N. 5 – 2006 – Contributi

 

Livio Paladin storico della Costituzione repubblicana*

 

Giovanni bianco

Università di Sassari

 

 

Multum egerunt qui ante nos fuerunt, sed non peregerunt

Seneca, Ad Lucilium, Ep. LXIV.2.9.

 

 

1. – Un’opera è stato un importante riferimento nella lettura di Per una storia costituzionale dell’Italia repubblicana di Livio Paladin[1]: si tratta delle Lezioni di metodo storico di Federico Chabod. Ed in particolare di due pensieri, tra i più fondamentali dell’intero saggio monografico: «la conoscenza storica è conoscenza del “vero”»; «la cosiddetta “realtà esterna” a noi, non riusciamo mai ad afferrarla se non attraverso noi stessi, cioè attraverso le nostre sensazioni e i nostri sentimenti: e questa è poi la materia che il nostro pensiero elabora criticamente»[2].

Ora, è fuor di dubbio che la storia costituzionale di Paladin è costantemente animata da questa ricerca del “vero” in senso storico, attraverso il suo personale punto di vista, che è quello di un acuto costituzionalista laico che ha prestato sempre viva attenzione alle norme ed alla giurisprudenza, specie a quella costituzionale, per poi scendere nel vivo della lotta politica, sino ai meandri più oscuri (e torbidi) della storia repubblicana, interrogandosi con puntualità sul “farsi” della storia politica.

E’ storia scritta da un «giurista puro»[3], come ben nota Enzo Cheli nella sua introduzione all’opera, ma si tratta di un «prodotto maturo», pur se incompiuto per l’immatura scomparsa dell’Illustre Maestro (giunge sino alla fine del 1972, con riferimenti preziosi a vicende politiche e costituzionali successive, della metà degli anni ’70), che a ben vedere porta a compimento una profonda sensibilità storica, che il Paladin ha sempre dimostrato di possedere.

Si ponga mente, sul punto, all’introduzione storica al manuale di Diritto Regionale[4], o ai sempre pregevoli riferimenti storici contenuti nel manuale di Diritto Costituzionale[5], per citare due esempi tra i più immediatamente individuabili.

Ma nell’opera di cui si discorre Paladin compie un passo ulteriore: come nota Cheli, «il giurista che ha raggiunto la maturità attraverso la completa padronanza del dato normativo» adotta «un metodo in grado di perforare questo dato e di collocare le vicende costituzionali nella dimensione più ampia della trama sociale e politica di un determinato Paese»[6]; «in questo senso, si può cogliere in queste pagine proprio il segno di una maturità raggiunta, che sente il bisogno di allargare i propri orizzonti ponendosi alla ricerca delle radici più profonde della propria vocazione».

Vocazione che non significa rinuncia «al rigore delle categorie proprie del giurista”, ma “progressivo e consapevole spostamento della scienza costituzionale dal terreno delle analisi normative a quello della misurazione delle dinamiche istituzionali»[7].

E questo per il tramite di un costante interesse per la «Costituzione vivente», per «quel complesso di regole che si collocano al di là della Costituzione scritta», e che, secondo Paladin, rappresentano «il più grande fattore di complicazione delle scienze costituzionalistiche»[8].

Sul punto si deve notare che mentre Paladin rifiutò sempre la categoria mortatiana della “Costituzione materiale”, ha costantemente cercato di individuare la traduzione di «un certo modello costituzionale…in concrete realtà istituzionali»[9], con il riferimento e l’utilizzo della “Costituzione vivente”, nozione anche utilizzata dal Giannini.

E lo ha fatto arricchito dalla sua personale esperienza, sia di docente universitario che di “uomo delle istituzioni”, in particolare di giudice costituzionale e di ministro della Repubblica.

Qui torna d’ausilio l’insegnamento chabodiano: Paladin nella sua storia costituzionale fa emergere la sua esperienza personale attraverso, ad esempio, i molteplici richiami alla giurisprudenza costituzionale; così come lascia trasparire la sua passione civile, nella difesa di una idea “alta” di democrazia e nella critica pungente di gravi derive partitocratriche.

Insomma, non resta un “osservatore neutrale” sulla soglia della storia che analizza.

Ciò si nota dalle prime pagine dell’opera, dalla parte dedicata alla «tregua istituzionale» ed ai diversi compromessi politici che determinarono la scelta del referendum istituzionale del 2 giugno 1946.

Ma soprattutto, e questo a nostro avviso è un aspetto di grande importanza, la sua è storia scritta da un giurista, e quindi storia definibile “specialistica”, che si apre alla “storia degli storici” quando si tratta di analizzare nodi politici cruciali della storia politica della Repubblica italiana: così, per portare un primo esempio, il tema della natura del compromesso costituzionale del 1946, tra la cultura cattolica, quella laica d’ispirazione prevalentemente crociana e quella marxista.

Il giurista Paladin è attento nel riepilogare le caratteristiche della forma di governo italiana nel biennio dell’Assemblea Costituente, in particolare la spettanza della potestà legislativa, in quel periodo in gran parte attribuita al Governo, e l’organizzazione dei lavori dell’Assemblea Costituente, con l’istituzione della Commissione dei 75, con il compito di predisporre e presentare un progetto di Costituzione.

Ma, nell’entrare nel vivo della complessa stesura della Carta Costituzionale del ’48, richiama con senso critico le tesi degli storici (Pombeni, Scoppola), affianco a quelle dei giuristi (Guarino, Balladore-Pallieri, Cheli), senza mostrare particolare entusiasmo per il compromesso costituzionale accettato dalle maggiori forze politiche, sebbene «le posizioni assunte in partenza dai diversi schieramenti non erano affatto di tipo compromissorio»[10], inteso più come un «compromesso garantistico» che come un «compromesso ideologico».

Paladin rifiuta una «grossolana idea del compromesso»[11], sottolinea che «compromissoria non è l’intera Carta ma soltanto la “Costituzione economica”», «il terreno sul quale si sono scontrate concezioni antitetiche (o profondamente diverse), senza che il testo costituzionale faccia intendere quali siano i vincitori e quali gli sconfitti». Quindi viene richiamato il testo finale dell’art. 41 Cost., che garantisce la libertà d’iniziativa economica privata, limitandola in modo così stringente, anche per l’«onnicomprensivo limite» dell’«utilità sociale»[12], da risultare, secondo l’opinione dell’illustre autore, peraltro difforme da quella di chi scrive, una norma «anfibologia».

Si pone dappresso in evidenza la natura polisensa della tutela costituzionale della proprietà privata, secondo Paladin fortemente limitata dalla clausola della «funzione sociale», grazie alla quale da un lato si è consentito «che la mano pubblica assumesse in Italia dimensioni inusuali nel mondo occidentale», dall’altro ha permesso «che la giurisprudenza costituzionale ragionasse di un contenuto essenziale delle situazioni proprietarie, non sopprimibili ad arbitrio da parte del legislatore ordinario»[13].

Al di fuori di queste norme sui “rapporti economici”, per Paladin, «insistere sul carattere compromissorio delle soluzioni adottate dall’Assemblea sarebbe invece inesatto e fuorviante se non altro nella gran parte dei casi»[14].

Per cui, secondo questa ricostruzione, più che di compromesso, si può parlare di «generali o larghissimi consensi» di cui «hanno formato l’oggetto» «numerosi ed importantissimi precetti costituzionali», e questo con riguardo sia alla disciplina costituzionale dei «rapporti civili», sia con riguardo alla forma italiana di governo.

Il giudizio complessivo sul testo costituzionale focalizza una grossa ed insuperabile contraddizione, che secondo Paladin influenzerà fortemente lo snodarsi della storia repubblicana: da una parte la Costituzione è “garantista” in tema di libertà e diritti civili e politici e “lunga”, dedicando ampio spazio alla tutela dei diritti sociali e dei rapporti economici, nonostante, secondo il Nostro, le aporie richiamate; dall’altra la forma di governo parlamentare accolta nel testo costituzionale non razionalizza a sufficienza il sistema parlamentare stesso, poiché i principali esponenti delle maggiori forze politiche furono concordi «nel senso che i partiti dovessero in sostanza rimanere liberi, per manovrare a proprio piacimento i congegni della forma parlamentare»[15].

Il realismo paladiniano non concede, perciò, alcun spazio a giudizi storici affrettati o ottimistici sull’Assemblea Costituente.

Certamente, si sottolinea l’ampio consenso che vi fu sull’ordine del giorno Dossetti, sulla «precedenza sostanziale della persona umana» e sulle proclamazioni di base dell’art. 2 Cost., in particolar modo sul riconoscimento costituzionale dei «diritti inviolabili dell’uomo», che «ha segnato un profondissimo distacco fra le ideologie dei costituenti e quella “scienza giuridica” di stampo ottocentesco»[16]. Si pone anche in risalto la «vittoria della sinistra», che si realizza con l’approvazione del testo dell’art. 3, comma secondo, Cost., del principio d’eguaglianza sostanziale.

Ma si afferma contestualmente, quasi a voler circoscrivere l’effettiva portata innovativa di quella norma, che si trattò soltanto di «una rivoluzione promessa», così riprendendo la celebre frase del Calamandrei.

