N. 4 – 2005 – Note & Rassegne

 

Ancora a proposito di ‘transigere’, ‘transactio’, «transigere» e «transazione»

 

Michele A. Fino

Università del Piemonte Orientale

 

Sommario: 1. Premessa. – 2. Le ragioni della ricerca. – 3. Problemi di metodo e incomprensioni. – 4. Le ragioni di un’analisi delle ricorrenze letterarie di ‘transigere’ e ‘transactio. – 5. Le fonti giuridiche romane e l’archetipo moderno di «transazione», che da esse comunemente si vuole ricavato. – 6. Le vere radici dell’archetipo transattivo moderno. – 6. I problemi che permangono nell’elaborazione giuridica attuale in tema di «transazione».

 

 

1. – Premessa

 

Ad alcuni mesi dalla sua uscita, lo studio monografico dello scrivente[1] dedicato all’origine della transactio è stato oggetto di una nota a firma del Professore Ferdinando Zuccotti[2], da quest’ultimo pubblicata «on line» sul sito della Rivista di Diritto Romano[3], quale «anticipazione» di un preannunciato pamphlet dedicato alle «peculiarità della monografia qui sommariamente recensita»[4].

Non spetta naturalmente a un neofito della disciplina formulare osservazioni circa i rilievi che il direttore di una rivista muove a proposito della sua opera prima, giacché la verifica della corrispondenza tra una recensione e il contenuto del libro recensito spetta solo al lettore di entrambe. Sono inoltre la non definitività della pubblicazione «on line» – e ancor più la “promessa” di un pamphlet, destinato a «maggiormente considerare e approfondire» – a sconsigliare, in questa sede, l’esercizio di un’adeguata forma di risposta[5].

Appare piuttosto utile una sintetica messa a fuoco di alcuni punti, ad avviso di chi scrive, centrali nell’economia della monografia, che aiuti il lettore a compiere l’auspicato confronto fra recensione e testo recensito.

Il lettore non troverà, quindi, in questa sede, osservazione circa elenchi di refusi imputati (a ragione) allo scrivente[6] (né circa le utili segnalazioni di errori di ortografia greca)[7], ma nemmeno qualsivoglia contestazione dei comportamenti attribuiti allo stesso, a parere di chi scrive, gratuitamente[8]. Ancora: non si intende esaminare le prese di posizione, talora anche divertite e divertenti[9], derivanti da fraintendimenti nei quali possa apparire essere incorso Ferdinando Zuccotti[10], a patto che le stesse non intacchino le tesi portanti della ricostruzione proposta in merito all’uso dei segni ‘transigere’ e ‘transactio’ da parte dei giuristi antoniniani, poiché tale ricostruzione è il fulcro dello studio recensito, sebbene il recensore non le dedichi speciale attenzione. In sostanza, in questa sede non troverà riscontro lo stile della recensione, peraltro ormai una costante di questo genere di lavori ascrivibili a Ferdinando Zuccotti[11].

 

2. – Le ragioni della ricerca

 

L’impianto dello studio monografico dedicato all’origine della ‘transactio’ è stato determinato dalla constatazione che una serie di dati vengono dagli studiosi presupposti: sia per quanto attiene il significato del verbo ‘transigere’ e del sostantivo ‘transactio’, sia per quanto riguarda il rapporto fra questi e le voci italiane «transigere» e «transazione»[12]. La ricostruzione storica parte sempre dalla percezione di un possibile ambito d’indagine, che, in questo caso, è rappresentato dalla corrispondenza semantica tra il verbo latino e quello italiano e, rispettivamente, tra il sostantivo latino e quello italiano. Una corrispondenza che, nello studio monografico condotto, a parere dello scrivente per la prima volta, non è accolta come scontata.

Muovendo quindi dal sospetto dell’artificialità di questa equipollenza, l’indagine si è sviluppata secondo due filoni: l’uno, di carattere più squisitamente giuridico, volto a individuare nelle fonti romane gli elementi che giustificano, nelle trattazioni generali come in quelle monografiche, l’attribuzione alla ‘transactio’ di caratteristiche pressoché identiche alla moderna «transazione»; l’altro, di carattere più filologico, volto a far emergere nelle fonti latine, elementi utili a definire il corredo semantico di ‘transigere’ e, conseguentemente, di ‘transactio’.

È così emerso che, da quei frammenti del Digesto e costituzioni del Codex, da secoli considerati come il fondamento dei concetti di ‘transigere’ e ‘transactio[13], non si ricava un impiego di questi segni per indicare un istituto cui si ricorre solo per eliminare o prevenire le situazioni dubbie e le controversie. Anzi, l’oratio divi Marci[14] offre elementi utili a isolare un uso del verbo, e del sostantivo, con riferimento all’attività che pone fine a un rapporto non necessariamente litigioso, né controverso o connotato da incertezza.

E se, per quanto attiene la funzione del ‘transigere’, non vi è traccia di una limitazione del termine come finalizzato esclusivamente all’eliminazione o alla prevenzione delle controversie, non stupisce che nelle fonti manchi ogni attestazione circa la necessità di una struttura particolare perché si possa parlare di ‘transigere’ o di ‘transactio’. Non c’è fonte romana che provi la necessità di reciproche concessioni, o di prestazioni che diano forza vincolante all’accordo, in caso di ‘transactio’. Certamente si trovano nelle fonti casi in cui concessioni reciproche sono testimoniate, ma nessuno in cui per il ‘transigere’ o la ‘transactio’ sia prescritta la struttura che, a esempio, i codici italiano e tedesco delineano.

Sembra, infine, che nelle fonti del II sec. d. C., anche l’elemento convenzionale abbia un ruolo limitato: è possibile individuare un uso di ‘transigere’ che indica il prodotto della volontà di chi abbandona una propria prerogativa, non la conclusione di un negozio bilaterale. Un dato che sembra provare l’attenzione dei prudentes per quell’atto unilaterale, efficace senza bisogno dell’intervento dell’altrui volontà, individuato nella storia da diversi autorevoli giuristi con il gesto di colui che, ‘transigendi causa’, rinuncia a far valere giudizialmente le proprie ragioni[15].

Ecco spiegata la necessità di una ricostruzione del corredo semantico di ‘transigere’, la cui risalenza è incomparabilmente maggiore rispetto a ‘transactio’ (che compare, nelle fonti cd. letterarie pervenuteci, solo una volta, in un frammento di M. Capella del V sec. d.C.), attraverso l’esame di tutte le ricorrenze del verbo nelle opere della letteratura latina, dal II sec. a. C. fino alla caduta dell’Impero d’Occidente. Uno sforzo da cui è emersa una pluralità di significati di ‘transigere’, normalmente abbinati a diverse costruzioni del verbo (usato sia come transitivo, sia come intransitivo, in diverse costruzioni sintattiche), nessuno dei quali, tuttavia può dirsi rappresentare, in età romana, un’anticipazione del senso che il verbo «transigere» ha nel linguaggio giuridico moderno.

Sulla scorta di questo risultato, una luce nuova ha illuminato l’esame dei frammenti riconducibili a giuristi del II sec. d.C. (età durante la quale verbo e sostantivo entrano nella lingua dei prudentes), consentendo di evidenziare come la diversa sensibilità di ciascuno di essi abbia privilegiato uno o più degli aspetti che costituiscono la polisemia di ‘transigere’. Tra questi, l’aspetto della rinuncia a una pretesa e della conclusione di un rapporto giuridico controverso (o della sua prevenzione) sembrano emergere come elementi che, insieme o separatamente, si ritrovano nella riflessione di tutti i maestri antoniniani, al punto che è possibile individuare in essi le radici dello sviluppo futuro del significato di ‘transigere’ e ‘transactio’, nel senso di una specializzazione che ha perso per strada quello generico di «portare a termine», «concludere» una qualunque attività o un qualunque rapporto, anche non controverso.

 

3. – Problemi di metodo e incomprensioni

 

I caratteri e gli obiettivi dell’indagine pongono una serie di problemi metodologici ai quali si è cercato di fare fronte, ma che possono talora emergere con effetti ingannevoli dalla lettura dello studio. In effetti, il linguaggio tecnico del giurista moderno è il prodotto di una stratificazione plurisecolare, che ha preso le mosse dai materiali romani studiati sin dall’XI secolo, ma che si è evoluto in modo per molti versi autonomo rispetto alle fonti, influenzato dalla filosofia, dalla lingua e dalla politica dei paesi ove maggiormente è fiorita la scientia iuris. Il risultato è che oggi, quando ci si volge a esaminare i frammenti del Digesto o le costituzioni del Codice, tentando la ricostruzione della lingua e del pensiero dei giuristi romani, necessariamente si deve far uso di segni e di concetti anacronistici rispetto all’oggetto della ricerca[16].

Per questa ragione è molto facile fraintendere i risultati delle esegesi proposte dallo scrivente non appena si pensi (e soprattutto si scriva) indifferentemente «transigere» invece di ‘transigere[17]. Al contempo, è possibile che, di primo acchito, si scambino le remore dello scrivente nel fruire di segni e concetti moderni con l’ignoranza degli stessi, come accade, in effetti, spesso a Zuccotti. Viceversa, il ricorso a una simile terminologia è il segno tangibile dell’attenzione prestata a ricostruire il pensiero dei prudentes, cercando di non fare uso, per quanto possibile e certamente non senza qualche svista, delle costruzioni dogmatiche (e del lessico corrispondente) elaborate solo molti secoli dopo. Ciò che spiega, per offrire un esempio concreto di quanto affermato, il cosciente rifiuto dell’idea che i giuristi romani usino sempre e solo un linguaggio tecnico (in senso moderno) e rispettino distinzioni dogmatiche di stampo pandettistico.

Sulla scorta di quanto premesso, i tre punti – che pare utile chiarire mediante questa breve nota – per fornire al lettore l’occasione di un agile confronto tra le tesi dello scrivente e quelle che allo stesso attribuisce Zuccotti, sono l’evoluzione semantica del verbo ‘transigere’ nella letteratura latina, in particolare ciceroniana, la tradizione testuale (con i problemi interpretativi che ne discendono) di D. 2,15,1 – considerando la sua rilevanza nella formazione dell’idea di ‘transactio’ a partire dal Medioevo – e, infine, l’archetipo contrattuale transattivo nell’ordinamento italiano.

 

4. – Le ragioni di un’analisi delle ricorrenze letterarie di ‘transigere’ e ‘transactio

 

Ferdinando Zuccotti[18] scrive: «Esaminando i passi di Cicerone in cui compare il verbo ‘transigo’, l’autore tenta di dimostrare che nel vocabolario di tale autore, mentre ‘decidere’ significherebbe concludere, invece ‘transigere’ indicherebbe soltanto le trattative che precedono tale accordo finale, e in tale tesi tende non poche volte non solo a forzare sensibilmente il dettato testuale, ma altresì a equivocarlo secondo prospettive difficilmente sostenibili dal punto di vista della logica giuridica».

Tralasciando ogni considerazione riguardo all’applicabilità della logica giuridica a contesti letterari anche molto lontani dall’ambito del diritto (si pensi ai casi in cui ‘transigere’ compare nell’epistolario dell’oratore[19]), è d’uopo rimarcare che una simile sintesi del pensiero derivato dall’analisi delle cinquantasei ricorrenze ciceroniane di ‘transigere’ non è del tutto fedele al tenore letterale del testo recensito[20].

Appaiono, infatti, trascurati i criteri cronologici adottati nell’analizzare le testimonianze dell’Arpinate[21], ma soprattutto risultano non considerate le connessioni poste in essere con ricorrenze più risalenti del verbo e l’esplicita ammissione del fatto che ‘transigere significherebbe «concludere», «portare a termine», conformemente, peraltro, a quanto ritenne Aldo Schiavone[22], in diversi luoghi ciceroniani[23]. Un’attestazione espressa con l’avviso, a parere dello scrivente, inequivocabile, che questi significati sarebbero «entrati con sicurezza nel lessico del giovane Cicerone»[24].

È senz’altro legittimo ritenere che la «tesi secondo cui ‘decido’ significherebbe «concludere», mentre ‘transigere’ indicherebbe le trattative che precedono tale accordo finale sia «un’idea che non convince affatto»[25]. Tuttavia, una simile tesi non può dirsi tout court appartenente allo scrivente, dal momento che nella monografia non se ne trova l’affermazione[26] e pertanto, se del rapporto tra ‘transigere e ‘decidere’ nei passi in cui i due risultano utilizzati congiuntamente – non nel lessico ciceroniano tutto, come induce a credere Ferdinando Zuccotti – si è cercato di indagare la natura, può forse essere utile richiamarne il perché.

Solo in tre luoghi, della produzione dell’oratore pervenutaci, si trovano, nella stessa frase, ‘decidere’ e ‘transigere[27], per un totale di quattro ricorrenze in tutto. Trattandosi di opere fra le prime dell’Arpinate[28] o comunque fra quelle più risalenti[29], non è sembrato troppo azzardato ipotizzare che per Cicerone un nuovo significato traslato di ‘transigere’ fosse «da poco entrato nel lessico tecnico» e che lo stesso fosse «caratterizzato da una notevole prossimità semantica a decidere»[30]. Se si considera il fatto che quest’ultima affermazione poggia sull’impressione che in «Pro Roscio Com. 35 [...] i due verbi appaiono (scil. appaiano) come equipollenti alternative»[31] non risulta agevole comprendere il tenore e il contenuto della critica espressa da Ferdinando Zuccotti, il quale peraltro, forse, fraintende l’interpretazione che lo scrivente dà del verbo ‘transigere’ impiegato nella chiusa in pro Q. Roscio com. 49 (‘per nuntium hoc, quod erat tam leve, transigere potuisti’). Non corrisponde infatti al pensiero espresso nel libro recensito che tale frase «non implichi la conclusione del negozio, ma soltanto le trattative che lo precedono»[32]. A parere dello scrivente, infatti, l’espressione ciceroniana non ha un preciso contenuto giuridico (tanto da potersi tradurre liberamente con «avresti potuto sbrigare la faccenda comodamente e facilmente mediante un nuncius»[33]), ma fornisce un utile argomento e contrario, che rafforza i risultati dell’indagine. Non sembra, infatti, plausibile che nella chiusa, in luogo di ‘transigere’, Cicerone potesse usare ‘decidere[34].

Decidere’, infatti, presenta nel linguaggio dell’Arpinate un significato già più maturo: pertanto, se questo si presenta talora coincidente con quello di ‘transigere’ è per il minor grado di definizione del corredo semantico di quest’ultimo (inversamente proporzionale alla sua ampiezza, com’è agevolmente intuibile, che è tale da consentire una parziale sovrapposizione al significato di ‘decidere’), non per sinonimia.

Ancora, Zuccotti ritiene che con la locuzione ‘satis dat’ Cicerone intenderebbe l’offrire una «garanzia formale che di norma indica l’intervento di garanti», la quale non avrebbe potuto essere prestata «nel corso delle trattative». A suo dire, anzi, questa locuzione dimostrerebbe che «l’accordo è concluso»[35].

Pur aprendo alla possibilità che in questo passaggio Cicerone utilizzi ‘transigere’ con lo stesso significato di ‘decidere’ (ipotesi peraltro mai esclusa dallo scrivente) non sembra comunque decisivo il riferimento alla garanzia per l’interpretazione della coppia verbale impiegata. In primis perché pare preferibile, in quanto conforme alle linee guida dello studio monografico, non considerare dogmaticamente univoco l’uso di un linguaggio tecnico-giuridico in Cicerone. In secundis, perché nel corpus delle ricorrenze ciceroniane l’espressione ‘satis dare ha posto e pone più di un problema interpretativo: questioni che non si risolvono presupponendo che essa faccia sempre, e soprattutto solo, riferimento all’istituto della ‘satisdatio[36], con i caratteri «maturi» che a esso si possono attribuire sulla scorta dei frammenti del Digesto, se non altro perché Cicerone[37], insieme a Plinio il Vecchio[38], ci consta essere l’unico autore letterario a utilizzare il sostantivo indicante la garanzia con l’intervento di terzi, ma non in pro Q. Roscio com. 49, bensì in epist. ad Att. 5,1,2[39]: un passo in cui i caratteri del “negozio”, indicato dal segno satisdatio, sono tutt’altro che chiariti.

