa e Doria, al processo sono chiamati a testimoniare in difesa degli imputati anche il direttore e l’ex direttore di Regina Cœli, Arturo Della Ferrera e Giuseppe Augier, l’ex direttore generale Canevelli, e l’ispettore Aristide Bernabò Silorata: «GI» e «M», 18 e 19 novembre 1903.

 

[134] «RP», LIX, 1904, 99; v. anche «PR», 26 novembre 1903.

 

[135] Causa D’Angelo cit., 175: «Imputati – Il dott. Ponzi (…) per avere (…), per negligenza, imperizia nella propria professione (e massime per l’applicazione di mezzi coercitivi, quasi immobilizzanti ed ostacolanti la respirazione – alimentazione deficiente e impropria, condizioni igieniche deplorevoli, mancanza di conveniente assistenza) nonché per inosservanza del Regolamento generale carcerario (…), cagionato la morte di Giacomo D’Angelo. Tutti gli altri (…) per avere (…), per imprudenza e negligenza (specie per non avere convenientemente assistito e sorvegliato il detenuto D’Angelo) e per inosservanza del riferito Regolamento carcerario (…) cagionato la morte del carcerato D’Angelo». Il p. m. aveva chiesto la condanna soltanto del medico e di una guardia ad un anno di detenzione e mille lire di multa: «PR», 28 novembre 1903; «RP», LIX, 1904, 99.

 

[136] Ibid., 181 s.: «Anzitutto l’applicazione dei mezzi coercitivi, e cioè della camicia di forza, presentasi tuttora come una dolorosa necessità allorquando la malattia mentale non è ancora conclamata, e l’ammalato potrebbe d’un tratto rendersi pericoloso a sé e agli altri. Contro il sistema del restringere si è molto gridato dai sostenitori del non restringere, ma in realtà la permanenza della camicia di forza in tutti i manicomi è già valido argomento per dimostrare come le necessità pratiche s’impongono talvolta a tutte le discussioni teoriche. E’ ben vero che il modello di camicia di forza adottato dal carcere di Regina Cœli, sebbene provenisse dal manicomio di Roma, non rappresentava certo l’ultimo progresso nella materia, ma è d’altra parte constatato che quel modello si usa ancora in qualche manicomio (…) e che del resto esso permetteva il compiersi regolare delle funzioni respiratorie, come si constatò anche con esperimenti eseguiti in presenza del Collegio. L’alimentazione deficiente non può aver avuto seria influenza, quando si pensi il D’Angelo aveva ben mangiato nel giorno 2 maggio (…), mangiò sei o sette cucchiai di brodo, e circa 50 grammi di carne nel giorno 3 (…), e bevve sempre abbondantemente sino alla sera del 4. Le condizioni igieniche deplorevoli, che assurdo sarebbe far consistere nella cella ampia, ben aerata, pulitissima, si riducono all’essersi il D’Angelo orinato nei pantaloni la notte dal 3 al 4 (…). Infine la mancanza di conveniente assistenza che riassume del resto gli altri coefficienti, non può neppure per un tempo così breve, quanto durò la malattia del D’Angelo, aver avuto seria influenza».

 

[137] «Egli, che usò l’unico sistema a disposizione offertogli dal carcere, non può essere chiamato a rispondere, trattandosi di sistema che non impediva la respirazione. Né si può chiamarlo a rispondere della fascia al petto, la cui esistenza non si può dire provata con certezza».

 

[138] «Non l’ha il primo, perché è accertato che le visite durarono dai cinque ai sette minuti (…), durante i quali egli s’informò dello stato del malato, lo interrogò, lo osservò e quindi date le molteplici altre incombenze del medico, il tempo impiegato non si può dire troppo breve. Sul dermotatto come mezzo per accertare la temperatura, gli stessi periti d’accusa che lo dichiararono indice mal sicuro, riconobbero come esso possa valere a stabilire non il grado della febbre, ma certo l’esistenza o meno di uno stato febbrile, e come negli stessi manicomî, dove pur non mancano i mezzi per constatare la temperatura, nei periodi di osservazione il medico si limiti sovente ad un saggio grossolano della temperatura per un orientamento generale … Infine al dott. Ponzi venne rimproverato il nichilismo terapeutico, l’assoluta mancanza cioè di prescrizioni mediche o di mezzi curativi siano pur sintomatici … Ora il dott. Ponzi, che preferì l’ultimo di questi sistemi [le cure di pura aspettativa], il quale del resto gli era imposto dalla mancanza di fenomeni conclamati e dai limitati mezzi offertigli dal carcere, non può essere tacciato di imperizia evidente, di colpa grave».

 

[139] «Anche la responsabilità professionale degli agenti carcerari non va considerata cogli astratti criteri che potrebbe suggerire un razionale ordinamento delle carceri. Certo in quest’ambiente, che costituisce qualche cosa d’intermedio tra il manicomio e la società normale, ambiente nel quale sovente i pazzi ed i simulatori sono in gran numero, la scienza psichiatrica e la sociologia criminale augurano bene altri ordinamenti ed un personale tecnico adatto. Il Collegio deve però esaminare la responsabilità di agenti che non posseggono alcuna cognizione necessaria per la cura di alienati, che sottostanno ai regolamenti carcerari attuali ed hanno molteplici incombenze e mezzi limitatissimi».