A ben vedere le osservazioni critiche del Paladin, peraltro non condivise dallo scrivente, ma indubbiamente puntuali e ben argomentate, lasciano emergere l’ampio iato sussistente tra la Costituzione scritta, la cultura dei padri costituenti, gli indirizzi di pensiero che dominarono il dibattito in sede di Assemblea Costituente e la reale configurazione del sistema politico italiano, totalmente influenzato dal quadro politico internazionale, e del sistema economico italiano, segnato dal conflitto bellico, caratterizzato dal dualismo tra Nord e Sud del Paese ed ancora in ritardo con riferimento al decollo del settore industriale.

Insomma: le novità non nascono per fratture, ma per complesse mediazioni che portano anche una forza politica di classe e popolare, quale il P.C.I., ad assumere un atteggiamento cauto e realista in diverse circostanze e più moderato dell’altro importante partito della sinistra, il P.S.I.

E la Repubblica italiana non nasce come un quid novi, scisso dalla storia politica ed istituzionale antecedente, da qui il giudizio “continuista” e non “discontuinista” del Paladin sul rapporto tra Repubblica e Stato fascista, tra ordinamento costituzionale democratico ed ordinamento statutario monarchico.

Anche sul tema il realismo paladiniano significa esame attento dei fatti storici e delle fonti che interessano alla storia giuridica, ricerca dell’essere, ossia della verità che lo storico indica al di là delle apparenze e che non può essere ipotizzabile, ma deve essere documentata e documentabile nella ricerca della «causa prima» (o delle «cause prime») dei fatti politici.

Questi ultimi, ci si consenta il ricorso al linguaggio di Francesco Guicciardini, concernono gli «innumerevoli esempi» di «instabilità», «errori vani» e «variazioni della fortuna», le «calamità d’Italia»[17].

Cioè, per tornare all’indagine paladiniana, una storia repubblicana ricca di ritardi, aggrovigliamenti, misteri, inattuazioni costituzionali, faticose realizzazioni.

Entriamo in medias res. L’esame della prima legislatura repubblicana mette ben in luce il «congelamento costituzionale».

Esauritasi l’esperienza politica dei governi delle ampie intese tra le maggiori forze politiche, la D.C., il P.C.I. ed il P.S.I., nel 1947, archiviata la stagione delle grandi speranze di cambiamento politico, anche per causa del contesto internazionale, rigidamente diviso in “due blocchi” e sempre più pervaso da un clima di “guerra fredda”, e dell’adesione italiana alla N.A.T.O., il problema dell’attuazione costituzionale viene rinviato sine die e la consistente vittoria del partito democristiano, che il 18 aprile 1948 ottiene la maggioranza assoluta dei seggi in Parlamento, determina, anche per la successiva e costante esclusione del P.C.I. dal governo del Paese («conventio ad excludendum»), una democrazia incompiuta, fondata sull’assoluta centralità del partito d’ispirazione cattolica, sempre e necessariamente al Governo.

L’assetto di poteri ed organi costituzionali, dettagliatamente disegnato dal Costituente del ’48, resta lettera morta.

Scrive Paladin che «in seguito alle elezioni politiche del 18 aprile 1948, come pure negli anni immediatamente successivi, le sole istituzioni funzionanti, fra quelle prevista dalla Carta Costituzionale, erano le Camere del Parlamento, il Presidente della Repubblica e il Governo. Lo stesso Senato non corrispondeva pienamente … al modello prefigurato dagli articoli 57 e seguenti della Costituzione»[18]. E «nel rapporto fra gli organi costituzionali in atto, fino alla tarda primavera del 1948, venne comunque ad instaurarsi una sorta di sistema parlamentare puro, che funzionava indipendentemente da quasi tutti i contropoteri e gli altri meccanismi di garanzia indicati dalla Costituente. A fronteggiare il raccordo Governo-Parlamento, fondato sul rapporto di fiducia, stava infatti il solo Einaudi, eletto Presidente della Repubblica al quarto scrutinio; ma il Capo dello Stato affiancò De Gasperi, offrendo al Governo i propri pareri e i propri ammonimenti, piuttosto che porsi in aperta antitesi all’esecutivo»[19].

Peraltro, il Presidente del Consiglio dei Ministri, essendo il leader del partito di maggioranza assoluta, somigliava «ad un Primo ministro di stampo britannico», con una «posizione personale» «molto forte, qualunque fosse il testo normativo di riferimento»[20], pur nell’ambito della «scelta deliberata delle coalizioni interpartitiche di centro, in luogo dei governi formati dalla sola Democrazia Cristiana», e pur entro il rispolveramento del «vetusto decreto n. 466 del 1901, sulle competenze del Consiglio dei ministri» («nell’impossibilità di riferirsi alla legislazione fascista sul Capo del Governo»), che esaltava «il principio della collegialità governativa, indebolendo sul piano giuridico il Presidente del Consiglio». Il giudizio del Paladin sulle «attuazioni costituzionali strettamente intese» compiute dai governi De Gasperi è giustamente critico. Ritiene l’insigne costituzionalista che «negli anni introduttivi della prima legislatura, De Gasperi e la sua maggioranza seppero peraltro realizzare ben poco»[21], ed «a partire dal giugno ’48… fu il Governo ad assumere le proposte necessarie per attuare la Costituzione…, spettò al Governo il compito di selezionare le iniziative stesse…»[22].

Sicché, «sulla base di scelte squisitamente politiche» si attuò «il congelamento della Costituzione», attraverso l’esclusione dell’attuazione di previsioni costituzionali, l’individuazione delle poche norme costituzionali da attuare in un breve arco di anni, il rinvio a tempi lontani dell’attuazione della gran parte delle previsioni costituzionali, e questo a prescindere dalle «sollecite iniziative del Governo». Quel che è più grave è che, ovviamente per scelta politica, non avranno mai attuazione né i consigli di gestione delle aziende, contemplati dall’art. 46 Cost., istituto basilare della democrazia industriale e della democrazia economica, né la norma dell’art. 39 Cost., che disciplina le strutture e le funzioni dei sindacati, che è rimasta “lettera morta” e che non è stata mai né abrogata né revisionata, «salva la libertà di organizzazione sindacale»[23].

Paladin, inoltre, sottolinea con opportune osservazioni, che non si approvò una legge attuativa dell’art. 40 Cost., che tutela il diritto di sciopero[24] (nonostante il disegno di legge Rubinacci, ritenuto fondatamente inadeguato), non vi fu la volontà politica di riformare l’ordinamento giudiziario e di attuare la disciplina costituzionale in materia, così non ponendo in funzione il C.S.M., né le disposizioni costituzionali in tema di «organi speciali di giurisdizione», né la «complessiva giustizia militare»[25].

Sul punto l’autore lascia emergere una solida passione democratica e civile in quella che si chiamava “ricerca del vero”. Scrive, infatti, che «nel corso della prima legislatura repubblicana non si ebbe l’approvazione di leggi liberticide, neanche a carico del Partito Comunista e dei suoi sostenitori. Ma l’obiettivo di emarginare le sinistre fu spesso raggiunto per mezzo di norme risalenti al periodo fascista, che la maggioranza evitava di revisionare e dunque rendeva pur sempre applicabili»[26]. Al riguardo è citata la triste vicenda dell’insabbiamento della riforma del Testo Unico delle leggi di pubblica sicurezza per volontà del ministro Scelba.

L’inattuazione costituzionale è qualcosa di diffuso e pervasivo, espressione della volontà politica dominante, anche se si sottolinea opportunamente , citando Enzo Cheli, che una piena attuazione costituzionale sarebbe stata difficile ed impraticabile, considerato il quadro politico interno e quello internazionale. Paladin menziona il «congelamento della riforma regionale»[27] e delle «proposte destinate ad attuare il referendum», i ritardi ed i rinvii per l’approvazione delle leggi sulla giustizia costituzionale. E cita più volte Calamandrei, parlando di “arretramento” e non soltanto di “immobilismo” costituzionale, la crisafulliana nozione di “Costituzione tradita”[28], le critiche del Balladore-Pallieri, il “deliberato ostruzionismo della maggioranza”, locuzione dello stesso Calamandrei[29].

Altrettanto lucido e critico è il giudizio sul riformismo degasperiano, pur con l’evidenziazione dei suoi pregi. La riforma fondiaria, volta ad attuare l’art. 44 Cost. «fissando limiti all’estensione della proprietà terriera privata», per attuare il «razionale sfruttamento del suolo» e stabilire «equi rapporti sociali», si realizzò con due leggi del 1950, la legge “Sila” e la “legge stralcio”; ma la successiva attuazione normativa mise in luce «una serie di limiti e inconvenienti», tra cui le «insufficienti dimensioni delle aziende costituite al termine del processo espropriativi e redistributivo» e la «scarsa assistenza pubblica, finanziaria e tecnica». Purtuttavia, la riforma agraria fu frutto di «coraggio politico» e realizzò la «scomparsa della grande proprietà a coltura estensiva» nel Sud[30].

Così come la Cassa per il Mezzogiorno, ente istituito  con il lodevole intento di «predisporre e realizzare un piano di “opere straordinarie di pubblico interesse”» nel Mezzogiorno ed in alcune province del Centro, non evitò l’aumento del divario economico tra Nord e Sud ed i suoi stessi interventi finirono con «l’avvantaggiare le industrie e l’economia del settentrione»[31]. L’età degasperiana non è ancora il tempo del “regime democristiano”, purtuttavia si assiste ad un «crescente intervento della mano pubblica nel campo dei rapporti economici»[32], anche con l’istituzione dell’ENI (Ente nazionale idrocarburi) del 1953.

