N. 4 – 2005 – Note & Rassegne

 

Desuetudine delle XII Tavole*

 

Alberto Burdese

Università di Padova

 

 

* Recensione della monografia di  Lorenzo Franchini, La desuetudine delle XII tavole nell’età arcaica, Milano, Vita & Pensiero, 2005, pp. 110.

 

 

1. – L’a. affronta, in un agile volume che si fonda su sicura padronanza delle fonti utilizzate, giuridiche e non (essenzialmente letterarie), delle quali fornisce alla fine un accurato indice (pp. 105-110), e su vasta conoscenza della letteratura romanistica (l’indice degli autori citati è a pp. 99-103), solo non aggiornata per l’ultimo biennio a causa delle more intercorse nella pubblicazione del libro, l’interessante e trascurato tema del venir meno, ancora nell’ambito dell’età arcaica, per l’incidenza di varie cause, dell’applicazione di norme decemvirali.

Una orientativa premessa metodologica costituisce il contenuto del I capitolo (pp. 7-18), in cui l’a. chiarisce anzitutto termini e relativi concetti da lui adoperati nel corso della ricerca. Così, parlando di applicazione/disapplicazione della legge, egli intende far riferimento al fenomeno di comportamento sociale diretto all’osservanza o meno della disposizione di legge da parte dei suoi destinatari. Il processo di disapplicazione, necessariamente verificantesi nel corso del tempo, è quindi da lui distinto a seconda che si attui tramite inosservanza della norma di legge (desuetudo in senso stretto) o di affermarsi di una disciplina con essa incompatibile (consuetudo contra legem), fermo restando per diritto romano arcaico il principio della abrogabilità di norme legislative ad opera della consuetudine, in quanto si deve riconoscere parità di rango di fonte di tale diritto a legge e consuetudine, salvo rilevare che in esso il più sovente la disapplicazione della legge non è il prodotto spontaneo dei consociati ma ne è indotto dall'intervento di fattori esterni, quale peraltro non sussiste in caso di prassi diretta ad escludere l’applicazione di norme legislativa di per sé derogabile.

L’intento perseguito dall’a. è quindi quello di verificare, in ordine ai casi più significativi di risalente disapplicazione di precetti decemvirali, specie per l’introduzione di disciplina incompatibile, la necessità dell’apporto propulsivo di altra norma legislativa (eventualmente anch’essa decemvirale), o dell’intervento (specie edittale) pretorio, o di responsi della giurisprudenza pontificale (quando non di decreti dello stesso collegio dei pontefici): apporto giurisprudenziale quest’ultimo particolarmente determinante in fatto di riti solenni, negoziali o processuali, sicché financo espressioni testuali come desuetudo o tacitus consensus  o mos non si riferirebbero quasi mai a prassi sociali spontanee, slegate all’interpretatio prudentium.

 

 

2. – Con il II e più consistente capitolo (pp. 19-70) l’a. propone una serie di esempi tra i più significativi di norme decemvirali cadute in desuetudine, non tutte relative alla disciplina di atti solenni né tutte desuete in età arcaica. L’ordine della rassegna, non potendosi seguire quello tavolare tradizionale oggi fondatamente posto in crisi nei suoi stessi presupposti, rispecchia, per mere ragioni di comodità, il sistema espositivo delle Istituzioni di Gaio.

         Una prima ipotesi disapplicativa riguarda il venir meno della necessità del trinoctium ad evitare la caduta della donna in manum mariti, messo fuori uso nell’ambito del totum ius relativo alla manus che Gaio (1.111) dichiara rispettivamente sublatum e obliteratum in parte legibus e in parte ipsa desuetudine. Secondo l’a. l’obliteratio del trinoctium sarebbe bensì dipesa dalla prassi sociale diffusa di ricorrervi reiteratamente sì da ridurlo a semplice formalità dipoi andata anch’essa desueta, ma sin da antico su impulso della giurisprudenza che avrebbe finito per pervenire, in una materia in cui l’esigenza di certezza del diritto sarebbe risultata particolarmente sentita, alla abrogazione dell’istituto stesso, in tal modo fatto cadere per desuetudine.