 

[140] «Egli adempì al suo specifico dovere ordinando al capogardia Arrighini la sorveglianza, e non gli si può rimproverare, a titolo di colpa punibile, di non aver visitato il D’Angelo, non solo perché non è provato che tale visita avesse potuto giovare, ma perché l’art. 69 lettera n. del Regolamento lo obbligava soltanto a visitare i detenuti quanto più di frequente gli fosse possibile, e non quindi a visitarli tutti giornalmente. Né infine egli può essere ritenuto responsabile del sistema invalso a Regina Cœli di applicare con molta facilità e senza seria necessità, come si afferma dall’accusa, la camicia di forza, solo perché egli istituì un registro relativo a tale applicazione, che prima di lui non esisteva, mentre pur esisteva il sistema consacrato anche dal Regolamento (art. 275). Quel registro fu per l’istruttoria fonte di ricerche e dati preziosi e prova anzi come egli volesse regolarizzare un sistema che prima di lui era sottratto ad ogni controllo».

 

[141] Dopo la sentenza, il Circolo giovanile socialista di Roma indice una manifestazione «contro i barbari nostri sistemi carcerari», ma il questore vieta il corteo che avrebbe dovuto andare da Campo dei Fiori alla tomba di D’Angelo al Verano, convocando i promotori e diffidandoli, e accetta soltanto che i dimostranti vadano al cimitero alla spicciolata, in gruppi di non più di otto o dieci persone; così molti vanno a deporre fiori, «nella maggior parte garofani rossi», e una corona dei «partiti popolari» sulla tomba di D’Angelo, nonostante un imponente schieramento di agenti di polizia in divisa e in borghese, carabinieri a piedi e a cavallo, cavalleggeri e granatieri; qualche momento di tensione, ma senza conseguenze, si ha quando i dimostranti incrociano un funerale civile che sta arrivando e vorrebbero seguirlo, ma la polizia si oppone e chiude i cancelli del cimitero: «A», 19, 20 e 21 dicembre 1903. Secondo «Il Messaggero» (19 e 21 dicembre 1903, L’agitazione popolare contro il sistema carcerario) alla dimostrazione partecipano circa duecento persone, mentre per «Il popolo romano» (21 dicembre 1903, Una protesta sfumata) non più di cento.

 

[142] Causa D’Angelo cit.

 

[143] «RDC», XXVIII, 1903, 469, La sentenza nella causa D’Angelo. La stessa «Rivista» riporta anche un articolo apparso sulla «Tribuna», a firma Fabricius, che coglie l’occasione per sollevare il problema dei periti criticando duramente il sistema in vigore e per sollecitare una riforma delle norme sull’istruttoria (XXIX, 1904, 12 ss.).

 

[144] «RP», LIX, 1904, 99.

 

[145] La morte naturale del marinaio Giacomo D’Angelo, in «M», 3 dicembre 1903.

 

[146] «RP», LIX, 1904, 99.

 

[147] APC, legisl. XXI, sess. 2a, 18 marzo 1904, 11821: «[la commissione ministeriale per la riforma del regolamento] esiste da molto tempo e mi sembra abbia fatto suo quello che dicono essere il precetto migliore per le donne oneste: il non far parlare di sé. Per effetto dei suoi lavori, il Ministro dell’interno ha modificato alcuni articoli disciplinari del regolamento, stabilendo garanzie maggiori per l’applicazione della camicia di forza; ma di ben altro hanno bisogno le nostre carceri, che della modificazione di qualche articolo di regolamento».

 

[148] Neppi Modona, Carcere cit., 1935.

 

[149] ACS, MI. DGC. AG, b. 256, 2 agosto 1903, Miglioramento del Regolamento generale delle Carceri.

 

[150] Circolare 35/90 del 20 gennaio 1904, Applicazione delle disposizioni del R. d. 14 novembre 1903 n. 484 (in ACS, MI. DGC. AG, b. 285), con cui Doria comunica che il ministero, come, al momento della pubblicazione, non ha ritenuto opportuno aggiungere al decreto delle disposizioni transitorie «non soltanto perché non gli parve che ve ne fosse assoluta necessità, ma per la considerazione altresì che intendeva il passaggio dall’antico al nuovo sistema dovesse e potesse avvenire senza scosse, con opportuni provvedimenti di momentanea transizione», così ora non crede di dover «impartire speciali istruzioni in base ad una casistica multiforme di difficile previsione» e «affida alle Autorità dirigenti, la applicazione delle nuove disposizioni medesime, colla maggiore ponderazione anzitutto, e quindi col dovuto spirito di equanimità e di rettitudine di criterî, nello intento di evitare illegalità e parzialità di qualsivoglia natura».

 

[151] «Fedeli al vecchio sistema di lasciare ai nostri collaboratori piena libertà di discussione e di critica, non esitiamo a pubblicare quest’articolo, pur facendo le più ampie riserve. Nota della Direzione».

 

[152] Sulla riforma della disciplina nelle carceri, in «RDC», XXIX, 1904, 136 ss.