L’autore, dappresso, con il medesimo senso critico, affronta il tema delle «prime limitazioni della sovranità italiana» (le adesioni alla NATO ed alla CECA) e quello della “legge truffa” del ’53. L’ingresso dell’Italia nella NATO è definito quale «opzione…sostanzialmente necessitata», «fortemente sollecitato, se non addirittura imposto, dagli Stati Uniti e dagli altri patners occidentali», causa di «pesanti limitazioni di sovranità», pur parlando di «carattere irrealistico» delle «posizioni neutralistiche»[33]. Con particolare attenzione alla “legge-truffa”, la legge elettorale approvata nel ’53, che prevedeva un consistente  premio di maggioranza al partito o alla coalizione che fosse riuscita a superare il 50%, si parla di «grave e determinante errore politico imputabile a De Gasperi», mirante a «rafforzare la conventio ad excludendum relativa al Governo» nei confronti del partito comunista, ad «agevolare il “movimento pendolare” della D.C.» e ad «indebolire…gli stessi partiti alleati»[34]. Sul tema la valutazione storico-politica è esauriente, come l’analisi esclusivamente istituzionale (basta dare un attento sguardo alle citazioni di opere di storia generale e di storia istituzionale), e l’attenzione alla dimensione prettamente fattuale e politica emerge con tutta la sua forza espressiva, così costituendo il tessuto connettivo di pagine intense.

 

2. – La seconda parte dell’opera, su «la riscoperta della Costituzione», si segnala anzitutto per l’analisi della «forma di governo negli anni 1953-1960». L’illustre autore si sofferma anzitutto sulla sempre maggiore incidenza del «partito politico di massa» sugli assetti istituzionali e sulla forma di governo: «le forze politiche tradizionali tendono ad irrobustirsi, traducendosi in istituzioni stabili e capillarmente organizzate, i cui congressi (e consigli nazionali) contano politicamente ben più dei Consigli di ministri o delle ricorrenti riunioni delle Camere»[35].

Si coglie un’interessante analisi delle mutazioni della forma di governo, tesa ad individuare i nessi tra le dinamiche istituzionali e «gli attori della politica nazionale», «quasi tutti in movimento». Permane la “conventio ad excludendum”, ma il Presidente della Repubblica Gronchi afferma «l’esigenza di attrarre nuove forze  nell’orbita della politica democratica»; la D.C. si divide in correnti «a tal punto che gli esecutivi monocolori rappresentano pur sempre altrettanti governi di coalizione»; «i laici minori vanno alla ricerca di nuovi ruoli e di nuove legittimazioni»; «le destre…aspirano a far parte dell’area di governo»[36].

Paladin attraversa con attenzione le metamorfosi del sistema politico italiano dopo la prima legislatura repubblicana[37], parla di «forte instabilità politica e governativa», di «crisi semipermanente», «di esecutivi assai fragili, dotati in partenza di un carattere transitorio o amministrativo». Sottolinea, poi, come a partire dal ’53 il Presidente del Consiglio «non era più in condizioni di porsi come la guida della rispettiva coalizione di governo, ma doveva rassegnarsi a svolgere il ruolo di un paziente mediatore tra le forze costituenti la sua maggioranza»[38].

D’altro canto, la fragilità della forma di governo è ben radiografata con riferimento al Parlamento. Se, secondo l’opinione dell’illustre autore, il Governo «aveva le mani legate», a causa del crescente ed inarrestabile potere dei partiti politici, «le forze politiche organizzate, componenti le coalizioni governative» esautoravano «le assemblee parlamentari», «la democrazia fondata sui partiti avviliva il Parlamento»[39]. Nel triennio ’57-’60 sono frequenti le crisi extraparlamentari, «terreno principale dello scontro», «provocate da questo o da quel partito indipendentemente da un voto di sfiducia»[40].

Il che, pur non contraddicendo la Costituzione scritta, come notarono all’epoca Crisafulli ed Esposito, perché «la funzione dei partiti quali mezzi “per concorrere a determinare la politica nazionale” veniva non soltanto presupposta ma espressamente riconosciuta dall’art. 49 della Costituzione»[41], causò le giuste obiezioni delle opposizioni di sinistra, che criticavano «il fatto che crisi del genere stessero diventando la norma», «ed anzi offendessero il Parlamento nelle sue prerogative». Tuttavia, il Paladin nota come fosse illusorio ritenere che «una “parlamentarizzazione” delle crisi potesse in ogni caso agevolarne la risoluzione», «ed anzi il semplice fatto di rendere pubblici i motivi del dissenso faceva correre il rischio – in situazioni politiche come quelle italiane – di ostacolare la ricomposizione d’una maggioranza parlamentare, rendendo più difficili i compromessi necessari allo scopo»[42].

Oltre a queste importanti questioni, il tema della forma di governo negli anni del neocentrismo ebbe come motivo dominante, come «filo conduttore delle cronache costituzionali», le «dispute sul ruolo del Capo dello Stato».

Con l’elezione di Gronchi a Capo dello Stato si assiste ad «crescente influenza» di quest’ultimo. Anzitutto perché, a differenza di Einaudi, «espresso dalla maggioranza governativa di centro»[43], «Gronchi venne eletto – al quarto scrutinio – per effetto di una estemporanea convergenza di voti, promossa da un rappresentante dell’opposizione di sinistra quale Pietro Nenni. Prendeva in tal modo l’avvio quello che fu definito il “disgelo costituzionale». Quest’ultimo, peraltro, trovò immediatamente conferma nel messaggio introduttivo dello stesso Gronchi, «dove si poneva l’accento sulla “necessità” che la Costituzione venisse completata in tutti gli istituti da essa previsti». Inoltre, Gronchi «rivendicò il suo diritto-dovere di “segnare indirizzi ed orientamenti”, ogniqualvolta egli stesso  lo considerasse “essenziale agli interessi della Nazione”». Di conseguenza, «emersero in tal modo le cosiddette esternazioni presidenziali», «libere manifestazioni del proprio pensiero, che il Capo dello Stato soleva effettuare nelle occasioni e nei modi più diversi»[44].

Il ruolo del Presidente della Repubblica muta profondamente. Paladin parla di discorsi ed interventi pubblici che «hanno assunto un peso del tutto ignorato durante la presidenza di Einaudi», «tanto da far sostenere che essi avrebbero concretizzato un vero e proprio potere presidenziale, imprevisto dalla Costituzione e però inarrestabile, se non ricorrendo all’estremo e difficilissimo rimedio della messa in accusa»(e sul punto è citata l’acuta tesi del Motzo)[45].

La ricostruzione paladiniana del settennato di Gronchi entra nei più diversi risvolti dei rapporti istituzionali, segnala un non sempre controllabile attivismo presidenziale, che vuole incidere sulla formazione degli esecutivi in modo sempre più penetrante, che intende farsi portatore di una propria politica estera, che suscita perplessità e proteste[46]. Basta citare la controversa e discussa formazione dell’esecutivo Zoli[47], che spinse Scelba a definire il Presidente del Consiglio “ciambellano” del Presidente della Repubblica e Sturzo e Caristia a presentare un ordine del giorno «che sottolineava … i limiti costituzionali dell’attività presidenziale»[48].

Si descrivono anni convulsi, segnati dal lento tramonto del centrismo, in cui con molta probabilità il «protagonismo presidenziale» supplisce, nonostante tutte le sue distorsioni, alla estrema debolezza dei governi, ma ciò pone in evidenza, d’altra visuale, la complessiva instabilità dell’incompiuta democrazia italiana. Prova lacerata di ciò è l’atto conclusivo del centrismo, il governo Tambroni, unico esecutivo della storia repubblicana che ottenne la fiducia delle Camere con i voti decisivi della destra neofascista.

Anche su questa vicenda la descrizione dei fatti storici fornita dal Paladin è lucida: «gli scontri di piazza, tragicamente succedutisi nel giugno-luglio 1960 … hanno segnato … la fine del neocentrismo e l’esaurimento delle mire ambiziose del Presidente della Repubblica…». Questo pone in rilievo il corto respiro di un sistema politico caratterizzato da oscillazioni e sbalzi e privo di un ampio consenso democratico e soprattutto che è, comunque, quest’ultimo «a riplasmare di continuo il ruolo del Capo dello Stato e non viceversa»[49].

Ma è nel costante dissolversi del progetto politico centrista, nota Paladin, contraddistinto da «spiccata instabilità governativa», «che il Parlamento adottò parecchie deliberazioni – legislative e non legislative – di primaria rilevanza costituzionale». Senza dubbio il triennio 1955-1958 realizzò importanti attuazioni costituzionali e questo a partire dall’elezione di Gronchi e dalla caduta del governo Scelba, «caratterizzato da una chiusa logica centrista» e da una costante discriminazione nei confronti degli oppositori politici[50].

«La più importante conseguenza del nuovo indirizzo», osserva l’illustre autore, «fu la conclusione dell’estenuante processo formativo della Corte Costituzionale»[51]. Processo formativo rallentato anche nella sua fase conclusiva, successiva all’entrata in vigore della prima disposizione transitoria della legge n. 87 del ’53, anche per contrasti emersi tra le forze politiche di maggioranza e le opposizioni. Sul tema sono opportunamente richiamati alcuni indirizzi di pensiero sul «peso effettivo della Corte nell’ordinamento costituzionale italiano». In particolar modo, la tesi svalutativa dello Jemolo, che riteneva che il Giudice delle Leggi «comportasse una garanzia relativa», perché sempre in sintonia con l’interpretazione della Costituzione fornita dai partiti di governo[52].