Non pare quindi doversi rinunciare, per le ragioni esposte nella monografia, alla convinzione che, in pro Roscio com. 35, l’Arpinate possa aver usato ‘decidere’ per sottolineare l’atto di disposizione della propria tutela processuale e ‘transigere’ per porre l’accento sulle trattative condotte, per conto di altri, al fine, comunque, di arrivare a una atto di disposizione riguardante le proprie e le altrui prerogative.

Sembra allora utile alla chiarezza il ribadire che, a parere dello scrivente, in Cicerone non si riscontra un impiego di ‘transigere’ con un corredo semantico tecnico-giuridico compiutamente definito, ma anzi in percepibile evoluzione, conformemente al quadro che è stato possibile ricostruire per la letteratura precedente al I sec. a.C. e, ancor più significativamente, a quello composto dalle ricorrenze del verbo nei secoli successivi[40]. Il verbo appare attestato, nell’opera più risalente dell’Arpinate, con il significato di «portare a compimento», «concludere», che era già stato riscontrato in un frammento riconducibile a Catone[41], contenente una distinzione tra ‘properare’ e ‘festinare’ destinata ad avere ampia fortuna nella tradizione erudita latina[42].

L’interazione fra i verbi ‘transigere’ e ‘decidere’, nell’uso che degli stessi fa Cicerone, avrebbe gradualmente visto modificarsi il corredo semantico del primo, portandolo a comprendere anche il significato di «accordarsi per porre fine a un rapporto» (in particolare, a un rapporto connotato da incertezza oppure oggetto di una controversia, in atto o temuta) che, ad avviso dello scrivente, era proprio di ‘decidere’ nelle orazioni pro Quinto Roscio comoedo e pro Sexto Roscio Amerino[43], oltre che nella seconda Verrina.  Di questa evoluzione offre una testimonianza pro Cluent. 39[44].

Risulta così chiaro che nel corpus ciceroniano si trovano molti e diversi impieghi e, conseguentemente, significati di ‘transigere’, riassumibili, sotto il profilo sintattico, nelle costruzioni

transigere’ + accusativo

transigere’ + cum + ablativo

transigere’ + de + ablativo

che sottendono, generalmente, il significato – proprio o metaforico – di «concludere», «portare a termine», «sbrigare» e, rispettivamente, «accordarsi con qualcuno» ovvero «accordarsi riguardo a qualcosa». Pare altresì potersi intravedere un percorso evolutivo diacronico, una “maturazione semantica” i cui frutti sembrano potersi apprezzare tenendo presente l’arco temporale coperto dalla produzione ciceroniana, a patto di rinunciare a (troppo) sintetiche descrizioni dell’uso di ‘transigere’ da parte dell’Arpinate, e soprattutto considerando le ricorrenze, nelle opere di quest’ultimo, in un contesto ben preciso: quello dell’esame dei frammenti di opere “letterarie” latine, in cui compare ‘transigere’, che, non a caso, dello studio monografico dello scrivente, costituisce complessivamente quasi un quinto[45]. Né prima né dopo Cicerone si apprezzano, nelle opere pervenuteci della letteratura latina, usi di ‘transigere tali da far sospettare che nel corredo semantico del verbo fossero stabilmente entrati significati analoghi a quelli che, nel linguaggio tecnico-giuridico, sono oggi associati al verbo «transigere». Semplicemente, nel complesso di significati che formano l’insieme del «concludere», rientra anche quello di «porre fine – anche preventivamente – a una controversia iniziata o semplicemente temuta», ma questo non vuole ancora dire, e le fonti anche successive lo confermano[46], che quest’ultimo sia mai divenuto “il” significato, proprio ed esclusivo, di ‘transigere’.

 

5. – Le fonti giuridiche romane e l’archetipo moderno di «transazione», che da esse comunemente si vuole ricavato

 

Alla luce di quanto ricavato dalle ricorrenze di ‘transigere nelle fonti letterarie, il problema della tradizione testuale di D. 2,15,1, il cui emergere rappresenta l’occasione da cui prende le mosse lo studio giusromanistico recensito, riveste un’importanza capitale, in considerazione del fatto che questo frammento, tratto dal libro 50 ad edictum di Ulpiano e collocato dai compilatori in apertura del titolo de transactionibus, rappresenta, secondo una tradizione che risale al Medioevo, uno dei due pilastri (l’altro è il rescritto dioclezianeo sinteticamente riportato in C. 2,4,38) dell’idea di ‘transactio’-«transazione» condivisa a tutt’oggi dalla communis opinio.

 

Ulp. 50 ad ed. D. 2,15,1 Qui transigit quasi de re dubia et lite incerta neque finita transigit qui vero paciscitur donationis causa rem certam et indubitatam liberalitate remittit.

 

Partendo dall’esame della littera Florentina, è parso possibile suggerire una ricostruzione testuale alternativa a quella resa ormai “canonica” da Mommsen:

 

Qui transigit quasi de re dubia et lite incerta neque finita qui vero paciscitur donationis causa rem certam et indubitatam liberalitate remittit[47].

 

Si tratta di una ricostruzione che consente di battere vie esegetiche nuove, superando le perplessità e le suggestioni indotte dalla reiterazione di ‘transigit’ nella versione di D. 2,15,1[48] che tutti conoscono.

A Ferdinando Zuccotti non paiono degne d’esame[49] le osservazioni in merito alla littera Florentina, alla restituzione del frammento a partire dalla glossa sino a Mommsen, alla lingua di Ulpiano e segnatamente all’uso da parte di questo giurista della costruzione ‘remittere de[50]. Tuttavia lo scrivente è portato a ritenere che, di fronte a certi dubbi sull’originale tenore del passo ulpianeo, non si possa affermare con assoluta certezza che in esso la distinzione fra ‘transigere e ‘pacisci’ sia basata, oltre che sull’oggetto delle due attività (res dubia et lis incerta neque finita e, rispettivamente, res certa et indubitata), sulla gratuità della seconda contrapposta alla (supposta) onerosità della prima.

L’interpretazione tradizionale, invero, appare dovuta al fatto che si raccordano i verbi ‘transigit-transigit’ da un lato e ‘paciscitur-remittit’ dall’altro[51], anche se la distinzione ulpianea solo apparentemente riecheggia un modulo di definizione-distinzione che abbiamo riscontrato nella tradizione latina (con riferimento a Catone, Festo e Gellio), ricordata supra a proposito di ‘properare e ‘festinare’.

In effetti, la versione “ufficiale” di D. 2,15,1 impone alla dottrina di confrontarsi con il problema di quale valore definitorio sia da riconoscere all’espressione ‘qui transigit quasi de re dubia et lite incerta neque finita transigit (vi è – per citare solo due indirizzi e rinviare alla monografia l’esame delle altre posizioni ivi considerate[52] – chi recentemente ha proposto la soluzione di interpretare la ripetizione del verbo come una calliditas stilistica[53] e chi ha riproposto la sostituzione del secondo ‘transigit’ con un verbo diverso[54]), lasciando forse in ombra il rapporto fra ‘donationis causa’, ‘liberalitate’ e ‘remittere’.

Se si espunge il secondo ‘transigit’ – sulla scorta, perlomeno, della corretta osservazione che così sarebbe «doch gutes Latein»[55] – ciò impone, comunque, di trovare una giustificazione teorica (non necessariamente giuridica in senso moderno, né certamente dogmatica) della distinzione ulpianea. Infatti, accogliendo una simile ricostruzione, si ottiene una definizione-distinzione che trova nell’oggetto la differenza specifica, e nell’attività – sussunta, tanto per il ‘transigere’ quanto per il ‘pacisci (donationis causa)’, nell’espressione ‘liberalitate remittere[56] – il genere. Conseguentemente, ‘transigere’ dovrebbe indicare un’azione dovuta alla volontà di una singola parte (con terminologia moderna, un negozio unilaterale) proprio perché non pare confutabile che ‘remittere’ indichi un’attività (descrivibile facendo ricorso a significanti quali «rinunciare», «diminuire», «indulgere»[57]) perfezionata e pienamente efficace in forza della volontà di una sola parte (pur non essendo certo escluso che, all’attività prodromica – ovvero alle trattative – che conduce finalmente al ‘remittere’, contribuiscano le volontà sia del rinunziante sia del beneficiario).

Per le ragioni già esposte e, soprattutto, sulla base di illustri messe a punto[58], non bisogna scrivere ‘remittere’ pensando a una ‘remissio’ o, peggio, a una «remissione». Tali scelte, non sembrano condivisibili sotto il profilo storico e anche sotto il profilo giuridico[59], offrendo nuovi argomenti all’opportunità di distinguere fra ‘transigere’, ‘transactio’, «transigere» e «transazione»[60]. Cosa che non fa Ferdinando Zuccotti[61], quando afferma che «in D. 2,15,1 [...] rimane in ogni caso sempre e comunque presente una netta differenziazione tra transactio e pactum». Se avesse parlato di contrapposizione fra ‘transactio’ e pactum donationis causa’, il recensore avrebbe ripercorso un modulo espositivo che comunque non pare condivisibile, sebbene possa definirsi condiviso dalla communis opinio. Viceversa, l’individuazione di una contrapposizione fra ‘transactio  e ‘pactum’ in D. 2,15,1 rappresenta l’implicita incomprensione, oppure la non argomentata negazione, di quanto sostenuto nell’opera recensita, a proposito dell’infungibilità dei verbi (‘transigere’ e ‘pacisci’) con i sostantivi, da essi, rispettivamente, derivati (‘transactio’ e ‘pactum’).

Il percorso di ricostruzione di un possibile pensiero ulpianeo, sotteso al contenuto di D. 2,15,1[62], impone di spiegare in quale misura ‘transigere’ e ‘pacisci rappresenterebbero altrettante manifestazioni del ‘liberalitate remittere[63], almeno nel contesto da cui è tratto il pensiero del giurista[64]. Questo perché, come evidenziato[65], la scelta della tecnica diairetica ulpianea risulta chiara, qualora si accolga la tesi che, fra ‘transigere’ e ‘pacisci donationis causa’, l’oggetto (del ‘remittere’) sia la sola differenza specifica.

Il problema è stabilire il significato di ‘liberalitate remittere’, che in questa prospettiva non può più considerarsi una ripetizione di ‘donationis causa’. Se muoviamo dall’ipotesi che in D. 2,15,1 si trovi la contrapposizione fra la donazione e un altro atto gratuito (qui rispettivamente rappresentati da ‘pacisci donationis causa’ e ‘transigere’), in quanto aventi oggetti diversi, e non invece – come ritiene la dottrina dominante – fra unadonazione e una transazione, in quanto negozio gratuito e rispettivamente oneroso[66], devono venire in considerazione quegli elementi soggettivi che costituiscono la causa donationis[67] e il significato del segno ‘liberalitas’: due questioni solitamente poco indagate. Tuttavia, l’elemento soggettivo (l’interesse a donare, lo scopo dell’atto gratuito), non è per nulla trascurato dalla dottrina moderna[68], a maggior ragione, quindi, non si può ritenere, con certezza, che fosse ignorato dai giuristi romani[69] quando si confrontavano con concetti quali ‘liberalitas o ‘animus donandi’. Inoltre, a costo di sembrare ripetitivi, presupporre che ‘liberalitas’ significhi «liberalità» non rappresenta un’operazione storica e scientifica ineccepibile: il segno latino infatti ha un significato più ampio, che, nell’opera di Ulpiano, comprende anche, semplicemente, la «libertà di tenere un certo comportamento, cui non si è obbligati»[70].

Ferdinando Zuccotti lamenta la considerazione attribuita dallo scrivente allo scopo perseguito dai contraenti negli atti gratuiti: una critica basata sulla tradizionale distinzione tra «causa» e «motivo». Ma se tale distinzione notoriamente perde significato quando si parli di donazione – poiché in quest’ultima la volontà del donante è l’unico elemento qualificante un atto che, se si esclude proprio l’elemento soggettivo, in molti casi non risulta diverso da altri che producono l’effetto di arricchire una parte senza corrispettivo –, quando poi si riflettesse liberi dalla prospettiva semplicistica e arcaica dei «motivi» solo come pensieri interni al soggetto e non manifestati all’esterno[71], forse varrebbe la pena di chiedersi se davvero Ulpiano, nell’occuparsi di negozi gratuiti donativi e non, distinguesse secondo le categorie moderne (scil. pandettistiche) tra «causa» e «motivo»[72]. Ciò soprattutto alla luce del fatto che, come evidenziato, non si può ritenere dimostrato che egli usasse ‘remittere’ nel senso tecnico del moderno «remittere»[73] o ‘liberalitas’ con il significato proprio dell’italiano «liberalità».

Non pare quindi che il recensore porti elementi sufficienti a escludere che, nel testo del commentario ulpianeo da cui scaturì il frammento conservato in D. 2,15,1, conformemente alla temperie culturale dell’epoca e alle testimonianze dei passi di giuristi precedenti[74], ‘transigere’ venga impiegato con un significato generico, pur nel riferimento stabile a una «conclusione» (forse di una controversia in atto o temuta dal soggetto ‘qui transigit’) cui si perviene per il tramite di una «rinuncia» ovvero di una «riduzione» (‘remittere de’, appunto) alla propria tutela da parte del soggetto o dei soggetti titolari di prerogative in tal senso. Una rinuncia/riduzione che non è, e non può essere, intesa o trattata come una qualsiasi prestazione nell’ambito di un ipotetico schema contrattuale sinallagmatico applicato al ‘transigere’, ma è l’essenza del suo significato (non a caso quest’ultimo verbo è contrapposto a ‘contrahere’ in D. 2,14,1,3, dove la partizione diairetica ‘contrahendi transigendique causa esaurisce i possibili effetti di una qualsivoglia conventio, riprendendo, ad avviso di chi scrive, stile e contenuti gaiani)[75].

La rinuncia effettiva alla difesa delle proprie ragioni, atto eminentemente unilaterale ed efficace indipendentemente anche dalla volontà di colui verso il quale si avanzarono le pretese che si abbandonano[76], pone fine alla controversia in atto o previene quella temuta. L’assunzione di un obbligo a rinunciare, magari in forza di una ‘stipulatio’, può essere utile in qualche caso, ma non è sufficiente a raggiungere il fine, a realizzare la funzione di estinguere o prevenire la controversia. Comunque sia, o il titolare della pretesa ‘liberalitate remittit’, con un atto squisitamente unilaterale sebbene non donativo[77], oppure transactum non est.

Questo significa che chi effettua una simile rinuncia, non necessariamente deve farlo in vista di un corrispettivo (altrimenti, dall’insieme oggetto della partizione diairetica ulpianea, risulterebbe escluso il ‘remittere’ a titolo gratuito ‘de re dubia’, mentre ciò parrebbe possibile solo per una res certa’) né, altrettanto necessariamente, si depaupera[78] in virtù delle peculiarità dell’oggetto (‘remittit de re dubia et lite incerta neque finita’), mentre sicuramente guadagna in tranquillità[79], evitando o concludendo il processo di cui risparmia del tutto o in parte i costi.

E se è un nuovo assetto di interessi a essere posto in essere transigendi causa, per cui la rinuncia di una parte sembra avere il carattere di una prestazione scambiata con un’altra, non si deve sottovalutare il peso differente delle diverse volontà: l’accordo può (non «deve») fissare le condizioni per la rinuncia alle proprie prerogative processuali da parte di chi vi abbia diritto, ma solo il ‘transigere’, dovuto a una sola libera volontà – nella riflessione dei giuristi antoniniani come in quella di qualche autorevole processual-civilista moderno – produce l’effetto estintivo (o preventivo, quando è solo temuta) della controversia.

Ciò detto, se da D. 2,15,1 non emerge con la nitidezza normalmente presupposta il carattere oneroso del ‘transigere – proprio perché non si può stabilire un nesso sinallagmatico tra la rinuncia all’azione e un eventuale, mai richiesto come necessario, corrispettivo[80] – lo stesso può dirsi per C. 2,4,38 ovvero C. 6,31,3 (poiché dalla costituzione, conservata in misura meno rimaneggiata in quest’ultimo luogo, è tratta la breve formulazione ‘Transactio nullo dato vel retento seu promisso minime procedit’, inserita dai compilatori nel titolo de quo)[81], tradizionalmente ricordate come attestazioni dell’onerosità della transactio.