 

[153] Dopo che il deputato Francesco Spirito ha sollevato la questione con ripetute interrogazioni, come ha già preannunciato il sottosegretario Ronchetti nella risposta, il governo, con il r. d. 2 agosto 1902 n. 377, ha provveduto ad eliminare l’obbligo della catena anche per coloro che sono stati condannati ai lavori forzati prima dell’entrata in vigore del codice Zanardelli, che ha abolito questa pena: APC, legisl. XXI, sess. 2a, 3 e 6 maggio, 16, 25 e 26 giugno 1902, 1240, 1298, 3026, 3594 e 3537 ss.; cfr. in proposito Neppi Modona, Carcere cit., 1934; Fozzi, Indisciplina cit., 123 s. V. anche la circolare riservata ai direttori n. 1543 del 28 settembre 1902, con cui Giolitti invita, in conseguenza di questa misura, a non tollerare più nelle concessioni ai vecchi forzati «abusi, che, per essere inveterati, presentarono sempre difficoltà di remozione» (ACS, MI. DGC. AG, b. 256). Peraltro, secondo la testimonianza di un vecchio ergastolano, un certo Croce, riferita da G. Mariani, nel mondo degli ergastoli, Torino s. a. (cit. in Petacco, L’anarchico cit., 137), nonostante il decreto, a S. Stefano le catene rimasero in uso sino al 1907 e incatenato era anche Bresci, nonostante fosse stato condannato in base al codice Zanardelli. Comunque nel 1908, ad una richiesta dell’ambasciatore greco di avere un «campione delle catene usate dall’amministrazione carceraria italiana per l’incatenamento dei condannati i quali siano obbligati a compiere lavori fuori delle carceri», il ministro dell’interno risponde che «l’uso delle catene nei penitenziari italiani fu definitivamente abolito fino dal 1902 … le catene già in uso vennero distrutte e non ne resta alcun esemplare»: ACS, MGG. DGI. AG, b. 61, 16 e 31 dicembre 1908.

 

[154] «Se si trattasse soltanto di istituti aventi finalità esclusivamente educative, od anche semplicemente correttive, si potrebbe esigere allora con piena ragione il bando assoluto di ogni concetto di forza materiale nello indurre gli spiriti traviati al loro morale miglioramento; ma bisogna non dimenticare che il carcere è in genere un luogo di espiazione, il quale porta per natural conseguenza un contingente di dolore nella privazione della libertà, nell’astensione forzata dalle più comuni soddisfazioni della vita libera; bisogna partire dal principio che nel carcere si deve soffrire in ragione diretta del benefizio, vero o supposto, che è frutto del reato, e che questa sofferenza è inseparabile contributo di reintegrazione dell’ordine giuridico e morale offeso od infranto. Se dunque il carcere è e deve essere principalmente una punizione, e rappresenta nella sua essenza un concetto prevalente di coercizione, ne consegue per logica illazione che tutta la sua azione intrinseca sia materiata di forza, e dalla forza stessa come principio inconcusso debba attingere ogni sua consistenza».

 

[155] «Noi fummo fra i primi nel mondo civile e civilizzato ad abolire di fatto e poi di diritto la pena di morte, mentre molti paesi la mantengono ancora nei loro Codici e la eseguono; e non per questo si ottenne una diminuzione nella delinquenza. Noi siamo i primi, anzi gli unici, ad abolire oggi coazioni e gastighi corporali pei colpiti dalla legge penale … E ciò quando tutti indistintamente questi paesi, nell’applicazione pratica del diritto penitenziario, si servono di tali mezzi di repressione con larghezze per noi inusitate ed incredibili».

 

[156] «… parrà questa forse una eresia scientifica a chi, basandosi sui criterî che informano la nuova scuola di diritto penale (…) consideri i detenuti, e i delinquenti specialmente, come altrettanti anomali, bisognosi di custodia e di cura piuttostoché meritevoli di subire una pena; avvegnaché pur accogliendo in senso assoluto questo principio, non si possa egualmente astrarre dal concetto del costringimento corporale che rappresenta il gastigo, quando si tratta di reprimere o violenze, o follie come dir si vogliano gli atti di ribellione all’ordine costituito. Ed anche se questa repressione violenta potesse ritenersi eccessiva nel senso subbiettivo, essa è nondimeno necessaria dal punto di vista del prevalente collettivo interesse di una comunità, di un reggimento d’ordine, e massimamente di un Carcere, dove, checché possa dirsi in contrario, sono individui perversi, sia pure per fatale morbo psichico trascinati al malefizio, i quali costituiscono un elemento antisociale pericolosissimo».

 

[157] «E questa forza violenta, sia detto una volta per sempre, non ha nel concetto nostro lo scopo di produrre un dolore fisico o morale, per ispirito di crudeltà reazionaria o per bramosia di vendetta individuale o sociale; non mira a frenar le tendenze od a sopprimere gl’istinti, od a servire di correttivo sistematico. Sarebbe tale presupposto offesa gratuita quanto immeritata a tutta un’Amministrazione, ad un personale non certo sospetto di siffatti intenti disumani, di un personale che, se ha una pecca, questa è, in generale, di soverchia mitezza d’animo nello esercizio di facoltà e di poteri disciplinari, e di predilezione per i mezzi persuasivi morali. E’ quindi il natural diritto della difesa – e della difesa sociale principalmente, il quale reclama assolutamente quell’uso di forza che con malintesa pietà si combatte in astratto da tanti ignari della umana miseria che si cela entro le mura di una prigione; è la difesa pura, e non l’offesa, nella lotta diuturna fra la legalità e l’arbitrio, fra l’ordine e il disordine, fra il delitto e la forza, fra la ragione cosciente e la cieca brutalità, sia pure, tra la salute e la infermità, in un campo nel quale pur troppo unica terapeutica è precisamente la forza. Perché è ingenuo il pensare che si possa colle blandizie verso i normali o colle astuzie presso gli anormali il rispetto alla legge e ai suoi rappresentanti; e se riesce invero doloroso in ogni caso il convincimento radicato dalla esperienza, e che non può certo scuotersi colle tirate rettoriche dei moralizzatori idealisti a base di dottrina pedagogica applicata alla educazione carceraria».