La tesi paladiniana sul tema è difforme. Se da una parte l’esecutivo cercò di influenzare l’attività della Corte e le sue pronunce, «la Corte non poteva non assumere una piena competenza … negli anni iniziali del suo funzionamento» «in antitesi alle interessate sollecitazioni dell’esecutivo»[53]. L’insigne autore evidenzia pure come «la presenza dell’organo della giustizia costituzionale nel quadro politico si fece notare ripetutamente, ben oltre il sindacato sulla legittimità delle leggi anteriori alla Costituzione»[54]. E ricorda due episodi importanti: le dimissioni del Presidente De Nicola, del 10 marzo 1957, in risposta alle critiche di Pio XII alla Corte, «per stigmatizzare le decisioni in tema di libera manifestazione del pensiero»; la polemica tra il Presidente della Corte Azzariti ed il Presidente del Senato Merzagora sulla posizione della Corte nella forma di governo italiana.

Per cui, la Corte sin dal 1956 cercò di ritagliarsi un suo spazio entro i rapporti tra gli organi costituzionali, così incidendo con le sue pronunce sui meccanismi di funzionamento del sistema democratico. Si sottolinea «il coraggio e l’inventiva con cui la Corte Costituzionale arricchì la gamma delle sue pronunce, al di là dei disposti della Costituzione e della legge n. 87», oltre, quindi, il binomio “decisioni di accoglimento”-“decisioni di rigetto” previsto dall’Assemblea Costituente e dal Parlamento[55]. Infatti, sin dal 1956 «la Corte si avvalse delle sentenze interpretative di rigetto», in tal modo preannunciando le sentenze interpretative di accoglimento e le decisioni additive o manipolative degli anni sessanta e settanta, con cui vorrà quasi assumere (e questo con tutti i rischi connessi, considerato che i giudici della Corte non hanno un’investitura democratica e popolare) la «veste di una terza Camera del Parlamento»[56].

L’autore dedica, poi, diverse pagine all’istituzione del Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro (CNEL) e del Consiglio superiore della magistratura (CSM)[57], organi dello Stato la cui istituzione ed attivazione, pur se ritardata («le iniziative legislative del Governo rimontavano al 1954; ma la loro traduzione in leggi formali si ebbe appena negli anni 1957-58»), conferma la fase politica di «disgelo costituzionale» negli anni della Presidenza della Repubblica di Gronchi.

Così come quegli stessi anni furono decisivi per importanti scelte di politica estera incidenti sull’ordinamento costituzionale. Paladin approfondisce, infatti, la c.d. «restituzione di Trieste all’Italia», che dopo fasi alterne (e «velleità irrealistiche» ed “ambivalenze”), giunse ad un primo decisivo compimento con il d.p.r. del 27 ottobre 1954, che nominava un «Commissario generale del Governo» per Trieste (atto istitutivo contestato e ritenuto «palesemente incostituzionale»)[58]; il decreto commissariale emanato il 3 marzo 1955, «per estendere a Trieste i “principi generali dell’ordinamento giuridico dello Stato italiano”»; la legge ordinaria n. 493 del 1956, «che rese possibile la partecipazione dei cittadini di Trieste alla elezione della Camera dei deputati»[59].

Così come è dedicata attenzione al Trattato istitutivo della CEE, del 1957[60], in cui, secondo il Nostro, l’esecutivo italiano «dimostrò una rara preveggenza ed una notevole capacità propositiva», nonostante la novità del Trattato CEE, quasi che «non incidesse – sia pure in prospettiva – sull’ordinamento costituzionale e sull’intero sistema normativo dello Stato italiano»[61], non fu colta né dai costituzionalisti né dai cultori di diritto interno. Cosicchè, «la posizione del Governo e della maggioranza, in vista della ratifica dei Trattati di Roma, fu curiosamente nel senso che quegli accordi non comportassero alcuna limitazione della sovranità, bensì il congiunto esercizio di poteri spettanti ai singoli Stati»,e questo sebbene «il Trattato istitutivo e l’intero ordinamento della CEE non rimanevano avulsi dall’ordinamento di ciascuno Stato membro, ma condizionavano le rispettive legislazioni, integrandosi con esse».

Al riguardo il Paladin ricorda l’importante sentenza n. 14 del 1964, in cui il Giudice delle Leggi, «nel decidere sul preteso contrasto fra la legge istitutiva dell’ENEL ed il Trattato CEE», «sostenne … che l’Italia fosse ancora libera di derogare in via legislativa alla legge n. 1203»(che recepì il Trattato CEE nell’ordinamento giuridico italiano), «senza perciò contraddire l’art. 11 della Costituzione»[62]. Quest’ultimo assunto fu dappresso modificato dalla giurisprudenza costituzionale, a partire degli anni settanta, «per non collidere con gli orientamenti delle istituzioni comunitarie (e specialmente della Corte europea di Giustizia)».

La seconda metà degli anni cinquanta, secondo il Paladin, lascia, comunque, irrisolti non pochi problemi e ne propone di nuovi, che si espanderanno poi negli anni sessanta.

Anzitutto, la “vexata quaestio” della riforma della pubblica amministrazione, anche per attuare l’art. 97 Cost., i principi costituzionali dell’imparzialità e del buon andamento amministrativo. Gli esecutivi e la maggioranza parlamentare non raccolsero «gli spunti offerti dai lavori della Commisione Forti, presso il Ministero della Costituente». L’illustre autore analizza un quadro organizzativo che ricorda, si consenta la metafora, “il disordine costituito” di cui parla il filosofo Emanuel Mounier o il “disordine del mondo” del “Sillabario” dello scrittore Goffredo Parise. Si parla, infatti, di «scarsa efficienza» e «crescente gigantismo di stampo tradizionale»; di lentezza delle procedure”, “frammentazione” e «settorializzazione degli apparati», di «sorda resistenza che l’amministrazione opponeva alle riforme funzionali ed organizzative»[63]. Perciò, si muovono anche critiche ai criteri organizzativi contemplati dal Testo unico n.3 del 1957, sulla disciplina delle “carriere” del personale amministrativo.

Più che riformare l’amministrazione statale tradizionale, si costituirono amministrazioni parallele, quali la Cassa per il Mezzogiorno o la Federazione dei consorzi agrari, e gli enti pubblici «autonomi di gestione» (IRI, ENI, già istituiti dal fascismo) del sistema delle partecipazioni statali, così come razionalizzato dall’ordinamento dell’economia pubblica disciplinato dalla legge 22 dicembre 1956, n. 1589, che introdusse i “criteri di economicità” degli enti di gestione stessi (formula peraltro ambigua e criticata dal Paladin, che non produsse gli effetti sperati)[64].

L’insigne costituzionalista muove rilievi critici al funzionamento del sistema delle partecipazioni statali, divenuto poi uno strumento di occupazione dello Stato da parte dei partiti al potere[65].

Ora, il tema è puntualmente ricollegato al ruolo costituzionale dei partiti politici, che, da strumenti essenziali di partecipazione politica democratica, divennero “centri di potere” che attuano il «perverso utilizzo di risorse pubbliche»[66] per finanziare la propria attività politica. «Ipertrofico aumento della spesa pubblica», “corruzione”, «occupazione dello Stato complessivamente inteso»: sono questi gli argomenti che tra gli anni cinquanta e sessanta connotano il discorso storico-politico e costituzionalistico sulle forze politiche di maggioranza e sulla D.C.

Ed il Paladin chiude provvisoriamente il discorso sul tema, poi ripreso nel capitolo quarto, con una domanda profonda e presaga: «quale poteva essere, infatti, l’avvenire del regime democratico, dal momento che i partiti tendevano a non assolvere più il loro ruolo essenziale?»[67].

Così come è realisticamente pessimista il riferimento ai «primi passi della programmazione economica» degli anni ’50. Il “Piano Vanoni”, intitolato “Schema di sviluppo dell’occupazione e dei redditi in Italia nel decennio 1955-1964”, «non riuscì ad incidere notevolmente né sugli sviluppi complessivi del Paese né sulla stessa azione di governo, nel corso degli anni del neocentrismo … il boom economico, a cavallo tra gli anni cinquanta e sessanta, si mosse in direzioni ben diverse da quelle programmate…». Manca ancora una programmazione economica generale, ma gli obiettivi del Piano Vanoni furono inadeguati rispetto alla tumultuosa espansione economica.

Pur non condividendo la forte diffidenza del Paladin verso la programmazione economica, che dappresso richiameremo più diffusamente, se ne deve riconoscere l’indubbia aderenza ad aspetti non trascurabili della realtà storica ed economica.

 

3.1. – L’autore torna ad affrontare questi ultimi temi nel quarto capitolo, sulla preparazione e l’avvento del «centro-sinistra organico».