Il testo di C. 6,31,3 attesta l’inefficacia di una transactio posta in essere da parte di chi non può più rinunciare validamente alle proprie pretese[82]. I tre participi ‘nullo dato vel retento seu promisso’, secondo la tesi proposta nella monografia, non riguardano la controprestazione destinata al rinunciante, ma si riferiscono, piuttosto, con la coppia ‘dato seu promisso’ (‘vel retento’ sarebbe, secondo la ricostruzione proposta, un elemento insiticio)[83], proprio all’attività di chi rinuncia alle proprie pretese (o vi si impegna) per porre fine a una controversia.

Questa tesi non risulta avere precedenti in dottrina e si pone in contrasto con una tradizione plurisecolare, che ha voluto vedere, nei tre verbi del rescritto dioclezianeo conservato nel Codex, la conferma della necessità di un vestimentum pacti, prima, e, ancora nel codice del 1865, l’attestazione della necessità che le parti transigenti, ai fini della validità del negozio, procedano ciascuna a una dazione, una ritenzione o una promessa[84]. Ferdinando Zuccotti non dichiara chi, secondo lui[85], debba ‘dare vel retinere seu promittere’. Al contrario, dedica la propria attenzione a questioni che paiono marginali, senza prendere posizione sul dato saliente[86]. Peraltro, quanto scrive il recensore in merito allo ius abstinendi non pare conferente, dal momento che il beneficium non spetta al suus che abbia asserito di essere stato preterito, una volta promossa la petitio hereditaria (‘cum respuere quaesitam hereditatem nequiret’). E anche se l’erede avesse questa possibilità, non si tratterebbe comunque di una rinuncia all’eredità[87] capace di avvantaggiare gli eredi testamentari, poiché l’atto che li ha istituiti è radicalmente inefficace. Per cui l’unico erede è e resta il suus preterito, insieme con gli eventuali altri chiamati in forza della successio ab intestato[88]. Questo spiega perché lo scrivente, non compreso forse da Ferdinando Zuccotti, non si occupi dello ius abstinendi[89].

Risulta così che le due/tre fonti, tradizionalmente considerate come fondamento testuale dell’inserimento della ‘transactio’ fra gli atti onerosi, non consentono di affermare ciò. Piuttosto, l’esame delle ricorrenze del verbo e del sostantivo, nelle opere dei giuristi antoniniani, sulla scorta di questo dato “negativo”, conferma un impiego degli stessi con una caratteristica che emerge evidente: il corredo semantico[90] di ‘transigere’ o di ‘transactio’ non risulta ancora definito, a meno che non lo si presupponga, come ripetutamente fa il recensore, quando a esempio afferma con sicurezza che, nei testi pervenutici, la cancelleria non fa cenno alla controversia (attuale o temuta), e che Scevola non menziona le concessioni reciproche, per «la brevità essenziale con cui le fattispecie vengono in essi esposte»[91].

La conclusione a cui perviene lo scrivente è corroborata dal fatto che non c’è alcuna prova di un uso in senso moderno e «tecnico» di ‘transigere’ nei frammenti conservatici delle opere di Celso, Aburnio Valente, Gaio, Pomponio[92], Giuliano[93] e Scevola.

Piuttosto che un’analisi complessiva e critica di questo, che è il risultato di fondo della monografia, il recensore preferisce muovere dei rilievi parziali, riguardanti aspetti per lo più formali delle singole esegesi, che, se da un lato rappresentano legittimamente delle diverse interpretazioni, dall’altro risultano poco efficaci e soprattutto insistenti su aspetti marginali, di poca o nulla rilevanza per la ricostruzione complessiva proposta. Ripercorrere gli elementi salienti ricavati dalle fonti riconducibili alla giurisprudenza antoniniana fornirà comunque l’occasione per esaminarli.

Nelle ricorrenze più risalenti di ‘transigere’, in Celso e Valente, sono in evidenza l’aspetto della rinuncia, dai tratti marcatamente unilaterali, a dispetto di quanto sostiene Zuccotti con riferimento a Celso[94], e, rispettivamente, l’uso di transigere per indicare l’accordo, in Valente. Proprio la circostanza del patto illecito tra delator e possessor, che vanifica la ‘vindicatio caducorum’ e le pretese del fisco, è la fattispecie contemplata da Ab. Valente 5 fid. D. 49,14,42: un frammento in cui l’analisi condotta a suo tempo da G. Provera, senza sospettare che ‘transigere’ non significasse «transigere», conduce Ferdinando Zuccotti a ritenere che ‘delator’ e ‘possessor’ abbiano tecnicamente transatto[95], il che, invece, è semplicemente impossibile, poiché, come già riteneva Provera, il ‘possessor non poteva disporre a proprio piacimento dei ‘bona caduca[96].

Se ci si sofferma brevemente sulle ricorrenze del verbo e del sostantivo nei frammenti pervenutici di Gaio e Scevola, le testimonianze dell’uso di ‘transigere’ da parte del primo – per quanto, ad avviso di chi scrive, significativamente, mai presente nel testo delle istituzioni – sono particolarmente importanti per dare conto di come la formazione del corredo semantico del verbo, nella lingua dei giuristi antoniniani, sia un autentico «work in progress», per di più iniziato da poco. Da tali opere provengono le indicazioni necessarie a chiarire in quale senso si possa ‘transigere’ con un ‘iusiurandum[97] – nonostante un sospetto di interpolazione, che Zuccotti avanza (con enfasi maggiore di quanta se ne scorga nella dottrina che cita a proprio sostegno, ma senza aggiungere argomenti a quelli di quest’ultima) – e in quale rapporto si trovino ‘transigere’ e ‘contrahere’, quando l’oggetto dell’attività individuata dagli stessi è il ‘negotium[98].

Per quanto concerne Scevola, l’esame delle ricorrenze dei segni ‘transigere’ e ‘transactio’ nelle sue opere casistiche occupa un quarto dello studio monografico dello scrivente, per la ragione che, certo anche in virtù delle scelte compilatorie, ci appare come il primo giurista romano a farne largo uso. Questo dato potrebbe, comunque, ricollegarsi a innovazioni in materia processuale dovute a Marco Aurelio (di cui il giurista fu notoriamente influente consigliere) delle quali rimarrebbe traccia nell’oratio divi Marci[99].

Di quest’ultima, com’è noto, il titolo de transactionibus conserva un’ampia trattazione (per la parte attinente gli ‘alimenta’ e le ‘transactiones’ concluse a proposito di questi) tratta da Ulp. 5 de omnibus tribunalibus.

I casi che rappresentano l’occasione dei responsa scevolani, documentano verosimilmente l’impiego di ‘transactio’ da parte della cancelleria dei divi fratres, quindi negli anni ’60 del II secolo (D. 2,15,3pr.), e l’inclusione dell’istituto che il sostantivo indica tra le ‘privatae pactiones’. Una ‘privata pactio’ che a) esclude le possibilità di successo di un’azione basata sul rapporto oggetto di ‘transactio[100], anche se non fonda – né lo scrivente ha inteso sostenerlo, diversamente da quanto (erroneamente) Ferdinando Zuccotti afferma essere contenuto nello studio recensito – una denegatio actionis[101]; b) rappresenta una valida causa per il trasferimento di proprietà[102]; c) che può essere rafforzata dalla ‘stipulatio’, ma anche in assenza di questa può forse trovare tutela giurisdizionale in via utile, quando preveda delle prestazioni non eseguite[103]. Emergono indizi, a parere dello scrivente, di un’attenzione particolare accordata alla ‘transactio’ nella disciplina processuale, specie delle ‘cognitiones’: una nuova applicazione di quel significato di «porre fine», «concludere definitivamente» che l’esame delle fonti autorizza a ritenere proprio di ‘transigere’ sin dagli albori della letteratura latina.

Non si trova traccia invece, nemmeno in Scevola, di una struttura tipo della ‘transactio’ per cui sia richiesto qualcosa di più rispetto alla causa-funzione della conclusione di un rapporto, che non sempre emerge come incerto o controverso[104] (sia che si tratti di controversia in atto, sia di controversia temuta), anche se è probabile che proprio nei confronti dei conflitti attuali o potenziali questa trovasse la propria principale applicazione pratica.

 

6. – Le vere radici dell’archetipo transattivo moderno

 

L’impostazione seguita non ha favorito un maggiore sviluppo della pars construens dello studio[105], che, per due ordini di motivi, non si è ritenuto di premettere alla sicuramente più ampia analisi critica delle posizioni condivise dalla communis opinio. Innanzitutto, perché, come dimostrato concretamente, non sembra potersi nutrire un’eccessiva fiducia nel bagaglio terminologico e concettuale moderno, quando si tenti d’individuare i tratti storico-evolutivi di un fenomeno giuridico romano com’è quello che i giuristi designano mediante i segni ‘transigere’ e ‘transactio’. In secondo luogo, perché lo studio condotto, come peraltro esplicitamente ammesso, rappresenta il tentativo di creare le basi da cui partire per nuove ricerche dedicate al ‘transigere e alla ‘transactio’. A fondamento di questi è offerto un punto di partenza – quanto più possibile costruttivo e solido – rappresentato dall’attenzione particolare per l’elemento dell’unilateralità dell’atto di rinuncia, che avrebbe originariamente esaurito la ‘transactio’: un elemento che emerge con forza dall’uso di ‘transigere’ in molti dei passi attribuibili ai maestri antoniniani e che è, ritengo, evidente nell’impiego del verbo con riferimento agli effetti del giuramento in sede processuale, ricorrente in Plinio, Gaio e, soprattutto, nel passaggio labeoniano-pomponiano riferito da Ulpiano in D. 4,3,21[106].

Quanto detto non osta certo al fatto che, con l’andar del tempo, l’uso del sostantivo si sia ristretto all’ambito delle controversie, in atto o temute, e sia passato gradualmente a comprendere anche l’accordo, a monte della rinuncia di una o di entrambe le parti, col quale si possono individuare eventuali misure di ristoro del sacrificio di chi abbandona le proprie prerogative giurisdizionali. Sicché al consenso poté finalmente essere collegato l’effetto di estinzione della lite, come accade a partire dall’epoca dei glossatori medievali (e magari già da parte dei maestri bizantini del V e VI secolo d.C.), i quali, forse in ossequio alla teoria dei vestimenta pactorum[107], introdussero per la transactio la necessità dell’aliquid datum aliquid retentum, dal momento che poteva risultare loro difficile, se non impossibile, riconoscere effetti sostanziali a un mero accordo e financo all’atto della semplice rinuncia informale[108].

Alla scuola bolognese si deve l’influenza di un casus di Viviano Tosco (o Toschi)[109] che, accolto in tutte le edizioni della glossa ordinaria per illustrare proprio il primo frammento del titolo digestuale de transactionibus, inizia affermando che esso individua la differenza fra ‘transactio e ‘pactum nel fatto che quest’ultima si fa ‘cum dubium est debitum’. A questo punto il glossatore propone il seguente esempio: se pretendo qualcosa da te, che tu neghi di dovermi, e quindi mi dai qualcosa transactionis nomine, abbiamo transatto in quanto l’oggetto era un res dubia o una lis incerta; ben diverso appare il caso del patto, allorché ti chiedo una cosa, che tu non neghi di dovermi e io successivamente ‘tibi facio’ un ‘pactum de non petendo’, non misto.

Ebbene, che Viviano, nel compilare uno dei suoi celebri casi, abbia ipotizzato la circostanza per cui ‘unde mihi das aliquid, transactionis nomine è senz’altro comprensibile, date le finalità didattiche perseguite dallo stesso. Meno comprensibile, e indicativa della (poca) affidabilità esegetica della glossa[110], risulta invece l’affermazione che chiude il casus (‘et sic in duobus differt transactio a pacto’) e che è significativamente lontana dalla premessa ricordata supra, dimostrando viceversa attenzione per un elemento introdotto exempli gratia come se si trattasse di un dato contenuto nella fonte.

Quanto ha pesato sull’elaborazione dei giuristi formatisi successivamente alla diffusione delle edizioni a stampa della glossa ordinaria, il casus di Viviano Tosco? Difficile dirlo, ma ancora più difficile è negare che, anche con riferimento a D. 2,15,1, la glossa abbia preso il sopravvento sul testo romano.

Così, attraverso un percorso diacronicamente apprezzabile – e non discendente, in modo diretto, dall’elaborazione dei giuristi romani del II secolo d.C.– si è compiuta la trasformazione di cui è stata protagonista la rinuncia alla tutela giurisdizionale: da sinonimo di ‘transigere’ a semplice prestazione prevista da una ‘transactio’, non più concretizzata in un ‘aliquid datum vel retentum seu promissum’, ma corrispettivo di una di queste prestazioni, che diventano nei secoli ‘essentiale negotii’ e da cui scaturisce il moderno richiamo ai sacrifici reciproci.

Non mancò, invero, chi intuì la natura posticcia dell’elemento strutturale ricavato dai tre participi (dato vel retento seu promisso). Si legge infatti nell’opera più celebre di Jean Domat:

 

Il y a deux manieres de terminer de gré à gré les procés, ou les prévenir. La premiere est la voye d’une convention entre les parties, qui reglent par elles-même ou par le conseil & l’entremise de leurs amis, les conditions d’un accommodement, & qui s’y soûmettent par un traité, & c’est ce qu’on appelle Transaction. [...]

Les transactions terminent ou préviennent  les procés en plusieurs manieres, selon la nature des differens, et les diverses conventions qui y mettent fin. Ainsi, celuy qui avoit quelque prétention, ou s’en desiste par une transaction, ou en obtien une partie, ou même le tout. Ainsi, celuy à qui on demande une somme d’argent, ou paye, ou s’oblige, ou est déchargé en tout ou en partie. Ainsi celuy qui contestoit une garantie, une servitutude, ou quelque autre droit, ou s’y assujettit, ou s’en affranchit. Ainsi, celuy qui se plaignoitd’une condemnation, ou la fait reformer, ou y aquiesce[111].

 

Il sommo giurista francese ben separa l’aspetto funzionale della transazione («terminer de gré à gré les procés, ou les prévenir») da quello strutturale che, precisa, non è fissato né si può fissare, poiché tanto diverse possono essere le situazioni ch’è impossibile predire a quali condizioni i litiganti (attuali o potenziali) saranno disposti ad accordarsi, preferendo la «convention transactionnelle» alla speranza di vincere ed al suo inseparabile compagno: il pericolo di perdere[112].

Tuttavia, che l’intuizione di Domat rappresenti un salto in avanti troppo grande per essere metabolizzata dalla communis opinio, lo dimostra, poco più di cinquant’anni dopo, R.J. Pothier, il quale, nelle proprie Pandette offre una definizione di transazione che, conformemente a una lunga e illustre tradizione, suona ben diversa:

 

Transactio est conventio quâ, litis motae aut movendae decidendae causâ, aliquid datur aut promittitur, aut retinetur.

Hinc differt à pacto donationis causâ. Nam qui transigit quasi de re dubia et lite incerta neque finita transigit: qui vero paciscitur donationis causa, rem certam et indubitatam liberalitate remittit.

Duo igitur ad substantiam Transactionis requiruntur.

I° Ut aliquid datum vel retentum vel promissum fuerit.

Nam ut rescribunt Diocletianus et Maximianus: Transactio, nullo dato vel retento seu promisso, minimè procedit.

2° Oportet ut hoc datum retentum vel promissum fuerit litis alicuius decidendae causâ.

Hinc iidem Impp... (C. 2,4,24)[113]

 

È il caso di porre in luce che anche la definizione di Pothier identifica la ‘transactio’ in un tipo di ‘conventio’. Tuttavia, l’assetto di interessi che si sostituisce alla controversia, in forza della volontà concorde dei litiganti (attuali o potenziali), perde la posizione di assoluta preminenza che occupava nella costruzione teorica domatiana e trascolora nell’elemento causale del ‘datum vel retentum vel promissum. Sembra evidente una grande differenza, tra Domat e Pothier, nella riflessione sul concetto di ‘transactio’, nonostante il comune ricorso al segno ‘conventio’. Si noti come Pothier – oltre a sottolineare l’elemento del ‘datum retentum vel promissum’, invece che l’accordo e la sua finalità – ometta altresì di indicare, a livello di struttura, se tutti i soggetti che danno vita alla ‘transactio’ debbano compiere una ‘datio’, una retentio o una promissio.