 

[158] Circolare 30/42 del 10 gennaio 1904, in ACS, MI. DGC. AG, b. 256.

 

[159] V. le lettere dei direttori di Padova, L’Aquila e Alghero (11 gennaio 1904), Napoli, Pesaro e Cosenza (12 gennaio), Turi (12 gennaio e 26 marzo), Piombino (13 gennaio), in ACS, MI. DGC. AG, b. 285.

 

[160] ACS, MI. DGC. AG, b. 285.

 

[161] ACS, MI. DGC. AG, b. 285.

 

[162] ACS, MI. DGC. AG, b. 285.

 

[163] ACS, MI. DGC. AG, b. 285, 17 marzo 1904.

 

[164] ACS, MI. DGC. AG, b. 285, 11 gennaio 1904: «… se per i detenuti affetti da epilessia si può, quando il Sanitario lo ravvisi opportuno, continuare l’uso del letto di forza, che, dopotutto, non è che un letto di sicurezza».

 

[165] ACS, MI. DGC. AG, b. 285, 18 gennaio 1904: «… se nei casi in cui il Sanitario ne riconoscesse necessario, e ne ordinasse per iscritto l’uso, può ancora adoperarsi, per i detenuti furiosi il letto di sicurezza».

 

[166] ACS, MI. DGC. AG, b. 285, 22 gennaio 1904: «… se si può continuare l’uso dei letti speciali pei detenuti epilettici e maniaci, rinchiusi in questa casa per cronici. Detti letti sono pressoché eguali agli altri e cioè in ferro, uso brande, ma sono fissati sul pavimento ed hanno all’ingiro un’asta in modo da poter applicare all’occorrenza delle cinghie per assicurare gli infermi nell’accesso del male. Questi Sanitari ritengono indispensabile tale mezzo, non bastando la cintura di sicurezza per i malati suddetti, onde garantire non facciano danno a loro stessi ed agli altri».

 

[167] ACS, MI. DGC. AG, b. 285, 6 febbraio 1904: «… se è ancora consentito, per i pazzi furiosi, in attesa del loro passaggio in un manicomio, l’uso del letto di forza, ed in caso affermativo indicarmi il modello ed il sistema di tale letto, per modificare, ove occorra, quelli esistenti»; qualche mese dopo, lo stesso direttore inoltra una «richiesta di accessori per letto di forza» (16 giugno 1904).

 

[168] ACS, MI. DGC. AG, b. 285, 30 marzo 1904.

 

[169] ACS, MI. DGC. AG, b. 285, 19 novembre 1904.

 

[170] Una prima risposta al quesito del direttore di Turi, secondo cui «per i detenuti agitati può continuarsi l’uso della camicia di forza con ogni cautela e solo quando il Sanitario lo ravvisi opportuno, sino a che anche codesto Stabilimento non sarà provvisto della cintura di sicurezza», non viene inoltrata.

 

[171] ACS, MI. DGC. AG, b. 285, risposte ai direttori di L’Aquila (22 gennaio 1904), Pianosa (29 gennaio), Venezia (13 febbraio), Turi (26 marzo), Firenze (29 marzo).

 

[172] ACS, MI. DGC. AG, b. 285, 6 e 19 ottobre 1904.

 

[173] ACS, MI. DGC. AG, b. 373, 17 luglio 1905.

 

[174] ACS, MGG. DGI. AG, b. 19, 3 aprile 1906.

 

[175] ACS, MGG. DGI. AG, b. 19, 3 aprile 1906.

 

[176] ACS, MI. DGC. AG, b. 373, 29 luglio 1905 e MGG. DGI. AG, b. 19, 17 aprile 1906.

 

[177] ACS, MI. DGC. AG, b. 373, 14 e 18 aprile 1905.

 

[178] ACS, MGG. DGI. AG, b. 34, 19 e 22 giugno 1907.

 

[179] ACS, MGG. DGI. AG, b. 19, 18 agosto e 6 settembre 1906.

 

[180] M. Rygier, Il Governo e l’infanzia abbandonata; Il riformatorio maschile di Pisa; Il Riformatorio «La Generala»; Considerazioni generali sui riformatori italiani, in «L’agitatore. Periodico settimanale di azione rivoluzionaria», I, 22 e 29 maggio, 12 e 26 giugno 1910 (ACS, MGG. DGI. AG, b. 170, dove sono conservati anche articoli apparsi su «La provincia pavese», la Gazzetta del popolo» e la «Gazzetta di Torino» elogiativi della riforma in generale e della «Generala» in particolare); cfr. in proposito Neppi Modona, Carcere cit., 1948.