Il progetto politico neo-centrista si dissolse, come suscritto, con la cruenta fine dell’esecutivo Tambroni. Mutato il quadro internazionale, con la presidenza Kennedy e la fine dello stalinismo, e venuto meno il veto vaticano ad un allargamento dell’area di governo al P.S.I., nel luglio del 1960 fu varato il governo Fanfani delle “convergenze parallele”[68], «sorretto dalla determinante astensione del P.S.I.»; esecutivo che, pur vivendo «una vita stentata», realizzò il «periodo più vitale del centro-sinistra», «ancora incompiuto come formula, sia quanto alla maggioranza governativa, sia quanto alla composizione del Governo, ma capace di realizzazioni incisive, che sarebbero invece difettate nel caso dei governi Moro della successiva legislatura».

Mentre il giudizio di Paladin sul “centro-sinistra organico” è severo, parlando di «esperienza centrista» priva di «profonde novità» (pur scrivendo che si deve tener conto, nella valutazione storica, «delle trasformazioni subite dalla società italiana negli anni sessanta») e non evidenziando pienamente l’intelligenza politica di Aldo Moro[69] (definito come una sorta di «mediatore dell’immobilismo», a capo di esecutivi troppo divisi ed immobili) e l’importante novità della presenza socialista negli esecutivi, la «spinta politica innovativa» del governo Fanfani è pienamente valorizzata.

Si sottolinea, infatti, sul tema, l’importanza della legge n. 1643 del 1962, che nazionalizzò l’ENEL, sulla base dell’art. 43 Cost.[70], e della legge n. 1859 dello stesso anno, che «ridisciplinava la scuola media in dichiarata esecuzione dell’art. 34, quanto alla protrazione dell’obbligo scolastico “per almeno otto anni”», pur costituendo «l’approvazione e l’applicazione di tali atti … il frutto di vicende ben altrimenti problematiche»[71].

Il biennio ‘62-’63 è un crocevia di grande importanza. La fragile democrazia italiana si mostra incapace di portare a compimento le tendenze politiche riformiste.

Paladin ricorda giustamente il sacrificio dello schema di legge urbanistica predisposto dal Ministro Sullo (che poi scrisse sul tema un bel libro, Lo scandalo urbanistico), «che prospettava una disciplina assai complessa e fortemente innovativa dell’intera materia»[72]; sottolinea le spinte conservatrici dei settori politici più moderati del partito democristiano, anche preoccupati degli eventuali esiti della consultazione del 1963. E ritorna sul forte e significativo ritardo nell’attuazione del Titolo V della Costituzione e del regionalismo, ricordando che tra il ’62 ed il ’63 furono approvati due soli testi sulla riforma regionale, il “piano straordinario” per la rinascita della Sardegna e lo “Statuto speciale per la Regione Friuli-Venezia Giulia”.

Con eguale distaccato disincanto l’autore si sofferma sui successivi sviluppi del centro-sinistra e degli esecutivi retti da Aldo Moro. L’insigne autore evidenzia gli «aperti dissensi» tra democristiani e socialisti, la faticosa formazione del primo governo Moro e del primo governo “organico” di centro-sinistra, che causò gravi malumori nella destra democristiana, capeggiata da Mario Scelba, e la fuoriuscita dal P.S.I. di parlamentari della sinistra socialista, che diedero vita al P.S.I.U.P. Sul punto il Paladin mostra un’attenzione di rilievo all’analisi politologica: la D.C. viene descritta quale «un partito di correnti, destinate a mantenere un minimo grado di unità, per quanto si contrapponessero e si moltiplicassero», il P.S.I. è definito «un partito di frazioni fortemente ideologizzate, che non esitavano a scindersi là dove fosse in questione la loro identità»[73].

Quest’ultimo aspetto, secondo il Nostro, emerse anche nella breve esperienza dell’unificazione di socialisti e socialdemocratici nel P.S.U., che finì con la sconfitta politica del 1968, ed in cui «la parte residua della sinistra socialista continuò a recalcitrare».

Peraltro, l’analisi del centro-sinistra organico giunge a definire la maggioranza priva «di compattezza e di efficienza»[74], di unità e solidarietà, retta, da una visuale costituzionalistica, «dal principio del policentrismo ministeriale», per cui «la coerenza della politica governativa» non era «affidata a meccanismi giuridico-formali, bensì all’eventuale convergenza delle vedute dei soggetti interessati», e «venne anzi esasperata quanto ai molti Comitati interministeriali, che in quegli anni andavano affiancando il Consiglio dei ministri; giacchè si sostenne che ognuno di essi disponesse di competenze esclusive, laddove il Consiglio sarebbe stato dotato d’una competenza meramente residuale». Quest’ultima, secondo l’autore, costituì una delle anomalie del sistema di governo della quarta legislatura repubblicana.

Paladin evidenzia altre disfunzioni, quasi a voler rimarcare la pluralità di domande sociali cui l’esecutivo doveva far fronte ed i sempre instabili equilibri politici faticosamente raggiunti. Si legge, ad esempio, che i lavori del Consiglio dei ministri, che «si riuniva con una cadenza bisettimanale», si svolgevano «in modo affannoso, sulla base di ordini del giorno quanto mai affollati»; e che «dal canto loro…le Camere stesse apparivano in crisi», «se andavano montando le iniziative parlamentari, diminuiva il numero complessivo delle leggi approvate nel corso della quarta legislatura»[75].

Purtuttavia, l’autore riconosce che una qualche tendenza riformista vi fu, sia pure non corrispondente alle istanze programmatiche dei governi Moro e sia pure sempre criticata.

Si ricordano, ad esempio, la legge n. 756 del 1964, «che riuscì finalmente ad incidere in tema di patti agrari, ponendo il divieto di stipulare nuovi contratti di mezzadria»; la legge n. 303 del 1966, «che metteva fine alla scandalosa gestione della Federconsorzi, istituendo l’Azienda di Stato per gli interventi nel mercato agricolo (AIMA)»; la legge n.604 del ’66, «che tutelava il diritto al lavoro nelle imprese dotate di almeno 35 dipendenti»[76].

Senza dubbio, però, le conclusioni paladiniane più critiche e pessimiste riguardano «la parabola della programmazione economica negli anni sessanta»[77].

Il processo programmatorio, che inizia con la “Nota aggiuntiva” del ministro del bilancio La Malfa, presentata alla Camera il 22 maggio 1962, che si poneva come scopo il superamento degli “squilibri generati o accentuati dalla stessa espansione economica”, ebbe un percorso poco lineare e farraginoso, che culminò nell’unica legge di programmazione economica approvata,.la legge 27 luglio 1967 n. 685, che intese attuare la previsione costituzionale del terzo comma dell’art. 41 Cost.

Il discorso del Paladin non esita a parlare «di un pasticcio senza precedenti nell’intera storia costituzionale italiana»[78], ricordando il giudizio sarcastico di Fanfani (“un libro dei sogni”) e quello duro del Predieri (“legge beffa”), affermando che «quasi nessuna delle riforme destinate a saldarsi con il programma … entrò in vigore della quarta legislatura».

L’autore indaga, con ricchezza di riferimenti al contesto storico-economico, sulle cause del fallimento della programmazione economica. Sul tema il Paladin, ricordando le tesi di Lombardini e di Ruffolo, parla di assenza di «un’adeguata considerazione dei mezzi indispensabili» per l’attuazione degli obiettivi del Programma economico e di «mancanza di strumenti operativi efficaci»[79].

E’ scritto, altresì, che «non ebbe successo il tentativo di far rispettare il programma, a cavallo fra la quarta e la quinta legislatura, dal Governo e dallo stesso Parlamento»; che «il programma 1966-70 rimase largamente inapplicato … nella stessa parte concernente la finanza pubblica»; che il comitato interministeriale per la programmazione economica non riuscì ad esercitare in modo incisivo i poteri che gli erano stati attribuiti dalla legge n. 48 del 1967 che lo istituì[80].

Purtuttavia, le conclusioni del Paladin sono solo in parte condivisibili. Se è vero che sono mancati, sia nella fase ascendente che discendente, interventi organici per l’effettiva attuazione del programma, e che le pretese della legge di programmazione economica erano ampiamente generiche e difficilmente attuabili; non si può non evidenziare come lo sforzo programmatorio costituì il portato di una avvertita esigenza politica di riforma del sistema economico, di equa redistribuzione delle risorse, di superamento del divario tra Nord e Sud, pur nel rispetto dei vari modi di produzione coesistenti nel sistema economico nazionale. Insomma, di un “kòmbinat” di fattori (Ruffolo) che con interventi complessi (e talora frastagliati) cercava di attuare la Costituzione economica del ’48, nonostante i diversi errori commessi.

Paladin sull’argomento richiama, invece, il filosofo ed economista liberale Hayek, ritenendo che «la stessa idea di programmazione globale e pluriennale … era ed è viziata»[81].

Nonostante ciò, è indubbiamente da condividere la riflessione sulle «frequenti e spesso imprevedibili emergenze economiche e politiche», che «inducono o costringono anche i governi … a discostarsi di continuo dalle previsioni e dagli impegni programmatici, offrendo soluzioni scoordinate»; e quella sulle «interdipendenze delle varie economie», in cui è richiamata la crisi petrolifera degli anni settanta e l’integrazione tra l’economia italiana e quella degli altri Stati della Comunità europea, ritenendo opportunamente che la globalizzazione non sia solo «un fenomeno peculiare del periodo più recente»[82].

 

3.2. – Nell’analisi della forma di governo dell’età del centro-sinistra organico il Nostro analizza il ruolo svolto dai due Presidenti della Repubblica dell’epoca, Segni e Saragat[83].