Senza dilungarci qui in analisi condotte più diffusamente altrove[114], basta questo confronto a dare la misura di quanto, non appena si indaghi andando oltre le definizioni manualistiche, necessariamente semplificate, nella storia del diritto privato europeo la definizione di transazione sia stata molto meno che univoca. E se ciò può apparire come una curiosità quasi aneddotica, non è superfluo ricordare come la lettera del vigente art. 2044 c. 1 del Code Napoléon[115], ove di una struttura obbligata, in ossequio alla riflessione di Domat, non si trova menzione, non sfugga a una “interpretazione” che la forza[116], da oltre duecento anni, imponendo alla prassi, attraverso i giudici, il requisito delle concessioni reciproche come condicio sine qua non per la validità del negozio.

 

7. – I problemi che permangono nell’elaborazione giuridica attuale in tema di «transazione»

 

Alla luce delle considerazioni esposte sin qui, sembra opportuno concludere sottolineando l’ingenuità della proposta di un moderno e civilistico concetto di transazione[117], come se ve ne fosse realmente uno condiviso da tutti[118], senza tenere nel debito conto la storia di questo significante. Per questa ragione, a completamento di quanto contenuto nei §§ precedenti può essere utile una messa a punto a proposito di ciò che la scienza civilistica moderna, con sfumature anche molto diverse, intende quando fa riferimento alla «transazione».

Meglio sgombrare subito il campo da un equivoco in cui si può incorrere sulla scorta delle parole di Ferdinando Zuccotti, allorché questi risolve i problemi che la transazione pone ai teorici del diritto civile moderno, mediante una «prospettazione»[119] della transazione tratta «velocemente» dai manuali istituzionali di D. Barbero e F. Gazzoni. Se il diritto privato fosse il sistema perfetto descritto nei manuali (specie in certi manuali) la dottrina civilistica non riempirebbe intere biblioteche.

In realtà, come altrove scrive lo stesso recensore[120], i manuali sono frutto di semplificazioni che servono alla didattica, e non possono quindi presentare compiutamente lo stato dell’arte sui singoli temi. Peraltro, non appena si indaghino un po’ più a fondo anche le trattazioni manualistiche della transazione, emergono, a tutt’oggi, sostanziali e importanti differenze, con riferimento all’inquadramento dell’istituto nel sistema e alla qualifica di «contratto» attribuita alla transazione[121]. Diversamente, forse P.G. Monateri non avrebbe potuto recentemente scrivere[122] che oggi nessuno più dubita della natura contrattuale della transazione, aggiungendo però: «È vero che è lo stesso codice civile a qualificare la transazione come contratto. Ma in un paese di civil law questa circostanza non è decisiva» perché il legislatore può qualificare la transazione come un contratto «ma occorre poi verificare che su tale configurazione siano d’accordo la dottrina e la giurisprudenza». [...] «Carnelutti non era affatto d’accordo nel qualificare la transazione come un contratto, ma è prevalsa l’opinione contraria di Santoro-Passarelli, secondo cui è un contratto».

Non si può qui tornare sulle implicazioni di una simile considerazione per i diversi formanti, che oblitera ogni gerarchia nella produzione del diritto[123], ma solo segnalare come essa dimostri l’illusorietà di un quadro definitorio semplificato in tema di transazione.

Negli ultimi cinque-dieci anni, hanno visto la luce alcuni importanti lavori monografici dedicati alla transazione. Ebbene, nessuno di questi inizia la trattazione del tema senza presentare, in modo più o meno diffuso, a) la complessa situazione determinata dall’incertezza che storicamente caratterizza l’istituto indicato con il segno «transazione»[124]; b) i problemi scaturenti dalla sua qualificazione come contratto dagli effetti «dichiarativi», «costitutivi» o «preclusivi»[125]; c) le questioni imposte dalla considerazione di dottrina e giurisprudenza per l’elemento dell’incertezza, non tenuto in conto dal legislatore[126]; d)il ruolo delle concessioni reciproche e la loro natura.

A proposito del punto, d), mentre per i precedenti si rinvia alla più ampia trattazione svolta altrove (nonché alla bibliografia e alla giurisprudenza ivi indicate)[127], sembra opportuno fornire alcune precisazioni a conclusione di questa «messa a punto». Il significante «concessione» non equivale al significante «prestazione», come sembra intendere Ferdinando Zuccotti, equivocando su un punto fondamentale: quest’ultimo poteva indicare il «dare, promettere o trattenere qualcosa» previsto nell’art. 1764 del cod. civ. abrogato, mentre tali atti non possono essere sussunti nella categoria «concessione», per due ordini di motivi: uno nominale («concessione» non significa «prestazione») e uno sostanziale («prestazione» indica comunemente un comportamento cui si è tenuti, «concessione» l’accogliere, in tutto o in parte, una richiesta).

L’art. 1965 c. 1 del codice civile richiede, per aversi una transazione, reciproche concessioni (principio parzialmente attenuato dal c. 2). Queste consistono in atti con effetti abdicativi sulla/e pretesa/e, come vogliono la giurisprudenza costante della Suprema Corte[128] e un indirizzo dottrinario autorevole[129], seppure oggi, per lo più inconsapevolmente, talora trascurato[130].

Tanto basta a dar conto della fluidità della materia (un tratto caratteristico, va detto, della transazione) e di quanto, conseguentemente, sia semplicistica la contrapposizione di modelli astratti, per di più didattici, alla considerazione, ponderata e organica, degli aspetti storici dell’uso di ‘transigere’ e ‘transactio’, nonché dei risvolti dell’elaborazione che continua, non senza problemi, intorno alla moderna idea di transazione.

 

 



 

[1] M.A. Fino, L’origine della transactio. Pluralità di prospettive nella riflessione dei giuristi antoniniani, Milano 2004, di seguito L’origine della transactio cit.

 

[2] Vivagni. V. A proposito di un recente libro, in RDR. 5 (2005), http://www.ledonline.it/rivistadirittoromano, di seguito Rec. cit.

 

[3] A tal proposito, occorre precisare che i riferimenti alla recensione menzionata riguardano il testo «on line» alla data del 6 febbraio 2005, si prescinde perciò dagli eventuali, successivi interventi sullo stesso, che il sistema di pubblicazione via internet consente.

 

[4] Rec. cit. 1.

 

[5] Il non prendere posizione circa le affermazioni di Ferdinando Zuccotti che coinvolgono la persona o la formazione dello scrivente oltre alle sue opinioni, non implica che non vengano evidenziate le citazioni errate del testo recensito, a meno che non siano scusabili o attribuibili a refusi, soprattutto nel caso in cui a partire dall’errata attribuzione di frasi o pensieri prenda le mosse la critica del recensore. Ciò accade con una certa frequenza e se ne ricava un’indicazione attendibile della qualità e degli obiettivi del lavoro di Ferdinando Zuccotti. Basti a darne conto l’emblematico esempio della stessa apertura (Rec. cit. 1), ove, nel citare la frase dello scrivente «l’erede dell’unico tutore, Seia, ha trasformato, con una stipulatio, quella parte della prestazione in una obligatio verbis» (L’origine della transactio cit. 291), il recensore la riporta così: «ha trasformato, con una stipulatio, quella parte della obbligazione in una obligatio verbis», deformando in modo evidente il pensiero espresso nella monografia. Nello stesso contesto poi, equivocando sull’affermazione che è necessario il consenso del creditore per poter trasformare una parte della prestazione dovuta nell’oggetto di una ‘stipulatio’ (L’origine della transactio cit. 291 nt. 125) il Professore Zuccotti non comprende che quanto affermato dallo scrivente non riguarda il negozio ‘stipulatio’, della cui natura di contratto verbale certo non si dubita, bensì il requisito essenziale che il creditore sia d’accordo, affinché, in luogo dell’adempimento, si trasformi la prestazione dovutagli nell’oggetto di una ‘obligatio verbis’.

 

[6] Cui si possono aggiungere le osservazioni inerenti imprecisioni nell’esporre il contenuto di passi dei giuristi, a maggior ragione ove presenti in nota, sostanzialmente ininfluenti sulle tesi portanti dello studio: è il caso della nota dedicata (L’origine della transactio cit. 228 nt. 32) al rapporto fra D. 3,2,1, Gai., inst. 4,182 e Iust. Inst. 4,16,2, analizzata in Rec. cit. 14, lett. e).

 

[7] Peraltro, l’acribia di Ferdinando Zuccotti, nell’elencare e stigmatizzare le mende formali del testo recensito, dipende forse dall’aver trascurato la possibilità che queste possano ascriversi allo strumento informatico (e al suo uso talora viziato dalla fretta), più che ad altre più recondite cause. In effetti, sembra che nel 2006 questa sia la più semplice, e quindi da privilegiare, delle spiegazioni possibili dei refusi, per i quali non si intende comunque accampare delle scusanti. Soltanto, si vuole sottolineare come questa linea interpretativa sembri preferibile a quella ideologicamente seguita dal recensore, anche quando si tratti di errori di quest’ultimo. Per fare un esempio, in Rec. cit. 14 e s., per due volte a distanza di quasi una pagina, si trova l’espressione ‘obligationis contrahi’, che sarebbe “tratta” da Gai., inst. 3,136 (‘ideo autem istis modis consensu dicimus obligationis contrahi’, scrive Zuccotti citando il frammento), e considerata esplicitamente dall’Autore come equivalente a ‘fiunt obligationes’ o ‘obligatio fieri’. Sembra logico pensare che quel genitivo ‘obligationis’, laddove ci si aspetterebbe il nominativo, si ripeta in forza di un’operazione di videoscrittura nota come «copia/incolla» (non certo per ignoranza della lingua latina), che moltiplica una imprecisa restituzione del passo gaiano (uguale, peraltro, a quella che si incontra nel testo di Gaio pubblicato nel cd-rom Bibliotheca Iuris Antiqui). Analogamente, alla fretta e alle insidie dello strumento telematico, sembrano da imputare gli altri refusi del recensore e anche, forse, quel Carl von Savigny (Rec. cit. 19) ch’è probabilmente Friedrich Carl von Savigny (cfr. nt. seguente).

 

[8] Pur essendo giocoforza, però, respingere affermazioni secondo le quali lo scrivente è ritenuto «aggredire» Nevio Scapini (Rec. cit. 5), «maltrattare», «correggere» o «contrastare alla leggera» Giuseppe Provera (6 s., 26), «negare ogni capacità interpretativa dei testi» ad Aldo Schiavone (9), attribuire una «colpa imperdonabile» a Mario Talamanca (18 s.), «polemizzare» con Biondo Biondi e Carl von Savigny (19), «trattare con condiscendente paternalismo» ancora Biondo Biondi (26), «ascrivere colpe» ad Alberto Burdese (26), «rimproverare» Riccardo Astolfi (26), «biasimare… in quanto incapace» Raimondo Santoro (26), «strapazzare» Enzo Nardi (26), «scontrarsi» con Gerardo Broggini (26 s.), «promuovere degnosamente» le posizioni di Antonino Metro (27), «scandalizzarsi» per Gaetano Scherillo (27), «accusare» Theodor Mommsen (28), «prendersela» con Paul Krüger (28), e infine «maltrattare» Edoardo Volterra, Silvio Perozzi, Salvatore di Marzo, Biondo Biondi, Pablo Fuentesca, Alberto Burdese, Armand Torrent, Pasquale Voci, Juan Iglesias, Alvaro D’Ors, J.A.C. Thomas, Antonio Guarino, Danilo Dalla e Renzo Lambertini, Arrigo Diego Manfredini, Vincenzo Arangio-Ruiz, Mario Talamanca, Giovanni Pugliese, Matteo Marrone, Pietro Bonfante, Carlo Augusto Cannata, Cesare Sanfilippo (29): alla libera interpretazione e allo stile del recensore (cfr. infra, nt. 11) si ascrive la scelta di tali verbi ed espressioni per “sintetizzare” le posizioni espresse dallo scrivente in modo, ovviamente, assai diverso da quanto le forme linguistiche impiegate nella recensione possono lasciare intuire. Ne consegue l’invito, rivolto al paziente lettore, a verificare sul testo recensito la corrispondenza di quanto attribuito al suo autore dal recensore.

 

[9] È il caso delle osservazioni (Rec. cit. 5) in merito al Biondi inserito fra i «nudisti» [l’espressione che pare suscitare l’ilarità del recensore non si deve allo scrivente, ma al resoconto di A. Schiavone, Storiografia e critica del diritto. Per una ‘archeologia del diritto privato moderno, Bari 1980, 58, basata su di una nota presa di posizione di E. Betti (cfr. L’origine della transactio cit. 2 nt. 3)], ma anche delle considerazioni meno divertite circa gli esempi, portati dallo scrivente, a sostegno della propria convinzione che, comunemente, a livello linguistico e concettuale, il piano dei negozi gratuiti e quello delle donazioni vengano confusi.

 

[10] Exempli gratia, per dare al lettore un’immediata sensazione del tenore e della consistenza delle critiche si possono citare: a) l’interpretazione di D. 45,1,122,6 (analizzato in L’origine della transactio cit. 297 ss.), nel quale secondo Ferdinando Zuccotti (Rec. cit. 2), lo scrivente troverebbe traccia di tre stipulazioni. In realtà, poche righe prima (L’origine della transactio cit. 298) di quelle che traggono in errore il recensore è testualmente scritto «due fratelli [...] dopo essersi divisi la terra ereditata si impegnano verbis a non fare nulla per mettere in discussione la divisione, stabilendo una penale per quello dei due che avesse tenuto un comportamento in violazione dell’assetto di interessi raggiunto». Nel passaggio che cita, Ferdinando Zuccotti pare considerare sinonimi ‘stipulatio’ e «stipulazione», mentre il secondo significante è usato nel corrente senso italiano, non in quello di concludere una (ulteriore) ‘stipulatio’; b) l’accenno alla difficoltà di qualificare il giudizio (non il processo, come egli scrive) centumvirale, come epilogo di una fase in iure ovvero di una fase apud iudicem (L’origine della transactio cit. 140), che Ferdinando Zuccotti (Rec. cit. 8, lett. f]) fraintende stante l’esistenza di ricostruzioni dottrinali che negano la necessità di una vera e propria datio iudicis, quando la causa sia di competenza di questo tribunale permanente (cfr. L. Gagliardi, Decemviri e centumviri. Origini e competenze, Milano 2002, 137 e nt. 60). La questione ha rilevanza per la corretta qualificazione del giuramento che avvenisse di fronte a questo collegio; c) l’accenno (L’origine della transactio cit. 17 nt. 45) al fatto che l’indirizzo interpretativo di D. 2,15,1 sia comune a glossatori e ai giuristi giustinianei, cui si deve il materiale contenuto nei Basilici, che viene inteso da Ferdinando Zuccotti (Rec. cit. 21) come l’affermazione della consultazione dei testi greci da parte dei maestri bolognesi del XI e XII secolo. Non vi è nulla del genere nella monografia dello scrivente, ove solo si trae da questa coincidenza un argomento per nuove indagini sul rapporto fra il rifiorire degli studi giuridici a Costantinopoli, la nascita dello studium bolognese e, in generale, la circolazione del pensiero. Il rapporto (conflittuale) tra Bologna e Ravenna (metafora di quello Roma-Costantinopoli), tenuto conto della provenienza dalla capitale dell’Esarcato dei testi su cui lavoreranno Irnerio e i suoi successori, lascia notoriamente spazio a qualche congettura: cfr. A. Gaudenzi, Lo studio di Bologna nei primi due secoli della sua esistenza, Bologna 1901, 67 ss. In verità, però, pare allo scrivente di essersi espresso con cautela, se si ripensa alle parole di P. Speck, Konstantinopel – Ein modell für Bologna? Zur Gründung einer Rechtsschule nach Irnerius, in Varia III  (Poik…la Buz. 11), Bonn 1991, 309, a proposito della possibilità di una conoscenza diretta dei giuristi bizantini da parte di Irnerio o di un suo soggiorno nella stessa Bisanzio. Analogamente, Zuccotti, sembra fraintendere il pensiero dello scrivente in tema di ‘praeiudicia’ (Rec. cit. 8 s.) o il senso attribuito all’espressione «la sanzione dell’infitiatio», con riferimento alla quale non sospetta che «dell’infitiatio» sia usata in luogo di «prevista per l’infitiatio» (Rec. cit. 8).