 

[181] ACS, MGG. DGI. AG, b. 34, 21 giugno e 26 agosto 1907; il direttore di Alessandria motivava così la sua richiesta: «da parte dei teppisti milanesi e torinesi, che abbondano in questo Penitenziario, sovente avvengono delle ribellioni alle Guardie in ispecie quando trovansi rinchiusi nelle celle di punizione. Ad evitare la colluttazione che spesso ridonda a svantaggio del personale di custodia, il quale dopo aver ricevuto calci e pugni dai riottosi è accusato di violenze usate a questi che adducono a prova le contusioni da essi stessi procuratisi, a volte anche a studio, proporrei l’acquisto dell’apparecchio “Minimax”».

 

[182] ACS, MGG. DGI. AG, b. 33, 20 gennaio 1907.

 

[183] ACS, MGG. DGI. AG, b. 33, 27 marzo e 3 aprile 1907.

 

[184] ACS, MGG. DGI. AG, b. 33, 20 maggio 1907.

 

[185] ACS, MGG. DGI. AG, b. 61, 14 ottobre e 18 novembre 1909.

 

[186] «RDC», XXXIII, 1908, 34 ss.: «Si riteneva in buona fede che un vero rinnovamento morale dovesse seguire a siffatto mutamento di sistema; si sperava che i detenuti in generale avessero a mostrarsi grati delle cure dell’amministrazione in loro favore, e che per virtù di quello spirito di particolare mitezza al quale il governo disciplinare andava informandosi, dovesse mancare ad essi perfino l’occasione di agitarsi e di ribellarsi. Vane speranze! Quel senso e quel sistema di mitezza, lungi dal frenare gli atti di violenza dei criminali, ci risulta che valsero invece ad imbaldanzirli. Ebbero essi la illusione che la legge si piegasse servile alle loro protervie piuttostoché foggiarsi alla civiltà dei tempi cancellando l’onta della corporale repressione per il miglioramento morale di essi medesimi; e dalla clemenza delle nuove disposizioni trassero, sventuratamente, maggior forza di resistenza e di ribellione. Così in nome della scienza, scrutatrice sottile delle cause psichiche del male, in nome dell’umanesimo moralizzatore e vindice, la disciplina, che pure è elemento di ordine e di virtù educatrice, soffrì una scossa notevole negli stabilimenti carcerari. E ne derivò uno stato di incertezza nella materiale esecuzione dei provvedimenti disciplinari, un malessere morale negli esecutori, un disagio imbarazzante nell’amministrazione in generale».

 

[187] «RDC», XXXIII, 1908, 213 ss.

 

[188] Perché i criminali aumentano e peggiorano colle nuove mitezze penali e carcerarie, in «RDC», XXXIII, 1908, 66 ss.: «… quando è immobilizzato dai lacci, e dalla cintura di sicurezza, scemeranno le manifestazioni esterne, ma si renderà sempre peggiore l’eccitamento esterno … Fino a che le esplosioni causate da anomalie interne si trattano come perversità volontarie, si avrà l’effetto presente, che è quello di moltiplicarne il numero».

 

[189] Il governo dei detenuti (ripreso da «Vita»), in «RDC», XXXIII, 1908, 112 s.: «… bisogna riconoscere nella delinquenza un processo morboso, che ha molti caratteri comuni con la pazzia, cui spesso è associata; e le impulsività, e le agitazioni, e le ribellioni persistenti, allora, non sono che effetti fatali dello stato morboso del delinquente … non posso parlare di repressione con mezzi materiali, tanto meno di strumenti o congegni per attutire le forze fisiche degli esaltati».

 

[190] «RDC», XXXIII, 1908, 495 ss.

 

[191] «RDC», XXXIII, 1908, 497 ss.: «Oggi la carezza è debolezza, la camicia di forza è barbarie, le doccie fredde o tiepidi sono inutili come le buone letture o la cintura di sicurezza, come il lavoro o le stanze imbottite».

 

[192] «RDC», XXXIII, 1908, 105 ss.

 

[193] «RDC», XXXIII, 1908, 455 ss.

 

[194] F. Saporito, Gl’incorreggibili e il loro governo razionale. Note di psicopatologia criminale, in «RDC», XXXIII, 1908, 76 ss., 155 ss., 437 ss. (per le citazioni 450 s.).

 

[195] Così Cesare Civoli, professore di diritto e procedura penale a Pavia, Paolo Pellacani, professore di medicina legale a Bologna, il dottor Carlo Mucciarelli, Guido Guidi, aiuto alla clinica psichiatrica di Roma; anche Ugo Conti, ordinario di diritto e procedura penale all’Istituto superiore di studi commerciali di Roma, giudica positivamente il decreto, ma pensa che «quando si abbiano accessi di furore, può essere provvida la camicia di forza –nel modo preciso in cui essa interviene nella terapeutica delle cliniche psichiatriche – quella camicia di forza che in nessun modo può essere concepibile come punizione disciplinare»: «RDC», XXXIII, 1908, 71 ss., 115 ss., 180 s.