Segni, esponente autorevole della D.C., fu eletto con una maggioranza risicata, con i voti del M.S.I., «in chiara antitesi rispetto all’emergente coalizione governativa» ed «ha inteso in modo assai penetrante le sue funzioni di controllo e di partecipazione alle scelte dell’esecutivo». Ma l’episodio controverso della Presidenza Segni fu la crisi dell’estate del ’64. Durante la formazione del secondo governo Moro, oltre alle consuete consultazioni, Segni incontrò anche alti ufficiali, tra cui il generale dei carabinieri De Lorenzo, di questi incontri «fu data pubblica notizia» ed essi furono pure intesi nel senso che «il Capo dello Stato intendesse risolvere la crisi travolgendo la formula del centro-sinistra». Quel che è più inquietante è che a distanza di pochi anni emerse che De Lorenzo «aveva predisposto il cosiddetto “Piano Solo”, tale da condurre la tutela dell’ordine pubblico ai limiti del colpo di Stato».

Sul tema la “passione civile” dell’insigne autore è il vero motivo dominante della ricostruzione proposta. La Commissione parlamentare d’inchiesta, istituita con la l.n. 93 del 1969, secondo il Paladin, «non ha dissolto interamente l’ombra così gettata – di riflesso – sulla Presidenza Segni». Se, infatti, la relazione di maggioranza ha concluso «nel senso che la responsabilità del piano fosse addebitabile a De Lorenzo», la più corposa relazione di minoranza, redatta da Terracini ed altri, ha ritenuto che il Presidente della Repubblica non poteva non essere a conoscenza dello stesso “Piano Solo”, così scavalcando il ministro della difesa.

Siamo dinanzi ad uno dei misteri irrisolti della storia repubblicana e la ricerca del “vero” storico non tocca più solo fatti noti, ma strategie occulte e rapporti personali non chiari. Si entra, perciò, in una «rete di connessioni» che va oltre la politica strettamente intesa e tocca sfere di interessi di una sorta di, volendo usare una metafora, «realtà sub-liminale», per riprendere una locuzione cara allo scrittore Manlio Cancogni. Sull’argomento è anche ricordata in nota «la finale testimonianza resa da Moro alle Brigate Rosse» sull’argomento[84].

Peraltro, la Presidenza Segni ebbe breve durata, per le condizioni di salute dello stesso Capo dello Stato, e dopo qualche mese di «impedimento temporaneo», che costituì un caso di assoluta novità, Segni rassegno le dimissioni.

Di altro natura fu la convergenza politica che si realizzò nell’elezione di Saragat, nel dicembre del ’64, di ampio respiro e comprensiva, novità rilevante, del voto del P.C.I., quasi a voler sottolineare uno stacco rispetto alla Presidenza Segni[85]. Saragat si volle immediatamente caratterizzare quale il «Presidente del centro-sinistra», anzi «difese ad oltranza la formula del centro-sinistra».

L’autore sottolinea, peraltro, «l’attivismo di Saragat» in politica estera; l’esercizio del potere di esternazione e di quello di grazia (che può considerarsi un potere «di stampo presidenzial-governativo»); la nomina di due uomini politici in attività, quali Leone e Nenni, a senatori a vita; l’utilizzo delle «supplenze parziali» del Presidente del Senato nel periodo di un viaggio presidenziale all’estero; il problematico rapporto tra il Capo dello Stato, quale Presidente del C.S.M. ed il C.S.M. stesso. Tutti elementi connotativi del settennato saragattiano, in cui sono rinvenibili fattori eterogenei rispetto alle precedenti presidenze. Ma, come ben ritiene il Paladin, «resta fermo che i profili più notevoli della presidenza Saragat siano stati quelli relativi ai suoi rapporti con il Presidente incaricato e con l’intero esecutivo»[86].

Insomma: con Segni e Saragat, nonostante le forti differenze tra le due presidenze, appare evidente che il Capo dello Stato sia soprattutto un «garante politico», «un soggetto immerso nel gioco dei rapporti politici fra i partiti e gli organi costituzionali di governo, che i suoi stessi atti concorrono ad influenzare, generando effetti politicamente rilevanti»[87].

Perciò, Saragat sostenne il secondo governò Moro nel ’65 e facilitò la formazione e la successiva attività del terzo governo del medesimo esponente politico nel ’66. Dopo le elezioni politiche del ’68 gli incarichi conferiti divennero, addirittura, “vincolati”, al fine di garantire la formazione di un esecutivo di centro-sinistra o, persino, di un «organico quadripartito».

 

3.3. – Gli anni del centro-sinistra, inoltre, nonostante le forti contraddizioni, si sono caratterizzati per «la crescita delle libertà individuali e collettive»[88].

Lo «sviluppo dei diritti di libertà (e delle altre situazioni soggettive costituzionalmente rilevanti)…tanto sul piano della normazione quanto in vista dell’applicazione delle leggi vigenti» è coinciso, «secondo un assunto di Cheli», con «una seconda fase dell’attuazione costituzionale propriamente intesa». L’autore menziona anzitutto la l.n. 66 del 1963 sul «conferimento alle donne del diritto di accedere a tutte le cariche, le professioni e gli impieghi pubblici, magistratura compresa». Ma ricorda altre importanti leggi, tra cui la legge per la ratifica e l’esecuzione del Trattato istituente la Corte europea dei diritti dell’uomo e la legge costituzionale del ’67 (e la conseguente legge ordinaria) relativa all’estradizione per i delitti di genocidio.

Si afferma «una più salda civiltà giuridica», la «dilatazione dello spirito di libertà» che esercita influenza sulla stessa applicazione delle leggi e sull’operato della magistratura ordinaria, ormai propensa ad «applicare direttamente la Costituzione» se ciò fosse «tecnicamente possibile», ed a ricorrere all’«interpretazione adeguatrice delle leggi ordinarie», «in conformità ai principi contenuti nella Costituzione»[89].

Paladin, inoltre, riconosce un ruolo di rilievo, nel “cammino” delle libertà durante gli anni del centro-sinistra, alla Corte Costituzionale, e questo soprattutto per le pronunce che, rendendo «inefficaci norme legislative del periodo statutario-fascista, compensando le omissioni del legislatore senza contrapporsi frontalmente al Parlamento repubblicano», hanno inciso sulla effettiva titolarità dei diritti civili e sul rafforzamento della protezione dei diritti soggettivi e degli interessi legittimi[90].

Ora, l’autore, con riferimento a ciò, parla di consonanza tra gli orientamenti giurisprudenziali del Giudice delle Leggi e «l’opinione pubblica di quel periodo», così sollevando una particolarmente attuale questione, quella dell’influenza delle aspettative dei giuristi, degli intellettuali e della sfera pubblica sugli indirizzi dell’organo di giustizia costituzionale.

 

3.4. – Le considerazioni paladiniane più suggestive di questo capitolo sono, però, quelle dedicate al ruolo delle forze politiche organizzate e dei sindacati negli anni del centro-sinistra. Oltre ad emergere una particolare finezza ricostruttiva, sono pagine che si segnalano anche per la costante attenzione prestata, oltre che alla dottrina costituzionalistica, anche alla dottrina politologica (in particolare alle ricostruzione del Farneti, del Galli e del Sartori)[91]. Le preoccupazioni dell’insigne autore riguardano anzitutto il “ruolo atipico” assunto dai partiti, i quali non erano più corrispondenti al modello costituzionale: «negli anni sessanta era già dominante l’avviso che l’essenza di tali associazioni non consistesse nel fungere da comunità intermedie fra il popolo e lo Stato-governo; bensì nell’essere fine a se stesse, quali organizzazioni rivolte ad acquisire e conservare posizioni di potere , a vantaggio di burocrazie partitiche ormai tendenzialmente chiuse».

I partiti di massa diventano partiti “pigliatutto”, «miranti a raccogliere consenso per ogni dove». La partecipazione dei cittadini alla vita democratica viene piegata ad esigenze di “basso profilo”: si ricorda il pernicioso fenomeno delle «tessere troppo sospette» nella D.C., con un ingrossamento incontrollato del numero degli iscritti. Ciononostante, si ritiene, in sintonia con il Farneti, che i partiti restassero, in ogni caso, strutture “di solidarietà” e non solo di “interesse”[92]. Ma l’ “espansione centrifuga” dei partiti e la loro insopportabile invadenza divennero smisurate, questo anche con riferimento alla pervasività dell’incidenza partitica sull’amministrazione pubblica.

Se a ciò s’aggiunge la particolarità del “quadro politico” italiano, dominato dal “bipartitismo imperfetto”, per riprendere il linguaggio di Giorgio Galli, e dalla “conventio ad excludendum”, cioè dalla “inamovibilità” della D.C. «quale fulcro delle coalizioni di governo», si spiegano bene alcuni gravi fenomeni, quali la corruzione entro il gigantismo degli apparati partitici, centrali e periferici e nell’ambito del crescente correntismo. Fenomeni che hanno poi assunto una pregranza fortemente degenerata nei successivi eventi della storia repubblicana, al punto da far esplodere l’intero sistema politico-partitico della prima Repubblica nella significativa vicenda c.d. di “tangentopoli”.

Peraltro, l’autore rileva come all’incipiente declino dei partiti faceva riscontro la crescita delle grandi confederazioni sindacali, la sempre maggiore “unità d’azione” delle tre confederazioni maggiormente rappresentative nell’ambito dell’autonomia sindacale dalle forze politiche di riferimento; «la tendenza dei sindacati ad esorbitare dall’ambito delle mere rivendicazioni salariali…, per dialogare in prima persona con gli organi statali di governo e per contribuire in questo modo alla definizione ed all’attuazione delle riforme legislative di rilievo economico-sociale»[93].