 

[11] F. Zuccotti, Vivagni. III. Della «refectio» del «rivus» e di altre amenità romanistiche, in Riv. Dir. Rom. 3 (2003), http://www.ledonline.it/rivistadirittoromano, 63 dell’estratto «on line», afferma di preferire un «abituale tono pacato e per così dire ufficiale». Non è facile trovare riscontro all’affermazione quando si leggano le sue censure a opere, e soprattutto autori, che hanno deciso di avventurarsi negli ambiti del diritto romano da lui maggiormente frequentati (come M. Fiorentini, cui sono dedicate le pagine che precedono quella ora citata). Sono stati oggetto di rilievi dai toni particolarmente accesi, fra gli altri, Roberto Fiori (F. Zuccotti, In tema di sacertà, in Labeo 44 [1998] 417 ss.), Luigi Capogrossi Colognesi (F. Zuccotti, Vivagni. II. Sulla tutela interdittale dei modi di esercizio delle servitù prediali,  in Riv. Dir. Rom. 2 (2002), http://www.ledonline.it/rivistadirittoromano, passim), Maria Floriana Cursi (F. Zuccotti, Vivagni. IV. Ancora sul modus servitutis, in Riv. Dir. Rom. 3 (2003), http://www.ledonline.it/rivistadirittoromano, passim e 11, 12, 31 dell’estratto «on line»), Emanuele Stolfi e Alberto Burdese (F. Zuccotti, Vivagni.III. Ancora sullo «ius reficiendi» dell’«iter», in Riv. Dir. Rom. 3 (2003), http://www.ledonline.it/rivistadirittoromano, 32, 36, 43 e, rispettivamente, 39 ss. dell’estratto «on line») ed Eva Cantarella (F. Zuccotti, «Bellum iustum» o del buon uso del diritto romano, in Riv. Dir. Rom. 4 (2004), http://www.ledonline.it/rivistadirittoromano, 56 s. dell’estratto «on line»).

 

[12] L’origine della transactio cit. 8 ss. (specialmente 14 s.).

 

[13] Il riferimento è a D. 2,15,1 e C. 2,4,38 (che risulta tratta dalla costituzione riportata, in modo più completo, in C. 6,31,3).

 

[14] Si tratta di un testo fondamentale, non solo per la ricostruzione dei significati di ‘transigere’ e ‘transactio’ nella seconda metà del II sec. d.C., ampiamente tramandato e commentato da Ulp. 5 de omn. trib. D. 2,15,8, ma anche e soprattutto di un intervento normativo imperiale, in materia processuale, poco noto – sebbene di grande importanza secondo G. Scherillo, Lezioni sul processo. Introduzione alla “cognitio extra ordinem”, Milano 1960, 239 ss. (specialmente 249); cfr. anche L’origine della transactio cit. 285 ss. – eppure, forse, cruciale per l’ingresso di ‘transactio’ nel lessico giurisprudenziale.

 

[15] Cfr. le autorevoli e per molti versi incomprese riflessioni di Jean Domat e Francesco Carnelutti, infra nel testo §§ 5 e 6, nonché ntt. 79, 112, 116 e rispettivamente 76, 77, 118.

 

[16] Si tratta di una preoccupazione di metodo oggi nuovamente sentita: cfr. T. dalla Massara, Alle origini della causa del contratto. Elaborazione di un concetto nella giurisprudenza classica, Padova 2004, 5 s. e nt. 12, ove ulteriore bibliografia.

 

[17] Come fanno normalmente i romanisti e, in particolare, Ferdinando Zuccotti in tutta la sua recensione.

 

[18] Rec. cit. 9.

 

[19] Che sono ben diciannove, come richiamato in L’origine della transactio cit. 114.

 

[20] Dal momento che già in L’origine della transactio cit. 111, esplicitamente, era sostenuta la tesi che «non si dovette attendere la lingua della tarda repubblica perché ‘transigere’ entrasse nell’uso letterario con il significato di «portare a termine».

 

[21] Richiamati in L’origine della transactio cit. 114 s.

 

[22] Studi sulle logiche dei giuristi romani, Napoli 1971, 20.

 

[23] Pro Quinct. 20,76 e 85 e Verr. II,2,75, II,2,96 e II,2,169, in cui ‘transigere’ indica la conclusione del processo (L’origine della transactio cit. 117 e nt. 23).

 

[24] L’origine della transactio cit. 118.

 

[25] Rec. cit. 10.

 

[26] Cfr. L’origine della transactio cit. 119 s.

 

[27] L’origine della transactio cit. 120 s.

 

[28] Pro Q. Rosc. Com. 35 e 49.

 

[29] Verr. II,2,79.

 

[30] L’origine della transactio cit. 121.

 

[31] L’origine della transactio, loc. ult. cit.

 

[32] Rec. cit. 9.

 

[33] L’origine della transactio cit. 122. E va da sè che, nel contesto del discorso ciceroniano, incentrato sulla paradossale (e retorica) dichiarazione di disponibilità a spergiurare da parte di Cluvio, lo «sbrigare la faccenda» (rem transigere) sarebbe consistito nella manifestazione di tale disponibilità all’ipotetica richiesta di Roscio. In questo senso, ad avviso di chi scrive, si può spiegare la traduzione di G. Bellardi [in I. Lana (cur.), Le orazioni di M. Tullio Cicerone, Torino 1996, 343] – «bastava un tuo inviato per accordarci su questa faccenduola» – benché la resa di ‘transigere rem’, con «accordarci», sia forse un poco troppo libera: cfr. L’origine della transactio cit. 125.

 

[34] Così come ciò non pare plausibile con riferimento a pro Q. Rosc. Com. 32, 34, 35, 36, 37, 38 e 40. Si presti poi particolare attenzione al §49, già ricordato con riferimento ad altra espressione nel testo, quando vi si incontra l’espressione ‘dic Flavium cum Fannio de Panurgo decidisse qui nihil transegit’ («di’ che si è accordato con Fannio riguardo a Panurgo quel Flavio, che non ha fatto alcunché»). L’uso transitivo di ‘transigere’ sembra escludere che in questo frangente il verbo sia impiegato come sinonimo di ‘decidere’ (cum Fannio de Panurgo): cfr. anche L’origine della transactio cit. 125 nt. 40. Analogamente, apparirebbe curioso l’effetto di una sostituzione di ‘transigere’ con ‘decidere’ in Phil. 2,21 (cfr. L’origine della transactio cit. 116 nt. 14), ove l’oggetto dell’attività descritta con ‘transigere’ è il ‘negotium’, ma non vi è nulla di giuridico né di “negoziale” nella circostanza.

 

[35] Rec. cit. 10.

 

[36] In modo particolare, nel senso che a questo sostantivo attribuisce la communis opinio, la quale ricava tradizionalmente una definizione di satisdatio da Gai. 5 ad ed. prov. D. 2,8,1 e Ulp. 70 ad ed. D. 46,5,1,5 e una classificazione delle satisdationes da D. 46,5,1pr.-3.  Cfr. A. Guarino, La classificazione delle «stipulationes praetoriae», in Studi Biondi 1, Milano 1965, p. 333 ss., ma anche l’opinione di A. Mozzillo, Contributi allo studio delle «stipulationes praetoriae» , Napoli 1960, 8, che, significativamente a parere di chi scrive, dubita, e molto, della possibilità e dell’opportunità di costruire (e quindi di fruire) di una categoria unitaria delle ‘stipulationes praetoriae’. A detta di questo Autore non esisterebbe una categoria unitaria al di fuori di quella delle ‘stipulationes iudiciales’. È verosimile che Cicerone faccia un uso “quasi tecnico” dell’espressione ‘satis dare’ nella pro Quinct. 29, 30, 31, 63, 82 e 85, dove il riferimento è, expressis verbis, al ‘satis dare iudicatum solvi’, citato quale esempio delle satisdationes iudiciales proprio nel § 1 del frammento di apertura del titolo digestuale rubricato ‘de stipulationibus praetoriis’, ma forse è lecito chiedersi se una simile considerazione si possa estendere a tutte le ricorrenze dell’espressione nel corpus ciceroniano Cfr. infra, nt. 39.  Si tenga presente come l’espressione satis dare sia ricorrente nelle fonti letterarie sin dall’epoca delle commedie plautine.

 

[37] Cic., ep. ad Att. 5,1,2.

 

[38] Nat. hist. 34,38.

 

[39] Si tratta, nel caso dell’Arpinate, della ‘satisdatio secundum mancipium ed è appena il caso qui di richiamare i grossi dubbi presenti in dottrina circa «le caratteristiche e le funzioni pratiche di questo misterioso istituto» (così V. Colacino, sv. Satisdatio, in NNDI. 16, Torino 1969 [rist. 1980] 662) attestato solo in questo luogo ciceroniano (supra  nt. 36) e, con minore certezza, nella Formula Baetica [V. Arangio Ruiz (cur.), FIRA. III (Negotia), Firenze 1969, 296 s.], ove però non ricorre il sostantivo. Pare questo un elemento parziale, ma ulteriore, a favore della massima cautela nel valutare la tecnicità del linguaggio ciceroniano secondo parametri moderni.

 

[40] All’esame di tutte le ricorrenze del verbo transigere’, nonché all’unica del sostantivo ‘transactio’, nelle fonti letterarie latine, è dedicata l’intera seconda sezione dello studio monografico dello scrivente. Questo dato, insieme con quanto evidenziato nel testo del presente saggio, rende forse non superfluo l’invito, rivolto al lettore, a constatare consultando la monografia la consistenza delle tesi proposte e la mancata corrispondenza fra il contenuto di queste e quanto invece riporta il Professore Zuccotti.

 

[41] Cfr. L’origine della transactio cit. 109 s., a proposito di orat. fragm. 11,4.

 

[42] L’origine della transactio cit. 110 e ntt. 28, 29.

 

[43] Cfr. L’origine della transactio cit. 124

 

[44] Cfr. L’origine della transactio cit. 127.

 

[45] L’origine della transactio cit. da p. 99 a p. 153.

 

[46] L’origine della transactio cit. 135 ss.

 

[47] L’origine della transactio cit. 56 ss.

 

[48] Non, a quanto risulta, in base a «malferme distinzioni tra donazione e negozi a titolo gratuito in generale»: così Rec. cit. 19.

 

[49] Il recensore non si dilunga nella loro disamina, precisando di non occuparsene per non ampliare troppo i limiti della recensione (Rec. cit. 19), preferendo piuttosto l’esame di aspetti che, in buona parte, appaiono marginali.

 

[50] L’origine della transactio cit. 60 ss.

 

[51] Cfr. a tal proposito A. Burdese, Tra causa e tipo negoziale. Dal diritto classico al postclassico in tema di transazione, in Seminarios Complutenses 9-10, Arganda del Rey, 1999, 52.

 

[52] L’origine della transactio cit. 41 s. e nt. 68.

 

[53] G. Melillo, Contrahere pacisci transigere. Contributi allo studio del negozio bilaterale romano, Napoli 1994, 276 ss.

 

[54] F. Gallo, Synallagma e conventio nel contratto. Ricerca degli archetipi della categoria contrattuale e spunti per la revisione di impostazioni moderne 2, Torino 1995, 248 s. nt. 18, ritiene che il secondo ‘transigit’ abbia sostituito l’originario ‘decidit’. Una posizione già di C. Bertolini, Della transazione in diritto romano2, Torino 1900, 79.

 

[55] Così L. Schnorr von Carolsfeld, Rec. a M.E. Peterlongo, La transazione in diritto romano, in ZSS. 48 (1938) 352 nt. 4.

 

[56] E naturalmente il primo passo in questa direzione è stato il tentativo di dimostrare che la costruzione remittere de + ablativo non necessariamente rappresenta un indicatore sintattico di non genuinità, quanto piuttosto il possibile richiamo a un modulo classicheggiante (cfr. L’origine della transactio cit. 59 e nt. 117) mentre, d’altro canto, si è cercato di dimostrare la non identità fra il concetto sotteso al latino ‘liberalitas’ e quello indicato dall’italiano «liberalità». Il legame di quest’ultimo con la categoria delle donazioni nella lingua comune potrebbe, infatti, influenzare pesantemente anche l’interprete del significante latino.

 

[57] Non si interpreti questa varietà di significati come una rinuncia alla (comoda) univocità della terminologia tecnica, dal momento che si tratta piuttosto del rifiuto di un lessico di matrice pandettistica – motivato dai dubbi circa la sua fruibilità – per fare riferimento alle fonti romane, nonché della oggettiva incertezza circa la possibilità di restringere il significato di ‘remittere’ a quello di «fare una remissione»: cfr. infra, nt. 59.

 

[58] Con riferimento alla tendenza dei cultori del diritto romano a proiettare nella storia del diritto romano sostantivi («action nouns») derivati da verbi latini, in realtà prodotti dalla elaborazione medievale o successiva, risultano illuminanti le pagine di D. Daube, Roman law. Linguistic, Social and Philosophical Aspects, Edinburgh 1969, 1 ss., per quanto concerne il diritto delle obbligazioni, specialmente 24 ss.

 

[59] Una infungibilità che si basa, essenzialmente, sulla risalenza e sulla ricchezza di significati del primo. Analogamente, si può dire del rapporto fra ‘remittere e ‘remissio’: con l’uso degli strumenti a disposizione oggidì, in primis la Bibliotheca Iuris Antiqui digitale, realizzata dal gruppo di ricerca del CNR diretto da Nicola Palazzolo, è possibile verificare che nelle fonti giuridiche romane il sostantivo ‘remissio’ variamente declinato compare solo ventiquattro volte, contro le ben trecentoottantaquattro ricorrenze del verbo ‘remittere’. L’analisi, pur cursoria, circa l’uso del sostantivo, può meglio evidenziare la problematicità della presunta corrispondenza tra ‘remittere’ e ‘remissio’, nonché tra ‘remittere’ e «rimettere» in senso tecnico moderno. Se si tralasciano infatti le cinque ricorrenze nelle costituzioni imperiali tardoantiche [due nel Codex Theodosianus – CTh. 9,38,6; 14,15,3pr – e tre contenute nel Codex Repetitae Praelectionis – C. 1,4,3,4; 1,12,6,9; 11,23,2 –, sebbene in CTh. 9,38,6 e C. 1,4,3,4 si trovi la stessa costituzione di Graziano, Valentiniano e Teodosio (381) e in CTh. 14,15,3pr e C. 11,23,2 si trovi la stessa costituzione di Arcadio e Onorio 397)] e ci si concentra sulle ricorrenze nei testi dei giuristi classici, si scopre che le più antiche ricorrenze del sostantivo si trovano in un frammento tratto da Iul. 41 dig. (D. 39,1,13pr., 2), nel quale il giurista adrianeo commenta la disciplina della operis novi nuntiatio, alla cui ‘remissio è legittimato il proprietario, anche qualora la nuntiatio sia stata effettuata da un procurator,  che ne abbia però garantito la ratifica da parte proprio del dominus. Il sostantivo ricorre con il medesimo uso e significato in tre luoghi ulpianei (Ulp. 71 ad ed. D. 39,1,20,4; 43,24,7,2; 43,25,1,1 e 2) e uno paolino (Paul. 48 ad ed. D. 39,1,8,4), autorizzando l’ipotesi che l’ipostatizzazione dell’attività di ‘remittere’ sia avvenuta per indicare, con un sostantivo, l’atto di rinuncia di chi ha promosso la operis novi nuntiatio. Solo successivamente ne sarebbe stato esteso l’uso, anche se potrebbe trattarsi di un’autonoma e diversa sostantivizzazione, creando un corredo semantico molto più ampio, tando da comprendere una particolare rinuncia al canone di affitto (difficilmente conciliabile con l’idea moderna di remissione, se si pone attenzione al fatto che il canone cui si rinuncia ritorna esigibile qualora le annate successive a quella colpita dalla calamità siano fruttuose), richiesta dal conduttore del fondo in occasione di eventi atmosferici avversi – di cui si occupa Ulpiano, sulla scorta di un parere di Papiniano, (Ulp. 32 ad ed. D. 19,2,15,3; 4; 5; 7) – e la riduzione del prezzo in una ‘emptio venditio donationis causa’ (Ulp. 32 ad Sab. D. 24.1.5.5).