 

[196] Così ad esempio Rossana [Z. Centa Tartarini], Un interessante «Referendum», in «RDC», XXXIII, 1908, 137 ss., sostiene che «i detenuti ribelli, indisciplinati ed agitati per uno spostamento organico dovuto alla passione, al rimorso, alle privazioni, ai dolori, dovranno essere curati come tutti gli ammalati; gli altri, i detriti umani che la natura nel suo possente moto di ricambio lascia monchi, storpi, depravati o corrotti, sieno pietosamente raccolti e segregati e messi nell’impossibilità di nuocere», in casi estremi anche con il ricorso a bende, fasce, uose, camicia di forza, ma «coordinato a sistemi e criteri prettamente scientifici, con mezzi acconci, in locali adatti, da un personale appositamente educato e sopra soggetti preventivamente studiati e psicologicamente sezionati»; v. anche il parere di G. Crippa, direttore del reclusorio di Milano, in «RDC», XXXIII, 1908, 301.

 

[197] Rossana, Un interessante cit., 139: «Soppressa per gli agitati la camicia di forza, fu sostituita con una cintura di sicurezza che obbliga le guardie ad una lotta non sempre fortunata col detenuto stesso, che naturalmente tenta di ribellarsi»; E. Denise, in «RDC», XXXIII, 1908, 485: «la cintura di sicurezza (…) non fu all’atto pratico riconosciuta idonea all’uso che deve farsene, perché, oltre la difficoltà di applicazione, il paziente rimane colle mani quasi libere e può inoltre camminare nella cella. Egli perciò riesce a liberarsene facilmente»; F. Bufardeci, in «RDC», XXXIII, 1908, 488: «La cintura di sicurezza (…) è la negazione di ogni mezzo repressivo. Un profano che la esamini ne riporta un sentimento di orrore, credendola uno strumento di tortura; un delinquente che la cinge se ne ride e non di rado se ne libera; senza dire che quando non voglia che gli si applichi, occorrono molti agenti e molte fatiche, prima che si raggiunga lo scopo»; v. anche infra le osservazioni di Zerboglio, Mirabella, De Maria e Alborghetti.

 

[198] «RDC», XXXIII, 1908, 144 ss.: «Tutti gli altri mezzi contenzione o non sono adatti a contenere e se li tolgono; sono talora dannosi potendo produrre escoriazioni, contusioni, talora lussazioni, raramente anche fratture negli sforzi quasi sovrumani a cui si abbandonano questi infelici nei periodi di grave agitazione. La camicia di forza, contro la quale tanto si è parlato e protestato e si protesta tuttora, da alcuni forse anco senza conoscerla, inferociti contro il vocabolo più che contro l’espediente curativo, è l’apparecchio più innocuo che si conosca, considerando lo scopo a cui è destinato, sull’efficacia del quale si può contare quando sia applicato convenientemente e sia sorvegliato il paziente dopo la sua applicazione … Occorre però, è bene ripeterlo, che sia applicata a dovere (e per questo sono necessari infermieri o secondini pratici) e che da quando a quando ne sia sorvegliata l’applicazione. Con questo apparecchio però si impedisce che un impulsivo si faccia del male, tenti alla propria esistenza e a quella degli altri e si è sicuri che il paziente non se la toglie. Tutti gli altri apparecchi non offrono questa sicurezza, sono causa di contusioni, di escoriazioni molto più frequenti di quelle che può produrre l’apparecchio tanto temuto, per quanto sia stata all’ordine del giorno in passato molto più che adesso, essendo ridotta la sua applicazione a pochissimi casi, dall’epoca di Esquirol, a cui si deve, sino ad oggi. Oggi anzi si dice che se ne è soppresso l’uso in qualche manicomio in ogni caso; ma se ciò si è fatto nei manicomî, non vediamo la necessità che altrettanto si attui nelle carceri».

 

[199] «RDC», XXXIII, 1908, 171 ss.

 

[200] «RDC», XXXIII, 1908, 486.

 

[201] «RDC», XXXIII, 1908, 491 ss.

 

[202] «RDC», XXXIII, 1908, 506 ss.

 

[203] «RDC», XXXIII, 1908, 457 ss.

 

[204] «RDC», XXXIII, 1908, 487 ss.

 

[205] «RDC», XXXIII, 1908, 502 ss.

 

[206] «RDC», XXXIII, 1908, 174 ss.

 

[207] «RDC», XXXIII, 1908, 181 ss.

 

[208] «RDC», XXXIII, 1908, 260 ss. Dello stesso Saccozzi v. anche Carcere e manicomio. Le diverse categorie dei delinquenti e dei folli in ordine al loro trattamento, in «RDC», XXXV, 1910, 138 ss. e 208 ss.

 

[209] «RDC», XXXIII, 1908, 234 ss.

 

[210] «RDC», XXXIII, 1908, 281 ss.

 

[211] C. Polidori, Etiologia – profilassi – cura della violenza ed incorreggibilità dei detenuti, in «RDC», XXXIII, 1908, 224 ss., 345 ss., 375 ss. (per la citazione 381 ss.).

 

[212] «RDC», XXXIII, 1908, 508 ss.