 

4.1. – L’ultima parte dell’opera purtroppo incompiuta riguarda la quinta legislatura repubblicana, il quadriennio 1968-1972.

Paladin esordisce accennando ad una fase storico-politica in cui inizia un lungo periodo, che durerà sino alla fine degli anni ’70, «di malfunzionamento delle istituzioni, aggravato dalla crisi generalizzata dell’economia nazionale: il periodo forse più difficile dell’intera storia repubblicana, anche nel confronto con i traumatici anni novanta»[94]. Ciononostante, sono anni in cui entrano in vigore diverse leggi ed altri atti normativi attuativi delle disposizioni costituzionali e nel sistema politico, come l’autore ben osserva, si cerca «un rinnovato rapporto tra le forze politiche del centro sinistra e il Partito comunista (anche se la conventio ad excludendum continuava e continuò ad imporsi per un lungo periodo, ben oltre le elezioni del ’72)»[95].

Sull’argomento il Paladin manifesta una forte diffidenza, non condivisa dallo scrivente, sia verso la formula socialista degli “equilibri avanzati”, sia con riguardo a quella democristiana dell’“arco costituzionale”, sia verso quella specificamente morotea della “strategia dell’attenzione”, sia, soprattutto, nei confronti di «prospettive ancora più ambiziose», quali il “compromesso storico” tra la D.C. ed il P.C.I. teorizzato da Berlinguer. Parla espressamente di “parole d’ordine” o “slogan”. Purtuttavia, si deve aggiungere che dietro a queste complesse formule politiche, contrariamente a quanto scritto dall’illustre costituzionalista, era talora ben presente sia un’esigenza di piena attuazione e di difesa della partecipazione democratica contemplata dal testo costituzionale, sia di «controllo delle masse sugli apparati». Però, le incisive analisi paladiniane in sede storico-politica sono notevoli se si pone in giusta evidenza la mancata (o parziale) realizzazione delle formule politiche surriferite ed il loro scarso rendimento storico, soprattutto alla luce della vischiosità ed impermeabilità dei vertici del sistema partitico italiano, specie del partito di maggioranza relativa.

A prescindere da ciò, è storicamente rilevante che le leggi attuative della Costituzione costituiscano un primo terreno d’incontro tra i partiti di governo e quello comunista e che, dal 1970, con la creazione delle Regioni ordinarie, il P.C.I. sia diventato una forza di governo a livello regionale, un partito «semi-accettato». La fase storica che si esamina è costellata da «governi nazionali … molto più fragili che nel recente passato, pur contraddistinto dalla debolezza e dalla conflittualità delle alleanze di centro-sinistra. Quella stessa formula non era più atta a costituire un punto comune di riferimento, sebbene si tentasse continuamente di rivitalizzarla, tanto ad opera del Capo dello Stato quanto da parte delle forze politiche già coalizzate». Anni particolarmente convulsi in cui la fisionomia dello Stato pluralista laico vacilla.

La vicenda dell’approvazione della legge sul divorzio è emblematica. La D.C. non potendone evitare il varo ottiene l’approvazione della legge attuativa della disciplina delle consultazioni referendarie. Non solo: il terzo governo presieduto da Mariano Rumor, come i due precedenti di durata molto breve, conseguì la fiducia il 29 marzo 1970, ma «inopinatamente il 6 luglio di quello stesso anno Rumor rendeva nota la propria determinazione a dimettersi; il che concretava, per la prima e unica volta nella storia repubblicana, l’ipotesi dottrinale di una crisi sostanzialmente voluta e causata dal solo Presidente»[96]. Si parlò di caduta dell’esecutivo per ragioni né extraparlamentari, né extrapartitiche. Motivi poi chiariti dallo stesso Rumor, nelle sue memorie, molti anni dopo, e riguardanti soprattutto «i difficilissimi rapporti fra il Governo e la Santa Sede per effetto della legge sul divorzio, la definitiva approvazione della quale si stava approssimando».

Ma anche il successivo governo Colombo, pur durando circa diciotto mesi, ebbe vita molto travagliata per i costanti dissidi tra i partiti della coalizione governativa, e cadde definitivamente, dopo “pseudocrisi” e “rimpasti”, poco dopo l’estenuante investitura di Giovanni Leone alla carica di Capo dello Stato, avvenuta con i voti della destra e senza quelli socialisti[97]. Questa vicenda politica, oltre a sancire l’ulteriore irreversibile declino del centro-sinistra, portò al primo scioglimento anticipato delle Camere della storia repubblicana, decretato da Leone il 28 febbraio 1972.

Peraltro, il modo in cui si giunse allo scioglimento anticipato da parte del Capo dello Stato è definito dallo stesso Paladin «la più manifesta … scorrettezza costituzionale commessa da Leone, durante il complessivo mandato presidenziale»[98]. Questo perché anziché rinviare il governo dimissionario presieduto da Colombo alle Camere, «per far constatare la formale rottura del rapporto fiduciario e finalmente sciogliere le Camere stesse, con un decreto controfirmato dal Presidente del Consiglio uscente; oppure … conferire un nuovo incarico per la formazione di un governo elettorale “tecnico”»; conferì l’incarico ad Andreotti, che accettò senza riserve, ed il cui esecutivo minoritario non si limitò alla gestione degli affari correnti, avendo fatto ricorso alla decretazione d’urgenza ed avendo nominato numerosi alti funzionari.

 

4.2. – Il maggior risultato della quinta legislatura fu l’avvio della riforma regionale. L’attuazione del Titolo V della Costituzione fu determinato da fattori storici notevoli che posero in risalto la crisi dello Stato-apparato: l’autunno caldo del 1969 e le contestazioni del 1968-69.

Il varo delle Regioni ad autonomia ordinaria è stato salutato con eccessive aspirazioni e «si affermava addirittura che la riforma regionale costituisse un “fatto rivoluzionario”». Queste ottimistiche previsione furono presto disattese. Anzitutto sul piano dei contenuti degli Statuti regionali, che, oltre a discostarsi «in modo sistematico dalle puntigliose disposizione del ‘53», della Legge Scelba, «con particolare riguardo alla forma regionale di governo», contenevano una serie di retoriche norme programmatiche che affidavano «sovente alle amministrazioni regionali compiti eccedenti la loro potestà»[99]. Poi, per «le compressioni più significative dell’autonomia regionale … verificatesi nel ’70 e nel ’72, a carico della finanza e dell’amministrazione delle Regioni ordinarie». Inoltre, «le funzioni affidate alle amministrazioni regionali erano troppo circoscritte»[100], non fu attuata la «delega per il riordino dell’amministrazione centrale»[101], «i governi regionali risentivano delle scarse risorse disponibili, in una fase storica in cui la crisi della finanza pubblica stava divenendo inarrestabile»[102].

Ed anche il «secondo trasferimento delle funzioni statali alle Regioni ordinarie», culminato nel d.p.r. n.616 del 1977, pur ridefinendo «svariate materie regionali, anche al di là delle testuali indicazioni della Carta Costituzionale», viene definito dal Paladin non «un punto d’arrivo», «troppe…erano le riforme ulteriori che esso preventivava … e troppi di questi annunci rimasero insoddisfatti» («la riforma aveva trasformato solamente il “dorso” del complesso formato dai pubblici apparati lasciando indenni la testa e gli arti: vale a dire lo Stato centrale e gli enti autonomi territoriali»: questa è la tesi di fondo ripresa dal “Rapporto ‘79” di Giannini)[103].

La ricostruzione della quinta legislatura dedica poi ampio spazio all’introduzione del referendum; ai nuovi regolamenti parlamentari; alle riforme concernenti i diritti ed i doveri dei cittadini, in particolare all’approvazione dello Statuto dei lavoratori ed al nuovo ordinamento tributario; alla riforma del servizio pubblico radiotelevisivo ed al nuovo diritto di famiglia (attuazioni queste ultime realizzate nella sesta legislature, rispettivamente dalla l.n. 103 del 1974 e della l.n. 151 del 1975). Tutte tematiche che l’autore affronta con rigorosa analisi delle norme, sempre cogliendovi elementi importanti di attuazione della Costituzione e del sistema democratico.

Con riferimento al referendum, in particolare, Paladin esamina anche le posizioni delle forze politiche sul tema referendario e le diffidenze del P.C.I. verso la democrazia diretta, che temeva un uso sproporzionato ed abnorme dello strumento referendario[104].

Ma si ricostruisce anche l’importante e significativo esito del referendum sulla legge sul divorzio del 1974, referendum che si espletò dopo rinvii e tentativi di «scongiurare in tutti i modi un voto popolare che i divorzisti temevano e che la stessa Democrazia cristiana preferiva evitare, purché si riuscisse a soddisfare le esigenze della Santa Sede»[105].