 

[60] Seppure, forse, l’opportunità di simili distinzioni non sia affermata in modo sufficientemente netto, dal momento che, al termine della propria recensione Ferdinando Zuccotti (Rec. cit. 29), scrive, senza alcuna considerazione per i criteri cronologici seguiti nella monografia, che lo scrivente sostiene, tout court, che «la transactio sarebbe stato un atto unilaterale a titolo gratuito»: oltre a lamentare l’obliterazione del criterio diacronico seguito nell’indagine e della distinzione fra verbo e sostantivo, lo scrivente rigetta l’attribuzione di un’affermazione tautologica, qual è «atto unilaterale a titolo gratuito». Non risulta infatti, né si è inteso ventilare l’ipotesi che possano esistere «atti unilaterali a titolo oneroso», ma si è costantemente fatto uso delle espressioni atto (negozio) unilaterale o, in alternativa, atto (negozio) gratuito.

 

[61] Rec. cit. 20.

 

[62] Ché non mancò chi ritenne tutto il frammento una creazione giustinianea «di sana pianta»: cfr. M.E. Peterlongo, La transazione in diritto romano, Milano 1936, 11.

 

[63] Poiché non si condivide l’idea secondo cui ‘liberalitate’ ribadirebbe il ‘donationis causa’, che qualifica il ‘pacisci’ in D. 2,15,1: cfr. L’origine della transactio cit. 62 ss., ma specialmente 72, e infra, nel testo.

 

[64] Secondo la ricostruzione di O. Lenel, Palingenesia iuris civilis 2, Lipsiae 1889, 728 (come già ricorda G. Melillo, Contrahere cit. 277 e nt. 644) D. 2,15,1 viene collocato in seconda posizione nel titolo ‘Testamenta quemadmodum aperiantur inspiciantur et describantur’, sulla scorta, come chiarisce la nota 1, della testimonianza gaiana contenuta in D. 2,15,6, che attesta la necessità della previa apertura del testamento rispetto al ‘transigi sine iudice ovvero all’‘apud iudicem exquiri veritas de his controversiis quae ex testamento proficiscerentur’. Il frammento gaiano non sembra per il vero né al riparo da qualche considerazione circa la genuinità (sembra pleonastica l’indicazione al giudice di risolvere le controversie che nascono dal testamento una volta aperto il testamento stesso) né così conferente per individuare la posizione palingenetica dell’ulpianeo D. 2,15,1, che in effetti non presenta collegamenti contenutistici o sintattici con quello che lo precede (D. 29,3,2pr) e, rispettivamente, lo segue (D. 29,3,1-4). Tuttavia, in questa sede non è possibile procedere a un’analisi ed eventuale revisione dell’opera di Lenel, sul punto specifico, pertanto se ne accolgono i risultati condivisi dalla communis opinio.

 

[65] L’origine della transactio cit. 57 ss.

 

[66] Alla convinzione che al ‘pacisci donationis causa debba per forza contrapporsi un atto oneroso, contribuisce la tradizione di illustri opinioni, come quella di F.C. von Savigny, Sistema del diritto romano attuale (trad. it. V. Scialoja), IV, Torino 1889, 4, allorché scrive «i negozi giuridici precisamente opposti alla donazione» si dicono «negozi onerosi».

 

[67] L’elemento soggettivo (animus donandi) connatura la causa donationis: è un dato che da tempo i giuristi pongono in evidenza. Cfr., fra i molti che hanno dedicato al tema una messa a punto, G. Oppo, Adempimento e liberalità, Milano 1947, 287 e A. Gianola, Atto gratuito, atto liberale. Ai limiti della donazione, Milano 2002, 5 ss., il quale ripercorre la storia delle nozioni di donazione da Domat e Pothier sino a oggi, ed elenca ben sette categorie di «fini», per i quali si compie o ci si obbliga a una prestazione «senza alcuna contropartita», che consentono di individuare il ventaglio di «ipotesi intermedie» fra il contratto a prestazioni corrispettive e la «donazione dettata dal puro altruismo». Gianola critica, condivisibilmente, la sistemazione teorica che «considera gratuito il contratto in assenza di controprestazione e confinando il fine, economico, di scambio non economico oppure idealistico, perseguito dal promittente fra i motivi dell’atto irrilevanti, mostra di ritenere rilevante il solo scambio intercorrente tra prestazioni aventi carattere economico e attuato sulla base di un programma noto e condiviso da entrambe le parti. Essa costituisce l’epilogo di una evoluzione in cui la distinzione onerosità-gratuità viene a basarsi, in modo sempre più palese, sullo scambio economico programmato, a spese del criterio dell’interesse perseguito» (9). Vale la pena di rammentare, a conforto delle tesi di Gianola, un’opinione più risalente: «ognuno si induce a donare non solo per un generico spirito di liberalità, che è richiesto dalla legge, ma per una determinata ragione, che non si identifica con la volontà di fare una attribuzione gratuita o lo spirito di liberalità comunque inteso. Questa ragione, che non manca e non può mancare in alcuna donazione concreta, non è richiesta dalla legge, per cui basta il generico spirito di liberalità,  ma esiste in fatto, ed è presa in considerazione dalla legge qualora abbia formato irregolarmente la volontà o miri a un risultato illecito»: così B. Biondi, Le donazioni, in Trattato di diritto civile (cur. F. Vassalli) 12.4, Torino 1961, 580. Cfr. anche A. Palazzo, sv. Donazione, in Dig. Disc. Priv. (Sez. Civile) 7, Torino 1991, 139 scrive che «l’esame del motivo all’interno del laboratorio giurisprudenziale dà all’interprete dei risultati che lo portano al centro della disciplina della donazione».

 

[68] Cfr. supra nt. prec.

 

[69] Ferdinando Zuccotti (Rec. cit. 19) propone una distinzione, di stampo moderno, tra donazione e altri negozi a titolo gratuito, basata sulla causa. Nella donazione si avrebbe l’«animus di rendere un vantaggio, nel senso di beneficio patrimoniale, alla specifica persona del donatario» che mancherebbe nei negozi a titolo gratuito diversi dalla donazione perché «la beneficenza è destinata a una persona casuale o addirittura incerta» o il «beneficio patrimoniale» è «un vantaggio indiretto e non uno specifico aumento patrimoniale della controparte». Non risulta chiaro in che modo l’incertezza del beneficiario incida sull’animus, né quale sia la tecnica diairetica adottata, stante la classificazione in base a elementi non omogenei. Pare invero che la causa non valga a bipartire i negozi gratuiti tra donativi e non donativi, quanto piuttosto a compilare una tipologia degli stessi. Ad avviso di chi scrive, resta preferibile distinguere la donazione da altri negozi gratuiti in base alla «volontà del donante diretta alla gratuità», intesa come assenza di controprestazione «che diventa causa tipica cui è indirizzata come a scopo primario la volontà del donante»: così G.G. Archi, sv. Donazione, in EdD. 13, Milano 1964, 933 s. Circa il rilievo accordato dalla dottrina civilistica più recente al cd. «interesse a donare», cfr. F. Tringali, La donazione, Torino 2004, 6, ove ulteriore bibliografia.

 

[70] L’origine della transactio cit. 62 ss. (spec. 72 ss.).

 

[71] Lo spirito di liberalità (inteso come conferimento ad altri di un vantaggio patrimoniale in mancanza di obbligo a farlo) «addirittura necessita di essere qualificato caso per caso da un motivo, che per il fatto stesso di riscontrarsi sempre non può lasciare indifferente l’interprete» così A. Palazzo, sv. Donazione cit. 139, citando G. Gorla, Il contratto 1, Milano 1954, 99.

 

[72] Rec. cit. 18 s. La questione ha un certo rilievo, poiché solo se si assume che Ulpiano conoscesse e adoperasse i concetti di «causa» e «motivo» come li conosce e li adopera Ferdinando Zuccotti, si può ritenere che, laddove lo scrivente faccia invece uso delle categorie «interesse», «scopo» e «finalità», la sua scarsa preparazione dogmatica faccia torto alla precisione concettuale del prefetto del pretorio di Alessandro Severo. Invero, pare che il presupposto richieda una dimostrazione che, nella recensione citata, non si trova.

 

[73] Mentre non mancano assonanze tra l’idea di ‘liberalitas’ di cui il giurista sembra fruire (cfr. L’origine della transactio cit. 72 ss.) e quella di «liberalità» fatta recentemente propria dalla suprema corte di Cassazione .

 

[74] Cfr. L’origine della transactio cit. 155 ss., 167 ss., 213 ss.

 

[75] L’origine della transactio cit. 234 ss.

 

[76] E’ questo il dato saliente posto in evidenza dalle acute osservazioni di F. Carnelutti, La transazione è un contratto?, in Riv. Dir. Proc. 1 (1953) 185 ss.

 

[77] Quando si riflettesse sulle pagine di F. Carnelutti, La transazione è un contratto? cit. 189 – la cui costruzione della transazione come combinazione di due atti unilaterali reciprocamente condizionati è tanto geniale quanto incompresa e criticata (cfr. M. Franzoni, La transazione, Padova 2001, 10 s. e nt. 22) – ci si avvedrebbe del fatto che la considerazione per la (uni) lateralità della transazione (e a maggior ragione, del ‘transigere’ dei giuristi romani) non è affatto campata per aria. La teoria di Carnelutti ha, forse, il solo difetto di accordare analogo effetto estintivo (ovvero preventivo) della controversia tanto alla rinuncia alle proprie ragioni quanto al riconoscimento delle stesse da parte di colui verso il quale sono fatte valere. In realtà, non pare che questo secondo atto possa esplicare analogo effetto senza l’intervento della volontà del titolare delle pretese, esattamente come l’adempimento, che non è sempre possibile senza la collaborazione del creditore, a differenza della remissione del debito, che dalla volontà del debitore può prescindere per essere pienamente efficace.

 

[78] Bartolo a Saxoferrato, Omnia quae extant operae. In primam digesti veteris partem 1, Venezia 1603, f. 93v., scrive in modo assai significativo in dubio quis donare non videtur’, poiché non si può sapere se effettivamente ci si impoverisce e si arricchisce l’altro, quando si rinuncia a una res dubia, come una pretesa contestata.

 

[79] Cfr. le parole che M. Bigot de Préameneu (incaricato insieme a M. Boulay e M. Dupuy di presentare il titolo «Des transactions» al «corps législatif» nella seduta del 15 marzo 1804) trasse dalle pagine di Domat (cfr. infra, nel testo) per giustificare la formulazione dell’art. 2044 del Code Napoléon, che non reca menzione di prestazioni o concessioni necessarie ad substantiam perché vi sia una transazione [P.-A. Fenet, Recueil complet des travaux préparatoires du Code civil 15, Osnabrück, 1968 (Réimpression de l’édition 1827) 103]:

«Législateurs, de tous les moyens de mettre fin aux différends que font naître entre les hommes leurs rapports variés et multipliés à l’infini, le plus hereux dans tous ses effets est la transaction, ce contrat par lequel sont terminées les contestations existantes, ou par lequel on prévient les contestations a naître.

Chaque partie se dégage alors de toute prévention. Elle balance de bonne foi et avec le désir de la conciliation l’avantage qui résulterait d’un jugement favorable et la perte qu’entraînerait une condemnation; elle sacrifie une partie de l’avantage qu’elle pourrait espérer, pour ne pas éprouver toute la perte qui est à craindre; et lors même que l’une d’elles se désiste entiérement de sa pretention, elle se détermine par le grand intérêt de rétablir l’union et de se garantir des longueurs, des frais et des inquétitudes d’un procès.

Un droit douteux et la certitude que les parties ont entendu balancer et régler leur intérêts, tels sont les caractères qui distinguent et qui constituent la nature de ce contrat».

 

[80] Sembra da respingere l’atteggiamento interpretativo che tende ad attribuire alla sintesi espositiva il mancato cenno alle concessioni reciproche nei passi scevolani in materia di transazione (Rec. cit. 14, cfr. infra nel testo). Se non altro perché, sulla scorta di simili canoni esegetici, dalle fonti può davvero “ricavarsi” qualunque dato.

 

[81] C. 2,4 De transactionibus. Ferdinando Zuccotti (Rec. cit. 17) confonde il testo dei due luoghi, quando si riferisce a C. 2,4,38 come alla costituzione che attesta «come egli (scil. l’heres suus) non poteva rinunciare all’eredità in quanto l’aveva definitivamente accettata appunto con l’agire per rivendicarla dichiarando ‘iniustum il testamento». In C. 2,4,38 non c’è traccia della fattispecie, che si trova invece descritta in C. 6,31,3. Il Professore Zuccotti, inoltre, (Rec. cit. p. 16 e 17) travisa il riferimento all’automatismo dell’acquisto dell’eredità che non riguarda l’heres suus «in quanto tale», come egli scrive, bensì l’‘heres suus’ perché questi, richiedendo al giudice una dichiarazione di inefficacia del ‘testamentum iniustum’, si è posto nella condizione di non poter rifiutare l’eredità che gli perviene tramite la ‘successio ab intestato’, in virtù di quell’automatismo nell’acquisto che fa parlare i giuristi di ‘sui ac necessarii’. Alla contestazione del testamento, presupposto per la ‘petitio hereditatis intentata, si ricollega l’esclusione della possibilità di astenersi, come esplicitamente attestato in L’origine della transactio cit. 92, 94.

 

[82] L’origine della transactio cit. 75 ss.

 

[83] C’è un’intera tradizione a sostegno di questa opinione, che, tra l’altro, poggia sulla difficoltà di coordinare il secondo participio con il terzo. In pratica, se si può comprendere che qualcosa sia dato o promesso, risulta meno chiaro come qualcosa sia trattenuto o promesso. Le varie soluzioni del problema, in primis la mutazione dell’ordine dei tre verbi nell’elaborazione di alcuni maestri del passato, sono il sintomo della difficoltà reale posta dal testo. Mentre una tradizione assai risalente poneva il ‘vel retento’ fra le virgole, lasciandone intuire il carattere insiticio, questa posizione non è condivisa da Cuiacio, il quale, ritenendo che i tre participi indichino la controprestazione destinata a colui che rinuncia all’azione, “necessita” del riferimento al ‘retinere’, poiché in effetti esso illustra un possibile ristoro, corrispettivo della rinuncia all’agire, non sussunto nei verbi ‘dare’ e ‘promittere. Cfr. L’origine della transactio cit. 93 ss.

 

[84] Art. 1764 Cod. Civ. 1865: «La transazione è un contratto con cui le parti dando, promettendo o ritenendo ciascuna qualche cosa, pongono fine a una lite già cominciata o prevengono una lite che può sorgere».

 

[85] La parafrasi del rescritto offerta da Ferdinando Zuccotti (Rec. cit. 16), secondo cui non è «efficace la transazione che non ha avuto nemmeno un principio d’esecuzione (‘nullo dato vel retento seu promisso’)», lascia in ombra proprio l’elemento chiave di chi sia a poter dare vel retinere seu promittere: l’heres suus o gli heredes testamentarii o sia l’uno che gli altri?  Molto dipende dalla corretta interpretazione del participio ‘adseverans’ e dall’effetto che si riconosce alla dimostrazione che il ‘testamentum’ è ‘iniustum’. Non pare che ‘adseverare’ significhi semplicemente «affermare», «sostenere»: cfr. L’origine della transactio cit. 79 nt. 170. Ciò che Zuccotti si chiede («come può essersi aperta la ‘successio ab intestato se il rescritto si riferisce a una causa intentata dall’erede legittimo contro gli eredi testamentari che in ogni caso è ancora in corso») non pare avere il rilievo che egli gli attribuisce poiché, come chiaramente affermato in L’origine della transactio cit. 94, la verifica della preterizione rappresenta un presupposto per giungere alla sentenza nella ‘petitio hereditatis’. Una volta che i due fatti (la condizione di suus e la preterizione) sono verificati, la ‘petitio non è automaticamente chiusa, poiché permane l’interesse al recupero del possesso dei beni ereditari che gli eredi testamentari tengono in forza di un testamento, la cui nullità, però, è iniziale e insanabile (P. Voci, Diritto ereditario romano2 2, Milano 1963, 638). A far data dal momento della morte del de cuius, è quindi automaticamente aperta la delazione ereditaria ‘ab intestato.