 

[213] «RDC», XXXIII, 1908, 243 ss.: «… mai sul letto di forza, ma sopra una sedia apposita, dove, con semplicissimi ordegni, possa rendersi all’impotenza l’individuo; sedia che con un semplice meccanismo possa di notte mutarsi in letto. Il letto di forza attuale, vecchio ordegno da museo, non corrisponde agli scopi desiderabili; l’individuo il quale è punito con tale strumento, necessita di una rigorosa sorveglianza, deve essere guardato a vista e servito ad ogni bisogno. Egli con astuzia può facilmente liberarsi dai manicotti e dalle cinghie che lo tengono immobile ed essere quindi di pericolo a sé e agli altri. Invece con una sedia di forza, priva di cinghie e di serrature, ma con manipole e gambali di ferro, che immobilizzino le mani e le ginocchia, gli atti di ribellione si renderanno inutili».

 

[214] «RDC», XXXIII, 1908, 481 ss.

 

[215] «RDC», XXXIII, 1908, 261 ss.

 

[216] «RDC», XXXIII, 1908, 489 s.

 

[217] ACS, MGG. DGI. AG, b. 414.

 

[218] La Mostra cit., 196 s.

 

[219] Relazione e R. D. 18 giugno 1931 n. 787. Regolamento per gli istituti di prevenzione e di pena, art. 158; nella relazione Rocco scrive in proposito che «l’applicazione della cintura di sicurezza è ammessa con tutte le cautele e le limitazioni suggerite dalla più progredita tecnica, autorizzandola nei casi di assoluta necessità e disponendosi l’opportuno controllo medico, appena possibile».

 

[220] Nel 1930 a S. Stefano il dirigente comunista Rocco Pugliese, costretto sul letto di contenzione, muore soffocato mentre due secondini cercano di alimentarlo con una sonda: Mariani, Nel mondo cit., 42 s., 153; Atti dell’Assemblea Costituente. Discussioni, IX, 19 novembre 1947, 2180 (Pertini); su Pugliese v. la voce di F. Sp[ezzano], in Enciclopedia dell’antifascismo e della Resistenza, Milano 1968-89, IV, 813 s.

 

[221] Solo alcuni esempi: il 27 dicembre 1975, nell’ospedale psichiatrico giudiziario di Pozzuoli, Antonia Bernardini muore bruciata nel letto di contenzione a cui è legata da 55 giorni: il tragico fatto dà luogo anche a una lunga vicenda giudiziaria che, dopo le condanne in primo grado, si conclude nel 1979 con un’assoluzione generale in appello e porta comunque alla chiusura di Pozzuoli, le cui ricoverate vengono trasferite a Castiglione delle Stiviere (v., oltre alla stampa dell’epoca, I. Cappelli, Gli avanzi della giustizia. Diario di un giudice di sorveglianza, Roma 1988, 57 ss.); sempre nel 1975 l’ex detenuto Alfredo Bonazzi racconta di essere stato legato al letto di contenzione per sessantotto giorni consecutivi nell’ospedale psichiatrico giudiziario di Reggio Emilia (Squalificati a vita, Torino 1975); vent’anni dopo, nella stessa struttura, viene denunciato il caso di un uomo contenuto da venti mesi e la direttrice dichiara di non avere personale sufficiente per seguirlo altrimenti (v. D. Barbieri, Un lager italiano: quei matti da slegare, in «Avvenimenti», 20 settembre 1995). Cfr. anche alcune delle testimonianze (su Barcellona Pozzo di Gotto e Aversa) riportate in A. Ricci, G. Salierno, Il carcere in Italia, Torino 1971, 109 ss. e quella di un detenuto, portato in manicomio criminale e tenuto per sei mesi quasi sempre legato al letto di contenzione, in F. Montagni, D. Protti, Le carceri italiane. Un’accusa per tutti, Bologna 1972, 81 s.

 

[222] E. Sanna, Inchiesta sulle carceri, Bari 1970, 51 (il volume, corredato anche da foto, è frutto di un’inchiesta condotta con il regista Arrigo Montanari per un reportage televisivo, Dentro il carcere, trasmesso nel gennaio del 1970); Ricci, Salierno, Il carcere cit., 111.

 

[223] Circ. del ministro Zoli n. 4014/2473 del 1° agosto 1951: «Deve essere assolutamente bandita quale mezzo atto a riportare il detenuto al rispetto dell’ordine e della disciplina, la cintura di sicurezza, la quale dovrà essere usata solamente dietro prescrizione medica, e nei casi in cui sia assolutamente necessaria per cautelare la vita stessa del detenuto, raggiunto da infermità mentale o da crisi nervosa tale per cui si rende pericoloso per lui o per gli altri il lasciarlo libero nei propri movimenti» («Rassegna di studi penitenziari», I, 1951, 793); cfr. Neppi Modona, Carcere cit., 1987 s. e 1990.

 

[224] V. ad es. A. Bonazzi, Ergastolo azzurro, Torino 1970 e le numerose testimonianze di detenuti, ma anche di un direttore e di alcune guardie, riportate sempre in Ricci, Salierno, Il carcere cit., 109 ss. e quelle sulle Murate di Firenze in Montagni, Protti, Le carceri cit., 62, 85 ss., 125, 131, 138.

 

[225] V. ad es. L. Grande, Gli sbagli di Vostro Onore, Milano 1988.