 

5. – Pur se opera incompiuta, quella di Paladin è storia costituzionale, come suscritto, articolata, attualizzata ed approfondita nell’instabile equilibrio tra diritto, politica e storia. Questo anche in considerazione della difficoltà di scrivere su eventi storici contemporanei, su cui, comunque, l’insigne autore dimostra di sapersi soffermare con aderenza, riprendendo Benedetto Croce, al documento ed alla critica, alla vita ed al pensiero, che sono «le vere fonti della storia», «i due elementi della sintesi storica»[106], con cui si realizza quella che il Marrou chiamava, con altro linguaggio, la «comprensione del documento» prodotta dalla «ricerca critica», e quindi la «conoscenza storica»[107]. Lo stesso Croce, peraltro, insegnava che «nel fondo di ogni giudizio storico» «c’è un bisogno pratico … che … conferisce a ogni storia il carattere di “storia contemporanea”, perché … essa è, in realtà storia sempre riferita al bisogno e alla situazione presente»[108].

Ed il richiamo al presente è ben chiaro nelle pieghe delle pagine esaminate.

 

 



 

* Il presente saggio, dedicato alla memoria del Prof. Livio Paladin, è di prossima pubblicazione nella rivista “Clio” e riproduce, ampliato e rivisto, il testo della relazione presentata all’incontro di studio “Costituzione e storia in Livio Paladin”, tenutosi il 6 aprile 2004 a Sassari per iniziativa della cattedra di Dottrina dello Stato della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Sassari, in cui furono anche relatori i Proff.ri Arduino Agnelli, purtroppo scomparso, e Carlo Ghisalberti.

 

[1] L. Paladin, Per una storia costituzionale dell’Italia repubblicana, Bologna, 2004.

 

[2] Vedi F. Chabod, Lezioni di metodo storico, Bari, 1969, 9 e 66.

 

[3] Cfr. E. Cheli, Introduzione a L. Paladin, Per una storia costituzionale dell’Italia repubblicana, Bologna, 2004, 10.

 

[4] L. Paladin, Diritto regionale, VII ed., Padova, 2000.

 

[5] L. Paladin, Diritto costituzionale, III ed., Padova, 1998.

 

[6] Vedi E. Cheli, Introduzione, cit., 11.

 

[7] Vedi E. Cheli, Introduzione, cit., 10.

 

[8] Vedi E. Cheli, Introduzione, cit., 11.

 

[9] Vedi E. Cheli, Introduzione, cit., 11.

 

[10] L. Paladin, Per una storia costituzionale cit., 61.

 

[11] L. Paladin, Per una storia costituzionale cit., 54.

 

[12] L. Paladin, Per una storia costituzionale cit., 55.

 

[13] L. Paladin, Per una storia costituzionale cit., 56.

 

[14] L. Paladin, Per una storia costituzionale cit., 56.

 

[15] L. Paladin, Per una storia costituzionale cit., 57.

 

[16] L. Paladin, Per una storia costituzionale cit., 57.

 

[17] F. Guicciardini, Storia d’Italia, I, Torino, 1981, 87-88.

 

[18] L. Paladin, Per una storia costituzionale cit., 80.

 

[19] L. Paladin, Per una storia costituzionale cit., 82.

 

[20] L. Paladin, Per una storia costituzionale cit., 83.

 

[21] L. Paladin, Per una storia costituzionale cit., 82.

 

[22] L. Paladin, Per una storia costituzionale cit., 88.

 

[23] L. Paladin, Per una storia costituzionale cit., 89.

 

[24] L. Paladin, Per una storia costituzionale cit., 90-91.

 

[25] L. Paladin, Per una storia costituzionale cit., 91.

 

[26] L. Paladin, Per una storia costituzionale cit., 93.

 

[27] L. Paladin, Per una storia costituzionale cit., 94.

 

[28] L. Paladin, Per una storia costituzionale cit., 96.

 

[29] L. Paladin, Per una storia costituzionale cit., 97.

 

[30] L. Paladin, Per una storia costituzionale cit., 102-103.

 

[31] L. Paladin, Per una storia costituzionale cit., 104-105.

 

[32] L. Paladin, Per una storia costituzionale cit., 106.

 

[33] L. Paladin, Per una storia costituzionale cit., 107-108.

 

[34] L. Paladin, Per una storia costituzionale cit., 114.

 

[35] L. Paladin, Per una storia costituzionale cit., 123.

 

[36] L. Paladin, Per una storia costituzionale cit., 124.

 

[37] L. Paladin, Per una storia costituzionale cit., 124 ss.

 

[38] L. Paladin, Per una storia costituzionale cit., 125.

 

[39] L. Paladin, Per una storia costituzionale cit., 126.

 

[40] L. Paladin, Per una storia costituzionale cit., 128.

 

[41] L. Paladin, Per una storia costituzionale cit., 127.

 

[42] L. Paladin, Per una storia costituzionale cit., 128.

 

[43] L. Paladin, Per una storia costituzionale cit., 129.

 

[44] L. Paladin, Per una storia costituzionale cit., 130.

 

[45] L. Paladin, Per una storia costituzionale cit., 131.

 

[46] L. Paladin, Per una storia costituzionale cit., 131-132.

 

[47] L. Paladin, Per una storia costituzionale cit., 132.

 

[48] L. Paladin, Per una storia costituzionale cit., 133.

 

[49] L. Paladin, Per una storia costituzionale cit., 136.

 

[50] L. Paladin, Per una storia costituzionale cit., 137.

 

[51] L. Paladin, Per una storia costituzionale cit., 138.

 

[52] L. Paladin, Per una storia costituzionale cit., 139.

 

[53] L. Paladin, Per una storia costituzionale cit., 140.

 

[54] L. Paladin, Per una storia costituzionale cit., 141-142.

 

[55] L. Paladin, Per una storia costituzionale cit., 143.

 

[56] L. Paladin, Per una storia costituzionale cit., 144.

 

[57] L. Paladin, Per una storia costituzionale cit., 144-153.

 

[58] L. Paladin, Per una storia costituzionale cit., 155.

 

[59] L. Paladin, Per una storia costituzionale cit., 156.

 

[60] L. Paladin, Per una storia costituzionale cit., 156 ss.

 

[61] L. Paladin, Per una storia costituzionale cit., 157.

 

[62] L. Paladin, Per una storia costituzionale cit., 162.

 

[63] L. Paladin, Per una storia costituzionale cit., 163.

 

[64] L. Paladin, Per una storia costituzionale cit., 166.

 

[65] L. Paladin, Per una storia costituzionale cit., 168.

 

[66] L. Paladin, Per una storia costituzionale cit., 169.

 

[67] L. Paladin, Per una storia costituzionale cit., 170.

 

[68] L. Paladin, Per una storia costituzionale cit., 178.

 

[69] L. Paladin, Per una storia costituzionale cit., 190.

 

[70] L. Paladin, Per una storia costituzionale cit., 179.

 

[71] L. Paladin, Per una storia costituzionale cit., 180.

 

[72] L. Paladin, Per una storia costituzionale cit., 183.

 

[73] L. Paladin, Per una storia costituzionale cit., 189.

 

[74] L. Paladin, Per una storia costituzionale cit., 190.

 

[75] L. Paladin, Per una storia costituzionale cit., 191-192.

 

[76] L. Paladin, Per una storia costituzionale cit., 194.

 

[77] L. Paladin, Per una storia costituzionale cit., 203 ss.

 

[78] L. Paladin, Per una storia costituzionale cit., 205.

 

[79] L. Paladin, Per una storia costituzionale cit., 210.

 

[80] L. Paladin, Per una storia costituzionale cit., 211.

 

[81] L. Paladin, Per una storia costituzionale cit., 212-213.

 

[82] L. Paladin, Per una storia costituzionale cit., 213.

 

[83] L. Paladin, Per una storia costituzionale cit., 196 ss.

 

[84] L. Paladin, Per una storia costituzionale cit., 198 nt. 52.

 

[85] L. Paladin, Per una storia costituzionale cit., 199.

 

[86] L. Paladin, Per una storia costituzionale cit., 201.

 

[87] L. Paladin, Per una storia costituzionale cit., 202.

 

[88] L. Paladin, Per una storia costituzionale cit., 215 ss.

 

[89] L. Paladin, Per una storia costituzionale cit., 217.

 

[90] L. Paladin, Per una storia costituzionale cit., 221 ss.

 

[91] L. Paladin, Per una storia costituzionale cit., 229 ss.

 

[92] L. Paladin, Per una storia costituzionale cit., 231.

 

[93] L. Paladin, Per una storia costituzionale cit., 234 ss.

 

[94] L. Paladin, Per una storia costituzionale cit., 239.

 

[95] L. Paladin, Per una storia costituzionale cit., 241.

 

[96] L. Paladin, Per una storia costituzionale cit., 245.

 

[97] L. Paladin, Per una storia costituzionale cit., 248.

 

[98] L. Paladin, Per una storia costituzionale cit., 250.

 

[99] L. Paladin, Per una storia costituzionale cit., 254.

 

[100] L. Paladin, Per una storia costituzionale cit., 263.

 

[101] L. Paladin, Per una storia costituzionale cit., 261.

 

[102] L. Paladin, Per una storia costituzionale cit., 262.

 

[103] L. Paladin, Per una storia costituzionale cit., 265.

 

[104] L. Paladin, Per una storia costituzionale cit., 271.

 

[105] L. Paladin, Per una storia costituzionale cit., 269.

 

[106] B. Croce, Teoria e storia della storiografia (1916), Milano, 1989, 25.

 

[107] H.I. Marrou, La conoscenza storica (1954), tr. it., Bologna, 106.

 

[108] B. Croce, La storia come pensiero e come azione, Bari, 1938, 11.