Altra ipotesi è costituita dall’ambitus originariamente richiesto come spazio intercorrente tra costruzioni urbane ma la cui esistenza appare messa già in crisi sin dal III secolo a.C. per l’esigenza di utilizzare il più possibile gli spazi in città: risalgono invero a Plauto le prime testimonianze dell’edificazione del paries communis tra edifici. Secondo l’a. la necessità dell’ambitus sarebbe stata considerata, per prassi sociale, derogabile dalle parti, pur rimanendo la relativa norma decemvirale formalmente in vigore in tempi avanzati e dovendosi del resto riconoscere l’operato della giurisprudenza nella individuazione, lungo il corso del II secolo a.C., di figure di servitù urbane incompatibili con la presenza dell’ambitus, la cui persistenza ne sarebbe stata definitivamente posta in crisi.

Terza ipotesi considerata è quella relativa al venir meno delle norme delle XII Tavole concernenti la chiamata dei gentiles alla successione intestata come alla tutela o cura legittime degli incapaci, andate in desuetudine con il totum gentilicium ius (vd. Gai. 3.17), completamente anche oltre l’età della tarda Repubblica. Secondo l’a. vi avrebbe contribuito l’intervento del pretore in materia successoria ma soprattutto il progressivo dissolvimento della organizzazione gentilizia implicante un sistema di vocazione ereditaria di tipo collettivo atta a creare difficoltà applicative alle quali, relativamente alla sopravvivenza dei sacra familiaria nell’ambito della gens, non poté mancare l’intervento della giurisprudenza sin da quella pontificale: senza considerare la difficoltà vieppiù crescente di determinare a chi spetti la qualifica di gentilis. La vocazione gentilizia sarebbe comunque venuta meno non per formale abrogazione ma per prassi disapplicativa, favorita dall’applicazione di altri istituti.

Viene quindi in esame la testimonianza di Gellio (noctes Att. 16.10.8) secondo cui l’insieme delle norme decemvirali, ma con specifico richiamo a singoli istituti prevalentemente di diritto sostanziale, sarebbe stata resa obsoleta (consopita) dalla lex Aebutia, peraltro di riforma del rito processuale. Secondo l’a. sarebbe pertanto probabile che detta legge, incidente sulla tutela giurisdizionale degli istituti ricordati da Gellio e previsti nelle XII Tavole, ne abbia potuto in qualche modo accelerare la desuetudine: ed è ciò che egli si accinge ad acclarare con riferimento a ciascuno di essi.

Quanto alla quaestio lance licioque, istituto rituale di evidente origine pontificale sul quale non avrebbe potuto avere incidenza la prassi spontanea dei consociati, la legge Ebuzia, legittimando la riforma pretoria in merito alla sanzione in quadruplum del furtum manifestum e di quello prohibitum, avrebbe indirettamente contribuito alla disapplicazione dell’antica quaestio in favore della applicazione del tipo di ricerca semplificata, testibus praesentibus, per il furtum conceptum e che si ipotizza possa risalire anch’essa a norma delle XII Tavole.

Quanto alla norma sulla talio, la sua desuetudine sarebbe stata favorita, prima che dalla riforma pretoria e dalla legge Ebuzia, dalla utilizzazione nella prassi, incentivata dalla giurisprudenza, della possibilità, prevista dalla norma stessa, di ricorrere al pacere tra le parti, sino a considerare comminabile la pena del taglione solo ad opera del giudice ed a colpevole consenziente (cfr. Gell. Noctes Att. 20.1.37-38), il che sarebbe potuto presumibilmente avvenire solo in base a presa di posizione del collegio pontificale, trattandosi di modifica di un procedimento di legis actio.

Viceversa in ordine alla sanzione delle iniuriae, per la desuetudine della sua determinazione decemvirale in ammontare pecuniario fisso ha avuto ruolo decisivo l’introduzione da parte del pretore della formula, di azione diretta all’aestimatio del danno arrecato (cfr. Gell. Noctes Att. 20.1.13 e I. 4.4.7), sulla cui diffusione ha potuto incidere la legge Ebuzia nel corso di un processo disapplicativo della pena fissa in favore del ricorso alla aestimatio che, iniziatosi a partire dal III secolo a.C., si sarebbe protratto sino alle soglie dell’età classica: si sarebbe comunque trattato di formale abrogazione dell’antica disciplina.