 

[226] Ricci, Salierno, Il carcere cit., 109; v. anche Sanna, Inchiesta cit., 51 s.: «Il letto di contenzione (o “cintura di sicurezza”) viene ancora usato con frequenza. Di che cosa si tratta? Ne ho visto un esemplare nel penitenziario di Augusta. E’ in un punto appartato del carcere. Vi si arriva attraverso un dedalo di corridoi dall’aria viscida e un po’ equivoca che avevano un tempo i vespasiani e i casini di infima qualità. Si accede alla cella attraverso una porta decrepita munita di catenacci enormi e di spioncino. La cella è una stanza nuda di due metri per tre. Sulla parete di sinistra in alto si apre una finestra piccolissima, munita di inferriate. Nel mezzo della cella sta il letto o “cintura” come lo chiamano i funzionari ministeriali. E’ una specie di branda, color marrone per la sporcizia che vi si è depositata: un oggetto incredibile nella sua decrepitezza, che sembra giunto direttamente dal medioevo. Alle estremità del letto stanno arrotolate quattro cinture di cuoio, anch’esse incrostate di sporcizia e vecchie di una vecchiezza di secoli: vengono usate per immobilizzare le braccia e le gambe del detenuto. Ma la cosa più raccapricciante e nefanda è nel mezzo del letto. La branda infatti si avvalla verso il centro, dove si apre, contornato dallo stesso cuoio e sporco delle cinture, un buco. Sotto il letto all’altezza del buco, c’è un pitale. Si intuisce come funziona la “cintura”. Chi protesta o dà in escandescenze, magari per giustificati motivi, viene prelevato dalla cella, denudato, legato al letto. Ci rimarrà finché non si sarà calmato».

 

[227] Sanna, Inchiesta cit., 51 e 53.

 

[228] C. Mastantuono, Problemi di medicina penitenziaria, in «Rassegna di studi penitenziari», 1970, 506 ss. che sintetizza così le sue proposte sul tema: «… 3) Nomina di una commissione medica composta da patologi, psichiatri, igienisti, per lo studio dei mezzi di coercizione ed in particolare del letto di contenzione e della alimentazione forzata mediante sonda. 4) Disposizione normativa sulla cintura di sicurezza circa la sorveglianza a vista da parte di un agente infermiere, di un soggetto assicurato».

 

[229] Sanna, Inchiesta cit., 54.

 

[230] V. le interrogazioni al ministro di Grazia e giustizia di Pertini; Calosso; Salerno, Giovanni Leone e Stefano Riccio; Persico in Atti dell’Assemblea Costituente. Discussioni, IX, 2177 ss., 19 novembre 1947.

 

[231] «La stampa», 28 gennaio-2 marzo 1951; per una cronaca del processo, che si conclude con la condanna della guardia a 11 anni per omicidio preterintenzionale, del medico ad 1 anno per omicidio colposo, del detenuto a 6 mesi per lesioni e con l’assoluzione di alcune guardie imputate di maltrattamenti ad altri detenuti, v. anche «Il mattino», 29 gennaio-2 marzo 1951.

 

[232] Sanna, Inchiesta cit., 53; Cappelli, Inchiesta cit., 40.

 

[233] Cappelli, Gli avanzi cit., 38 ss., che nella relazione descrive anche il famigerato attrezzo e il modo in cui al detenuto sono state procurate le lesioni: «Il letto di contenzione è costituito generalmente da un rozzo giaciglio con un buco centrale atto a favorire le funzioni corporali di evacuazione nel sottostante bugliolo. Un ruvido panno di tela, necessariamente antiigienico perché fisso e inamovibile, ricopre una precaria imbottitura, e di altrettanto ruvida materia sono fasce e legami atti a costringere le estremità degli arti superiori e inferiori. La contenzione viene talora eseguita, come nel caso del detenuto B., con la misura supplementare di una fascia che, passando dietro il collo e sulla regione toracica, interessa più o meno strettamente i cavi ascellari, in modo da costringere a una posizione assolutamente supina. L’Uomo è previamente denudato, - sempre necessariamente scoperte le parti addominali e genitali e le cosce, - ricoperto sommariamente, se del caso, da una rozza coperta non rimboccabile a causa del raccordo tra i legami e le sponde perimetrali del letto».

 

[234] Ibid., 41.

 

[235] S. Ronconi, Diario carcerario, www.ristretti.it.

 

[236] L. 26 luglio 1975 n. 354, Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà, art. 41: «Non è consentito l’impiego della forza fisica nei confronti dei detenuti e degli internati se non sia indispensabile per prevenire e impedire atti di violenza, per impedire tentativi di evasione o per vincere la resistenza, anche passiva, all’esecuzione degli ordini impartiti. Il personale che, per qualsiasi motivo, abbia fatto uso della forza fisica nei confronti dei detenuti o degli internati, deve immediatamente riferirne al direttore dell’istituto, il quale dispone, senza indugio, accertamenti sanitari e procede alle altre indagini del caso; Non può essere usato alcun mezzo di coercizione fisica che non sia espressamente previsto dal regolamento e, comunque, non vi si può far ricorso a fini disciplinari ma al solo fine di evitare danni a persone o cose o di garantire la incolumità dello stesso soggetto. L’uso deve essere limitato al tempo strettamente necessario e deve essere costantemente controllato dal sanitario …».