 

[86] Ferdinando Zuccotti (Rec. cit. 17) conclude chiosando che «anche al di là dello ius abstinendi, l’heres suus ac necessarius non può in ogni caso adire l’eredità, né ha quindi alcun bisogno di rinunciarvi, se non è chiamato a essa in quanto il testamento lo preterisce né, in ogni caso, potrà averla prima di aver vinto la petitio hereditatis a tale scopo intentata». Una simile, veloce conclusione, oltre a obliterare l’importanza dello ius abstinendi, che viceversa, poche righe prima, aveva ben altro rilievo nella costruzione del pensiero del recensore, ancora una volta non chiarisce se sia o meno condivisa l’ipotesi che i tre participi (‘dato’, ‘retento’ e ‘promisso’) si riferiscano all’azione di colui che vuole, ma non può ‘respuere’ la ‘quaesitam hereditatem’ oppure agli eredi testamentari. Inoltre, non permette di comprendere se Zuccotti si riferisca alla rinuncia alla qualifica di erede (inutile perché impossibile, proprio in virtù della radicale inefficacia di un testamento che preterisca un suus: cfr. P. Voci, Diritto ereditario romano2 1 cit. 577 e 2 cit. 640) oppure ai beni ereditari, che effettivamente forse non possiede se ha intentato una petitio hereditatis. L’opinione dello scrivente è che la rinuncia all’eredità avrebbe dovuto avere quei caratteri di ripudio, che sono preclusi al suus una volta che ha provato la preterizione, poiché il testamento è nullo ex tunc (P. Voci, Diritto ereditario romano2 2 cit. 638) e, se anche egli volesse esercitare lo ius abstinendi, e ciò gli sarebbe precluso dall’aver agito, comunque tale comportamento non costituirebbe propriamente una rinuncia (P. Voci, Diritto ereditario romano2 1 cit. 640), né potrebbe giovare agli eredi testamentari.

 

[87] P. Voci, Diritto ereditario romano2 1 cit. 585 ss. elenca dettagliatamente le posizioni di cui l’erede astenuto continua a essere titolare, nonché le prerogative che l’astenuto suus conserva: il diritto al sepolcro famigliare, ai bona libertorum nonché alle operae libertorum ex iureiurando (586).

 

[88] Cfr. P. Voci, Diritto ereditario romano2 1 cit. 579.

 

[89] Ciò che appare lamentato da Ferdinando Zuccotti (Rec. cit. 16) in modo non condivisibile, dal momento che l’astensione dell’erede, conformemente alla communis opinio rappresentata da P. Voci (cfr. supra nt. 85), non sembra interferisca con la qualità di heres del suus, ch’è sottratta non solo all’alea di termini e condizioni nel testamento, ma anche alla disponibilità del suus chiamato in forza della successio ab intestato.

 

[90] Ciò vale a partire dall’unica ricorrenza in Aburnio Valente, sino a tutte quelle scevolane.

 

[91] Rec. cit. 14.

 

[92] L’origine della transactio cit. 167 ss.

 

[93] L’origine della transactio cit. 213 ss.

 

[94] Il passo celsino contenuto in D. 2,15,12 presenta alcune peculiarità, sotto il profilo della lingua, che ne fanno un unicum, tale per cui occorre valutarlo con grande cautela. La stessa non pare accordata al frammento da Zuccotti (Rec. cit. 11 s.) quando asserisce ch’esso sarebbe di «immediata comprensione». L’uso della costruzione transigere + in + ablativo e del verbo ‘causari’ si incontrano solo in questo frammento del Digesto, il che, come sottolineato (L’origine della transactio cit. 157 ss. e nt. 9), potrebbe costituire una prova del recente ingresso del verbo ‘transigere’ nel vocabolario dei giuristi. Inoltre, l’uso di ‘cogitare’ da parte di Celso è testimoniato solo in un altro passo dei digesta (l. 8) conservato in D. 19,1,38,2 (cfr. L’origine della transactio cit. 158 nt. 10) ove, prima di presentare la propria soluzione al quesito, lo scolarca proculiano affermava la necessità di verificare ‘si nihil de ea re neque emptor neque venditor cogitaverunt’. Ebbene, pare allo scrivente che, se davvero Celso avesse fatto riferimento, col verbo ‘transigere’, a un «accordo di tipo senz’altro transattivo», come scrive Ferdinando Zuccotti, avrebbe più probabilmente risposto che ai termini dell’accordo doveva farsi riferimento, mentre la sua attenzione, in D. 2,15,12, resta focalizzata sull’attività del soggetto ‘qui generaliter transegerit’. Il suo periodare vede al centro uno e un solo soggetto transigente, analogamente a quanto sembra accadere nell’ulpianeo D. 2,15,1.

 

[95] Rec. cit. 6.

 

[96] Tanto basta a escludere che ci sia una «transazione», o un «transigere», tra ‘possessor’ e ‘delator’, trascurando i dubbi, che pure si nutrono, circa l’espressione ‘causa communis e sull’asserzione (La vindicatio caducorum, Torino 1964, 58) che il delatore sarebbe titolare di una posizione di cui può disporre, non rappresentando quindi un mero strumento necessario all’amministrazione fiscale (per le ragioni che lo stesso G. Provera, La vindicatio cit. 7 ss., chiarisce). Nessun contrasto «alla leggera» con Provera: semplicemente, il fatto che il maestro torinese non abbia pensato di ricondurre la fattispecie descritta in D. 49,14,42 ai patti tra ‘delator’ e ‘possessor’ ai danni dell’erario, di cui pure egli si occupa (La vindicatio cit. 80 ss.), si giustifica, a parere dello scrivente, con la ricorrenza nel frammento del verbo ‘transigere.

 

[97] Nella monografia dello scrivente (L’origine della transactio cit. 192 ss. – spec. 201 ss. –) una particolare attenzione è dedicata alle analogie fra i moduli linguistici di Gaio e Pomponio nel riferirsi al iusiurandum come a un modo per ‘transigere’. I frammenti centrali in questa ricostruzione sono D. 4,3,21 (Ulp. 11 ad ed.), ove si trovano citati Pomponio, che a sua volta prende le mosse da un responso di Labeone, e Marcello, e D. 12,2,31 (Gai. 30 ad ed. prov.). A proposito della frase ‘solent enim saepe iudices in dubiis causis exacto iureiurando secundum eum iudicare qui iuraverit’, contenuta in quest’ultimo frammento, Ferdinando Zuccotti (Rec. cit. 5) approva la tesi dell’interpolazione, «piuttosto risalente ma ancora attuale», sostenuta a suo tempo anche da da N. Scapini, Il ius novorum nell’appello civile romano,  in Studi parmensi 21 (1978) 38 nt. 99, senza proporre ulteriori argomenti a suo favore. Invero Scapini parla prudentemente di una formulazione che sembra fare riferimento alla prassi giustinianea del giuramento giudiziale, senza specificare sulla base di quali elementi, ma, a parere dello scrivente, sulla scorta del tenore letterale e della costruzione del testo. Sembra, in realtà, che il ricorrere della costruzione ‘exacto iureiurando’, che si riscontra in D. 9,4,21,6, D. 12,2,28,1 e soprattutto in Gai., inst. 4.179, possa costituire un argomento contro l’ipotesi che la stessa faccia necessariamente riferimento «al tardo giuramento, appunto giudiziale», come opina Zuccotti.

 

[98] A questo aspetto, fondamentale nel ricostruire la stratificazione semantica di cui ‘transigere’ è protagonista nella lingua del II secolo d.C., si riconnette l’esame di alcune celebri testimonianze gaiane in cui ricorrono le espressioni ‘negotium gerere/negotium contrahere’: si tratta, nella ricostruzione proposta, di un passaggio utile a correttamente interpretare la distinzione diairetica ‘negotium contrahendi transigendique causa’ che Ulpiano presenta nel passaggio salvatoci in D. 2,14,1,3, non certo di «dare un saggio di mirabili doti esegetiche» (così F. Zuccotti, Rec. cit. 16). Il recensore trascura forse la finalità, che invero pare non inutilmente perseguita, di cercare la ratio del periodare di Gaio, quando si serve delle diverse espressioni usate in inst. 3,135-136. Il giurista sabiniano, apparentemente, si occupa della conclusione del contratto e del sorgere del vincolo obbligatorio, ma non sembra lecito presumere acriticamente che le sue scelte linguistiche siano mere varianti del medesimo modulo. Pertanto non appare troppo felice né perspicua la serie di osservazioni proposta dal Professore Zuccotti (Rec. cit. 15 ss.) quand’egli afferma: 1) che ‘fiunt obligationes’, ‘obligationis contrahi’ (sic, cfr. supra nt. 7), ‘sufficit eos, qui negotium gerunt, consensisse’, ‘negotia contrahuntur’ e ‘obligatio fieri’ abbiano tutte lo stesso significato, sulla base della presunzione che il loro ricorrere dipenda solo dalla necessità, per Gaio, di variare il modo in cui fare riferimento alla «conclusione del contratto» (15), dovendovi accennare cinque volte in poche righe. Questo impedisce al recensore di attribuire un significato alle scelte espressive di Gaio (‘sufficit eos, qui negotium gerunt, consensisse’) e, conseguentemente, di valutare adeguatamente le scelte dei compilatori, allorché “sincronizzarono” i due verbi [mutando la frase in ‘sufficit eos qui negotium gerunt consentire’ (Iust. Inst. 3,22,1)].

 

[99] Cfr. supra, nt. 14, a proposito delle tesi, sulle riforme procedurali di Marco Aurelio, sostenute da Gaetano Scherillo.

 

[100] È quanto si può ricavare da Scaev. 1 dig. D. 2,15,3,1-2 (L’origine della transactio cit. 257 ss.) e anche da Scaev. 21 dig. D. 36,1,80,16 (L’origine della transactio cit. 282 ss.). Si tratta di due frammenti la cui analisi è contestata da Ferdinando Zuccotti (Rec. cit. 3 ss.; 12 s.). Con riferimento a D. 2,15,3,1, il recensore ritiene che il ‘non posse’ con cui Scevola chiude le porte di fronte alle velleità processuali di Setticio valga certamente a indicare un suo parere negativo circa l’esito dell’azione. Zuccotti afferma ciò in contrasto con il testo dello scrivente, nel quale però si trova un’asserzione analoga (tanto che il recensore vorrebbe ribaltare l’avviso espresso dallo scrivente a p. 264, inserendo un «non»). Legittimamente Zuccotti opina che tale parere negativo riguardi la fine di un processo che si instaura e giunge a una sentenza “sul merito”, mentre lo scrivente ritiene possibile che l’esito processuale sia negativo per Setticio, nel senso che le sue pretese (l’actio negotiorum gestorum) o le sue difese (l’exceptio transacti negotii) saranno respinte dall’organo giurisdizionale una volta verificata la mancata corrispondenza tra i fatti che egli asserisce e i presupposti necessari alla concessione dell’azione o dell’eccezione.

Quanto a D. 36,1,80,16, secondo Zuccotti (Rec. cit. 12 s.) nulla consente di affermare che tra i beneficiari del fedecommesso e l’erede dell’onerato vi sia già stata una controversia, magari portata dinanzi al giudice, per cui la domanda ‘an conveniri posse’ scaturirebbe dall’ignoranza degli interroganti, i quali, avendo accettato («senza contestazioni») quanto l’onerato teneva in bonis, temono di non poter più agire una volta scoperto che questi, in realtà, aveva conseguito un’eredità pari a quattro volte il quantum trasferito. Scevola risponderebbe che se non hanno acquistato «in termini di transazione» (sic, Rec. cit. 13) possono agire per i tre quarti restanti. Posto che Scevola dia una simile risposta, presumendo che chi si è rivolto a lui sappia cosa implichi il ‘transigere’, occorre precisare che non è opinione dello scrivente che per avere la ‘minimam partem’ dell’eredità i beneficiari abbiano dovuto ottenere una condanna dell’onerato, bensì, semplicemente, che al praetor fideicommissarius si siano dovuti rivolgere per indurre l’erede a trasferire almeno quanto ‘in bonis fuisse dicebat’. Viceversa, è utile rimarcare come, in questo caso, il recensore sembri qui considerare, implicitamente, la possibilità che Scevola si riferisca a un ‘transigere in assenza di contestazioni, su di un rapporto né dubbio né controverso: una tesi portante della monografia, che altrove però (Rec. cit. 13) egli sembra confutare.

 

[101] Ferdinando Zuccotti (Rec. cit. 13), a più riprese, afferma che lo scrivente sosterrebbe «l’assunto che dalla transactio discenda una denegatio actionis». Ciò non è vero. A proposito di D. 2,15,3,2, si ritiene che il pretore possa legittimamente ‘denegare’ l’‘actio negotiorum gestorum’ a Setticio perché, molto semplicemente, Mevio non agì come gerente di affari altrui, e anche rifiutare a Setticio l’inserimento di una ‘exceptio transacti negotii’ nella formula dell’‘a. pigneraticia’ che contro di lui viene mossa, poiché non fu lui ma Mevio a ‘transigere’ con il debitore pigneratizio, e la ‘transactio’, come affermano i divi fratres citati da Scevola nel principium, vale solo per le parti che la concludono. Come si può agevolmente comprendere non c’è nessuna ‘denegatio actionis basata sulla ‘transactio’, ma l’applicazione di un concetto ricavato, con riferimento alla ‘denegatio actionis’, da A. Metro, La «denegatio actionis», Milano 1972, 150, che nel §17 espone «in maniera unitaria la disciplina dell’istituto che forma oggetto della nostra indagine» (149 ss.), per cui pare difficile pensare ch’egli si riferisse solo ai testi richiamati da Zuccotti (Rec. cit. 4) – che per di più afferma di citare «ad esempio» –, in cui ricorrono espressioni quali «actio non datur». Quanto alla impossibilità di fruire dell’‘exceptio transactionis’ per chi non è stato parte della ‘transactio’ – che il Professore Zuccotti sintetizza come «denegatio exceptionis», coniando espressione mai usata dal sottoscritto e che egli stesso definisce «assurda» – giovi ricordare le parole di G.I. Luzzatto, sv. Eccezione (dir. rom.), in EdD. 14, Milano 1964, 136: «se l’obiezione del convenuto è, invece, apertamente infondata, il magistrato nega l’eccezione». Pare proprio questo il caso di chi voglia difendersi dall’‘actio pigneraticia’ facendo valere una ‘pactio’ alla cui conclusione non ha partecipato.

[102] Conformemente a quanto sembra possibile ricavare da Pomp. 22 ad Sab. D. 41,3,29.

 

[103] È questa una tesi proposta da F. Gallo, Synallagma e conventio 2 cit. 253 s. , per spiegare l’inclusione della ‘transactio’ fra i contratti da parte di Scevola in 6 dig. D. 20,2,10 (L’origine della transactio cit. 273 ss.): il maestro di Paolo potrebbe aver accordato, a chi avesse concluso una ‘transactio’ e non potesse avvalersi di uno strumento processuale proprio, l’actio utilis modellata sull’actio ex stipulatu. Il Maestro, altrove (143 s.), scrive che «se non vengono osservati gli accordi raggiunti col negozio transattivo si può agire con l’azione nascente da stipulatio, se questa è intervenuta, oppure, se non è intervenuta, con l’applicazione in via utile, mediante i praescripta verba, della stessa azione», a proposito di C. 2,4,6,1, un rescritto emanato durante il regno di Alessandro Severo, in cui la cancelleria imperiale sembra fare riferimento con il segno ‘contractus’ alla ‘transactio’. Esplicitamente, l’Autore (255) conferma di ritenere che «l’inclusione del negozio transattivo nel contratto fu ... dovuta al fatto che a esso venne estesa, in via utile, la tutela stabilita per la stipulatio in via diretta». Dal momento che Gallo rimarca (276) come Alessandro Severo in C. 2,4,6,1 definisca ‘utilis’ l’‘actio praescriptis verbis’ e ritiene (253 ss.) che quella tutela potesse già essere stata accordata da Scevola, a chi avesse transatto (nel caso descritto in D. 20,2,10), non si comprende perché, quando lo scrivente ipotizzi la concessione di questo strumento processuale da parte di Scevola, nel caso descritto in 6 dig. D. 17,1,62pr., Zuccotti esprima delle forti perplessità non tanto sull’applicabilità alla fattispecie in esame di un simile strumento processuale, quanto piuttosto sulla possibilità stessa dell’estensione utile dell’‘actio ex stipulatu mediante i ‘praescripta verba. Ferdinando Zuccotti non sembra condividere l’opinione di Filippo Gallo, dal momento che scrive «una volta tolta dall’intentio, la menzione della stipulatio nonché il riferimento all’oportere civilistico, non si vede infatti perché una simile formula, del tutto generica, dovrebbe pur tuttavia considerarsi utilis all’actio ex stipulatu», ma non può dirsi nemmeno d’accordo con A. Burdese, Tra causa e tipo negoziale cit. 54 s. – che, come noto, non condivide l’ipotesi di una estensione in via utile dell’‘actio ex stipulatu’ come spiegazione dell’uso del segno ‘contractus’ con riferimento alla ‘transactio’ –, dal momento che quest’ultimo Autore non giunge a negare la possibilità di una simile ‘actio utilis’, come invece fa, forse inconsapevolmente, il recensore.