Riguardo ad istituti processuali, ancora Gellio (noctes Att. 16.10.8) testimonia la disapplicazione, in epoca successiva, del regime decemvirale relativo ai requisiti richiesti per il vindex, ai vades ed ai subvades. Secondo l’a la sostituzione, per il vindex, della condizione di locuples a quella originaria di adsiduus, prima di essere edittalmente sanzionata dal pretore, si potrebbe supporre fosse dipesa già da una mera prassi spontanea, se non propiziata quanto meno riconosciuta dalla giurisprudenza e poi recepita anche in atti pubblici, per cui si sarebbe trattato di una sorta di consuetudo contra legem. Quanto al ricorso alla cautio vadimonium sisti in luogo della antica figura dei vades, esso si sarebbe andato affermando ad opera della giurisprudenza e del pretore per divenire poi esclusivo a seguito di intervento di legge, ove non vi sarebbe stato spazio, dato il carattere tecnico della materia, per l’operare di una mera prassi spontanea.

Resta l’ultima ipotesi, considerata dall’a., di disapplicazione di norma decemvirale, relativa a messa a morte dell’addictus da parte del creditore. Mentre la corporis sectio, cui farsi ricorso in caso di pluralità di creditori, potrebbe anche non essere mai stata effettivamente applicata, una risalente prassi diffusa avrebbe condotto a preferire, all’uccisione dell’addictus, alla previsione della quale si sarebbe conservato valore formale a scopo deterrente, l’attuazione di altre alternative riconosciute dalle stesse XII Tavole: si sarebbe quindi avuta la disapplicazione di una norma in favore della applicazione di altre. Così si sarebbe potuto ricorrere a patto di riscatto dell’addictus di contro al pagamento della somma dovuta, o all’accordo per cui l’addictus sarebbe stato trattenuto in qualità di nexus per sfruttarne a tempo determinato la capacità lavorativa (onde il necessario intervento della giurisprudenza pontificale per il perfezionamento delle formalità negoziali all’uopo occorrenti), o alla vendita trans Tiberim dell’addictus medesimo, o infine al prolungarsi di fatto del suo asservimento con relativa confusione in merito tra situazioni di diritto e situazioni di mero fatto che avrebbe contribuito a render desueto lo stesso regime decemvirale.

 

 

3. – Alla trasformazione tacito consensu del rito decemvirale del manum conserere nell’ex iure manum consertum vocare di cui parla Gellio, noctes Atticae 20.10.7-9, ove l’espressione tacito consensu, inteso in senso meramente modale, farebbe riferimento all’assenza di strumento legislativo, ma non dell’intervento giurisprudenziale, è dedicato infine dall’a. il III capitolo (pp. 71-97).

L’introduzione eo iure quod tacito consensu receptum est, anziché lege o praetoris edicto, di successioni di altro genere rispetto a quelle mortis causa si trova invero affermata da Gaio (3.82) con riferimento all’adrogatio e alla conventio in manum, istituti dei quali non sarebbe neppure immaginabile la recezione per mera prassi senza l’apporto della interpretatio prudentium. Parimenti la necessità di un responso giurisprudenziale per la modifica del rito processuale (consistente in verba e gesta) del manum conserere risulta a fortiori dal fatto che lo stesso Gaio (4.11) richiama un responsum (presumibilmente pontificale) col quale si sarebbe dichiarata persa la lite per la semplice menzione di vites al posto delle arbores di cui era parola nelle XII Tavole in relazione al rito di legis actio sacramenti.

Ora, mentre il manum conserere tra le parti di tale rito doveva, per disposizione decemvirale, avvenire in iure, e cioè alla presenza del magistrato, nonché in re praesenti, e cioè in presenza della cosa oggetto della contesa, assai presto, per la pratica esigenza di evitare al magistrato di spostarsi, i pretori dovettero avallare la prassi dell’ex iure manum consertum vocare, consistente nel recarsi le parti, dopo averne formulato reciprocamente l’invito, nel luogo in cui si trovava la cosa immobile o difficilmente trasportabile per riportarne un suo simbolo sul quale effettuare poi, in iure, le rispettive vindicationes. Alla reciproca vocatio delle parti Cicerone (pro Mur. 12.26), in un contesto di critica all’eccesso di formalismo dei giuristi, testimonia l’intimazione del pretore alle parti stesse di recarsi sul luogo ove effettuare il prelievo del simulacro, subito seguita dall’intimazione a ritornarsene: si sarebbe trattato della degenerazione ultima di un rito che, forse dal III secolo a.C., avrebbe in un primo tempo richiesto la sua effettiva, e non solo fittizia, realizzazione, introdotta su elaborazione della giurisprudenza, pontificale prima che laica.