 

[104] Cfr. L’origine della transactio cit. 32 ss. L’idea che da Scaev. 1 dig. D. 2,15,3pr.-2 (ove si trova riportato il rescritto dei divi fratres ricordato nel testo) non si ricavi un dato testuale inequivocabile per dire che gli imperatori e Scevola ritengano necessario una lite anche solo potenziale come presupposto per ricorrere alla ‘transactio’ non convince Ferdinando Zuccotti (Rec. cit. 13), il quale prima imputa l’assenza di riferimenti a una controversia attuale o temuta a una scelta e poi «alla brevità essenziale con cui le fattispecie vengono esposte», dando così l’impressione di ritenere che, diversamente da quanto pensa lo scrivente, le convenzioni indicate con il segno ‘transactio’ avessero sicuramente eliminato anche solo il pericolo di un processo. Da parte dello scrivente si intendeva solo rimarcare il dato inoppugnabile dell’assenza in D. 2,15,3pr.-1 di ogni accenno a controversie (in atto o temute) ovvero a concessioni necessarie per porvi fine e che, se ci si volge a D. 2,15,8, si constata come nell’oratio divi Marci si parli di ‘transigere’ su rapporti che nulla hanno di attualmente o potenzialmente litigioso (L’origine della transactio cit. 34 ss.).  Legittima divergenza di opinioni, che tuttavia lascia spazio a due precisazioni. In primis, tra la posizione di fermarsi al dato testuale e quella di ipotizzarne contenuti ulteriori dati per certi, seppur “tagliati” per esigenze letterarie, si preferisce la prima per ragioni che paiono intuibili. In secundis, nulla nello studio monografico induce a ritenere che per lo scrivente la transazione moderna richieda «una situazione litigiosa con minacce, insulti e vie di fatto»: si tratta di una libera (ed errata) interpretazione del pensiero dello scrivente ascrivibile al Professore Zuccotti.

 

[105] Senza che, per questo, possa dirsi che la stessa manchi, come fa il Professore Zuccotti (Rec. cit. 13 s.) lamentando altresì, incomprensibilmente, che la stessa non preceda la pars destruens dello studio.

 

[106] Cfr. L’origine della transactio cit. 192 ss.

 

[107] La cui emersione, e soprattutto i cui esiti, dovuti all’elaborazione di Azone, particolarmente significativi con riferimento all’efficacia dei patti, sono esaminati da R. Volante, Il sistema contrattuale del diritto comune classico. Struttura dei patti e individuazione del tipo. Glossatori e Ultramontani, Milano 2001, 119 ss. (specialmente 130 ss.). L’Autore pone in rilievo come «nel momento in cui, grazie allo strumento analitico dei vestimenta, si inizia a guardare ai minimi dati strutturali di formazione della fattispecie, il primo problema che avanza alla riflessione di questi doctores è quello relativo a quale peso dare ai momenti di qualificazione formale rispetto a quelli – diremmo oggi – causali» (129). Proprio l’opera di Azone, con l’inversione del rapporto fra nomina e vestimenta, sancisce la considerazione prioritaria di questi ultimi, da cui verosimilmente discende il requisito dell’aliquid datum aliquid retentum, condizione di efficacia e di tutelabilità della transactio in conformità al vestimentum, individuato nel rei interventus, tipico dei contratti innominati.

 

[108] Cfr. M.A. Fino, L’archetipo contrattuale transattivo, in Riv. Dir. Rom. 2 (2002) 22 e ntt. 72, 73.

 

[109] G. Rossi, sv. Glossatori, in NNDI. 7, Torino 1961 (rist. 1980), 1140 e nt. 8.

 

[110] G. Rossi, sv. Glossatori, cit. 1140 s.

 

[111] Les loix civiles dans leur ordre naturel, I, Paris 1723, 121.

 

[112] Se si bada al fatto che Domat cita, a sostegno di questa propria ricostruzione, C. 2,4,6 in cui l’accordo sottoscritto dalla madre di coloro che si rivolgono al principe prevedeva proprio la rinuncia all’azione da parte di questa in cambio di una parte dei beni ereditari, si comprende bene come egli, primo e unico nella tradizione medievale e moderna, abbia certo intuito come la natura onerosa della ‘transactio romana sia meramente eventuale.

 

[113] Pandectae Iustinianeae in novum ordinem digestae, Parigi 1748, 80. Nella celebre versione italiana Le pandette di Giustiniano riordinate da R.G. Pothier (trad. A. Bazzarini), I, Venezia 1833, 222 s., leggiamo: «La transazione è una convenzione con cui si dà o si promette o si ritiene qualcosa a fine di estinguere una lite già mossa o da muoversi.

Quindi è differente dal patto a titolo di donazione; imperciocchè chi transige lo fa sopra una cosa dubbiosa, sopra una lite incerta e non finita; chi patteggia a titolo di donazione, cede per liberalità una cosa determinata e certa.

Due sono adunque i requisiti della Transazione:

I. Che qualche cosa sia data, ritenuta o promessa.

Imperciocchè, come rescrivono Diocleziano e Massimiano, ove nulla si dia, si ritenga o si prometta, non è transazione.

II. È d’uopo che sia dato, ritenuto o promesso a fine di estinguere una lite».

Si notino la resa del testo di D. 2,15,1 e di C. 2,4,38 – che si deve a una scelta del Bazzarini, dal momento che nell’originale francese il carattere tondo chiariva la natura di citazione di tali testi, pur nell’ambito di un’opera tutta redatta in latino – e soprattutto la traduzione della costruzione ‘transigit – transigit’: la ripetizione del verbo viene trattata come una calliditas.

 

[114] M.A. Fino, L’archetipo contrattuale transattivo cit. 426 e nt. 76; 430 ss.

 

[115] «La transaction est un contrat par lequel les parties terminent une contestation née, ou previennent une contestation à naitre.»

 

[116] Per una ricostruzione della ribellione posta in essere dalla dottrina, prima francese poi anche italiana, e dalla giurisprudenza d’Oltralpe alla definizione codicistica mutuata da Domat e per colpa di questi imperfetta, come sottolineava Troplong, cfr. M.A. Fino, L’archetipo contrattuale transattivo cit. 418 nt. 51; 428 nt. 89; 429 nt. 94.

 

[117] Rec. cit. 13 s.

 

[118] Non è qui il luogo per ripercorrere le vicende, per certi versi straordinarie, delle idee moderne intorno alla transazione (basti ricordare le opinioni diversissime in merito alla rilevanza della res dubia e la correzione, dovuta ai formanti dottrinale e giurisdizionale, delle definizioni incluse nei codici europei). E basta non fermarsi ai manuali, per avvedersi di come, riguardo a una questione cruciale, qual è l’inserimento stesso della transazione fra i contratti (pur sancita sin dal codice del 1865), in Italia sia fiorita una costruzione «dichiarativa» dell’archetipo transattivo, cui, anche dopo il 1942 e l’art. 1965 del cod. civ., autori del calibro di Carresi (La transazione, in «Trattato di diritto civile» (F. Vassalli), Torino 1956; Id., ‘Transazione (diritto vigente) ’, in «NNDI.», XIX, Torino 1973, 481 ss.), sulla scia di maestri quali Carnelutti (La transazione è un contratto? cit. 185 ss.) e Valsecchi (Transazione e negozio d’accertamento, in «Riv. Dir. Comm.», XLI, 1944, 181 ss.; Ancora sulla natura della transazione, in «Riv. Dir. Comm.», XLVII, 1950, 468 ss., Gioco e scommessa. Transazione, in «Trattato di diritto civile» - cur. A. Cicu, F. Messineo -, XXVII.2, Milano 1954, 139 ss.), hanno fatto riferimento, contrapponendosi ai sostenitori della natura «costitutiva», eminentemente rappresentati da Francesco Santoro Passarelli (La transazione I 2, Napoli 1963). Non bastassero le dispute di pochi decenni or sono, risulta evidente, anche in opere assai più recenti, come la dottrina sia ancora pervasa da qualche consistente dubbio sulla natura e le caratteristiche essenziali del contratto di transazione: cfr. E. Del Prato, La transazione, Milano 1992, 1, che scrive, proprio in apertura del proprio studio: «la nozione fornita dall’art. 1965 cod. civ., secondo cui ‘la transazione è il contratto col quale le parti facendosi reciproche concessioni, pongono fine a una lite già incominciata o prevengono una lite che può sorgere fra loro’, non individua un tipo contrattuale in base al contenuto di una o entrambe le prestazioni, ma descrive una funzione assolvibile da qualsiasi prestazione di cui le parti possono disporre: porre fine a una lite già incominciata o prevenire una lite che può sorgere». Si veda anche la posizione di P.G. Monateri, citata e analizzata, insieme alle precedenti, in M.A. Fino, L’archetipo contrattuale transattivo cit. 405 ss.

 

[119] Rec. cit. 13.

 

[120] Rec. cit. 28.

 

[121] Se infatti il codice civile colloca la transazione fra l’anticresi e la cessione di beni ai creditori, ovvero tra due modi di estinzione delle obbligazioni, la dottrina non accoglie supinamente questa impostazione. Con anticresi (art. 1960 cod. civ.) e cessione di beni ai creditori (art. 1977 cod. civ.) si fa infatti riferimento, in un modo unitario che pare condivisibile, a situazioni di «soggezione volontaria alle conseguenze della responsabilità patrimoniale» (l’espressione è presa a prestito da A. Trabucchi, Istituzioni di diritto civile 39, Padova 2000, 615) il cui comune denominatore è la funzione satisfattoria. In ogni caso con riferimento ad anticresi e cessione dei beni la gamma di inquadramenti possibili è ristretta a due caratteristiche funzionali, vale a dire la garanzia o la soddisfazione dei creditori. Infatti il Trabucchi dedica a queste due fattispecie un paragrafo inserito nella trattazione della tutela del credito e delle garanzie dell’obbligazione ben lontano dal § 361, dedicato alla transazione e collocato in apertura dell’organica disamina dedicata ai «contratti diretti alla soluzione di controversie», ove essa si trova esaminata in compagnia del compromesso, anche se l’inquadramento sistematico del Trabucchi non è condiviso da tutta la dottrina (e trattandosi di transazione, occorre dirlo, ci si stupirebbe del contrario). Il filone più consistente fra gli autori di manuali è quello che tratta la transazione unitamente alla cessione dei beni, ma separatamente dalla anticresi: P. Trimarchi, Istituzioni di diritto privato 12, Milano 1998, 499 ss., trattando dei contratti diretti a dirimere controversie (cap. LXVIII) si occupa di transazione e cessione dei beni ai creditori. In questa direzione anche A. Torrente, P. Schlesinger, Manuale di diritto privato 16, Milano 1999, 606 ss., che separano le trattazioni dell’anticresi e della cessione dei beni ai creditori, inserendo la prima fra i contratti diretti a costituire una garanzia e includendo la seconda invece nel gruppo dei contratti diretti a dirimere una controversia insieme alla transazione, seguiti su questa rotta da V. Franceschelli, Introduzione al diritto privato 2, Milano 2000, 1065 ss., il quale peraltro aggiunge alla transazione (§ 290) e alla cessione dei beni (§ 292) il sequestro convenzionale (§ 293), il cui ruolo fra i «contratti per la soluzione di controversie» (titolo, appunto, del capitolo in esame, il IX) risulta ancora più oscuro di quanto non sia quello della cessione dei beni. Benché infatti appaia diffuso in dottrina il convincimento che la cessione dei beni ai creditori sia un contratto volto a dirimere una controversia, non pare che una simile posizione possa essere condivisa, stante il fatto che il contratto disciplinato dagli art. 1977 ss. mira a evitare l’avvio di una procedura esecutiva su istanza dei creditori, non a eliminare una situazione attualmente o potenzialmente litigiosa. Presupposto della cessione dei beni ai creditori è infatti che il credito vantato nei confronti del cedente sia stato accertato giudizialmente o per lo meno da questi riconosciuto: risulta quindi illogico pensare a una controversia da scongiurare mediante il contratto, giacché mancano del tutto l’incertezza e/o la contrapposizione. Diversamente dagli altri autori, F. Galgano, Diritto privato7, Padova 1999, 627 ss., tratta della transazione, dell’anticresi, della cessione dei beni ai creditori e del sequestro convenzionale nello stesso capitolo, indicato con la rubrica «I contratti nelle liti», forse non felicissima, data la superfluità di un conflitto in corso per l’impiego del contratto di anticresi o della cessione dei beni ai creditori. Anche P. Gallo, Istituzioni di diritto privato, Torino 1999, 644, utilizza quest’ultima rubrica per il capitolo dedicato, però, solo alla transazione e alla cessione dei beni ai creditori.

L’excursus proposto non presenta, e non intende presentare, caratteristiche di completezza né, tantomeno, di disamina, ma semplicemente fare cenno a quelli che sono oggi i manuali di riferimento per i corsi di istituzioni di diritto privato nella maggioranza delle facoltà di giurisprudenza italiane, onde metterne in luce un carattere ben preciso: nessuno dei testi presi in considerazione, a eccezione di quello del Galgano, rispetta la sistematica del codice civile. Il dato è significativo alla luce del fatto che emerge come l’unico negozio sicuramente costruito per dirimere le controversie sia la transazione (e il dato si deduce anche dalla possibile, rudimentale collazione dei manuali citati): per quanto concerne le altre figure, a essa da taluno accostate si assiste alla più ampia fluttuazione, giacché nel raggruppamento di volta in volta coniato entrano figure assai diverse, dal sequestro al compromesso.

 

[122] P.G. Monateri, Questioni generali in materia di transazione, in La transazione nella prassi interna ed internazionale (cur. E. Andreoli), Padova 2000, 38.

 

[123] Cfr. M.A. Fino, L’archetipo contrattuale transattivo cit. 406 nt. 3; 458.

 

[124] G. Gitti, L’oggetto della transazione, Milano 1999, 14 ss. (spec. 23 nt. 64).

 

[125] F. Arangio, La transazione, Torino 2004, 2 s.; G. Gennari, La risoluzione della transazione novativa, Milano 2005, 67 ss.

 

[126] M. Franzoni, La transazione, Padova 2001, 14 ss.

 

[127] M.A. Fino, L’archetipo contrattuale transattivo cit. 446 ss.

 

[128] L’indirizzo ricordato scaturisce dalla sentenza Cass. 6 gennaio 1983 n. 75, in «Massimario Giustizia Civile», 1983, 26 s., in cui la corte, per riconoscere la natura di concessione delle prestazioni descritte in una quietanza portata a prova di una avvenuta transazione, ha richiesto che dalla scrittura risultasse su quali pretese andasse «ad incidere l’effetto abdicativo del negozio». Cfr. M.A. Fino, L’archetipo contrattuale transattivo cit. 452 nt. 193.

 

[129] F. Santoro Passarelli, La transazione I2 cit. 14.

 

[130] Cfr. M.A. Fino, L’archetipo contrattuale transattivo cit. 446 ss. e, in modo particolare, l’esame delle posizioni di Franzoni (452 nt. 195) e Palazzo (452 nt. 196).