Ma sarebbe, per l’a., difficile pensare che il magistrato, trattandosi di modifiche apportate al formalismo processuale anche per quanto riguardava la sua stessa partecipazione ad esso, si fosse potuto accontentare in merito del responso rilasciato da un singolo giurista pontefice, anziché dall’intero collegio pontificale, eventualmente per interposizione di un pontefice all’uopo delegato, diverso comunque da quello che Pomponio (vd. D. 1.2.2.6), dopo aver riconosciuto quale depositario dell’interpretatio delle actiones detto collegio, ricorda come annualmente delegato affinché praeesset privatis.

Quanto ai modi nei quali si procedeva alla consultazione pontificale, risulta dalle fonti come avvenisse quella relativa a materie di sacra publica, ove era il magistrato, incaricato dal senato, a interpellare formalmente il collegio al fine di ottenere decretum di risposta, comunicato dal pontefice massimo al richiedente e reso esecutivo con delibera senatoria. A parte la partecipazione del senato, giustificata trattandosi di sacra publica, si potrebbe ipotizzare analogo procedimento di consultazione per rapporti tra privati ma coinvolgenti riti pubblici, come le actiones processuali, ai quali partecipava lo stesso magistrato giusdicente, tanto più ove tali riti, come il sacramentum, avessero origine sacrale.

In conclusione, il consensus  di cui parla Gellio in merito al mutamento del rito decemvirale del manum conserere sarebbe da intendersi non come relativo ad una prassi spontanea, bensì quale indotto da mutamento di indirizzo giurisprudenziale sancito con decreto del collegio pontificale: ne risulterebbe confermata l’impressione che l’evolversi della disciplina del processo si effettuasse, rispetto a quella negoziale, in modi più ufficiali, attraverso i canali distinti della produzione legislativa (normativa, dice l’a) da un lato e della elaborazione giurisprudenziale dall’altro, che avrebbero seguito criteri loro proprii; ne apparirebbe inoltre evidenziata come sfera elettiva, ancorché non esclusiva, di applicazione dell’attività individuale di consulenza giurisprudenziale quella negoziale, e sottolineata la risalente collaborazione tra magistrato giusdicente e giuristi (pontefici) in ambito processuale.

 

 

4. – La ricerca appare metodologicamente bene impostata e organicamente orientata in riferimento ai più rilevanti fenomeni di disapplicazione di singole norme decemvirali, tenendo conto dei vari fattori che di volta in volta hanno potuto incidere su di essa, eccezionalmente la prassi spontanea, ma assai di più l’interpretatio dei giureconsulti, soprattutto pontefici, effettuata in materia di pubblico interesse tramite decreta dell’intero collegio, l’intervento del pretore specie attraverso disciplina edittale, quando non anche l’applicazione alternativa di nuove disposizioni di legge o di altra norma delle stesse XII Tavole: fattori spesso contemporaneamente operanti in reciproco collegamento tra loro.

Ne risultano coinvolti da un lato problemi più generali in fatto di produzione, interpretazione e applicazione del diritto postdecemvirale, dall’altro delicate e discusse questioni relative a istituti arcaici, sostanziali e processuali, non prive di aspetti sacrali. In merito le prese di posizione dell’a., che opportunamente tende a limitarle in funzione di quanto rilevante per l’intento prefissatosi, appaiono sempre equilibrate, con richiamo alle opinioni della migliore dottrina. Né mancano valutazioni originali sul tema specifico prescelto, come stimolanti spunti di riflessione su più ampie problematiche, sicché non resta se non attendere dall’a. ulteriori prove delle sue indubbie capacità di studioso.